Addio vecchio «baobab»

Scomparso Ki-Zerbo, uno dei padri del continente

Joseph Ki-Zerbo è della stirpe dei grandi intellettuali africani e afro americani. Come Aimée Césaire della Martinica, Cheik Anta Diop e Léopold Sédar Senghor del Senegal, ha contribuito molto alla conoscenza dell’Africa. Accademico alla Sorbona fa conoscere al mondo la vera storia degli africani. Uomo politico, combatte per la libertà e la democrazia.  Teorizza lo «sviluppo endogeno», il contrario di quello imposto dall’Occidente. Combatte, fino all’ultimo dei suoi giorni.

A metà degli anni Cinquanta, quando l’Europa si rialzava faticosamente dalla seconda guerra mondiale, il professor Joseph Ki-Zerbo entrava alla Sorbona, per sostenere con brio un dottorato di storia. Era la prima volta che un nero africano accedeva a una tale distinzione universitaria. E inoltre non era un istituto qualsiasi. In quegli anni di dopo guerra, le tesi più folli sulla superiorità razziale dei bianchi sui neri circolavano abbondantemente. Gli studiosi erano categorici: i neri non hanno avuto storia.
Nelle colonie francesi, in particolare, i transalpini sono diventati gli antenati degli africani. È evidente che quando non si ha avuto storia non si hanno avuti antenati, e la colonizzazione li aveva allora foiti ai colonizzati, per sostituzione.

Le origini

Joseph Ki-Zerbo, nato nel 1922 a Toma in Burkina Faso, ha avuto un’infanzia totalmente impregnata di queste ideologie. Figlio del primo cristiano burkinabè, il catechista Alfred Diban Ki-Zerbo, è cresciuto nella cerchia privilegiata dei missionari cattolici. Ha avuto quindi maggiori possibilità, rispetto ai coetanei, di andare alla scuola occidentale.
Ki-Zerbo, come lui stesso amava qualificarsi, è un «negro d’eccezione». Proprio perché grazie alla posizione del padre ha potuto beneficiare a pieno del sistema coloniale. In seguito, riuscendo a fare studi brillanti, ha un posto da alto funzionario dell’amministrazione francese. Con il suo diploma di docente ordinario di storia, diventa professore all’università. Una situazione che gli porta molti vantaggi. Ma Joseph Ki-Zerbo non si è mai sentito a suo agio nel lusso dell’amministrazione coloniale. Ha sempre pensato che la sorte di un nero non era quella di trovare un modo di salire nell’alta gerarchia dell’amministrazione, ma di sapere esattamente chi è e da dove viene. A questo proposito pronunciò una frase diventata celebre: «Quando non si sa cosa si cerca, non si può capire ciò che si trova».

Ricerca d’identità

Molto presto, quindi, Ki-Zerbo dedica la sua vita alla ricerca «dell’identità del nero». Ha pensato che il primo mezzo per iniziare questa ricerca sarebbe stato il conoscere la storia e la storiografia. Va quindi a iscriversi alla Sorbona, nella migliore delle università francesi per ottenere il più importante dei diplomi, il che gli permette di fare delle ricerche con tutta l’autorità necessaria. Integra la cerchia, molto rispettata, dei professori universitari. Da allora può quindi impegnarsi negli studi per riesumare la «storia dei negri» e dar loro un’identità. Sarà il primo africano a scrivere un voluminoso libro di storia, intitolato: «L’Histornire de l’Afrique noire». È la prima opera sull’Africa scritta da un intellettuale del continente. Resta sempre un riferimento per l’insegnamento della storia nelle scuole e nelle università in Africa.
Sempre in questa ricerca indispensabile dell’identità, sarà designato dall’Unesco (Organizzazione culturale, scientifica e educativa delle Nazioni Unite) per scrivere e dirigere la redazione di diversi volumi di «L’Histornire général de l’Afrique».

«Baobab» della politica

Ma Ki-Zerbo è anche un uomo politico molto impegnato. Nel 1958, quando è ancora funzionario francese, milita attivamente per l’indipendenza e per l’unità dell’Africa. È tra gli organizzatori della campagna per il «no» al referendum proposto dal generale Charles De Gaulle (1958), che chiedeva agli africani delle colonie francesi di scegliere tra il restare in federazione con la Francia o l’indipendenza.
Con il suo partito, il Movimento di liberazione nazionale (Mln), che raggruppava personalità come Abdoullaye Wade, attuale presidente del Senegal, si mobilita per chiedere l’indipendenza immediata. Il suo movimento perde. Per essere coerente con se stesso, dimissiona dalla funzione pubblica francese. Assieme ai suoi compagni di partito, va in soccorso alla Guinea Conakry, che era l’unico paese ad aver votato per l’indipendenza.
Per punire la Guinea, dopo il voto De Gaulle aveva richiamato tutti gli assistenti tecnici francesi. Peggio: i francesi partirono portandosi via tutto, anche le prese elettriche degli uffici. Il paese si trova privato di risorse e competenze. Ki-Zerbo e i suoi compagni portano insegnanti, professori, e tecnici indispensabili per far funzionare l’amministrazione statale.

Politico per la democrazia

Dopo questa esperienza guineana, il professore torna in Burkina Faso e rilancia il suo partito. L’Mln è considerato il partito degli intellettuali. I suoi militanti sono insegnanti della scuola elementare, infermieri, medici e professori dei licei.
Il professore si rivela un grande intellettuale e politico temibile. Sarà lui il principale responsabile della caduta del regime di Maurice Yameogo, primo presidente del paese. Da allora diventa una personalità imprescindibile per la scena politica nazionale. Il suo partito resta per molto tempo la seconda forza del paese.

Professore di «sviluppo»

Ma la cosa più importante che ci lascia il professor Ki-Zerbo è la sua riflessione politica. Ha teorizzato quello che lui stesso ha chiamato: «lo sviluppo endogeno». Non è una teoria che punta all’autarchia e neanche un ritorno ai valori ancestrali, ma piuttosto un approccio aperto al mondo.
Approccio per il quale gli africani sanno da dove vengono e dove vogliono andare. Il professore si è sempre ribellato al modo in cui lo sviluppo è teorizzato per l’Africa. Lui pensa che questa maniera di aiutare l’Africa si focalizza troppo sui «mezzi» piuttosto che sulle «condizioni». Secondo lui si possono versare tutti i miliardi che si vogliono sul continente, ma non si provocherà mai lo sviluppo: piuttosto la perversione dell’élite politica e intellettuale, che si perde nella corruzione. Al contrario, sostiene Ki-Zerbo, se le «condizioni» sono riunite, gli africani stessi troveranno le risorse necessarie al loro sviluppo. Cita a esempio il decollo economico dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo.
Tra le condizioni necessarie allo sviluppo, la prima è l’educazione. Se il tasso di scolarizzazione non raggiunge la soglia del 70% della popolazione, lo sviluppo è impossibile. Se la conoscenza tecnica della produzione non permette di ottenere del valore aggiunto, lo sviluppo è impossibile. Ma oggi l’economia africana è basata sull’esportazione di materie prime grezze (caffè, cacao, cotone, tè, legno, ecc.). Ki-Zerbo pensa che nessun paese al mondo si sia sviluppato in questo modo.
Un’altra delle condizioni per lo sviluppo è la democrazia e l’emancipazione della donna. Tutte queste teorie le presenta nella sua ultima opera «A quando l’Africa?» (tradotto in italiano dalla Emi, ndr).

«Se ci sdraiamo …

Ki-Zerbo è un vero «baobab» africano. Il baobab è l’albero più maestoso della savana, come lo è la quercia per i paesi occidentali. È questo il personaggio che è scomparso il 4 dicembre scorso. Intellettuale e uomo politico impegnato, ha lottato fino alla morte per la libertà e la democrazia. Dopo l’assassinio del popolare giornalista burkinabè Norbert  Zongo, nel dicembre 1998, il professore, malgrado l’età, è una delle figure della contestazione del regime e della battaglia per portare in giudizio gli assassini.

… siamo già morti»

È lui che inventa lo slogan del movimento di lotta contro l’impunità in Burkina Faso: «ni an lara an sara», ovvero «se ci sdraiamo, siamo già morti». È con questa frase che i militanti della lotta contro l’impunità lo hanno accompagnato alla sua ultima dimora, nel piccolo villaggio natale di Toma, a un centinaio di chilometri da Ouagadougou. Il professore voleva riposare in mezzo ai suoi. Coloro che lo hanno regolarmente eletto deputato a partire dal 1970, malgrado i rischi che questa scelta comportava. È per questo motivo, d’altronde, che la regione di Toma è una delle ultime a non avere una buona strada. Ma la popolazione, nonostante tutto, è rimasta fedele al professore. 

Di Newton Ahmed Barry

* Newton Ahmed Barry è uno dei più noti giornalisti del Burkina Faso. Attualmente è redattore capo dell’«Evénement», bimensile di attualità politica di cui è uno dei fondatori.

Newton Ahmed Barry




Raccontare in Asia la storia di Gesù

Primo Congresso missionario asiatico

Il primo Congresso missionario asiatico, già suggerito dall’esortazione apostolica Ecclesia in Asia, è stato un evento importante per la chiesa del continente. «Raccontare la storia di Gesù in Asia: una celebrazione di vita e di fede» è stato il tema generale, suddiviso in temi specifici per  ognuno dei quattro giorni (19-22 ottobre): la storia di Gesù nei popoli, religioni, culture, vita della chiesa.
Erano presenti anche due missionari della Consolata: i padri Giorgio Marengo dalla Mongolia e Alvaro Pacheco dalla Corea del Sud.

Sì, ho partecipato al primo Congresso missionario dell’Asia, svoltosi dal 18 al 22 ottobre 2006 a Chiang Mai, una città nel nord della Thailandia, che è anche sede della diocesi.  Ero integrato nel gruppo della delegazione coreana. Ho ritrovato anche padre Giorgio Marengo, con i delegati della Mongolia.
Vorrei condividere con voi ciò che ho vissuto. Ho deciso di parlarne in forma di diario.

18 ottobre 2006
Sono arrivato nella città di Chiang Mai poco prima delle 6 di sera, insieme al gruppo dei delegati coreani in cui sono inserito. Altri arriveranno domani mattina. Purtroppo, all’appello manca l’unico vescovo coreano che doveva partecipare al Congresso: a pochi giorni dalla partenza ha cancellato la sua partecipazione. Ne rimango un po’ deluso: tale assenza è un segno evidente che lo zelo della chiesa sud-coreana verso la missione ad gentes è ancora debole. 
Per prima cosa mi metto alla ricerca del nostro padre Giorgio Marengo; ma in mezzo a tanta gente, non ci riesco. Sono stanco e affamato, per cui tramando a più tardi la ricerca.
Dopo la cena, il card. Crescenzio Sepe, vescovo di Napoli, designato dal papa Benedetto xvi come suo delegato, apre ufficialmente l’esposizione missionaria nella quale ogni paese è presentato con i propri elementi caratteristici.
Sono 1.047 i delegati al Congresso, inviati da 25 paesi dell’Asia, oltre a intellettuali chiamati a intervenire, ai giornalisti e osservatori di altri continenti, dal Libano al Canada, alle isole del Pacifico, passando per il Brasile e l’Italia, tra gli altri.
Finalmente nel padiglione della Mongolia incontro padre Giorgio e il gruppo di delegati della chiesa mongola. C’è anche tempo per fare le prime conoscenze tra i tanti partecipanti. Alla fine,  condivido la stanza con padre Jaime Palma, un prete messicano dei missionari di Guadalupe, che lavora in una parrocchia nella parte meridionale della Corea e approfitto dell’occasione per scambiarci le nostre esperienze  in terra coreana.

19 Ottobre
Il tema di questa giornata è: «La storia di Gesù nei popoli dell’Asia». Incominciamo i lavori con la celebrazione della messa, presieduta dal cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Dopo i soliti discorsi di benvenuto e presentazione delle delegazioni, mons. Luis Antonio Tagle, giovane vescovo della diocesi di Imus, nelle Filippine,  presenta un’eccellente serie di punti fermi in base ai quali raccontare la storia di Gesù. Chiaro, conciso e incisivo, ci offre alcune linee guida molto pratiche, che faranno del suo discorso uno dei più belli e significativi di tutto il Congresso. Egli sottolinea quanto sia «importante, nella cultura asiatica, il racconto per trasmettere la conoscenza e la fede cristiana, ed esorta i missionari a essere concreti e narrare ai fedeli l’esempio personale del proprio incontro con Gesù».
Nel pomeriggio ascoltiamo le testimonianze di varie persone sul tema del giorno. Questa «condivisione della fede» sono parte integrante del programma. Quindi veniamo divisi in gruppi di 10 persone, di vari paesi e differenti esperienze. Dobbiamo rispondere alla domanda: «Come ho incontrato Dio nella mia vita?».
Purtroppo, dovuto al programma intenso del Congresso, il tempo per tale condivisione rimane molto limitato. Avrei preferito più spazio per gli incontri interpersonali, scambi di idee e di esperienze, e meno per le presentazioni e relazioni tematiche, in cui si parla dell’Asia come se fosse una realtà uniforme. Una rappresentazione che non condivido affatto:  la missione svolta in Corea è molto diversa da quella in Thailandia e in altri paesi. Nei lavori in gruppo questa diversità emerge con molta chiarezza.
Arrivata la sera, ci godiamo un bello spettacolo, presentato da studenti giovanissimi di vari collegi cattolici, praticamente tutti non-cristiani. In una scenografia stupenda viene presentata la storia della chiesa cristiana in Thailandia dagli inizi ai nostri giorni. La presentazione viene goduta immensamente da tutti gli spettatori:  in essa sfila la bellezza e diversità della cultura thailandese, espressa soprattutto in una miriade di fogge e colori dei costumi delle diverse regioni ed etnie del paese.

20 Ottobre
Il tema del giorno è: «La storia di Gesù nelle religioni dell’Asia». Si parla naturalmente di dialogo interreligioso. Il tono generale dei vari interventi riflette quello di ieri: una visione di uniformità per tutta l’Asia, mentre in tanti paesi tale dialogo è ancora al palo di partenza o quasi. La Corea ne è un esempio concreto.
Le testimonianze provengono da persone passate dal buddismo e induismo alla fede cattolica. Ha parlato anche un musulmano del Bangladesh sulla sua positiva esperienza con i cattolici.
Nel pomeriggio riprendono i lavori di gruppo; dobbiamo rispondere alla domana: «Che cosa apprezzo nei seguaci delle altre religioni?».  Al termine, prima di cena, viene presentata una sintesi teologica sul tema del giorno, in cui viene ribadito quanto è stato detto nel mattino.
Dopo cena, concludiamo la giornata con un momento di preghiera: recita del rosario missionario e adorazione.
Finalmente andiamo a riposare, dopo una giornata caratterizzata da un orario stringatissimo e un programma molto impegnativo, che non ha lasciato tempo per riposare o scambiare qualche chiacchiera. E cerchiamo di addormentarci in fretta, perché anche domani sarà una levataccia, dura anche per me: si ricomincerà alle 6 del mattino con la celebrazione della messa.

21 Ottobre
Il tema della giornata è: «La storia di Gesù nelle culture dell’Asia». Il mattino segue lo schema dei giorni precedenti: relazioni tematiche e testimonianze. Gli argomenti sono vari e numerosi:  società dei consumi, mass media, migranti, gioventù, rapporti tra le religioni… La domanda proposta per i lavori in gruppo del pomeriggio è: «Quali pratiche o tradizioni nella mia cultura esprimono meglio il vangelo di Gesù?».
Dopo cena ci godiamo un altro dei momenti più significativi del Congresso: è tempo di socializzazione, con la presentazione di canti, balli e  proiezioni power-points da parte di alcune delegazioni presenti. La Mongolia strappa l’applauso più entusiasta e fragoroso: il nostro padre Giorgio si è cimentato nel suonare il violino mongolo, accompagnato dal flauto di un giovane della stessa nazione; perfino il vescovo di Ulaanbaatar, mons. Wenceslaus Padilla, si è esibito, cantando una canzone in lingua mongola. Un vero successo!
Ad accrescere l’interesse e il godimento delle varie rappresentazioni contribuisce pure lo sfoggio di vestimenti e costumi tradizionali indossati per l’occasione, espressioni della varietà e ricchezza culturale dei paesi da cui provengono i partecipanti al Congresso.
A proposito di canti e balli, un gruppo di indiani, specializzato in danze tradizionali, formato da cattolici e un ballerino hindu, durante i giorni del Congresso ha eseguito alcune rappresentazioni del vangelo e altri temi religiosi. Tale gruppo è stato creato da un prete con lo scopo di evangelizzare mediante la danza, la musica e il canto: una forma suggestiva di trasmissione e inculturazione della fede. L’originale iniziativa è stata citata a più riprese durante  gli interventi ufficiali del Congresso, per sottolineare come le varie forme di proclamazione del vangelo devono essere creative e adatte al contesto in cui i missionari sono chiamati ad operare.
Prima di andare a dormire, mi fermo per quasi due ore a parlare con un vescovo indiano: egli mi parlava con entusiasmo della sua esperienza missionaria nel suo paese; da parte mia gli racconto ciò che sto facendo in Corea. La prolungata condivisione delle nostre esperienze mi convince sempre più sulla necessità, in congressi come questo, di dare più spazio e tempo perché la gente abbia l’opportunità di incontrarsi, scambiare idee ed esperienze, che rimarranno nella memoria più delle teorie presentate nelle relazioni ufficiali.

22 Ottobre
È l’ultimo giorno del Congresso. È pure la domenica in cui si celebra la Giornata missionaria mondiale. Abbiamo ancora una relazione: questa volta sulla chiesa in Thailandia. Ascoltiamo la testimonianza di un cristiano locale, da poco convertito e appartenente a una minoranza etnica.
Seguono la lettura del documento finale e i vari ringraziamenti. Culmine della conclusione è la celebrazione dell’eucaristia, presieduta dal card. Sepe. Per esprimere la comunione con la chiesa della Thailandia in generale e con la diocesi di Chiang Mai che ci ha ospitati, vi prendono parte molti cattolici locali, appartenenti soprattutto ai vari gruppi tribali, dando così un colore tutto speciale alla celebrazione.
Nonostante ciò, rimango un po’ deluso: il livello liturgico di questa messa, come pure nelle celebrazioni dei giorni passati, mi sembra alquanto freddo: accentuato ritualismo, mancanza di musica viva, di gioia…  mancanza di «Asia». Mi sembra di essere… in piazza San Pietro, più che in Thailandia.
Tuttavia siamo tutti soddisfatti delle esperienze vissute in questo primo Congresso missionario in Asia. Proprio perché è il primo, c’è spazio per ulteriori miglioramenti. Il Congresso è stato e rimane un evento importante per la storia della chiesa in Asia: tanta gente ha potuto prendere maggiore coscienza dell’urgenza della missione in questo continente; soprattutto ha avuto un’occasione irrepetibile, per almeno altri sette anni, di conoscerci e incoraggiarci a vicenda. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




AFRICA, la mia terra

Incontrare le culture: imperativo per la convivenza e urgenza pastorale

Danze, canti, poesie e conferenze in un convegno «a tutta Africa». Incontro – confronto con il mondo africano attraverso il racconto fatto dagli immigrati presenti in mezzo a noi; per iniziare a conoscee cultura, mondo spirituale e stile di vita.

Viene da sorridere con un po’ di amarezza leggendo questi versi. Dove si nasconde quest’Africa così bella? Africa, dalla natura contaminata per i troppi scempi provocati dall’uomo: ambientali, sociali, politici. Contaminatissima Africa, donna che tutti vogliono e tanti, troppi possiedono, gente che fa  di tutto, ma proprio tutto, per poterla conquistare.
Questi versi, però, li ha scritti Osmund, un nigeriano grande e grosso, immigrato in Italia come tanti suoi connazionali e con, probabilmente, una lunga storia alle spalle da raccontare; questi versi li ha scritti per un’occasione speciale: non per parlare della nuova terra che lo ospita o del viaggio fatto per raggiungerla, bensì per raccontare qualcosa del mondo da cui viene, dell’Africa che ha lasciato, dell’amore per il suo continente.
«L’Africa si racconta» è il titolo di una giornata speciale di musica, immagini e parole dedicate al continente africano, che si è tenuta a Torino il 18 novembre scorso, presso i missionari della Consolata. Promosso dall’«Ufficio di pastorale migranti» della diocesi torinese, l’incontro è stato un’occasione di ascolto e confronto su vari aspetti del mondo africano e della sua cultura vissuti nell’esperienza di immigrati presenti in mezzo a noi. Oltre a Osmund hanno partecipato Kenneth, Marie Noelle, Restituta, Peter, Jean Nöel ed Erasto, provenienti da parti diverse del continente, ciascuno con la propria esperienza di vita e la voglia di condividerla. Tutta africana è anche stata l’organizzazione dell’evento, che ha avuto come motore trainante la comunità ecumenica nigeriana (con l’accompagnamento dei missionari e delle missionarie della Consolata) e la collaborazione di altre comunità africane presenti a Torino.  L’idea di fondo è stata quella di lasciare che, per una volta, l’Africa potesse raccontarsi facendo emergere la propria storia dalle storie  personali dei suoi protagonisti, senza servirsi, come sovente accade, delle mediazioni. Il rischio che si voleva evitare era duplice: da un lato lasciare che l’Africa venisse raccontata, come spesso accade, da non africani. Dall’altro, l’appiattirsi in attività, anche pastorali, concepite senza tener conto di una diversità che reclama attenzioni particolari alle varie identità culturali. Si è voluto evitare anche l’apporto di specialisti, privilegiando la freschezza e la spontaneità dell’approccio all’approfondimento. Quattro chiacchiere tra amici o, meglio, tra gente che vuole essere amica, su temi importanti su cui si gioca la sfida del vivere insieme. Si è voluto che l’Africa raccontasse se stessa grazie alla voce di chi, nel cuore, nella mente e sulla pelle, fa leggere agli altri con chiarezza, orgoglio e semplicità il suo essere africano.
Osmund si è imbarcato in un tema difficile: la religiosità africana nel mondo del bene e del male. Ne ha parlato con entusiasmo, non da specialista, ma da persona impegnata per anni in un gruppo ecumenico che a Torino riunisce cristiani di varie confessioni, tutti di origine africana e di lingua inglese. Il suo è stato un viaggio all’interno della religiosità tradizionale, per cercare di spiegare con parole semplici il mondo dei simboli, dei riti, del mistero che influenza la visione del cosmo e l’etica dell’uomo africano. Osmund ha fatto accenno al carattere pervasivo della religiosità africana, che coinvolge la totalità della vita della persona e della comunità: nascita, matrimonio, famiglia, posterità e morte. Ha fatto accenno al difficile rapporto fra religione ed etica, con il ruolo centrale giocato dal sacerdote tradizionale, capace di influenzare la comunità attraverso il potere che gli viene attribuito dalla sua speciale relazione con il mondo degli spiriti. Un accenno importante è stato anche fatto in merito ai cambiamenti che la modeità ha apportato e continua ad apportare nel modo in cui gli africani si relazionano oggi con il trascendente.
Il carattere fortemente impregnato di religiosità della vita africana coinvolge, come si è detto, altri aspetti dell’esistenza. Kenneth, ad esempio, anch’egli nigeriano e impegnato nel gruppo cristiano-ecumenico, ha dedicato la sua riflessione al tema «famiglia e comunità». Analizzando gli stereotipi che più frequentemente deve ascoltare su questo argomento, Kenneth ha toccato temi come la famiglia tra tradizione e modeità, la poligamia, il clan, riassumendo il forte vincolo che si viene a creare fra membri della stessa famiglia con il detto africano: «Io esisto perché gli altri esistano». Il senso della comunità è così forte che la persona finisce con il non contare in quanto singolo, ma soltanto come membro della comunità. Nella sua relazione ha evidenziato come il tentativo di affermare la propria individualità venga considerato dagli altri membri della comunità come vero e proprio desiderio di prevaricazione. Ciò che si deve perseguire non è il vantaggio personale, ma l’interesse della famiglia, sia nucleare che allargata.

Il tema della famiglia ha trovato il suo sbocco naturale nella riflessione offerta da don Jean Nöel, sacerdote del Madagascar attualmente in servizio presso la diocesi di Torino. Attraverso la virtù dell’ospitalità, la forte unione familiare africana si apre verso l’esterno, verso l’accoglienza dello «straniero». L’ospitalità è rispetto, dono, dialogo. Come il relatore ha ricordato, l’ospitalità africana tradizionale trascende il confine segnato dal focolare domestico, ma si apre a tutti gli ambienti di socializzazione. La scuola, gli ospedali, gli uffici, ma soprattutto la strada, sono ambienti dove l’ospitalità viene riconosciuta come una virtù tra le più importanti, come un vero e proprio segno di accoglienza.
Suor Restituta, missionaria della Consolata tanzaniana, ha ricordato come tutti i valori in discussione (famiglia, comunità, ospitalità, religiosità) passino attraverso il ruolo della donna.  «Una donna è un fiore in un giardino – recita un proverbio del Ghana con cui suor Restituta ha voluto iniziare il suo intervento – suo marito è la recinzione intorno a lei». Vera «pietra angolare» della famiglia, la donna è l’agente propulsore della società africana: «È attraverso la sua fantasia, il suo duro lavoro, il suo elevato senso del rispetto reciproco che, ogni giorno, viene rafforzata la vita della famiglia e della comunità». Partendo dalla figura della donna, sottolineandone gli stravolgenti ritmi di lavoro quotidiano per mantenere la propria famiglia, suor Restituta si è spinta a fare delle considerazioni importanti anche sul senso stesso del lavoro e sull’uso del tempo. Due argomenti fra loro collegati e fonte di frequenti incomprensioni fra l’africano emigrante e noi, gente del Nord. Per l’africano, il senso del tempo differisce enormemente da quello frenetico al quale ci siamo abituati. Il tempo è in funzione della persona, non viceversa. Come conciliare allora la mentalità imperante del «time is money» (il tempo è denaro), con quella alternativa dell’«African time», ovvero del tempo inteso, anche e soprattutto, come occasione per incontrarsi, ascoltarsi, osservare la realtà che ci sta intorno e che rappresenta il terreno comune su cui siamo chiamati a relazionarci? Suor Restituta non ha offerto soluzioni, ma il suo appello a continuare il confronto su questo tema non deve esser lasciato cadere.
La camerunense Marie Noelle ha invece parlato di vita, morte, malattia e antenati. Lo ha fatto con grande entusiasmo e simpatia. Come non crederle, per esempio, quando ha ribadito l’amore che gli africani hanno per la musica e la danza, oppure quando ha affermato che non esiste vita senza musica, festa, stare insieme? Bastava guardarla muoversi sul palco: nel moto perpetuo delle sue gambe e nell’oscillare ritmico delle sue braccia stava la prova vivente di quanto veniva dicendo. Marie Noelle ha parlato di «vita», presente anche nella sofferenza; vita riscoperta nella malattia, nel dolore, nel lutto grazie alla forza dello stare insieme, della famiglia, della comunità.
Peter, tanzaniano e missionario dello Spirito Santo, invitato in veste di cappellano della comunità africana anglofona di Torino, ha invece messo l’accento sulla realtà delle divisioni etniche in Africa. Nel suo intervento ha ricordato che parlare di Africa vuol dire riferirsi a un universo molto complesso e variegato (alcuni relatori hanno di fatto riconosciuto che, pur parlando di tratti specificatamente africani della cultura, stavano in realtà presentando il volto nigeriano, tanzaniano o malgascio del continente) e che il forte carattere familiare e tribale, indubbio valore della società africana, può diventare causa di divisione e conflitto quando viene esageratamente esaltato.
Erasto, missionario della Consolata tanzaniano, ha fatto gli onori di casa, introducendo e cornordinando i vari interventi e aggiungendo qui e là qualche perla di saggezza e buonumore. Il resto della serata si è perso nei colori e nei suoni del continente africano. Balli, canti e una sfilata di costumi tradizionali africani hanno movimentato il pomeriggio al di là delle parole.
«Adesso viene il bello», verrebbe da dire a conclusione di questo convegno che ha riunito insieme una platea di circa 300 persone, tra cui diversi rappresentanti delle istituzioni. Il primo passo importante è stato fatto e ha coinciso con l’affermazione di un «esserci». Ora, però, rimane il tragitto più lungo, quello dell’interculturalità. Come far sì che, dall’affermazione di un’identità –  «Siamo fatti così, prendeteci come siamo» – si possa passare ad un dialogo più profondo fra le varie comunità? Questo è il nocciolo della questione e la meta alla quale questo incontro voleva puntare.
Forse si potrebbe ipotizzare un passo successivo affinché questo bellissimo ritrovarsi non si perda nell’elenco delle occasioni mancate e venga ricordato per i suoi tratti più folcloristici: quello di privilegiare una dinamica basata sul racconto delle esperienze di vita. Il migrante africano che si racconta in quanto tale, con il bagaglio della sua esperienza e della sua cultura messa questa volta a contatto con un mondo «altro» che ha incontrato. Accenni sono stati fatti, c’è buona strada per continuare il cammino e per far sì che l’incontro culturale porti frutti abbondanti in tutti i campi del nostro vivere sociale, incluso quello pastorale ed ecclesiale.  

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Haiti / Il paese «suicida»

Senza legge: come nel Far West

Storia di ingerenze straniere e falsi messia. Il paese più povero delle Americhe è tornato nell’oblio. Un
governo che tarda ad affermarsi e lo strapotere delle bande armate
rendono la vita impossibile. Riforme radicali di polizia, sistema
giudiziario e rinnovo della classe politica sono necessari. Così come
veri programmi di sviluppo. Mentre un popolo tradito da tutti continua
la sua lenta discesa nel baratro.

Haiti:
un paese «suicida». Così gli esperti di cooperazione internazionale
classificano il piccolo stato caraibico. «Quello che si può tentare,
con gli aiuti, è frenae la lenta inesorabile discesa» confida un
esperto. Uno «stato in fallimento» secondo altri osservatori stranieri,
forse perché mancano alcuni degli elementi stessi costitutivi di uno
stato. Piccolo (poco più grande del Piemonte), ma sovraffollato (quasi
300 abitanti al km quadrato) e con una storia particolarmente
stravagante.
È qui che Cristoforo Colombo approda nel suo primo viaggio verso le
Indie e vi crea l’avamposto europeo nelle Americhe. L’intera isola
diventa spagnola  e i conquistatori ne massacrano gli indigeni
nativi. Nel 1697 la parte occidentale è ceduta alla Francia, che vi
instaura il suo sistema coloniale di sfruttamento. Vi importa centinaia
di migliaia di africani, in catene. Haiti diventa il più importante
produttore di zucchero per il mondo «civilizzato» di allora.
In una notte di agosto del 1791, con una cerimonia segreta sulle
montagne, il sacerdote vudù Boukman scatena l’impressionante rivolta
degli schiavi, che sarà guidata dal capo carismatico Toussaint
Louverture. Con la vittoria sulle truppe napoleoniche del generale
Leclerc, Haiti diventa il primo stato indipendente con popolazione nera
del mondo. È il gennaio 1804.

Ricorsi storici

Duecento anni dopo il popolo haitiano non festeggia: è di nuovo in
rivolta. Questa volta con la delusione e l’amarezza. Contro l’ex
salesiano Jean-Bertrand Aristide, che le comunità di base, soprattutto
della chiesa cattolica legata alla teologia della liberazione, avevano
portato alla presidenza con le prime elezioni democratiche (fine 1990).
Cacciato Duvalier, quattro anni prima, dopo tre decadi di feroce
dittatura, il movimento della società civile è forte e organizzato.
Haiti diventa un simbolo, anche per gli altri paesi latino americani.
Troppo per gli Usa di George Bush padre, che tramite la Cia,
organizzano il colpo di stato del generale Cédras. Altro sangue, ancora
violenza. La parola d’ordine è reprimere il movimento. Oltre 3.000 sono
i morti, molti i leader popolari. A fine ‘94 gli stessi Stati Uniti,
con Clinton, riportano Aristide al potere. L’ex prete è diventato molto
ricco, ha amici influenti tra i democratici Usa, incamera senza rendere
conto ingenti somme di aiuti inteazionali. Milioni di dollari. Quello
che resta degli intellettuali legati alla società civile haitiana
prende le distanze. Il suo entourage diventa composto da ex
duvalieristi, ex putchisti e personaggi di dubbia fama. Il paese
intanto va alla deriva, i poveri sono sempre più poveri. Le bidonville
della capitale Port-au-Prince si ingrossano di disperati. La gente,
soprattutto i contadini (oltre il 70%) sono disorientati. Si dice che
gli haitiani siano un popolo «messianico»: hanno bisogno di un leader
carismatico, un «messia». Aristide, il populista, l’imbonitore, ha
sempre incarnato questo ruolo. Riesce ancora ad alimentare un certo
sostegno con i discorsi. Ma quando questi non bastano più inizia a
distribuire armi e a organizzare bande armate a lui fedeli: nascono le
chiméres (chimere). Intanto si avvicina al narcotraffico: l’isola è
diventata uno dei corridoi preferenziali per la cocaina colombiana.

la «morte» dei diritti

È un periodo oscuro di brogli elettorali, minacce e omicidi politici.
Il 3 aprile del 2000 è assassinato Jean Dominique, decano dei
giornalisti haitiani e combattente per la democrazia. Aveva nel suo
cassetto alcuni dossier scottanti sull’ex salesiano. Il principale
indagato è il senatore Dany Toussaint, del partito di Aristide, suo ex
capo della polizia e sospettato di vari crimini. Quel che resta della
società civile ha un sussulto. La classe politica è all’impasse.
L’opposizione non ha figure di rilievo, ma chiede le dimissioni di
Aristide indicandolo come il responsabile del caos in cui versa il
paese. La comunità internazionale condiziona gli aiuti allo sblocco
della questione elettorale (le elezioni del ‘97 e del 2000 furono
contestate dall’opposizione e dagli osservatori): i rubinetti restano
chiusi.
E arriva il 2004: l’anno del bicentenario dell’indipendenza. All’inizio
di febbraio il malcontento crescente prende la forma dell’insurrezione
armata. Noti personaggi del passato, ex militari, ex golpisti e
squadristi, ma anche ex sostenitori di Aristide, tutti professionisti
della violenza non tardano a prendere la guida dei rivoltosi. Esiste
anche l’opposizione non violenta, delle organizzazioni politiche e
della società civile (riuniti nel Gruppo 184) che manifesta sotto i
tiri dei fucili mitragliatori in mano alle gang di Aristide. Gli Usa di
George W. Bush e la Francia tentano una mediazione: per evitare il
bagno di sangue fanno pressioni sul controverso presidente, affinché
lasci il paese. 
Aristide fugge il 29 febbraio e si instaura un governo di transizione
che porterà alle elezioni (rinviate ben cinque volte) a febbraio 2006.
La comunità internazionale invia un contingente di caschi blu, la
Minustah (Missione per la stabilizzazione di Haiti), inizialmente di
composizione Usa, Canada e Francia e poi sostituita da sudamericani,
sotto il comando brasiliano (circa 7.500 militari e 2.000 poliziotti
del Unpol).
Oggi il presidente è l’agronomo Réné Préval, già primo ministro di Aristide nel 1991, poi presidente dal 1996 al 2001.

Difficile guardare al domani

Secondo Gotson Pierre, giornalista haitiano del sito Alterpresse,
Préval di oggi è diverso dal fantoccio pilotato da Aristide di ieri:
«lo slancio autoritario del primo mandato sembra aver lasciato il posto
a un maggiore spirito di apertura e di consenso. A livello della sua
politica economica, però non sembra ci siano troppi cambiamenti: domina
la visione neoliberale. Il presidente ha già annunciato la
privatizzazione della compagnia telefonica». E i suoi legami con
Aristide? «Durante la campagna elettorale ha mostrato una certa
autonomia, e avrebbe manifestato in privato la sua distanza. In
pubblico, avvalendosi della costituzione che non prevede l’esilio, non
si oppone al ritorno di Aristide, ma neanche a un suo processo.
Nonostante questo, la denuncia contro l’ex presidente depositata presso
il tribunale di Miami dal governo di transizione è stata ora ritirata».

Préval è stato eletto con più del 50% dei voti, il che dimostra che ha
un certo sostegno popolare, «tuttavia la situazione potrebbe degenerare
rapidamente se il governo non otterrà dei risultati concreti nel medio
periodo a livello della sicurezza e a quello socio-economico» continua
il giornalista.
«La situazione è molto complicata – racconta un intellettuale haitiano
che vuole mantenere l’anonimato – c’è innanzitutto l’insicurezza. Ci
sono ancora molte armi in circolazione, quelle che furono distribuite
da Aristide alle bande da lui finanziate. Anche ai bambini. Il paese è
in mano alle gang armate. Alcune sono di origine politica, altre di
delinquenti comuni. Gli Usa hanno rispedito ad Haiti decine di banditi
che erano nelle loro prigioni e che avevano imparato i metodi della
gang da loro». La violenza, che da sempre caratterizza la storia del
popolo haitiano, è oggi ai suoi apici, in un teatro particolarmente
confuso.
Racconta un missionario italiano, da anni nel paese: «La gente vive
nella paura, nonostante lo spiegamento delle forze dell’ordine locali
ed inteazionali (Minustah e Unpol, ndr), anche se ci sono momenti di
tregua. Le bande di ogni tipo, rivali tra loro, hanno armi sofisticate»
.

Tra realtà e leggenda

Le gang armate sono conosciute, hanno capi storici, figure quasi
mitologiche, con storie di vendette, assassini e successioni violente.
Operano in quartieri il cui nome fa tremare. Come Amaral Duclona,
potente capo di una delle bande di Cité Soleil (enorme bidonville della
capitale Port-au-Prince): molto vicino ad Aristide, ha anche supportato
la campagna di Préval. È il successore di Tupac (soprannome ispirato da
un celebre rapper statunitense), ucciso da una banda rivale. La storia
di Tupac è già diventata un film.
Amaral, teoricamente ricercato dalla polizia, guida anche le
manifestazioni di piazza che invocano il ritorno di Aristide, e la
partenza della Minisutah, come nel 9 novembre scorso.
L’«esercito del piccolo macete», della zona Martissant – Carrefour ha
partecipato a due recenti sanguinosi massacri in agosto 2005 e luglio
2006, in scontri con la polizia o altre gang. O ancora l’«esercito
cannibale» che domina la città di Gonaives.
«C’è stata una tregua solo durante le votazioni, imposta da Préval, ma
ora le cose ritornano confuse, anche se i media non ne parlano. I morti
tra le diverse fazioni, forze dell’ordine, cittadini comuni, compresi i
bambini, davvero non si contano. Disordini e blocchi stradali, scioperi
a ripetizione, magazzini chiusi, ambulanti e dettaglianti che si danno
alla fuga, la gente nel panico». Continua il missionario. «Bel Air, nei
pressi della Cattedrale, rue Pavé, Poste-Marchand, (tutte zone centrali
della capitale, ndr) sono covi di banditi, che sparano all’impazzata e
lanciano sassi contro le macchine che si avventurano nei paraggi. Senza
parlare dei cumuli di spazzatura in decomposizione, che tappezzano le
strade di Port-au-Prince, dandone un’immagine deturpata e ributtante».

Quando non sai cosa fare …

Uno dei sistemi utilizzati dalle gang di ogni tipo per finanziarsi è il
rapimento a scopo di estorsione. Fenomeno comparso a fine 2004, conta
decine di vittime tutti i mesi, soprattutto nella capitale. Da un
minimo di 14 persone rapite al mese al picco di 115 dello scorso
agosto, secondo solo alle 241 del dicembre 2005. «Sono comprensibili i
disagi di chi è obbligato a spostarsi in città per acquisti, per
consultazioni o ricoveri in ospedale», dice il missionario.
La paura dei rapimenti, in molti casi anche per motivi politici, sta
causando la fuga di cervelli e la chiusura di esercizi commerciali.
«Molti professionisti (ingegneri, medici, bancari) sono fuggiti in Usa,
Canada, ma anche a Cuba. Molte ditte, imprese hanno chiuso i battenti».
Mentre continua la triste storia dei boat people: «A migliaia i poveri
varcano le frontiere di Haiti per la Repubblica Dominicana e spesso
sono malamente rimpatriati. Mentre altri in battelli di fortuna tentano
di raggiungere la Florida, ma solo pochi sono stati fortunati… ».
Questi fatti hanno un impatto negativo anche sull’economia, come
ricorda l’intellettuale haitiano: «Le casse sono completamente vuote.
Occorrono investimenti per rimettere il paese in piedi. Gli investitori
vedono interessante la possibilità dei bassi salari, ma senza sicurezza
e senza infrastrutture è impossibile lavorare. I rapimenti scoraggiano
ulteriormente. Occorre quindi il disarmo per poter sperare di
sviluppare il paese».
Ad Haiti la maggior parte delle strade sono disastrate (l’Unione
europea ne sta riasfaltando alcune), non ci sono i ponti e manca
l’elettricità perfinonella capitale.

Primi in corruzione

La violenza è alimentata dall’impunità, che è la regola ad Haiti. E
questa è figlia della corruzione. L’Ong Transparency Inteational,
tutti gli anni pubblica la classifica dei paesi del mondo in base alla
corruzione. La classifica del 2006, resa nota a novembre, ha visto
Haiti ultimo classificato su 163 paesi valutati (l’Italia è 45sima),
subito preceduto da Guinea, Iraq e Myanmar a pari merito.
«La corruzione ha impregnato ogni settore socio, politico ed economico
del paese. Il sistema della giustizia è totalmente corrotto. Ecco
perché c’è un ritorno delle esecuzioni sommarie: se un ladro viene
scoperto, è immediatamente ucciso. In caso contrario, se arrestato se
la caverebbe pagando la polizia o il giudice e poi toerebbe a
vendicarsi su chi lo aveva fatto catturare» racconta il nostro
interlocutore.
In un recente rapporto l’Inteational Crisis Group (Icg, ottobre 2006)
esamina la situazione della sicurezza e mette in evidenza le debolezze
dello stato, come la mancanza di autorità e controllo. Raccomanda
nell’immediato una profonda riforma della polizia, con sostituzione di
ufficiali e uomini ai diversi livelli e del sistema giudiziario, per il
quale occorre formare una nuova classe di giudici. Fondamentale è lo
smantellamento delle bande armate e anche il controllo di frontiere e
porti, precisa il rapporto. «Haiti farà un passo avanti solo quando i
cittadini sentiranno una restaurazione dell’autorità dello stato e del
regno della legge nella vita quotidiana» ha dichiarato Mark Schneider,
vice presidente dell’Icg. «Questo esige un repulisti nella polizia,
l’eliminazione della percezione dello stato come sorgente
d’arricchimento personale e la creazione di prospettive per i poveri».
Il rapporto richiama, inoltre, la comunità internazionale a impegnarsi
nel medio e lungo termine ad appoggiare Haiti con investimenti su
educazione, sviluppo rurale e infrastrutture urbane. Ma anche
riforestazione e recupero ambientale sono essenziali.

Armi, rapimenti e … coca

Il tutto si intreccia con il crimine internazionale legato ai traffici.
«C’è la questione della droga. L’entourage di Aristide ne era
largamente coinvolto. Ad esempio il capo della sua guardia
presidenziale, Oriel Jean è oggi in prigione negli Usa per
narcotraffico» ricorda l’intellettuale anonimo. «Gli ingenti proventi
di questo commercio sono il veleno per Haiti. Il paese è un importante
crocevia per la cocaina proveniente dalla Colombia in direzione di Usa
e Canada». È stato stimato che un terzo della cocaina colombiana
destinata agli Usa passi da Haiti, mentre i tre quarti di quella
sequestrata negli aeroporti di Montreal tra il 2000 e il 2004 aveva la
stessa provenienza.
Il traffico divenne importante fin dai tempi del colpo di stato di
Cédras (1991) per continuare a crescere, protetto dall’instabilità
politica, e agevolato dalla «porosità» delle frontiere. I narcos usano
piccoli aerei che dalla Colombia atterrano su piste rudimentali, con la
connivenza di autorità locali e polizia. Anche nei pressi della
capitale c’è una di queste piste. La droga non è consumata in loco,
perché gli haitiani sono troppo poveri, ma il denaro del traffico
alimenta tutto il sistema della corruzione.

«Disarmare o morire»

Il governo di Préval e del primo ministro Jaques-Edouard Alexis tenta
di intervenire, con apparente fermezza, ma troppo timidamente nella
realtà. «Il governo attuale non è in fase con le attese della
popolazione – sostiene Gotson Pierre – riscontriamo piuttosto un certo
lassismo e lentezza. Il perdurare dell’insicurezza e della violenza,
soprattutto a Port-au-Prince, e la gestione esitante, non trasmettono
un segnale positivo». Un programma di disarmo, smobilitazione e
reinserzione (sul modello di quelli attuati nei paesi in guerra) per
gli uomini delle gang è stato lanciato e una commissione nazionale
recentemente istituita. Gli ennesimi piani di ristrutturazione della
polizia e del sistema giudiziario sono in elaborazione, ma devono
essere attuate riforme radicali.
«Usano il bastone e la carota: si danno un’aria di fermezza ma poi
invitano i capi gang al palazzo presidenziale» osserva l’intellettuale.
«Disarmare o morire» aveva lanciato Préval lo scorso agosto sulle onde
radio. In effetti questo è il punto su cui il presidente si è più
investito, coadiuvato da Minsutah e Unpol (polizia internazionale) ma,
finora, senza troppo successo.
E il movimento popolare che era riuscito a liberarsi di Duvalier?
«La società civile ha poca influenza in questo momento. I contadini
sono stati delusi profondamente da Aristide, e non osano dirlo. Allo
stesso tempo la miseria li costringe a impiegare le loro energie più
per sopravvivere, trovare da mangiare, piuttosto che per organizzarsi a
partire da zero. Qualche segnale positivo c’è» continua
l’intellettuale.
«Spero che la società civile possa rimettersi in piedi, adesso è in “ibeazione”».
«Esiste ancora qualche rete, ma gli interventi sociali si manifestano
oggi più sotto la forma di lobbing e non di mobilitazione popolare»
osserva Gotson Pierre.
La chiesa, soprattutto alla base, è rimasta «bruciata» da una scelta,
quella dell’ex sacerdote salesiano, che la storia ha rivelato
fallimentare. «La chiesa haitiana tace. La Conferenza episcopale è
divisa, ancora oggi, tra pro e contro Aristide. Non c’è stato un
pronunciamento a favore delle vittime di sequestri, violenze carnali
alle donne, torture» racconta il missionario. «Nessuna presa di
posizione ufficiale per denunciare le ingiustizie che si perpetrano
continuamente. Un intervento, isolato, da parte del vescovo della
capitale, Mons. Sérge Miot, dopo il sequestro del missionario italiano
Gianfranco Lovera (agosto 2005, ndr), che invitava le autorità a
operare per debellare la violenza, diventata sistema, e la polizia a
intervenire con decisione per fermare i banditi».

Il grande manovratore

La debolezza, o talvolta la connivenza, delle istituzioni statali,
hanno lasciato spazio alle bande armate e alla loro violenza. Molte di
queste sono legate all’ex presidente Aristide, e c’è chi sostiene che
questi riesca a controllarle dal suo esilio dorato in Sud Africa. Molti
temono un suo ritorno, altri, soprattutto le chimères lo 
invocano. L’intellettuale: «Aristide sta cercando di prepararsi il
terreno per tornare. Agisce di nascosto, sotto, sotto. Questo è molto
pericoloso». Gotson Pierre: «Nelle strutture politiche e nello stato ci
sono ancora uomini di Aristide. Il suo partito Fanmi Lavalas pur
minoritario, è rappresentato in parlamento. Penso che non possa avere
un futuro politico ad Haiti, almeno non ufficiale, ma potrebbe
manovrare nelle retrovie».
«Haiti non è uno stato in fallimento, ma uno stato in grande
difficoltà» ha recentemente dichiarato Préval. Potrebbe apparire tale
ai tecnocrati perché è obbligato «a smantellarsi per finire di essere
uno strumento d’esclusione e oppressione». 

Marco Bello

Il volontario racconta …

Ritoo ad Haiti

Dajabon, frontiera nord tra la Repubblica Dominicana e Haïti. Un
placido rivolo separa i due paesi, qualche bambino sgambetta nell’acqua
per riempire le taniche, alcune donne si bagnano, altre fanno il
bucato, e non diresti mai che quel rigagnolo si chiama «Rivière du
Massacre». Il ricordo delle aspre battaglie con cui nel XVII secolo
spagnoli e francesi si contendevano la colonia, è stato sostituito
dalle più recenti centinaia di morti ammazzati o annegati, nella triste
guerra tra poveri tra dominicani e haitiani, in cerca di un posto
migliore in cui vivere.
Carichiamo le valigie su un carretto, unico mezzo per attraversare il
piccolo ponte presidiato dai militari dominicani. Il colore della mia
pelle e il mio passaporto ci salvano da strattoni, schiaffi e pugni che
poliziotti in borghese dispensano a chiunque sia in transito, perché
oltre che pagare il visto bisogna pagare il pizzo o comunque lasciare
qualcosa.
È questa la nostra porta d’ingresso in Haiti, essendo chiuso l’altro
principale passo frontaliero del sud, Malpasse. Ostaggio di una gang
armata che vuole controllare i traffici di chi, doganiere,
contrabbandiere, piccolo commerciante, camionista o conducente di
autobus, con la frontiera sopravvive.

Rieccoci in Haiti, dove le poche ore previste per il viaggio si sono
già trasformate in una settimana di vana attesa alla frontiera chiusa,
e poi in tre giorni di autobus e jeep per percorrere trecento
chilometri. Questo peregrinare è reso meno faticoso dall’ospitalità
straordinaria di chi si fida di te, non perché ti conosce, ma perché
gli fai il nome di un amico comune. Allora ti dà da mangiare, ti mette
una camera a disposizione o ti procura un passaggio in auto.
Dopo colline a perdita d’occhio, finalmente il mare, con la sagoma
soiona della leggendaria isola della Tortuga: è l’inconfondibile baia
di Port-de-Paix. La lontananza anche fisica dalla capitale ha permesso
a questa città di essere un vero «porto di pace», senza i disordini e
le violenze dovuti alle varie crisi politiche. Tranquillità pagata
tuttavia con una totale dimenticanza e abbandono da parte delle
istituzioni centrali e dai vari programmi di sviluppo.
Fondata dai bucanieri, la città non ha perso la tradizionale vocazione
«piratesca» ed è sopravvissuta grazie al contrabbando, alla tratta dei
disperati in partenza verso le Bahamas come boat-people, e ora al
traffico della droga.
Capita così che dove c’erano soltanto vecchie case o baracche troviamo
ora villette. Un po’ ovunque: per costruire hanno mangiato la spiaggia,
scavato le colline. Hanno edificato perfino su uno stretto istmo di
sabbia che divide il mare da una palude, bonificata con
approssimazione. Ogni volta che piove un po’ di più, si intuisce quella
che sarà una strage annunciata.
La popolazione è cresciuta. Molti sono quelli che hanno preferito
ritornare a casa, abbandonando il lavoro o gli studi che avevano
trovato nella capitale Port-au-Prince, divenuta invivibile a causa
delle violenze.
Altri ancora arrivano da Gonaives, altra città del paese politicamente
molto calda e funestata due anni fa da un’inondazione che causò più di
4 mila vittime.

Il quartiere di Myriam sembra essere sempre lo stesso. Soffocata dalle
case, la stessa strada impossibile da percorrere si abbarbica su per la
collina. Dalla terra affiorano i tubi dell’acqua, vecchie scarpe,
rifiuti, copertoni. Sembrano gli stessi di due, quattro, quindici anni
fa.
Le traballanti bancarelle del mercatino, i banchetti per giocare al
lotto, le casette di legno dei piccoli spacci alimentari. La vecchia
carcassa del pullman di Sonson, ancora lì, parcheggiata sul ciglio nel
punto di pendenza massima, sempre ciondolante di bambini giocosi.
I cortili delle case, gli stessi consunti tavoli da domino all’ombra
delle piante, i galli da combattimento legati, i panni stesi sulle
aiuole di piante spinose. La stessa risata fragorosa di Emilién è il
benvenuto del quartiere, e anticipa l’abbraccio di parenti e amici.
Anche i nipotini mi sembrano sempre gli stessi, mi chiedo per un
attimo: non crescono mai? Poi mi rendo conto che non sono più venti, ma
ventiquattro, e quella che pensavo fosse Charlanda in realtà è la
sorellina più piccola… mi ci vuole qualche giorno, e recupero la
dignità di un buon zio che sa riconoscere tutti.

Gli stessi aquiloni ingarbugliati ai fiacchi fili della luce, spesso
inutili. Le serate a raccontarsela tra vicini, dopo l’eterno miracolo
di arrivare alla fine della giornata con poco. Perché se molto è
rimasto uguale, quello che continua a cambiare sono i prezzi,
soprattutto degli alimenti di base: riso e prodotti orticoli stanno
diventando un lusso senza alternativa, e il commercio è limitato dai
costi enormi e dalle difficoltà degli spostamenti.
Passa un funerale: la sfilata di ottoni della banda, uniformi pesanti
sotto il sole, ombrelli, vestiti a balze di organza. Anche questo non è
cambiato. Si muore, tanto, per nulla. O, meglio, non esistono diagnosi
e chi di «guaritore» ha solo il nome è ancora considerato meglio che un
medico.
Per questo molti non ci sono più. Rimane il coraggio e la forza di chi
resiste in un paese dove nulla al momento può far presagire un domani
migliore, se non il fatto di esserci, comunque.

Alessandro Demarchi*

*Volontario ad Haiti dal ‘93 al ‘96 dopo un primo viaggio nel 1991, non
ha mai cessato di seguie le vicende, anche con frequenti visite. Vive
con la moglie, originaria di Port-de-Paix, e due figli a Torino, dove
lavora per una Ong piemontese come esperto di fund raising.

Cronologia essenziale

1492 Cristoforo Colombo sbarca
nel nord ovest dell’isola, vi installa il primo insediamento europeo
del nuovo mondo. Inizia la decimazione della popolazione autoctona, i
Taino. La colonia si chiama Hispaniola.
1697 Con il trattato di Ryswick la Spagna cede alla Francia la parte occidentale dell’isola che prende il nome di Saint Domingue.
1791 Inizia la rivoluzione degli schiavi guidata da Toussaint Louverture.
1804 Proclamazione
d’indipendenza, e sconfitta dell’armata napoleonica. Durante la guerra
muoiono 100 mila ex schiavi e 20 mila francesi. Il Paese prende il nome
di Haiti. La popolazione bianca fugge all’estero.
1915-1934 Occupazione Usa.
1957-1986 Dittatura dei Duvalier: François «Papa Doc» e Jean Claude «Baby Doc» che fuggirà dal paese, a causa del sollevamento popolare.
1986-1990 Periodo di giunte militari e presidenti de facto. Tentativi, falliti, di elezioni.
1990 16 dicembre: elezioni con
osservatori Onu. Vittoria popolare del movimento Lavalas: Jean-Bertrand
Aristide presidente con il 67% dei voti.
1991 30 settembre: dopo soli 7
mesi colpo di stato militare. Il generale Cédras si autonomina
presidente. Aristide in esilio. Oltre 1.500 assassii in una settimana.
Smantellamento del movimento popolare. I militanti di Lavalas sono
costretti alla resistenza passiva e alla clandestinità.
1991-1994 Dittatura militare
capeggiata da Raul Cedras. L’Onu decreta l’embargo verso Haiti.
Aristide è riportato dai marines Usa (20 mila unità) nell’ottobre del
’94.
1995 dicembre: nuove elezioni
e vittoria del candidato del partito Lavalas, Renè Préval. Aristide non
può candidarsi  perché la costituzione non prevede due mandati
consecutivi. Préval resta in carica fino a febbraio 2002.
2001 Aristide diventa, per la seconda volta, presidente della Repubblica.
2004 29 febbraio il presidente
Aristide, a causa delle forti  pressioni intee ed inteazionali
(Francia, Usa, Canada), lascia il potere e parte in esilio, prima in
Centrafrica e poi in Sudafrica.
2004 1 marzo: il Consiglio di
Sicurezza dell’Onu approva l’invio di una forza internazionale (Usa,
Francia e Canada) che verrà rimpiazzata nei mesi successivi dai caschi
blu delle Nazioni Unite (Minustah). 
2004 17 marzo: G. Latortue (ex
ministro degli Affari esteri, 1988) diviene il Primo ministro di un
governo di transizione incaricato di organizzare le elezioni generali.
2004 30 settembre: alcuni
sostenitori dell’ex presidente Aristide reclamano il suo ritorno e
lanciano una serie d’attacchi violenti, sono più di 400 i morti fino al
gennaio 2005.
2005 31 maggio: un attacco nel
centro della capitale, attribuito a partigiani dell’ex presidente
Aristide, fa almeno 10 morti tra la popolazione civile.
2005 ottobre-dicembre: nella capitale drammatica escalation della violenza e dei rapimenti a scopo d’estorsione.
2006 7 febbraio: dopo essere
state rimandate per cinque volte, si svolge il primo tuo delle
elezioni presidenziali e parlamentari. Préval dichiarato vincitore, si
insedia il 14 maggio. A dicembre amministrative e legislative parziali.

Marco Bello




Il futuro siamo noi

Situazione giovanile: tratti distintivi di una generazione

In una società diversificata e complessa come quella europea, in un’epoca in cui trionfa il pensiero debole, senza le certezze e punti di riferimento del passato, i giovani sembrano spaesati e a disagio, senza valori né ideali forti, in balia delle mode e dell’effimero. Eppure sono molti gli esempi di giovani impegnati per un mondo di pace e giustizia per tutti. Nella costruzione dell’Europa vogliono solo essere ascoltati e incoraggiati.

Non è facile definire in modo univoco la situazione dei giovani in Europa: elementi di discontinuità e ambivalenza sembrano prevalere sui tratti comuni in molti aspetti della vita. Nonostante la varietà e contraddittorietà delle situazioni, si riscontrano tratti culturali di fondo ed elementi distintivi della generazione attuale, che rispecchiano il momento storico in cui è chiamata a vivere e la differenziano dalle generazioni e modelli del passato.
Analizzando le attese dei giovani, si può tracciare un quadro dei loro valori etici e culturali, del modo di percepirsi all’interno della società, degli orientamenti con cui mirano a realizzarsi, dei problemi che devono affrontare nella modeità avanzata o post-modeità: un tempo denso di opportunità, ma anche carico di tensioni e condizionamenti.
Il progresso della scienza e della tecnica, infatti, offre enormi vantaggi anche ai giovani, ponendoli al centro di molti stimoli e sollecitazioni, ampliando il loro livello di coscienza, costringendoli alla riflessione e al confronto con rapidi cambiamenti di situazioni. Al tempo stesso, questi aspetti positivi sono accompagnati da costi personali e sociali: sono scomparse le certezze, i punti di riferimento e il consenso comunitario del passato; la crisi delle grandi ideologie ha provocato la frammentazione del pensiero e l’affermarsi di modelli individualistici di realizzazione e il rischio di un «effetto spaesamento».
Il rapido cambio di scenari a livello economico e finanziario, lavorativo, culturale e politico, rende sempre più difficile fare previsioni realistiche in tanti aspetti della vita; precarietà, insicurezza esistenziale, incertezza del futuro accompagnano l’esistenza della maggioranza degli individui. In uno scenario poco chiaro, denso di sollecitazioni e imprevisti, non è facile orientarsi su problemi e scelte, siano esse di grande o minore importanza.

Europa diversificata e complessa

Attraversata dai fenomeni della globalizzazione, oggi l’Europa appare diversificata e complessa, sia per il retaggio delle diverse vicende storico-politiche (come quelle tra Est e Ovest), sia per la pluralità di tradizioni e culture: greco-latina, anglosassone, slava. Tali diversità, tuttavia, costituiscono anche la ricchezza del vecchio continente e ne rendono significative, in contesti diversi, espressioni e scelte, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e la fine della guerra fredda. Se nei paesi orientali si avverte il problema di come gestire la ritrovata libertà, in quelli occidentali ci si interroga su come vivere l’autentica libertà.
L’attualità socio-culturale europea mostra un’eccedenza di possibilità, occasioni, sollecitazioni, in contrasto con la carenza di focalizzazioni, propositività, progettualità; ciò aumenta il grado di complessità di questa stagione storica, con ricaduta negativa sul piano vocazionale.
L’Europa post-modea assomiglia a un «pantheon», un grande «tempio» in cui sono presenti tutte le «divinità» e ogni «valore» trova la sua nicchia. «Valori» diversi e contrastanti sono presenti e coesistenti, senza una gerarchia precisa: codici di lettura e valutazione, di orientamento e comportamento del tutto dissimili tra loro.
Quando una cultura non definisce più i valori capaci di dare senso alla vita o non riesce a creare convergenze e priorità attorno ad essi, ma pone tutto sullo stesso piano, risulta difficile avere una visione unitaria del mondo e si indebolisce la capacità progettuale della vita.

Giovani e l’Europa

Questa cultura pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, si ripercuote nella vita di tanti giovani: da un lato essi cercano appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza d’orizzonti; dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere, delusi dalle ideologie e dalle istituzioni politiche, confusi dal disorientamento etico.
Per questo, in un tempo avaro di certezze e sicurezze, essi ricercano nelle esperienze più disparate una conferma di sé stessi. I vari ambiti di vita rappresentano luoghi in cui misurare se stessi e le proprie capacità, per maturare conferme alla propria identità, comprendere chi si è e cosa si è in grado di fare. Per una condizione giovanile, che vive un processo di socializzazione molto aperto, ha continuamente bisogno di ridefinire se stessa e ottenere rassicurazioni e certezze.
Il pendolo della loro vita oscilla tra rivendicazione della soggettività e desiderio di libertà; in una cultura debole e complessa come la nostra, la soggettività spesso diventa soggettivismo, mentre la libertà degenera in arbitrio.
La capacità dei giovani di progettare il futuro è vista in un’ottica limitata alle proprie vedute, in funzione di interessi strettamente personali, di autorealizzazione, in una logica che riduce il futuro alla scelta di una professione, alla sistemazione economica o all’appagamento sentimentale-emotivo: orizzonti che di fatto riducono la voglia di libertà e le possibilità del soggetto a progetti limitati, con l’illusione di essere liberi.
Per lo più sono scelte spesso senza apertura al mistero e al trascendente, con scarsa responsabilità nei confronti della vita propria e altrui, della vita ricevuta in dono e da trasmettere ad altri. Tali sensibilità e mentalità rischiano di delineare una sorta di «cultura antivocazionale». Nell’Europa culturalmente complessa e priva di punti di riferimento, il modello antropologico prevalente sembra essere quello dell’«uomo senza vocazione».

Frammenti di un ritratto

Una cultura pluralista e complessa tende a generare nei giovani un’identità incompiuta e debole, con la conseguente indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale. Precarietà della vita e futuro occupazionale incerto inculcano nei giovani paura per il loro avvenire e ansia davanti a impegni definitivi.
Se da una parte cercano autonomia e indipendenza ad ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente socioculturale. Vivono una «rassegnazione contenuta», descritta come «tipologia dell’abbastanza»: si va abbastanza d’accordo con i loro genitori che concedono loro abbastanza libertà; si ha abbastanza voglia di diventare adulti, ma non troppo in fretta.
Qualcuno ha definito i giovani una «generazione mongolfiera», che galleggia nel tempo senza fretta di atterrare: si assiste a un’estensione smisurata dell’età adolescenziale, al punto che si parla di «società adolescentrica».
Altra caratteristica della condizione giovanile attuale è la frammentarietà: l’esperienza di vissuto personale è divisa in tanti frammenti isolati, come pezzi di un puzzle senza coice, scollegati da una logica «vocazionale» di senso e di valori. Così, la vita è composta di gesti che non diventano mai stili di vita, azioni che si esauriscono nei gesti, progetti che si dileguano tra i sogni, passioni di un giorno cancellate da una notte, incertezza di un corpo che si fa e si disfa a seconda delle ore del giorno.
Circolano come nomadi senza fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso; infedeli ai modelli che assumono, «tentano» di darsi contegno con trasgressioni che si rinnovano come tappe inconcluse di un eterno disordine.
Gradualmente si è imposto un modello di giovane proteiforme, che fa lo «zapping» della propria vita, passando da un’esperienza all’altra. Punto di fusione tra le varie esperienze è la gratificazione emotiva,  che deve essere immediata, da vivere nell’istante; nella successione d’istanti, un’esperienza estingue l’altra.
Rilevante tratto culturale nei giovani è l’importanza assunta dai sentimenti: ciò che si sente e si percepisce, lo stato d’animo e il piacere che si prova. Tale criterio-guida riguarda non solo la sfera privata, in particolare il campo dell’affettività e sessualità, ma anche l’orientamento della vita reale e delle scelte decisive. Le esperienze istantanee, senza durata né valore, producono appartenenze deboli e plurime nello stesso tempo a mondi vitali diversi, mai definitivi: si sceglie oggi, senza rinunciare però ad altre opzioni possibili, rinviandole solamente a tentativi futuri.
Lo sviluppo tecnologico ha invaso la nostra vita con modelli comunicativi inediti. I giovani post-modei, sommersi da una grande quantità di informazione, ma con scarsità di formazione, esistono perché «connessi», navigano in internet, parlano con gli sms, chat-lines, blogs o diari telematici: una comunicazione anonima, in tempo reale, ma «senza contatto» reale.
Essi abitano un universo simulato, invece dei luoghi tradizionali dell’incontro; anche se frequentano i luoghi ordinari, con la testa sono altrove; sono vivi e partecipi nei «non-luoghi» di evasione e trasgressione, del fascino della notte, dove è possibile sentirsi diversi; ma anche il prossimo diventa mondi virtuali, dove ci si può costruire una «seconda vita», interagendo con gli altri. Tutti espedienti  che fungono da sedativo del «vuoto» che tanti giovani sperimentano a riguardo del senso della vita e dei valori; un vuoto spesso assordato dalla musica a tutto volume.
Al vuoto lasciato dalla crisi dei sistemi di valori tradizionali è subentrato il consumismo come unico rivelatore simbolico della propria identità. In realtà a guadagnarci è solo il «mercato». Lo sanno bene i cornolhunters o trendsetters (cacciatori di tendenze, ricercatori di stili), emissari delle nuove aree di profitto, che fanno proprie le istanze stilistiche, di comportamento ed espressive dei giovani, tipiche della società dell’immagine e del mercato dell’intimità dei reality show. Pubblicità, produzione dell’abbigliamento, agenzie di viaggio, industrie del divertimento hanno decodificato la condizione di smarrimento dei giovani molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto le statistiche sociologiche.
Fa tenerezza incontrare giovani, pur intelligenti e dotati, in cui sembra spenta la voglia di vivere, di credere in qualcosa, di tendere verso obiettivi grandi, di sperare in un mondo che può diventare migliore grazie anche ai loro sforzi.
Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o nel dramma della vita, smarriti lungo sentirneri interrotti e appiattiti ai livelli minimi della tensione vitale, parcheggiati in quella terra di nessuno, dove la famiglia non svolge più alcuna funzione, la società alcun richiamo e le agenzie educative alcuna attrazione. Sono senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che sarà una fotocopia del presente.
I giovani sono sospettati di voler conquistare visibilità nei grandi raduni, nella violenza gratuita della guerriglia urbana, nel malcontento della estraneità culturale (squatters, autonomi dei centri sociali). Di loro si elencano i «vizi capitali»:  boom dell’esoterismo e satanismo, fede «leggera» della New age, smania del rischio, sfida con la morte, delinquenza e uso di droghe… E le condanne fioccano sugli adepti di questo popolo nascosto. Ma gli strali si concentrano sul dito anziché su quello che il dito indica.

Grida di aiuto

Eppure questi fenomeni dell’attuale disagio giovanile, apparentemente slegati tra loro, hanno una correlazione profonda e inosservata: sono grida di aiuto incomprese, che esprimono in modo disarticolato paura del futuro, delusioni di sogni infranti, desiderio di una vita autentica, voglia di solidarietà, silenzio, spiritualità, di una società diversa.
Invece di giudicare, bisognerebbe riconoscere che le loro insoddisfazioni rispecchiano le ambivalenze e contraddizioni della nostra società, di un malessere che è semplicemente sintomo della disgregazione dei legami sociali in stato avanzato.
Quando i telegiornali senza scrupolo mettono in scena i giovani protagonisti di tragedie familiari, violenze cittadine, stupri collettivi, limitandosi a sollevare una carica emotiva e di indignazione, senza indicare l’urgenza di una profonda riflessione anche su una responsabilità sociale, acconsentono la latitanza delle istituzioni e degli adulti, che rende possibile la ripetizione e l’aumento di certe tragedie.
In questo contesto, che dovrebbe suscitare qualche riflessione, nascono spontanee alcune domande: che ne è di una società che fa a meno dei suoi giovani? È solo una questione di spreco di energie o il primo sintomo della sua dissoluzione?
Che ne è dei milioni di giovani scesi in piazza per manifestare contro la guerra nel marzo 2003? O delle centinaia di migliaia di partecipanti alle radunate oceaniche delle Gioate mondiali della gioventù o ai concerti dei loro idoli? O quelli che hanno bruciato le periferie delle città francesi e sono rientrati temporaneamente nei ranghi della legalità?
Perché non guardare anche alla galassia dei piccoli gruppi e associazioni, che vivono le microstorie di volontariato sociale, trascorrono l’estate in campi di servizio ai poveri, impegnati nell’associazionismo, fanno pellegrinaggi a Santiago de Compostela o si isolano in monasteri alla ricerca di momenti di silenzio e solitudine?
Perché dubitare se questi giovani saranno capaci di assumere una responsabilità nel processo di costruzione dell’Europa, di superare vecchi odi e rancori, di costruire ponti di accoglienza e rispetto della diversità, di lottare per la pace e la giustizia?
Come raccogliere il grido disarmante dei tantissimi giovani anonimi, disorientati dai «vizi capitali», che soffocano la voglia di vivere nelle diverse forme di disagio sociale?

Ascoltare, comprendere, sostenere, incoraggiare

Al di là del disorientato e della mancanza di precisi punti di riferimento, bisogna guardare alla condizione giovanile con ottimismo: il cammino di costruzione dell’Europa potrebbe diventare un traguardo e offrire un adeguato stimolo ai giovani europei. In realtà essi hanno nostalgia di libertà e cercano verità, spiritualità, autenticità, originalità personale e trasparenza; hanno desiderio di amicizia e reciprocità; vogliono costruire una nuova società, fondata sui valori della pace, giustizia, rispetto per l’ambiente, attenzione alle diversità, solidarietà, volontariato e pari dignità tra i generi. 
Le più recenti ricerche descrivono i giovani europei come smarriti, ma non disorientati, impregnati di relativismo etico, ma anche desiderosi di vivere una «vita buona», coscienti del loro bisogno di salvezza, sia pure senza sapere dove cercarla. Ne fanno fede i tanti giovani animati da sincera ricerca di spiritualità e coraggiosamente impegnati nel sociale, fiduciosi in se stessi e negli altri e distributori di speranza e ottimismo.
Per questo hanno bisogno di essere incontrati e ascoltati, non solamente nelle occasioni ufficiali, ma personalmente, nella quotidianità, senza sentirsi giudicati. A partire dalla famiglia, primo nucleo dell’affettività, fino a tutte le agenzie educative (scuola, associazioni di vario tipo) i giovani chiedono attenzione significativa e interessata, indispensabile per sentirsi considerati e per costruire dentro di sé un’identità riconosciuta.
In tempi di omologazione, conformismo, ripetitività, la via d’uscita dal «pantheon» delle idolatrie esige uno sforzo di costruzione di una «cultura dell’interiorità», per abituare i giovani a uno spirito critico, ai tempi lunghi delle trasformazioni, a pagare il pedaggio del sacrificio per ottenere risultati duraturi.
Linguaggio e forma dei mezzi di comunicazione concorrono a trasformare tempo e spazio in contenitori da riempire e svuotare con  «immediatezza» e «simultaneità». Tale cultura del «tempo reale» impedisce di pensare e riflettere, frappone una «distanza» tra se stessi e un fatto o situazione e la sua interpretazione, necessaria per metabolizzare eventi e cambiamenti.
Senza le capacità di pensare e interpretare, vien meno la memoria, cioè quelle tracce dell’esperienza già vissuta che permettono di creare relazioni con gli eventi presenti e progettare il futuro. Diviene fondamentale aiutare i giovani a rileggere la propria vita e sentirsi parte e protagonisti di una storia personale, nazionale, europea e mondiale, per rintracciae gli insegnamenti e responsabilità.
La voglia dei giovani di diventare protagonisti nella vita pubblica non deve essere delusa. Essi devono essere coinvolti nel dibattito in corso sulla costruzione dell’Unione europea. I giovani rappresentano un enorme capitale per l’Europa d’oggi e del futuro. Su di essi si fanno notevoli investimenti, anche se non sempre le loro aspettative sono concretamente accolte dal mondo degli adulti o dei responsabili della società civile.
Al termine della Convenzione europea dei giovani, tenuta a Bruxelles il 9-12 luglio 2002, con la partecipazione di 210 rappresentanti di 28 paesi, i giovani hanno lanciato un appello in cui guardano fiduciosi al comune futuro europeo;  meritano di essere ascoltati.
«Vogliamo una riforma ambiziosa dell’Unione, che la attrezzi per rispondere alle sfide di oggi e cogliere le opportunità di domani. Un’Europa unita nella diversità è realizzabile. Noi vi chiediamo di più di quello che siamo disposti a fare e in grado di fare per noi stessi… Vogliamo un’Europa della tolleranza, dell’apertura e dell’integrazione; edificata sui valori fondamentali di pace, libertà, dialogo, uguaglianza, solidarietà e rispetto dei diritti umani e basata sul principio di uguaglianza degli stati membri. Al centro della nostra visione c’è un’Europa responsabile dei e verso i suoi cittadini. È giunto il momento di creare una vera cittadinanza europea…
La cooperazione internazionale è anche un antidoto contro il nazionalismo, conflitti etnici e dittature. L’Unione europea deve operare per la pace, democrazia, diritti dell’uomo,  disarmo e sviluppo in tutto il mondo. Perché ci sia un’Europa forte in futuro è indispensabile che la UE ponga un maggior accento sull’ascolto dei giovani, agevolando la comunicazione interculturale e transfrontaliera…
Noi, membri della Convenzione dei giovani dell’Europa, siamo pronti a forgiare il futuro della nostra generazione, del nostro continente». 

Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Nel ghetto della cronaca

L’immigrazione sui mass media italiani

Quale immagine dell’immigrato viene data dai media italiani? Che linguaggio si utilizza?
Quali situazioni vengono descritte? In Italia i professionisti dell’informazione
sono generalmente succubi degli stereotipi e lontani da quella funzione civile ed educativa
a cui il giornalismo dovrebbe mirare.

Sui mass media italiani l’immigrazione – e con essa la diversità religiosa e culturale – è vista come un problema. La si associa a illegalità, devianza, criminalità o comunque a disagio sociale sia per i protagonisti dei fatti raccontati (i soggetti immigrati, trattati come autori di atti o, meno spesso, come vittime), sia per i cittadini italiani (costretti a «subire» le conseguenze dell’immigrazione). Le fonti che trattano dell’immigrazione, che producono quindi fatti «notiziabili» (neologismo giornalistico, ndr), sono soprattutto quelle istituzionali: forze dell’ordine, magistratura e, quando si tratta di esprimere commenti, classe politica. Gli elementi, le occasioni che rendono gli immigrati soggetti meritevoli di essere rappresentati sulle pagine dei giornali, nei notiziari radiofonici, in Tv o sui siti Web informativi sono gli «sbarchi dei clandestini», le azioni delittuose, i problemi sociali (inserimento sociale difficoltoso, abitazione, credenze religiose), talvolta il lavoro; quasi sempre situazioni, fatti, eventi e casi che creano problemi alla collettività. Se il soggetto immigrato non è un problema – possiamo affermare sulla base delle ricerche – non è «notiziabile», ovvero non interessa ai media.

Il giornalista seduto
L’immagine del singolo soggetto immigrato tratteggiata dai mass media è quella dell’irregolare, del «clandestino», del criminale, di colui/colei che causa insicurezza, ansia, tensione e conflitto. Molto spesso è di sesso maschile; e talvolta è una vittima, ma comunque una vittima che dà problemi. Il taglio giornalistico dato all’informazione sui cittadini stranieri che vivono in Italia è soprattutto quello delle brevi notizie e degli articoli di cronaca. I cittadini immigrati sono «confinati dentro il ghetto della cronaca», per usare un’espressione della ricerca del Censis del 2002 Tuning into diversità, sull’immagine dell’immigrazione nella stampa italiana. I media offrono notizie e articoli senza scavo, senza approfondimento, senza problematizzazione, senza inchiesta, senza indagine, insomma senza ciò che fa del giornalismo una delle professioni più nobili e affascinanti. Le notizie e gli articoli sull’immigrazione nascono, si alimentano di particolari e sono scritti soprattutto al «desk», alla scrivania del giornalista, nel chiuso della redazione, alla stretta dipendenza delle fonti (carabinieri e polizia soprattutto); fonti dalle quali i giornali mutuano il linguaggio.
Il linguaggio con cui sono rappresentati l’immigrazione e i suoi protagonisti impiega il «lessico dell’estraneità»: extracomunitario, straniero, immigrato; oppure albanese, romeno, marocchino, nomade. Si tratta di un linguaggio il quale definisce la persona che «viene da fuori» e continua a restare fuori della comunità. All’estraneità viene associata l’aggressività, la criminalità, l’illegalità, l’irregolarità, caratteristiche – anche queste – che sono fuori di qualche cosa (della calma, dell’ordinario, della legge, delle regole). Quando l’estraneo è una vittima, entra in campo il linguaggio della compassione, della lacrima, dell’intenerimento temporaneo.

Che giornalismo vogliamo?
Lo «straniero» rappresentato dai giornali è afono, senza voce o (quando va bene) con una voce flebile. Non viene mai intervistato, ascoltato; non ha quasi mai diritto di parola o di scrittura, pur in presenza di un giornalismo che ricorre sempre più alla narrazione e alle dichiarazioni – messe fra virgolette – dei protagonisti dei fatti. Senza voce e senza diritto di parola, l’immigrazione sembra non avere neppure una cultura meritevole di essere narrata, se si escludono i casi considerati «curiosi» o le occasioni in cui pratiche diverse (ad esempio, la macellazione degli animali fatta da persone di religione musulmana) sono viste con sospetto o denunciate come fuori della norma.
Quanto sia importante comprendere a fondo – in un quadro pedagogico-interculturale – la produzione giornalistica italiana sull’immigrazione, è Luigi Secco a sottolinearlo. In un suo fondamentale testo sulla pedagogia interculturale, il pedagogista scrive: «La situazione interculturale, in cui si trovano soggetti di diversa provenienza, non può essere risolta dalla scuola da sola. La scuola è sempre un istituto entro la collettività. Lo scolaro passa a scuola un certo numero di ore della giornata; il resto del tempo lo passa in famiglia, nei club di vario genere, sulla strada, ecc. Entra allora urgente e cogente il tema della società educante nel senso più ampio del termine».
La trasformazione sociale della nostra società – con 3 milioni di cittadini stranieri che sono parte attiva del tessuto economico-produttivo ma anche della convivenza civile – richiede un giornalismo all’altezza; capace di leggere, interpretare e offrire ai lettori la «nuova Italia» multiculturale che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, nelle città più grandi e nei piccoli paesi di provincia. Un giornalismo che sia consapevole del proprio ruolo civile ed educativo.

Raccontare le diversità
oltre stereotipi e pregiudizi
Un cambio delle routines redazionali, una diversa organizzazione del lavoro giornalistico con il superamento del fenomeno della «deskizzazione» (lavoro giornalistico svolto stando alla scrivania, ndr), l’impiego di un nuovo linguaggio, la formazione e l’aggioamento dei giornalisti: sono queste alcune delle azioni da compiersi per arrivare ad una stampa «diversa» che sia in grado di raccontare la diversità e l’Italia multiculturale; per un giornalismo che sia «interculturale». Sono gli «uomini macchina» – i giornalisti che lavorano alla scrivania – ad avere una visione meno sensibile, più stereotipata dell’immigrazione.  La routine uccide la professionalità: il ricorso al «formato breve» della notizia, il lavoro al desk che costringe il giornalista a guardare il mondo con una specie di cannocchiale rovesciato che allontana gli eventi, il distacco dalla realtà aggravato dall’abuso di stereotipi linguistici, la perdita di spessore dell’identità giornalistica, portano ad una perdita di credibilità della professione. D’altra parte, il compito primario dei media è di restituire ai lettori una realtà che soddisfi la loro richiesta di comprensione dei fatti che accadono nel mondo e che formi la loro coscienza critica.
Il giornalismo interculturale raccoglie la sfida educativa e – anziché presentare il fenomeno immigrazione con toni negativi, caratterizzandolo come invasione, emergenza, minaccia – cerca di cogliere, di comprendere e di presentare le opportunità, i vantaggi, gli arricchimenti che derivano dalla situazione multiculturale.
Il giornalismo interculturale è quindi disponibilità alla ricerca e al cambiamento, per offrire a lettori assetati di conoscenza le basi per capire la nuova realtà e per interagire con essa. Esso punta all’approfondimento, alla ricerca, all’indagine, al dibattito civile, alla promozione culturale per offrire una rappresentazione del fenomeno immigrazione e dei suoi protagonisti libera da generalizzazioni, stereotipi, pregiudizi e che eviti così ogni forma di discriminazione. Il giornalista interculturale deve dare prova di preparazione professionale e di responsabilità civile, sviluppando attenzione e consapevolezza per il contesto multiculturale in cui si trova a lavorare; considerando la differenza come un bene da tutelare e mettendo in atto un’autentica comprensione di fenomeni, problemi, persone, popoli appartenenti a culture diverse dalla propria.
Si tratta di una professionalità consapevole e rispettosa della diversità etnica; di una professionalità che comprende sia competenze tecniche, sia conoscenze specifiche e inoltre una particolare impostazione mentale aperta al dialogo, al confronto, allo scambio. È così che i mass media possono indirizzare in modo positivo, costruttivo e creativo, opinioni e sentimenti dei lettori verso l’«Altro», il «diverso» e favorire un processo di conoscenza, integrazione e arricchimento reciproco fra persone portatrici di usi, costumi, lingue, tradizioni, religioni e valori differenti.
L’informazione è invece la risorsa basilare per assicurare a ciascuno una prima forma di inclusione sociale. Essa può essere considerata il primo elemento di cittadinanza. I mezzi di comunicazione di massa, grazie alla loro pervasiva presenza nella odiea società globalizzata e al loro ruolo di «scuola parallela», assumono un’importanza fondamentale nell’attuale contesto pluriculturale e multietnico, in quanto possono sia favorire l’inserimento dei cittadini immigrati, sia educare i cittadini autoctoni a dialogare e a comprendere le culture «altre». Ecco che il giornalismo interculturale si impegna a valorizzare la presenza immigrata come risorsa per la società di accoglienza, favorendo la conoscenza, l’accettazione reciproca, l’integrazione e lo scambio fra culture diverse: obiettivi raggiungibili se si seguono i principi fondanti e le indicazioni della Pedagogia interculturale, ben espressi dai testi del pedagogista Agostino Portera; se si acquisisce un nuovo atteggiamento  culturale basato sul rispetto, sull’accoglienza, sul dialogo. Non dobbiamo dimenticare, poi, che nei mass media aperti all’intercultura i cittadini di origine straniera possono trovare una forma positiva di rispecchiamento; una ragione in più per amare la nuova patria dove vivono, per sentirsene parte attiva e costruttiva.

Un nuovo giornalismo
per una società più giusta
Vi è, inoltre, un aspetto di «giustizia sociale» nell’azione del giornalismo interculturale. Come sottolinea Nobre Correia (in Problemi dell’informazione n. 4,  anno 2005), ci avviamo verso una società duale anche in campo mass-mediale: da una parte la grande maggioranza della popolazione che fruirà di mass media gratuiti, fornitori di emozione e intrattenimento senza informazione aggiornata e di spessore su quanto accade nel mondo; dall’altra parte un’élite in grado di pagare per avere un’informazione che foisca gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita e per conservare una posizione di privilegio nella società. Solo un giornalismo «diverso», che non si rassegni alla profezia della sua «morte annunciata», può lavorare per una società che non sia così ingiusta; e può affermare di non volersi arrendere alla discriminazione, allo sfruttamento, all’imbonimento ai danni di chi non ha potere economico e politico per alzare la voce e pretendere condizioni di vita e di comunicazione democratici ed eguali per tutti.
Visione critica del mestiere di giornalista (ma anche del mestiere di autore di fiction e prodotti multimediali), rigore professionale, uso riflessivo della tecnica giornalistica, rispetto dei codici deontologici e sensibilità umana: sono questi i pilastri del giornalismo interculturale. Su questo fronte si gioca la battaglia per avere professionisti dell’informazione – già in servizio o in procinto di entrarvi – capaci di cogliere le sfide di una società pluralistica, complessa, multiculturale e multireligiosa. In questo ambito si pone l’aver avviato, due anni fa,  all’Università degli studi di Verona – grazie al Centro studi interculturali (vedere riquadro) – un insegnamento di giornalismo interculturale che è una novità nel panorama della formazione universitaria. Perché la sfida è quella di avere giornalisti e comunicatori in grado di rispondere in modo adeguato alla sfida – affascinante e inquietante – che la società multietnica ci pone di fronte. 

Maurizio Corte*

(*) Maurizio Corte è professore a contratto all’Università degli studi di Verona, dove insegna comunicazione interculturale e giornalismo interculturale. Collabora da anni al Centro studi interculturali dell’ateneo veronese. Gioalista professionista, lavora al quotidiano L’Arena di Verona. Ha pubblicato «Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale» (Cedam, Padova 2002) e «Comunicazione e giornalismo interculturale. Pedagogia e ruolo dei mass media in una società pluralistica» (Cedam, Padova 2006).

ll’Università di Verona
Un altro giornalismo è possible

La ricerca sulla rappresentazione dell’immigrazione nei media – affidata a Maurizio Corte – è solo una delle attività svolte dal Centro studi interculturali (Csi) dell’Università degli Studi di Verona, diretto da Agostino Portera, direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione della Facoltà di scienze della formazione e professore ordinario di pedagogia e di pedagogia Interculturale. Il Csi, infatti, promuove e realizza supporti scientifici, culturali e strumenti metodologico-didattici nel campo dell’educazione e dell’istruzione in una società pluralistica e multiculturale. Fra i suoi obiettivi vi sono quelli dell’educazione, dell’istruzione, della consulenza, della ricerca e dell’alta formazione interculturale, in ambito scolastico e dell’extrascuola.
Il Csi collabora con enti, istituzioni, associazioni (pubbliche e private, nazionali e inteazionali), con singoli professionisti accreditati e con istituzioni universitarie italiane e straniere. Il direttore del Centro studi interculturali, Agostino Portera, è membro dell’esecutivo dell’Iaie (Intercultural association for intercultural education) ed è il direttore di due Master promossi e organizzati dal Csi: il Master, con formazione a distanza in «Comunicazione interculturale e gestione dei conflitti» e il Master Fse, con didattica in presenza, in «Comunicazione interculturale nelle organizzazioni e nelle relazioni inteazionali». Entrambi i Master sono proposti anche nell’anno accademico 2006-2007 e si inizieranno a primavera di quest’anno: le informazioni sono reperibili sul sito del Csi. Fra i membri del comitato scientifico dei Master tre studiosi di livello internazionale: Donata Gottardi, professore ordinario di diritto del lavoro, Nicola Sartor, professore ordinario di scienza delle finanze, e Luigi Secco, pedagogista e professore emerito di pedagogia.
«Miriamo allo studio e alla ricerca, nonché alla qualificazione dei percorsi scolastici ed extrascolastici, agli interventi educativi, di consulenza psicopedagogica, di formazione e di specializzazione professionale, così come delle politiche di intervento nel settore interculturale», spiega Portera. «In questo modo, il Csi si propone a livello locale, nazionale ed internazionale, come una struttura che svolge servizi ed attività rivolti a ricercatori e studiosi nel settore della pedagogia interculturale; a educatori ed operatori impegnati nel settore; agli insegnanti; ai giovani laureandi e ai laureati; a professionisti».
Ogni anno il Centro studi interculturali organizza convegni di livello internazionale. Sia l’attività convegnistica che quella di ricerca trovano poi espressione nella pubblicazione di testi scientifici a disposizione della comunità degli studiosi e introdotti nei corsi di pedagogia, di pedagogia interculturale, di comunicazione interculturale e di giornalismo interculturale proposti dall’Università degli studi di Verona. L’ateneo veronese è il primo in Italia ad avere un insegnamento pedagogico di giornalismo interculturale nell’ambito dei due Master organizzati dal Csi e del corso di laurea specialistica in giornalismo della Facoltà di lettere e filosofia.

Centro studi interculturali
Dipartimento di Scienze dell’educazione
Facoltà di Scienze della formazione
Università degli studi di Verona
via Vipacco 22
37129 Verona

Telefono / E-mail / Sito Web:
045.8028147 (dal martedì al giovedì, ore 9.30-13.00)
csi.intercultura@univr.it
http://fermi.univr.it/csint.

Testi di riferimento:
Maurizio Corte
Comunicazione e giornalismo interculturale. Pedagogia e ruolo dei mass media in una società pluralistica
Cedam, Padova 2006

Maurizio Corte
Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale
Cedam, Padova 2002

Agostino Portera
Globalizzazione e pedagogia interculturale
Edizioni Erickson, Trento 2006

L’annuale dossie della Caritas
Avanza l’Italia multietnica

Con 300.000 nuovi immigrati (regolari) all’anno  il nostro paese si sta trasformando. Anche se 4 italiani su 10 li considerano dei criminali.

Qual è la situazione «reale» dell’immigrazione in Italia? La grande stampa italiana – sempre puntuale nel denunciare reati e crimini commessi da persone di origine straniera – ne ha parlato poco e male quando, lo scorso ottobre, si è trattato di presentare i dati del Dossier Caritas-Migrantes sui migranti in Italia, giunto alla sedicesima edizione («Al di là dell’alternanza»). Eppure si tratta di numeri che interessano cittadini, educatori, operatori sociali, imprenditori e professionisti dell’informazione e della comunicazione. Infatti, senza cittadini immigrati la situazione economica e sociale italiana sarebbe destinata al disastro: fra 15 anni, i lavoratori italiani giovani (entro i 44 anni) saranno diminuiti di 4.500.000. E senza persone di origine straniera, nel 2050 l’Europa, vedrebbe diminuire di 7 milioni la popolazione nel suo complesso e di 52 milioni la parte di popolazione in età da lavoro. 
Con un ritmo di 300 mila nuovi ingressi regolari l’anno, rivela lo studio della Caritas, l’Italia è sempre più multietnica. Il nostro paese supera, in percentuale, gli ingressi di immigrati regolari negli Stati Uniti. Gli attuali 3.035.000 regolari (l’incidenza con la popolazione italiana è del 5,2%) – stimati a fine 2005 – sono destinati a diventare entro 10 anni il doppio, oltre 6 milioni (10%). È lo scenario che emerge dal Dossier 2006.

Quanti sono? – Nel nostro paese c’è un immigrato ogni 20 italiani. L’Italia, che a fine 2005 conta così tanti immigrati quanti più o meno sono gli emigrati nazionali all’estero (3.150.000) si colloca al terzo posto in Europa per numero di immigrati regolari, dopo la Germania (7.287.980) e la Spagna (3.371.394).
Ogni 10 stranieri, 5 sono europei, 2 africani, 2 asiatici e 1 americano. Dall’Europa, spiccano in primo luogo i cittadini albanesi e gli ucraini mentre dall’Africa, i cittadini marocchini.
Nel 2005 sono nati 52 mila bambini da genitori stranieri ed hanno inciso per il 9,4% sulle nuove nascite. Le donne straniere hanno una percentuale di divorzio superiore alle italiane: 2,5% contro l’1,7%. Il 50,1% dei migranti che vivono in Italia è uomo, il 49,9% è donna. Per il 70% (contro il 47,5% degli italiani) si concentrano nella fascia di età 15-44 anni.
La Lombardia conta la maggior presenza di persone di origine straniera: ospita quasi un quarto del numero complessivo di cittadini immigrati. Roma e Milano detengono, rispettivamente l’11,4% e il 10,9% della popolazione straniera. Al Nord si trova il 59,2% degli stranieri, al centro il 27% e nel meridione il 13,5%.
Un occupato ogni 10 è straniero. Ogni anno si inseriscono nel mondo del lavoro quasi 200 mila immigrati. Lo scorso anno sono stati 727.582 i nuovi assunti su complessivi 4.559.952. I settori maggiormente coinvolti: collaborazione familiare, servizi di pulizia, edilizia e agricoltura. Sono 130.969 i cittadini stranieri titolari d’azienda, con un aumento del 38%.

A quale religione appartengono? – Il 49,1% dei cittadini immigrati sono cristiani (circa un milione e mezzo), il 33,2% sono musulmani (circa un milione), il 4,4% è legato a religioni orientali. In 5 anni sono raddoppiati i minori di nazionalità straniera: sono 586 mila, pari ad 1/5 della popolazione straniera, un’incidenza superiore a quella degli italiani. Il 56% è nato in Italia.

Quanti delinquenti? – Quattro italiani su 10 pensano che i migranti siano criminali. Non è vero, dice il Dossier della Caritas. Dati del ministero dell’interno dicono che i denunciati per qualche reato coinvolgono gli immigrati solo nel 10% dei casi, la metà di quella degli italiani.
Otto cittadini immigrati su dieci dicono di aver migliorato la loro vita in Italia. Il 91% ha il cellulare, l’80% possiede il televisore, il 75% invia rimesse in patria, il 60% possiede un conto in banca, il 55% ha un’auto, il 22% un computer. Circa il 20% è proprietario della casa.
Nel 2005 l’efficacia degli allontanamenti dalle frontiere italiane è stata una delle «più basse degli ultimi anni». Le persone effettivamente rimpatriate sono state il 45,3% di quelle che hanno ottenuto il provvedimento di allontanamento, contro il 56,8% dell’anno precedente.

Maurizio Corte

Sfogliando s’impara

Dal quotidiano «Libero»:

«Dialogo a senso unico
Sui banchi di scuola si studia l’islam. Grazie alla Cattolica»

«Per promuovere il dialogo tra le culture, all’Università cattolica del Sacro Cuore si sono convinti che, nelle scuole italiane, non si debba più insegnare la lingua di Dante, ma l’arabo. Lo strano metodo pedagogico per facilitare l’integrazione degli exracomunitari è stato  ideato dal Laboratorio interculturale e promosso, oltre che dalla Cattolica, dall’Ufficio Scolastico Regionale e sostenuto finanziariamente con il contributo della Fondazione Cariplo. (…)
In Largo Gemelli, a due passi dalla Basilica di Sant’Ambrogio, in effetti, di sostanza ce n’è in abbondanza da suggerire di mutare il nome dell’istituzione in Ateneo islamico della Mezzaluna. In attesa che un mullah rimpiazzi il Magnifico Rettore».
Andrea Morigi
(Libero, martedì 21 novembre 2006, pag. 48)

Dal quotidiano «la Stampa»:

«Una coppia di tossici terrorizza una famiglia
I domestici romeni la liberano e bloccano i rapinatori»

«Ancora violenza. Stavolta in una brutale rapina consumatasi in una palazzina fra i prati di Pino Torinese. Autori una coppia di italiani che hanno colpito e immobilizzato una ragazzina di 15 anni, prima di essere bloccati dal generoso intervento dei custodi, una coppia di romeni. (…)
Carlotta s’è messa ad urlare e l’hanno sentita i custodi romeni, che vivono in un alloggio adiacente, Elena e Vasile Zaharia, 45 e 48 anni, entrambi originari di Bacau, sono subito intervenuti.  (…) Il malvivente ha fracassato alcune suppellettili e con la gamba di un tavolo ha colpito Vasile al collo e in faccia, poi ha sferrato un calcio alla moglie, Elena. La lotta è durata alcuni minuti: alla fine, la coppia romena è riuscita ad immobilizzare l’energumeno (…)».
Angelo Conti
(la Stampa, domenica 26 novembre 2006, pag. 65)

Maurizio Corte




Il dolore degli innocenti

Nel 50° anniversario della morte di don Carlo Gnocchi

«Sogno, dopo la guerra, di dedicarmi per sempre a un’opera di carità, quale che sia, o meglio, quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una cosa sola: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”». Così scriveva nel settembre 1942, il tenente cappellano degli alpini don Carlo Gnocchi. Sul fronte russo prende corpo la sua vocazione di «apostolo del dolore innocente»
e «padre dei mutilatini».

Chi lo ha conosciuto conserva nella memoria l’immagine di un asceta medievale: viso affilato, occhi luminosi, labbra atteggiate a un sorriso triste, ma colmo di espressiva bontà; sacerdote fino in fondo e mai un bigotto, a totale servizio dell’umanità sofferente. Talvolta fu considerato un «prete scomodo», perché in quei tempi, quando tutti miravano al benessere per dimenticare gli orrori della guerra, egli scopriva il senso della vita proprio nel dolore del prossimo.

ESPERIENZA BELLICA

Terzogenito di Enrico, marmista e Clementina Pasta, sarta, Carlo Gnocchi nacque il 25 ottobre 1902 a San Colombano al Lambro, presso Lodi. Orfano del padre a cinque anni, si trasferì a Milano con la madre e i due fratelli, che di lì a poco morirono di tubercolosi.
Seminarista alla scuola del card. Andrea Ferrari, fu ordinato sacerdote nel 1925 dal card. Tosi e celebrò la prima messa a Montesiro, dove  trascorse lunghi periodi di convalescenza in casa di una zia. Nominato coadiutore della parrocchia di Ceusco sul Naviglio, l’anno seguente fu trasferito nella parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano, come assistente dell’oratorio.
Nel 1936 il card. Schuster lo nominò direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane, assistente spirituale degli universitari della Seconda legione di Milano e insegnante religioso all’Istituto tecnico commerciale Schiapparelli. Furono anni di studi intensi, in cui scrisse brevi saggi di pedagogia.
Quando l’Italia entrò in guerra, nel 1940, molti studenti furono chiamati al fronte; per essere vicino ai suoi giovani anche nel pericolo, don Gnocchi si arruolò come cappellano volontario  nel battaglione alpino «Val Tagliamento», destinazione il fronte greco albanese.
Dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 il tenente cappellano fu inviato prima sul fronte russo con gli alpini della Tridentina. L’esperienza del conflitto, con tutti i suoi orrori, lo segnò profondamente, facendogli scoprire la sua vocazione, il suo «sogno» o «carriera» a difesa dei più deboli, come scriveva a un cugino nel settembre 1942.
Nel gennaio 1943, durante la drammatica ritirata del contingente italiano e la tragica esperienza vissuta nella sacca di Nikolajewka, don Carlo si prodigò nell’assistenza agli alpini feriti e morenti, raccogliendone le ultime parole, fotografie dei loro cari e indirizzi di casa, per poi visitare i familiari e portare loro un conforto morale e materiale.
Reduce dal fronte russo, don Gnocchi rimase colpito dal disagio in cui si trovavano tutti gli italiani, civili e militari. Il bilancio di guerra era impressionante: circa 15 mila bambini mutilati, dallo scoppio degli ordigni bellici. Attraverso contatti con la Croce Rossa, autorità militari, civili e religiose, li raccolse nell’Istituto dei grandi invalidi di Arosio (Como), di cui fu nominato direttore (1945).

IL PRIMO MUTILATINO

Una sera sull’imbrunire, mentre rientrava nella Casa di Arosio, trovò ad attenderlo una giovane donna, con in braccio un bambino di pochi anni, che gli disse tra le lacrime: «Non ho più nulla, sono sola al mondo. È da due giorni che non mangiamo. Don Carlo, lo prenda lei il mio Paolo, la scongiuro». Così dicendo, depose il bimbo a terra e si volse come per andarsene, singhiozzando.
Il bambino aveva la gamba destra amputata dall’esplosione di un ordigno bellico; non potendosi reggere, cominciò a trascinarsi penosamente, anch’egli piangendo e guardando la mamma. Don Carlo si inginocchiò accanto al piccolo e lo abbracciò fissandolo con tenerezza, senza dire una parola, fino a quando madre e figlio cessarono di piangere. Si alzò stringendo al petto il piccolo mutilato che finalmente rispose con un tenue sorriso alla carezza del sacerdote. Anche la povera madre sorrise di riconoscenza.
Quel bambino si chiamava Paolo Balducci; aveva otto anni; fu il primo mutilatino ricoverato tra gli orfani di Arosio. Per tutta la sera e parte della notte don Carlo non si allontanò da quel bambino che lo guardava e gli si stringeva come se avesse trovato un nuovo padre, tanto buono da racchiudere in sé anche la tenerezza della madre.
Cominciava così la «carriera» di don Carlo Gnocchi, dando vita a un’opera che lo portò a guadagnare sul campo il titolo di «padre dei mutilatini».

«PRO INFANZIA MUTILATA»

Occorreva, senza indugio, informare la pubblica opinione, coinvolgere le persone di ogni ceto e far vedere i tristi effetti di una guerra fratricida, dimostrare la necessità di riparare all’ingiusta sorte abbattutasi ciecamente sopra inermi e innocenti fanciulli.
Fiducioso in Dio e nella bontà degli uomini, don Gnocchi costituì associazioni di sostegno e non diede più pace a conoscenti e a quanti potevano contribuire alla raccolta di denaro, indumenti e materiale per i suoi mutilatini.
Ben presto la struttura di Arosio divenne insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti, le cui richieste di ammissione giungevano da tutta Italia. La Provvidenza gli venne incontro, nel 1947, con la concessione in affitto, per una cifra simbolica, di una grande casa a Cassano Magnago (Varese).
Tra le innumerevoli difficoltà organizzative e gestionali che tale iniziativa comportava, don Carlo provò anche l’amarezza del rifiuto, l’incomprensione e la critica importuna di qualche sedicente amico. Tuttavia, tali tribolazioni furono compensate dal riconoscimento delle autorità governative: i ministeri degli Intei e della Pubblica Istruzione gli assicurarono appoggio e fondi.
Per meglio cornordinare gli interventi assistenziali verso le piccole vittime della guerra, don Gnocchi fondò la «Federazione pro infanzia mutilata», giuridicamente riconosciuta dal presidente della repubblica Luigi Einaudi, con decreto del 26 marzo 1949. Lo stesso anno, il capo del Goveo, Alcide De Gasperi, promosse don Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio per i problemi dei mutilati di guerra.
Grazie alle sue insistenti richieste al governo e a donazioni spontanee, don Gnocchi ottenne l’assegnazione dei vari edifici pubblici e privati in cui aprì nuovi collegi: nel 1949 a Parma e Pessano (Milano); nel 1950 a Torino, Roma, Saleo e Inverigo (Como); nel 1951 a Pozzolatico (Firenze) e Passo dei Giovi (Genova).
I collegi di Pessano e Passo dei Giovi furono riservati alle ragazze mutilate; mentre quello di Inverigo ospitò anche bambini mulatti, nati in Italia da donne bianche e soldati alleati di colore. E poiché per questi «figli del sole» lo stato non riconosceva rette di ricovero (non avendo una figura giuridica dal punto di vista burocratico, per la loro situazione anagrafica spesso confusa), don Gnocchi lanciò il «madrinato dei mulattini»: le adesioni arrivarono da tutta l’Italia, con concreti risultati educativi, pedagogici e professionali.
Per attirare l’attenzione dell’Italia e del mondo intero sull’opera umanitaria da lui fondata, don Gnocchi lanciò una iniziativa clamorosa: la traversata dell’Atlantico di un piccolo aereo da turismo, battezzato «L’angelo dei bimbi». Il 19 gennaio 1949, dopo 15.800 chilometri e 76 ore di viaggio, il monomotore atterrò a Buenos Aires, tra il tripudio della gente. La risonanza dell’impresa fu tale che, dagli Usa al Sudafrica, tramite le nostre rappresentanze diplomatiche  vennero sottoscritte oblazioni tra i connazionali residenti all’estero: i 15 mila mutilatini potevano contare sull’affettuoso appoggio di tutti gli italiani nel mondo.
Lo stato assisteva allora, con una modesta retta giornaliera, solamente ragazzi le cui mutilazioni erano causate da incidenti bellici. Ma don Gnocchi, fin dall’inizio, accolse anche i mutilati civili e, quando aveva posto e mezzi, accettava anche i poliomielitici. «Lo stato dà in buona parte e naturalmente gli chiederemo di più – soleva dire -, ma non dobbiamo cessare di invitare la gente a offrire spontaneamente e a scomodare i ricchi affinché aiutino i nostri poveri bisognosi».
Il suo amore verso «il dolore innocente» non aveva confini: don Gnocchi riuscì a interessare i governanti dei vari stati, che inviarono loro esperti in Italia a visitare i collegi della Pro Juventute: nasceva così la «Federazione europea della giovinezza mutilata di guerra», costituita dalla presenza di 200 mila mutilatini che, per l’occasione, si riunirono a Roma ricevuti da papa Pio XII.
Durante le vacanze estive del 1953, il collegio di Santa Maria ai Colli di Torino ospitò gruppi di mutilatini provenienti dal Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra e Olanda. Don Carlo passava giornate intere a organizzare gare sportive, passeggiate, visite alla città e momenti di scambio culturale, creando un clima di frateità tra questi giovani, i cui genitori si erano trovati di fronte come nemici sui campi di battaglia.

«PRO JUVENTUTE»

Con l’aumentare di oblazioni e lasciti, si rendeva necessario una diversa organizzazione dell’opera per facilitare le pratiche inerenti al movimento burocratico e amministrativo. Inoltre, prevedendo che con il passare degli anni si sarebbe esaurito l’afflusso dei mutilatini, nel 1951 don Gnocchi sciolse la Federazione Pro Infanzia Mutilata e creò la Fondazione Pro Juventute, ente morale assistenziale, con personalità giuridica, riconosciuto con Decreto presidenziale l’11 febbraio 1952. In questo modo la sua opera poteva perpetuarsi, con l’assistenza ai bambini colpiti da altre disabilità motorie.
Di fatto, vinta ormai la battaglia per i piccoli mutilati di guerra, il complesso assistenziale della Pro Juventute si orientava verso il problema più pesante che affliggeva l’infanzia sofferente dell’Italia di quegli anni: la poliomielite. «La vocazione imperiosa dei poliomielitici è diventata ossessione – scriveva don Gnocchi -. Ho sentito che assolutamente, urgentemente, il Signore vuole questa opera; ebbi in taluni momenti l’impressione di un comando, di una pressione quasi fisica».

RIABILITAZIONE INTEGRALE

Fra tutti gli istituti fondati da don Gnocchi, quello di Parma divenne un centro-pilota, prima per la riabilitazione dei mutilatini, poi per i poliomielitici. Da qui passavano tutti gli aspiranti al ricovero nei vari collegi della Pro Juventute: qui i minori venivano esaminati dai medici, che ne giudicavano le condizioni e ne consigliavano il trattamento da effettuare. In caso di necessità di intervento operatorio essi venivano trattenuti, operati e foiti di presìdi ortopedici e destinati ai collegi di provenienza e indirizzati ai tipi di scuola o attività professionali più idonee.
Nei casi in cui si presentava la necessità di ripetuti interventi chirurgici e una continua assistenza protesico-sanitaria, gli assistiti venivano trattenuti nel collegio dello stesso centro, garantendo loro l’assistenza scolastica e professionale.
Dal momento che per molti dei ricoverati, gravemente colpiti da poliomielite, era impossibile recarsi alle scuole pubbliche, furono inserite all’interno dell’istituto alcune sezioni delle scuole statali (elementari, corsi di ragioneria, avviamento tecnico e commerciale), affidate ad insegnanti governativi di ruolo.
Anche negli altri centri, sotto la poderosa organizzazione professionale Pro Juventute sorgevano e si ingrandivano scuole, officine e laboratori da cui uscivano impiegati, meccanici, falegnami, tecnici ortopedici, radiotecnici, tipografi, tecnici agricoli, ceramisti, sarti e calzolai.
Il concetto di riabilitazione, infatti, era al centro del pensiero di don Carlo e dell’organizzazione dei collegi della Pro Juventute. «Se bisogna ricostruire – diceva – la prima e più importante di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità.
Bisogna rifare l’uomo. Senza questo è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una casa. Né basterà ridare all’uomo la elementare possibilità di pensare e di volere, senza la quale non c’è vita veramente umana, ma bisognerà restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del vivere, voglio dire quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare completamente il potenziale della propria ricchezza personale».
Il suo progetto di rieducazione integrale dell’individuo, in un percorso che armonizza prevenzione e riabilitazione, ponendo al centro del processo terapeutico la persona umana, con le sue potenzialità e  peculiarità, costituiva la novità esclusiva e la straordinaria modeità della Pro Juventute, tanto più se si considera che si collocava in anni in cui le discipline riabilitative stavano muovendo i loro primi e timidi passi.
Nel 1955 don Carlo lanciò la sua ultima grande sfida: costruire un moderno centro che costituisse la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del presidente Giovanni Gronchi, fu posata la prima pietra della nuova struttura, nei pressi dello stadio San Siro a Milano.

ULTIMO DONO… PROFETICO

Purtroppo don Carlo non riuscì a vedere la realizzazione di quell’opera. All’inizio del 1956 fu ricoverato alla clinica Columbus di Milano, dove si spense il 28 febbraio, all’età di 54 anni.
Nei momenti di ripresa, che si alternavano a crisi di agonia, don Carlo continuò a raccomandare ai suoi eredi di prendersi cura della sua «baracca»: così definiva la sua opera.
Poco prima di morire, don Carlo chiamò al suo capezzale il prof. Cesare Galeazzi, noto oculista e suo amico, e gli disse: «Forse mi restano poche ore. Sono povero: nel mio caso un testamento farebbe sorridere, ma mi restano gli occhi da donare. Tu devi promettermi che farai tutto il possibile perché le mie pupille rimangano in eredità a qualcuno dei miei mutilatini che non vedono».
Fu il suo ultimo gesto profetico, che sfidava la legge dello stato, che allora non consentiva simili interventi, e il magistero della chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla questione della donazione degli organi.
Tale richiesta provocò profonda angoscia nell’animo del prof. Galeazzi; ma ci pensò don Carlo a fugare ogni esitazione e il duplice trapianto delle coee su Silvio Colagrande e Amabile Battistello riuscì perfettamente. La generosità di don Gnocchi e il successo dell’operazione ebbero un enorme impatto sull’opinione pubblica e impressero un’accelerazione del dibattito: nel giro di poche settimane il governo varò una legge ad hoc.

L’ESTREMO SALUTO

L’estremo saluto di Milano a don Gnocchi si trasformò in un’apoteosi grandiosa per partecipazione e commozione: una moltitudine dei suoi mutilatini, venuti dagli 8 collegi della Pro Juventute, quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime; poi la commozione degli amici e conoscenti; 100 mila persone a gremire il Duomo e la piazza; l’intera città di Milano listata a lutto. Così il 1° marzo 1956 l’arcivescovo Montini, poi papa Paolo vi, celebrava i funerali di don Carlo.
Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: «Era un santo; è morto un santo». Durante il rito, fu portato al microfono un bambino. Disse: «Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo». Ci fu un’ovazione.
Nel 1986, 30 anni dopo la morte di don Gnocchi, il card. Carlo Maria Martini istituì il processo di beatificazione. La fase diocesana, avviata nel 1987, si è conclusa nel 1991. Ora è tutto in mano alla congregazione delle Cause dei Santi, a Roma. Il 20 dicembre 2002 il papa lo ha dichiarato venerabile.

DON CARLO VIVE

Oggi il carisma di don Gnocchi vive nei 28 centri attivi in 9 regioni d’Italia e in centinaia di poliambulatori e centri minori disseminati in tutta la penisola, dove si continua ad operare con estrema competenza nel recupero fisico e psicofisico di quanti vi accedono.
I rimedi sperimentali per lenire la sofferenza sono nel contempo causa ed effetto della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, inducendo una sorta di circuito virtuoso di azione e pensiero. Inoltre, la Fondazione don Gnocchi, diventata onlus dal 1998, ha dilatato le sue attività per rispondere a tutte le patologie invalidanti che colpiscono persone di ogni età, compresi anziani, malati oncologici terminali e persone in stato vegetativo persistente.
In questi ultimi anni la Fondazione, dal 2001 riconosciuta Organizzazione non governativa, ha assunto dimensioni inteazionali, partecipando a programmi di ricerca in collaborazione con organismi, e promuovendo progetti nei paesi in via di sviluppo. 

Eesto Bodini

Eesto Bodini




TRA SPAZI INFINITI

Visita dei nostri missionari in Corea ai confratelli e consorelle in Mongolia

Da quando i missionari della Consolata sono presenti in Mongolia (2003), i confratelli in Corea del Sud non si sentono più tanto sperduti nell’immenso Est Asiatico: hanno iniziato
a scambiarsi le visite per crescere nella frateità
e condividere le esperienze. Quest’anno è toccato
ai «coreani» fare visita ai confratelli della Mongolia. Padre Pacheco racconta le sue impressioni,
con qualche confronto con la realtà coreana.

Come missionari della Consolata siamo presenti in due paesi dell’Asia Orientale: in Corea del Sud dal 1988 e in Mongolia dal 2003. Essendo questo un continente immenso, per noi che lavoriamo in Corea l’Istituto è rimasto, per vari anni, una realtà geograficamente «lontana». Ora che siamo presenti anche in Mongolia, è naturale sentire i nostri confratelli e consorelle che vi lavorano come «vicini di casa».
Per rafforzare i vincoli familiari, da due anni abbiamo cominciato a fare insieme gli esercizi e le vacanze comunitarie. Dalla Mongolia sono già venuti a trovarci per due volte; ora che il loro gruppo è aumentato notevolmente, dalla Corea siamo andati in 7 per vivere insieme a loro alcuni giorni di ritiro spirituale; ma anche per conoscere la realtà della missione in Mongolia. È stata un’esperienza veramente favolosa, grazie anche alla fratea e impeccabile ospitalità di cui abbiamo goduto.
Ecco il diario del nostro viaggio.

9 agosto 2006

Partiamo dall’aeroporto di Incheon alle 8 di sera. Viaggia con noi padre Gianni Colzani, professore di Antropologia teologica e missiologia all’università Urbaniana di Roma, appositamente invitato per guidare gli esercizi spirituali.
Dopo tre ore di volo, arriviamo all’aeroporto internazionale «Chinggis Khaan», dove ci aspettano i padri Giorgio Marengo e Charles Gachingiri, più una giovane mongola, Maya, amica dei nostri «mongoli».
Arrivati a destinazione, nell’appartamento dei padri, troviamo due buonissime torte preparate dalle nostre sorelle. Dopo una bella chiacchierata, andiamo a riposare.

10 agosto

Prima visita alla città di Ulaanbaatar. Cominciamo dal monastero buddista di Gandan, uno dei pochi sopravvissuti alle distruzioni staliniste. Confrontiamo il buddismo mongolo col nostro coreano: quello mongolo è più di ispirazione tibetana tantrica, con molti elementi sciamanisti; la statua del Budda, nel tempio centrale, è alta 25 metri; rimaniamo stupiti nel sentire che alcuni monaci sono sposati e non vivono nel tempio.
Dopo un pranzo tipicamente mongolo (la carne non può mai mancare!), visitiamo il Museo di storia nazionale, poi la statua di Chenggis Khaan, nella piazza centrale della città, e il Parlamento.
La sera celebriamo la messa  a Niseh in una piccola cappella vicino all’aeroporto. Questa fa parte di una delle tre parrocchie della capitale, affidata a un sacerdote coreano, che ha chiesto ai nostri missionari di dargli una mano nelle attività pastorali in questo quartiere povero.
Per cena le nostre consorelle ci coccolano con una deliziosa pizza. A tarda sera arriva da Hong Kong padre Eesto Viscardi, superiore del gruppo in Mongolia, il quale aveva accompagnato un gruppo di giovani mongoli per partecipare all’incontro dei «giovani dell’Asia 2006».

11-16 agosto

Partenza per gli esercizi. Raggiungiamo un campo di gher, tipiche tende mongole. La sera siamo introdotti al tema del ritiro: la «Missione»; tema che nei giorni seguenti viene approfondito nei suoi vari aspetti biblici e teologici. Anche se il ritiro sembra quasi un corso di rinnovamento e aggioamento sulla missione, troviamo molti spunti spirituali per approfondire il nostro incontro con Dio e per riaffermare il nostro «sì» a Lui e alla missione.
In questo ci aiuta molto anche la contemplazione della meravigliosa natura circostante, tipica del paesaggio mongolo: grandi spazi vuoti di steppe erbose, animali in libertà (cavalli, pecore, mucche e i famosi yak), montagne, cielo azzurrissimo, tramonti dorati e notti stellate: tutte meraviglie che in Corea non siamo abituati a vedere.
Alla fine del ritiro, giochiamo una partita di calcio, Mongolia contro Corea: vince la Mongolia per 3 a 2; ci consoliamo con una cavalcata per la prateria circostante.

17 agosto

Ritorniamo nella capitale e visitiamo il vescovo filippino mons. Wenceslao Padilla, che ci accoglie molto familiarmente. Ci racconta la sua esperienza missionaria e quella della giovane chiesa mongola: 345 cattolici, più di 100 catecumeni, 3 parrocchie, 5 cappelle e tante attività di carattere sociale e caritativo.
Nella visita al Museo di storia naturale, possiamo ammirare molti scheletri di dinosauri, provenienti dal deserto del Gobi, dove tali fossili sono ancora abbondanti e a cielo aperto. La sera assistiamo a uno spettacolo di musica e danze tradizionali, che sono molto più «vivaci» delle danze coreane. Un’altra sorpresa: nel teatro incontriamo tre bergamaschi, arrivati in Mongolia con la Transiberiana.

18 agosto

Al mattino partiamo in direzione sudovest, per raggiungere Arvaikheer,  una località dove i nostri padri e suore, verso la fine di settembre, apriranno la loro missione. Purtroppo le nostre consorelle non possono prendere parte a questo viaggio.
Appena usciti dalla capitale, ci troviamo immersi nelle grandi steppe disabitate. Pochissimi i centri abitati; quelli usati dai soldati russi ora sono totalmente abbandonati. Qua e là una gher, cavalli,  pecore e capre a migliaia. Ci fermiamo a contemplare una zona dove l’aridità del clima ha creato una fascia di dune sabbiose.
Proseguiamo. La nostra prima tappa è la città di Kharkhorim (Kharakhorum), antica capitale dell’impero mongolo per circa 40 anni, poi abbandonata e quindi distrutta dai soldati mancesi.
Dell’antica capitale rimangono solo il grande complesso di muraglie e tre templi del monastero Erdene Zuu (cento tesori), la cui costruzione ebbe inizio nel 1586 e fu completata solo 300 anni più tardi. La storia racconta che anche questo monastero subì la stessa sorte della capitale: fu più volte saccheggiato, finché fu distrutto dagli stalinisti, uccidendo un numero imprecisato di monaci e risparmiando solo tre templi.
La sera ci fermiamo a dormire in un campo turistico di gher vicino l’antica capitale.

19 agosto

Al mattino, visita al monumento dedicato a Chenggis Khaan. Quindi ripartiamo per visitare un famoso tempio, che fu rifugio di Zana Bazar (1635-1723), il maggiore ed eminente artista religioso e uomo di cultura, che consolidò l’affermazione del buddismo tibetano in Mongolia diventandone il primo capo spirituale.
Il tempio è meta di frequenti pellegrinaggi, specialmente da parte degli anziani. Per raggiungerlo bisogna camminare; ma alcuni di noi, non ancora tanto anziani, preferiscono salirvi a cavallo.

20 agosto

Trascorsa la notte in un altro campo turistico di gher,  visitiamo la cascata di Orkhon, che si erge maestosa di fianco all’accampamento; quindi riprendiamo il viaggio sulla nostra 4×4. Per visitare la Mongolia occorre un fuoristrada, poiché le strade asfaltate sono poche e piene di buche e, se si vuole raggiungere certe località, bisogna viaggiare su piste, guadare fiumi e, soprattutto, affidarsi sempre a un’autista mongolo, che abbia uno spiccato senso dell’orientamento.
Per raggiungere la nostra destinazione finale, dobbiamo scalare una montagna, passare il valico e scendiamo verso una grande vallata. All’improvviso vediamo migliaia di persone: sono cercatori d’oro! Intere famiglie, uomini, donne e bambini scavano, trasportano e setacciano la terra in cerca di polvere d’oro. Alcuni sono lì da due anni. Le condizioni di vita e di lavoro sono veramente disumane. I locali li chiamano «ninja», perché vanno in giro con una bacinella di plastica sulla schiena e assomigliano alle popolari tartarughe dei cartoni animati.
La sera arriviamo, finalmente, alla città di Arvaikheer, capitale di regione con 22 mila abitanti. È in questa piccola città che i nostri confratelli e consorelle apriranno la nuova missione. La casa in affitto dove abiteranno è quasi pronta, ma non abbastanza per passarci la notte.

21 agosto

Visita alla città e al museo. Nel mercato, che fornisce tutta la regione, troviamo prodotti provenienti dalla Cina, Corea, Russia. Con grande sorpresa constatiamo che, addirittura, alcuni cantanti e attori coreani sono popolari in queste remote zone.
La nostra sarà in assoluto la prima presenza cattolica in questa regione. Auguriamo ai nostri confratelli tanta fortuna e fede nei piani di Dio.
Riprendiamo la strada verso Ulaanbaatar, facendo qualche sosta per pranzare e per sgranchirci le gambe. Dopo varie ore di viaggio, su piste e tratti di asfalto, raggiungiamo la capitale tutti impolverati.

22 agosto

Ultimo giorno in Mongolia. Stanchi del viaggio, decidiamo di prendercela con calma. Al mattino facciamo una visita a padre Kim, coreano e parroco della parrocchia in cui risiedono i nostri. La chiesa è ancora in costruzione, per cui la messa si celebra in un grande gher.
Facciamo poi qualche acquisto e nel tardo pomeriggio celebriamo la messa con i pochi fedeli e catecumeni della parrocchia. Restiamo meravigliati del fervore e attenzione con cui tutti i fedeli della giovane comunità partecipano alla liturgia e ai canti. Anche padre Giorgio ci stupisce per la scioltezza con cui maneggia la lingua mongola.
Arriva il momento di ripartire per la Corea: dalle fresche e secche notti mongole ci rituffiamo nel caldo umido dell’estate coreana.
Mentre ci salutiamo, pensiamo a come continuare in futuro questi incontri. Per ora ci rimane nella mente e nel cuore le cose che non ho raccontato: i gesti di simpatia, accoglienza fratea e tutte le altre belle cose che i nostri confratelli hanno fatto perché il viaggio fosse quello che è stato: sentire la Mongolia come parte di noi stessi! La Consolata è anche in Asia e ci vuole tanto bene. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Le mille frontiere senza vergogna

Posti di blocco ed estorsioni: una denuncia

Nel paese del cacao, un tempo il più ricco dell’Africa Occidentale, ma oggi spaccato in due dalla guerra civile scoppiata alla fine del 2002,
il taglieggio lungo le strade è diventato
una consuetudine, un mestiere redditizio.
E tutto questo arricchisce chi esercita il potere dell’uniforme lungo le vie di comunicazione. Sempre a scapito della povera gente.

«Da questo affare statevene fuori, lasciate fare a noi…» rassicura l’autorità ecclesiastica competente. Ma, da missionario cattolico, voglio fare una denuncia. Anche se non foisco informazioni in quantità, ci tengo a far capire la rabbia che, in molti, trangugiano in Costa d’Avorio. Soprattutto nel territorio sotto il controllo delle forze governative, in tutto il sud, da est a ovest.
Si dice che il paese è diviso in due dal 2002, dato che il nord è in mano agli avversari del controverso presidente Laurent Gbagbo, i cosiddetti ribelli. Ma non è affatto così. Ascolto e vedo che in Costa d’Avorio le divisioni sono centinaia. Le nuove frontiere, infatti, non si possono più contare.
Le strade principali del sud sono continuamente interrotte da posti di blocco dove pullulano uniformi di tutti i tipi: militari, gendarmi, agenti della dogana, polizia del traffico e municipale… e persino quelli che da noi sono le guardie forestali. Qui si chiamano «i corpi in uniforme». Ebbene, ognuno di questi gruppi si dà da fare per estorcere – ormai anche ad alta voce si dice rackettage – con qualsiasi scusa e con le brutte maniere il denaro della povera gente che lavora.

Il sistema dei posti di blocco era una prassi conosciuta, ma non era diventata una fonte di guadagno sfacciato. Con la guerra tra governativi e ribelli la faccenda ha cominciato a diventare seria. Ufficialmente i barrages (barriere) dovevano diventare un filtro necessario – argomento credibile – per bloccare il trasporto di armi, gli spostamenti di nemici o cose del genere. Con il tempo sono diventati un’attività di lucro illecito e vergognoso.
Può sembrare una barzelletta, ma i «corpi in uniforme» hanno cominciato il loro servizio spostandosi con i mezzi che avevano; poi ognuno ha iniziato a diventare autonomo, perché il rackettage rende. Ai diversi posti di blocco, con i frutti dell’indefesso «lavoro» ci si può comprare dapprima un motorino o una moto usata, poi una più grossa; dopo un po’ arriva la piccola automobile e infine si viaggia nella macchina di grossa cilindrata.
Inoltre, bisogna tener conto che da quello che si preleva alla gente c’è spesso anche la parte da scremare per i «capi» dei vari corpi. Il servizio al paese bisogna farlo bene e fino in… cima.
Un posto di blocco è un insieme più o meno ordinato di tronchi, vecchi pneumatici e sbarre di ferro chiodate e scorrevoli. Il tutto è sistemato in modo da essere ben visibile agli automezzi in arrivo. Ai lati dell’asfalto si possono notare tettornie sgangherate, con massicce sedie di legno, dove i «gradi maggiori» osservano e sonnecchiano, mentre gli inferiori ispezionano i veicoli, i passeggeri e le merci.
Più che a una ispezione, sembra di assistere a uno sciagurato gioco: si cerca di leggere nel volto dei malcapitati se hanno indosso denaro o altri beni, da scroccare senza pietà e in nome di nessuna legge o regola infranta. Ai «gradi maggiori» si ricorre per i casi più ostinati o «delicati».
Può darsi che, agli inizi, buona parte degli avoriani fosse, non dico entusiasta, ma almeno d’accordo con questo meticoloso sistema di sicurezza intea. In effetti, i destinatari di questa accurata struttura di controllo erano e rimangono anzitutto i lavoratori stranieri (beninesi, burkinabé, togolesi, liberiani, ghanesi, maliani, ecc.).
Perché? Perché molti arrivano in Costa d’Avorio senza visti (da loro, in fondo, si esige che lavorino sodo e in silenzio); altri non riusciranno mai a infrangere la barriera dell’inefficienza e della corruzione della burocrazia locale per aggioare i loro permessi di soggiorno; altri ancora, sentendosi vinti dalla loro stessa paura o ignoranza, resistono nell’umiliante anonimato, che la legge battezza col nome di clandestinità.
La demagogia del sistema non ha avuto difficoltà a «dimostrare» che i primi nemici del paese e alleati dei ribelli sono proprio loro, gli stranieri che faticano per gli avoriani.

Dunque, il denaro si estorce anzitutto agli stranieri. Certo non si toccano i grossi commercianti, i vip, i missionari delle diverse denominazioni cristiane o altre autorità religiose. Ma, dato che ce n’è di strada da fare per partire dal motorino e arrivare alla grossa auto, la lista delle possibili vittime si è allungata.
Anche «l’infrastruttura» di questo latrocinio permanente e istituzionalizzato si è estesa oltre ogni limite di sopportazione. E dire che «i corpi in uniforme» percepiscono un ottimo stipendio, come del resto tutti gli impiegati dello stato. Eppure…
La lista delle vittime si è allungata e le aree da depredare si sono allargate a macchia d’olio. Per esempio, se vai alla capitale o nelle principali città della zona costiera, ti verrà detto dai tassisti che non ne possono più di dover pagare, anche più volte al giorno, un «piccolo dazio» agli uomini in uniforme, che li bloccano senza altra ragione che quella di estorcere denaro.
Se vai verso l’interno, dove l’asfalto finisce e inizia la foresta con le sue piantagioni di cacao, palme da olio, caffè,  a qualsiasi ora e in qualunque giorno della settimana ti imbatti con uniformi di ogni specie, pronti alle loro arbitrarietà e vessazioni per arricchirsi.

Ti stai spostando con una bicicletta sgangherata su una strada sterrata dell’interno per rientrare a casa o per andare a lavorare nei campi? Se ti imbatti in un «controllo» dovrai sganciare 5 mila franchi Cfa di multa. (Un euro vale poco più di 655 franchi Cfa; la paga giornaliera di un lavoratore, bracciante, manovale, oscilla tra i mille e i due mila franchi).
Perché? Non fare domande o la bici è requisita e dovrai, alla fine, pagare quattro o cinque volte tanto per riscattarla. Sei uno straniero o un avoriano originario di un’altra zona? Se ti chiedono i documenti d’identità, rispondi che non li hai e te la caverai con una multa di 2 mila franchi. Non azzardarti a mostrarli: primo te li requisiscono, perché il tuo sbaglio è di non essere stato sorpreso in flagrante; secondo, anche se tutto è in regola, la multa sarà almeno raddoppiata.
È il tempo del raccolto in foresta e sei un piccolo trasportatore di cacao o di noci da olio? Anche se percorri la pista più recondita, ti beccano comunque, e devi pagare almeno 2 mila franchi al giorno. Perché? Perché la legge dei fuorilegge ha deciso che per una settimana o due sarà così: punto e basta!
Sei un commerciante di «mezzo calibro», che carica su un grosso camion i raccolti agricoli di una piccola fetta di foresta per trasportarli in città? Sappi che il tuo viaggio di nemmeno 100 km dovrà fruttare almeno 100 mila franchi ai difensori della legge.
Sei straniero e devi rientrare in patria per motivi familiari o per le vacanze? Sappi che sanno che hai guadagnato qualcosa e non ti molleranno se non dopo un buon salasso. Soluzione? Ti umilierai il più possibile a ogni posto di blocco fino alla capitale e inventerai storie pietose, così ti estorceranno qualcosa di meno.
E per i prossimi barrages, prima di arrivare alla frontiera? Niente paura. Affidati a un’impresa seria di viaggi inteazionali. Al prezzo del biglietto ti chiederanno di aggiungere un altro bel po’ di denaro in modo che tra tutti i passeggeri dello stesso bus si raggiunga la cifra di un milione, un milione e mezzo di franchi (1.500-2.000 euro). Ci penserà l’esperto autista a distribuire il malloppo a seconda del posto di blocco e per te finiranno umiliazioni,  perquisizioni, vessazioni.
Vivi in un villaggio sperduto e sei regolarmente «visitato» dalla sicurezza statale? Mettiti d’accordo con gli altri del posto e, alla scadenza che sai, fatti trovare preparato: un lauto pasto, un po’ di sacchi pieni di beni in natura (si sa, in città tutto costa più caro) e la somma di denaro necessaria per calmare lo zelo dei servitori dello stato. Tutto andrà bene e vi diranno con soddisfazione di non temere, ormai ci si conosce e si è amici, si è di casa. E così via…
Anche al nord, nel territorio controllato dai ribelli, ci sono posti di blocco, sulle strade principali e, mi dicono, si chiedono 100-200 franchi.

Il sistema funziona così e la spirale di prepotenza innescata cresce, nonostante le altisonanti e fumose campagne promosse dagli «alti gradi» per fare pulizia, eliminare corruzioni e soprusi.
Si è ormai instaurata quella macabra convivenza in cui, secondo gli psicologi, il boia acuisce e rende più crudele la propria violenza, mentre la vittima sceglie di arrendersi, di umiliarsi sempre di più, accettando supinamente nuove sofferenze. La situazione si è incancrenita e ognuno, alla fin fine, si sente nel ruolo che gli compete.
Potrei riportare altri piccoli flash o far notare che altri barrages sono sorti in altri settori cosiddetti pubblici; quelli riportati sono sufficienti per fare capire ciò che ho detto all’inizio: la frontiera in Costa d’Avorio non è segnata dagli aggettivi «governativo» o «antigovernativo».
Se l’inconcludente processo di riunificazione dovesse superare lo stagno chiamato censimento e disarmo (tutti coloro che hanno una coscienza sperano e pregano per la pace), si potranno superare le altre mille frontiere che nel frattempo si sono diffuse nel sud del paese? Chi sarà alla guida dello stato, potrà controllare i suoi fedeli guardiani, ormai abituati a ingrossare il loro non indifferente stipendio con scaltrezza e prepotenza? 

J.A.B.

J.A.B.




CUSTODI DEL CREATO

L’interesse per l’ambiente come parte dell’impegno cristiano quotidiano

Dalla celebrazione della prima «Giornata per la salvaguardia e la difesa del creato», istituita dalla Conferenza episcopale italiana, giungono segnali importanti di un rinnovato interesse del mondo cattolico ai temi della difesa dell’ambiente. Una materia che può essere affrontata efficacemente
se inserita nell’ambito più generale della giustizia
e della pace.

Il 1° settembre scorso, per iniziativa della Conferenza episcopale italiana (Cei), si è celebrata la prima «Giornata per la salvaguardia e difesa del creato». Il 27 ottobre è ricorso il 20° anniversario dello storico incontro interreligioso per la pace, convocato ad Assisi da Giovanni Paolo ii. Due eventi recenti e importanti che stimolano alcune riflessioni: quanto interesse reale suscitano nell’opinione pubblica e fra i credenti i temi della pace e della tutela dell’ambiente? E quali legami uniscono questi due temi fra di loro?
Stando al risalto che vi riservano i mezzi di comunicazione di massa, gli argomenti che coinvolgono maggiormente l’opinione pubblica sono: politica, economia, sicurezza, calcio e… «gossip». Altri temi salgono alla ribalta soltanto se strumentalizzabili ai fini di un’informazione spettacolarizzata ed emotiva. La promozione della pace e la tutela dell’ambiente rientrano in questa categoria. La prima si riduce a mera cronaca di tragiche vicende belliche (ma solo quelle che coinvolgono gli interessi geopolitici ed economici del mondo ricco) o di manifestazioni pacifiste, specialmente per stigmatizzae il carattere contraddittorio ogni qual volta queste assumano tratti tutt’altro che pacifici.
Della tutela dell’ambiente ci si occupa solo in caso di disastri naturali di grande portata, ma senza spiegare a sufficienza come e quanto essi siano conseguenze di scelte e attività umane.
Fortunatamente esistono anche minoranze di cittadini che, per specifica attività professionale o per sensibilità individuale, si dedicano con passione ai temi della difesa della pace e dell’ambiente. Questo fattore, di per sé positivo, potrebbe però indurre la collettività a intendere le due questioni esclusivamente rivolte agli «addetti ai lavori».
E che dire riguardo all’atteggiamento dei cattolici in merito a questo problema?
Nella quotidianità delle nostre parrocchie – oltre alla cura della propria vita spirituale, auspicabile e non derogabile presupposto di ogni cammino di fede – gli impegni più concreti sono rappresentati da catechesi, carità e accoglienza. Molto più sporadica è invece l’attenzione rivolta a un impegno costante e non estemporaneo sui temi ambientali e della convivenza pacifica.
Premesso che chi è credente sarebbe sempre tenuto a preoccuparsi anche per le sorti e le sofferenze degli altri popoli e nazioni che abitano la terra, è pur vero che la lontananza «fisica» da persone ed eventi contribuisce a creare anche una certa lontananza «spirituale».
Limitandoci alle problematiche ambientali, queste considerazioni sono da tempo all’attenzione della chiesa cattolica nei suoi vari livelli: di gerarchia, di singoli esponenti, di piccole comunità e associazionismo; e sono già stati molteplici gli interventi sull’argomento.
Sorprenderebbe fosse vero il contrario. La terra è oggi l’unico pianeta conosciuto sul quale vi sono condizioni favorevoli per la vita umana, ma non solo! Conoscenze e capacità tecnologiche attuali pongono in mano all’umanità la scelta di continuare a mantenere ospitale la propria «casa» o di ridurla ad un’arida distesa rocciosa, avvolta da gas velenosi. I termini della questione, dalla quale dipendono la qualità della vita delle generazioni presenti e la possibilità di sopravvivenza per quelle future, evidenziano che la tutela dell’ambiente naturale debba obbligatoriamente diventare un tema di ordine etico e antropologico di interesse generale.

L’istituzione formale di una giornata dedicata alla salvaguardia del creato è perciò molto significativa; così pure l’invio della «Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace» a «dare adeguato risalto alla “giornata” nella vita delle diocesi e delle comunità». È una presa di posizione di rilievo, perché qualifica l’impegno dei credenti sensibili a questi temi, dando la stessa dignità riservata a chi si dedica ad altri servizi.
Il titolo della giornata «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15), invita l’umanità ad assumere un atteggiamento ben diverso da quello dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e dell’incuria del creato. È, anzi, uno stimolo a farci co-responsabili della creazione, prendendolo in custodia e impegnandosi affinché i nostri sforzi nei confronti dell’ambiente si orientino verso il bene comune.
Ma in qual modo l’invito ad attivarsi nella collaborazione alla creazione divina si lega all’impegno per la pace? La risposta è suggerita dal messaggio di Giovanni Paolo ii per la «Giornata mondiale della Pace» del 1° gennaio 1990:  «Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato».
Nel  documento è riaffermata l’importanza della «questione ecologica», con le sue implicanze etiche e sociali; è evidenziata la necessità di un impegno dei cristiani a promuovere atteggiamenti più maturi e responsabili nel rapporto con il creato, collegando strettamente l’«ecologia dell’ambiente» a quella che lo stesso papa definiva «ecologia umana».
In tale messaggio viene spiegato lo stretto legame esistente tra difesa dell’ambiente, pace e giustizia, umana e divina. Papa Wojtyla avvertiva la crescente consapevolezza che la pace mondiale è minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, conflitti regionali e  ingiustizie planetarie, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Situazione che genera precarietà, insicurezza, egoismo collettivo, accaparramento e prevaricazione. Secondo il papa, non si può continuare a usare i beni della terra come nel passato, ma si deve lavorare per la maturazione di una coscienza ecologica che trovi adeguata espressione in programmi e iniziative concrete. Molti valori etici sono direttamente connessi con la questione ambientale e l’interdipendenza delle molte sfide del mondo odierno conferma l’esigenza di soluzioni cornordinate, basate su una coerente visione morale del mondo.
Per il cristiano questa visione poggia sulle convinzioni religiose attinte alla rivelazione. All’uomo e alla donna Dio affidò tutto il resto della creazione, poi poté riposare «da ogni suo lavoro» (Genesi 2, 3). Quando si discosta dal disegno di Dio creatore, l’uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace:  «Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno» (Osea 4, 3).
L’esperienza di tale «sofferenza» della terra è comune anche a coloro che non condividono la fede in Dio. Infatti, sono evidenti le crescenti devastazioni causate nel mondo della natura dal comportamento degli uomini indifferenti alle esigenze  dell’ordine e dell’armonia che lo reggono.
Che la crisi ecologica sia un problema morale lo rivela, in primo luogo, l’applicazione indiscriminata dei progressi scientifici e tecnologici. Si è già constatato che talune scoperte in ambito industriale e agricolo producono, a lungo termine, effetti negativi, evidenziando come ogni intervento in un’area dell’ecosistema si ripercuote in altre aree e sul benessere delle future generazioni.
Ma il segno più profondo e grave delle implicazioni morali insite nella questione ecologica è la mancanza di rispetto per la vita. La si avverte in molti comportamenti inquinanti: quando le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici precedono il bene delle singole persone, se non addirittura quello di intere popolazioni.
Infine destano profonda inquietudine le formidabili possibilità della ricerca biologica. In un settore così delicato, l’indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portano l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione. È il rispetto per la vita e la dignità della persona umana la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.
Nonostante la complessità del problema, vi sono alcuni principi basilari che possono indirizzare la ricerca verso idonee e durature soluzioni. Sono principi essenziali per costruire una società pacifica, in cui non è possibile ignorare il rispetto per la vita e l’integrità del creato.
Ma non si otterrà il giusto equilibrio ecologico, se non saranno affrontate direttamente le forme strutturali di povertà esistenti nel mondo e l’altra pericolosa minaccia che ci sovrasta: la guerra.
La scienza modea è già capace di modificare l’ambiente con intenti ostili; tale manomissione può avere nel tempo effetti imprevedibili e ancora più gravi. Nonostante accordi inteazionali lo proibiscano, nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi per la guerra chimica, batteriologica e biologica.
Ogni forma di guerra su scala mondiale causa di per se stessa incalcolabili danni ecologici; ma anche le guerre locali o regionali, oltre a distruggere vite umane e strutture delle società, danneggiano la vegetazione e avvelenano i terreni e le acque. I sopravvissuti alla guerra si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni naturali molto difficili, che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale.
Oggi, quindi, la questione ecologica ha assunto dimensioni tali da coinvolgere la responsabilità di tutti, cornordinando gli sforzi per stabilire doveri e impegni dei singoli e dell’intera comunità internazionale. Tutto questo, non solo si affianca ai tentativi di costruire la vera pace, ma li conferma e li rafforza.
Inserendo la questione ecologica nel più vasto contesto della ricerca della pace nella società umana, ci si rende meglio conto di quanto sia importante prestare attenzione a ciò che la terra e l’atmosfera ci rivelano: nell’universo esiste un ordine che deve essere rispettato; la persona umana, dotata della possibilità di libera scelta, ha una grave responsabilità per la conservazione di questo ordine, anche in vista del benessere delle generazioni future. La crisi ecologica è un problema morale.
Anche gli uomini e le donne senza particolari convinzioni religiose, per il senso delle proprie responsabilità nei confronti del bene comune, riconoscono il dovere di contribuire a risanare l’ambiente. A maggior ragione, coloro che credono in Dio creatore, e quindi sono convinti che nel mondo esiste un ordine ben definito e finalizzato, devono sentirsi chiamati a occuparsi del problema.
I cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del creatore sono parte della loro fede. 

Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi