Il dolore degli innocenti

Nel 50° anniversario della morte di don Carlo Gnocchi

«Sogno, dopo la guerra, di dedicarmi per sempre a un’opera di carità, quale che sia, o meglio, quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una cosa sola: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”». Così scriveva nel settembre 1942, il tenente cappellano degli alpini don Carlo Gnocchi. Sul fronte russo prende corpo la sua vocazione di «apostolo del dolore innocente»
e «padre dei mutilatini».

Chi lo ha conosciuto conserva nella memoria l’immagine di un asceta medievale: viso affilato, occhi luminosi, labbra atteggiate a un sorriso triste, ma colmo di espressiva bontà; sacerdote fino in fondo e mai un bigotto, a totale servizio dell’umanità sofferente. Talvolta fu considerato un «prete scomodo», perché in quei tempi, quando tutti miravano al benessere per dimenticare gli orrori della guerra, egli scopriva il senso della vita proprio nel dolore del prossimo.

ESPERIENZA BELLICA

Terzogenito di Enrico, marmista e Clementina Pasta, sarta, Carlo Gnocchi nacque il 25 ottobre 1902 a San Colombano al Lambro, presso Lodi. Orfano del padre a cinque anni, si trasferì a Milano con la madre e i due fratelli, che di lì a poco morirono di tubercolosi.
Seminarista alla scuola del card. Andrea Ferrari, fu ordinato sacerdote nel 1925 dal card. Tosi e celebrò la prima messa a Montesiro, dove  trascorse lunghi periodi di convalescenza in casa di una zia. Nominato coadiutore della parrocchia di Ceusco sul Naviglio, l’anno seguente fu trasferito nella parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano, come assistente dell’oratorio.
Nel 1936 il card. Schuster lo nominò direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane, assistente spirituale degli universitari della Seconda legione di Milano e insegnante religioso all’Istituto tecnico commerciale Schiapparelli. Furono anni di studi intensi, in cui scrisse brevi saggi di pedagogia.
Quando l’Italia entrò in guerra, nel 1940, molti studenti furono chiamati al fronte; per essere vicino ai suoi giovani anche nel pericolo, don Gnocchi si arruolò come cappellano volontario  nel battaglione alpino «Val Tagliamento», destinazione il fronte greco albanese.
Dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 il tenente cappellano fu inviato prima sul fronte russo con gli alpini della Tridentina. L’esperienza del conflitto, con tutti i suoi orrori, lo segnò profondamente, facendogli scoprire la sua vocazione, il suo «sogno» o «carriera» a difesa dei più deboli, come scriveva a un cugino nel settembre 1942.
Nel gennaio 1943, durante la drammatica ritirata del contingente italiano e la tragica esperienza vissuta nella sacca di Nikolajewka, don Carlo si prodigò nell’assistenza agli alpini feriti e morenti, raccogliendone le ultime parole, fotografie dei loro cari e indirizzi di casa, per poi visitare i familiari e portare loro un conforto morale e materiale.
Reduce dal fronte russo, don Gnocchi rimase colpito dal disagio in cui si trovavano tutti gli italiani, civili e militari. Il bilancio di guerra era impressionante: circa 15 mila bambini mutilati, dallo scoppio degli ordigni bellici. Attraverso contatti con la Croce Rossa, autorità militari, civili e religiose, li raccolse nell’Istituto dei grandi invalidi di Arosio (Como), di cui fu nominato direttore (1945).

IL PRIMO MUTILATINO

Una sera sull’imbrunire, mentre rientrava nella Casa di Arosio, trovò ad attenderlo una giovane donna, con in braccio un bambino di pochi anni, che gli disse tra le lacrime: «Non ho più nulla, sono sola al mondo. È da due giorni che non mangiamo. Don Carlo, lo prenda lei il mio Paolo, la scongiuro». Così dicendo, depose il bimbo a terra e si volse come per andarsene, singhiozzando.
Il bambino aveva la gamba destra amputata dall’esplosione di un ordigno bellico; non potendosi reggere, cominciò a trascinarsi penosamente, anch’egli piangendo e guardando la mamma. Don Carlo si inginocchiò accanto al piccolo e lo abbracciò fissandolo con tenerezza, senza dire una parola, fino a quando madre e figlio cessarono di piangere. Si alzò stringendo al petto il piccolo mutilato che finalmente rispose con un tenue sorriso alla carezza del sacerdote. Anche la povera madre sorrise di riconoscenza.
Quel bambino si chiamava Paolo Balducci; aveva otto anni; fu il primo mutilatino ricoverato tra gli orfani di Arosio. Per tutta la sera e parte della notte don Carlo non si allontanò da quel bambino che lo guardava e gli si stringeva come se avesse trovato un nuovo padre, tanto buono da racchiudere in sé anche la tenerezza della madre.
Cominciava così la «carriera» di don Carlo Gnocchi, dando vita a un’opera che lo portò a guadagnare sul campo il titolo di «padre dei mutilatini».

«PRO INFANZIA MUTILATA»

Occorreva, senza indugio, informare la pubblica opinione, coinvolgere le persone di ogni ceto e far vedere i tristi effetti di una guerra fratricida, dimostrare la necessità di riparare all’ingiusta sorte abbattutasi ciecamente sopra inermi e innocenti fanciulli.
Fiducioso in Dio e nella bontà degli uomini, don Gnocchi costituì associazioni di sostegno e non diede più pace a conoscenti e a quanti potevano contribuire alla raccolta di denaro, indumenti e materiale per i suoi mutilatini.
Ben presto la struttura di Arosio divenne insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti, le cui richieste di ammissione giungevano da tutta Italia. La Provvidenza gli venne incontro, nel 1947, con la concessione in affitto, per una cifra simbolica, di una grande casa a Cassano Magnago (Varese).
Tra le innumerevoli difficoltà organizzative e gestionali che tale iniziativa comportava, don Carlo provò anche l’amarezza del rifiuto, l’incomprensione e la critica importuna di qualche sedicente amico. Tuttavia, tali tribolazioni furono compensate dal riconoscimento delle autorità governative: i ministeri degli Intei e della Pubblica Istruzione gli assicurarono appoggio e fondi.
Per meglio cornordinare gli interventi assistenziali verso le piccole vittime della guerra, don Gnocchi fondò la «Federazione pro infanzia mutilata», giuridicamente riconosciuta dal presidente della repubblica Luigi Einaudi, con decreto del 26 marzo 1949. Lo stesso anno, il capo del Goveo, Alcide De Gasperi, promosse don Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio per i problemi dei mutilati di guerra.
Grazie alle sue insistenti richieste al governo e a donazioni spontanee, don Gnocchi ottenne l’assegnazione dei vari edifici pubblici e privati in cui aprì nuovi collegi: nel 1949 a Parma e Pessano (Milano); nel 1950 a Torino, Roma, Saleo e Inverigo (Como); nel 1951 a Pozzolatico (Firenze) e Passo dei Giovi (Genova).
I collegi di Pessano e Passo dei Giovi furono riservati alle ragazze mutilate; mentre quello di Inverigo ospitò anche bambini mulatti, nati in Italia da donne bianche e soldati alleati di colore. E poiché per questi «figli del sole» lo stato non riconosceva rette di ricovero (non avendo una figura giuridica dal punto di vista burocratico, per la loro situazione anagrafica spesso confusa), don Gnocchi lanciò il «madrinato dei mulattini»: le adesioni arrivarono da tutta l’Italia, con concreti risultati educativi, pedagogici e professionali.
Per attirare l’attenzione dell’Italia e del mondo intero sull’opera umanitaria da lui fondata, don Gnocchi lanciò una iniziativa clamorosa: la traversata dell’Atlantico di un piccolo aereo da turismo, battezzato «L’angelo dei bimbi». Il 19 gennaio 1949, dopo 15.800 chilometri e 76 ore di viaggio, il monomotore atterrò a Buenos Aires, tra il tripudio della gente. La risonanza dell’impresa fu tale che, dagli Usa al Sudafrica, tramite le nostre rappresentanze diplomatiche  vennero sottoscritte oblazioni tra i connazionali residenti all’estero: i 15 mila mutilatini potevano contare sull’affettuoso appoggio di tutti gli italiani nel mondo.
Lo stato assisteva allora, con una modesta retta giornaliera, solamente ragazzi le cui mutilazioni erano causate da incidenti bellici. Ma don Gnocchi, fin dall’inizio, accolse anche i mutilati civili e, quando aveva posto e mezzi, accettava anche i poliomielitici. «Lo stato dà in buona parte e naturalmente gli chiederemo di più – soleva dire -, ma non dobbiamo cessare di invitare la gente a offrire spontaneamente e a scomodare i ricchi affinché aiutino i nostri poveri bisognosi».
Il suo amore verso «il dolore innocente» non aveva confini: don Gnocchi riuscì a interessare i governanti dei vari stati, che inviarono loro esperti in Italia a visitare i collegi della Pro Juventute: nasceva così la «Federazione europea della giovinezza mutilata di guerra», costituita dalla presenza di 200 mila mutilatini che, per l’occasione, si riunirono a Roma ricevuti da papa Pio XII.
Durante le vacanze estive del 1953, il collegio di Santa Maria ai Colli di Torino ospitò gruppi di mutilatini provenienti dal Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra e Olanda. Don Carlo passava giornate intere a organizzare gare sportive, passeggiate, visite alla città e momenti di scambio culturale, creando un clima di frateità tra questi giovani, i cui genitori si erano trovati di fronte come nemici sui campi di battaglia.

«PRO JUVENTUTE»

Con l’aumentare di oblazioni e lasciti, si rendeva necessario una diversa organizzazione dell’opera per facilitare le pratiche inerenti al movimento burocratico e amministrativo. Inoltre, prevedendo che con il passare degli anni si sarebbe esaurito l’afflusso dei mutilatini, nel 1951 don Gnocchi sciolse la Federazione Pro Infanzia Mutilata e creò la Fondazione Pro Juventute, ente morale assistenziale, con personalità giuridica, riconosciuto con Decreto presidenziale l’11 febbraio 1952. In questo modo la sua opera poteva perpetuarsi, con l’assistenza ai bambini colpiti da altre disabilità motorie.
Di fatto, vinta ormai la battaglia per i piccoli mutilati di guerra, il complesso assistenziale della Pro Juventute si orientava verso il problema più pesante che affliggeva l’infanzia sofferente dell’Italia di quegli anni: la poliomielite. «La vocazione imperiosa dei poliomielitici è diventata ossessione – scriveva don Gnocchi -. Ho sentito che assolutamente, urgentemente, il Signore vuole questa opera; ebbi in taluni momenti l’impressione di un comando, di una pressione quasi fisica».

RIABILITAZIONE INTEGRALE

Fra tutti gli istituti fondati da don Gnocchi, quello di Parma divenne un centro-pilota, prima per la riabilitazione dei mutilatini, poi per i poliomielitici. Da qui passavano tutti gli aspiranti al ricovero nei vari collegi della Pro Juventute: qui i minori venivano esaminati dai medici, che ne giudicavano le condizioni e ne consigliavano il trattamento da effettuare. In caso di necessità di intervento operatorio essi venivano trattenuti, operati e foiti di presìdi ortopedici e destinati ai collegi di provenienza e indirizzati ai tipi di scuola o attività professionali più idonee.
Nei casi in cui si presentava la necessità di ripetuti interventi chirurgici e una continua assistenza protesico-sanitaria, gli assistiti venivano trattenuti nel collegio dello stesso centro, garantendo loro l’assistenza scolastica e professionale.
Dal momento che per molti dei ricoverati, gravemente colpiti da poliomielite, era impossibile recarsi alle scuole pubbliche, furono inserite all’interno dell’istituto alcune sezioni delle scuole statali (elementari, corsi di ragioneria, avviamento tecnico e commerciale), affidate ad insegnanti governativi di ruolo.
Anche negli altri centri, sotto la poderosa organizzazione professionale Pro Juventute sorgevano e si ingrandivano scuole, officine e laboratori da cui uscivano impiegati, meccanici, falegnami, tecnici ortopedici, radiotecnici, tipografi, tecnici agricoli, ceramisti, sarti e calzolai.
Il concetto di riabilitazione, infatti, era al centro del pensiero di don Carlo e dell’organizzazione dei collegi della Pro Juventute. «Se bisogna ricostruire – diceva – la prima e più importante di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità.
Bisogna rifare l’uomo. Senza questo è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una casa. Né basterà ridare all’uomo la elementare possibilità di pensare e di volere, senza la quale non c’è vita veramente umana, ma bisognerà restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del vivere, voglio dire quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare completamente il potenziale della propria ricchezza personale».
Il suo progetto di rieducazione integrale dell’individuo, in un percorso che armonizza prevenzione e riabilitazione, ponendo al centro del processo terapeutico la persona umana, con le sue potenzialità e  peculiarità, costituiva la novità esclusiva e la straordinaria modeità della Pro Juventute, tanto più se si considera che si collocava in anni in cui le discipline riabilitative stavano muovendo i loro primi e timidi passi.
Nel 1955 don Carlo lanciò la sua ultima grande sfida: costruire un moderno centro che costituisse la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del presidente Giovanni Gronchi, fu posata la prima pietra della nuova struttura, nei pressi dello stadio San Siro a Milano.

ULTIMO DONO… PROFETICO

Purtroppo don Carlo non riuscì a vedere la realizzazione di quell’opera. All’inizio del 1956 fu ricoverato alla clinica Columbus di Milano, dove si spense il 28 febbraio, all’età di 54 anni.
Nei momenti di ripresa, che si alternavano a crisi di agonia, don Carlo continuò a raccomandare ai suoi eredi di prendersi cura della sua «baracca»: così definiva la sua opera.
Poco prima di morire, don Carlo chiamò al suo capezzale il prof. Cesare Galeazzi, noto oculista e suo amico, e gli disse: «Forse mi restano poche ore. Sono povero: nel mio caso un testamento farebbe sorridere, ma mi restano gli occhi da donare. Tu devi promettermi che farai tutto il possibile perché le mie pupille rimangano in eredità a qualcuno dei miei mutilatini che non vedono».
Fu il suo ultimo gesto profetico, che sfidava la legge dello stato, che allora non consentiva simili interventi, e il magistero della chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla questione della donazione degli organi.
Tale richiesta provocò profonda angoscia nell’animo del prof. Galeazzi; ma ci pensò don Carlo a fugare ogni esitazione e il duplice trapianto delle coee su Silvio Colagrande e Amabile Battistello riuscì perfettamente. La generosità di don Gnocchi e il successo dell’operazione ebbero un enorme impatto sull’opinione pubblica e impressero un’accelerazione del dibattito: nel giro di poche settimane il governo varò una legge ad hoc.

L’ESTREMO SALUTO

L’estremo saluto di Milano a don Gnocchi si trasformò in un’apoteosi grandiosa per partecipazione e commozione: una moltitudine dei suoi mutilatini, venuti dagli 8 collegi della Pro Juventute, quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime; poi la commozione degli amici e conoscenti; 100 mila persone a gremire il Duomo e la piazza; l’intera città di Milano listata a lutto. Così il 1° marzo 1956 l’arcivescovo Montini, poi papa Paolo vi, celebrava i funerali di don Carlo.
Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: «Era un santo; è morto un santo». Durante il rito, fu portato al microfono un bambino. Disse: «Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo». Ci fu un’ovazione.
Nel 1986, 30 anni dopo la morte di don Gnocchi, il card. Carlo Maria Martini istituì il processo di beatificazione. La fase diocesana, avviata nel 1987, si è conclusa nel 1991. Ora è tutto in mano alla congregazione delle Cause dei Santi, a Roma. Il 20 dicembre 2002 il papa lo ha dichiarato venerabile.

DON CARLO VIVE

Oggi il carisma di don Gnocchi vive nei 28 centri attivi in 9 regioni d’Italia e in centinaia di poliambulatori e centri minori disseminati in tutta la penisola, dove si continua ad operare con estrema competenza nel recupero fisico e psicofisico di quanti vi accedono.
I rimedi sperimentali per lenire la sofferenza sono nel contempo causa ed effetto della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, inducendo una sorta di circuito virtuoso di azione e pensiero. Inoltre, la Fondazione don Gnocchi, diventata onlus dal 1998, ha dilatato le sue attività per rispondere a tutte le patologie invalidanti che colpiscono persone di ogni età, compresi anziani, malati oncologici terminali e persone in stato vegetativo persistente.
In questi ultimi anni la Fondazione, dal 2001 riconosciuta Organizzazione non governativa, ha assunto dimensioni inteazionali, partecipando a programmi di ricerca in collaborazione con organismi, e promuovendo progetti nei paesi in via di sviluppo. 

Eesto Bodini

Eesto Bodini




TRA SPAZI INFINITI

Visita dei nostri missionari in Corea ai confratelli e consorelle in Mongolia

Da quando i missionari della Consolata sono presenti in Mongolia (2003), i confratelli in Corea del Sud non si sentono più tanto sperduti nell’immenso Est Asiatico: hanno iniziato
a scambiarsi le visite per crescere nella frateità
e condividere le esperienze. Quest’anno è toccato
ai «coreani» fare visita ai confratelli della Mongolia. Padre Pacheco racconta le sue impressioni,
con qualche confronto con la realtà coreana.

Come missionari della Consolata siamo presenti in due paesi dell’Asia Orientale: in Corea del Sud dal 1988 e in Mongolia dal 2003. Essendo questo un continente immenso, per noi che lavoriamo in Corea l’Istituto è rimasto, per vari anni, una realtà geograficamente «lontana». Ora che siamo presenti anche in Mongolia, è naturale sentire i nostri confratelli e consorelle che vi lavorano come «vicini di casa».
Per rafforzare i vincoli familiari, da due anni abbiamo cominciato a fare insieme gli esercizi e le vacanze comunitarie. Dalla Mongolia sono già venuti a trovarci per due volte; ora che il loro gruppo è aumentato notevolmente, dalla Corea siamo andati in 7 per vivere insieme a loro alcuni giorni di ritiro spirituale; ma anche per conoscere la realtà della missione in Mongolia. È stata un’esperienza veramente favolosa, grazie anche alla fratea e impeccabile ospitalità di cui abbiamo goduto.
Ecco il diario del nostro viaggio.

9 agosto 2006

Partiamo dall’aeroporto di Incheon alle 8 di sera. Viaggia con noi padre Gianni Colzani, professore di Antropologia teologica e missiologia all’università Urbaniana di Roma, appositamente invitato per guidare gli esercizi spirituali.
Dopo tre ore di volo, arriviamo all’aeroporto internazionale «Chinggis Khaan», dove ci aspettano i padri Giorgio Marengo e Charles Gachingiri, più una giovane mongola, Maya, amica dei nostri «mongoli».
Arrivati a destinazione, nell’appartamento dei padri, troviamo due buonissime torte preparate dalle nostre sorelle. Dopo una bella chiacchierata, andiamo a riposare.

10 agosto

Prima visita alla città di Ulaanbaatar. Cominciamo dal monastero buddista di Gandan, uno dei pochi sopravvissuti alle distruzioni staliniste. Confrontiamo il buddismo mongolo col nostro coreano: quello mongolo è più di ispirazione tibetana tantrica, con molti elementi sciamanisti; la statua del Budda, nel tempio centrale, è alta 25 metri; rimaniamo stupiti nel sentire che alcuni monaci sono sposati e non vivono nel tempio.
Dopo un pranzo tipicamente mongolo (la carne non può mai mancare!), visitiamo il Museo di storia nazionale, poi la statua di Chenggis Khaan, nella piazza centrale della città, e il Parlamento.
La sera celebriamo la messa  a Niseh in una piccola cappella vicino all’aeroporto. Questa fa parte di una delle tre parrocchie della capitale, affidata a un sacerdote coreano, che ha chiesto ai nostri missionari di dargli una mano nelle attività pastorali in questo quartiere povero.
Per cena le nostre consorelle ci coccolano con una deliziosa pizza. A tarda sera arriva da Hong Kong padre Eesto Viscardi, superiore del gruppo in Mongolia, il quale aveva accompagnato un gruppo di giovani mongoli per partecipare all’incontro dei «giovani dell’Asia 2006».

11-16 agosto

Partenza per gli esercizi. Raggiungiamo un campo di gher, tipiche tende mongole. La sera siamo introdotti al tema del ritiro: la «Missione»; tema che nei giorni seguenti viene approfondito nei suoi vari aspetti biblici e teologici. Anche se il ritiro sembra quasi un corso di rinnovamento e aggioamento sulla missione, troviamo molti spunti spirituali per approfondire il nostro incontro con Dio e per riaffermare il nostro «sì» a Lui e alla missione.
In questo ci aiuta molto anche la contemplazione della meravigliosa natura circostante, tipica del paesaggio mongolo: grandi spazi vuoti di steppe erbose, animali in libertà (cavalli, pecore, mucche e i famosi yak), montagne, cielo azzurrissimo, tramonti dorati e notti stellate: tutte meraviglie che in Corea non siamo abituati a vedere.
Alla fine del ritiro, giochiamo una partita di calcio, Mongolia contro Corea: vince la Mongolia per 3 a 2; ci consoliamo con una cavalcata per la prateria circostante.

17 agosto

Ritorniamo nella capitale e visitiamo il vescovo filippino mons. Wenceslao Padilla, che ci accoglie molto familiarmente. Ci racconta la sua esperienza missionaria e quella della giovane chiesa mongola: 345 cattolici, più di 100 catecumeni, 3 parrocchie, 5 cappelle e tante attività di carattere sociale e caritativo.
Nella visita al Museo di storia naturale, possiamo ammirare molti scheletri di dinosauri, provenienti dal deserto del Gobi, dove tali fossili sono ancora abbondanti e a cielo aperto. La sera assistiamo a uno spettacolo di musica e danze tradizionali, che sono molto più «vivaci» delle danze coreane. Un’altra sorpresa: nel teatro incontriamo tre bergamaschi, arrivati in Mongolia con la Transiberiana.

18 agosto

Al mattino partiamo in direzione sudovest, per raggiungere Arvaikheer,  una località dove i nostri padri e suore, verso la fine di settembre, apriranno la loro missione. Purtroppo le nostre consorelle non possono prendere parte a questo viaggio.
Appena usciti dalla capitale, ci troviamo immersi nelle grandi steppe disabitate. Pochissimi i centri abitati; quelli usati dai soldati russi ora sono totalmente abbandonati. Qua e là una gher, cavalli,  pecore e capre a migliaia. Ci fermiamo a contemplare una zona dove l’aridità del clima ha creato una fascia di dune sabbiose.
Proseguiamo. La nostra prima tappa è la città di Kharkhorim (Kharakhorum), antica capitale dell’impero mongolo per circa 40 anni, poi abbandonata e quindi distrutta dai soldati mancesi.
Dell’antica capitale rimangono solo il grande complesso di muraglie e tre templi del monastero Erdene Zuu (cento tesori), la cui costruzione ebbe inizio nel 1586 e fu completata solo 300 anni più tardi. La storia racconta che anche questo monastero subì la stessa sorte della capitale: fu più volte saccheggiato, finché fu distrutto dagli stalinisti, uccidendo un numero imprecisato di monaci e risparmiando solo tre templi.
La sera ci fermiamo a dormire in un campo turistico di gher vicino l’antica capitale.

19 agosto

Al mattino, visita al monumento dedicato a Chenggis Khaan. Quindi ripartiamo per visitare un famoso tempio, che fu rifugio di Zana Bazar (1635-1723), il maggiore ed eminente artista religioso e uomo di cultura, che consolidò l’affermazione del buddismo tibetano in Mongolia diventandone il primo capo spirituale.
Il tempio è meta di frequenti pellegrinaggi, specialmente da parte degli anziani. Per raggiungerlo bisogna camminare; ma alcuni di noi, non ancora tanto anziani, preferiscono salirvi a cavallo.

20 agosto

Trascorsa la notte in un altro campo turistico di gher,  visitiamo la cascata di Orkhon, che si erge maestosa di fianco all’accampamento; quindi riprendiamo il viaggio sulla nostra 4×4. Per visitare la Mongolia occorre un fuoristrada, poiché le strade asfaltate sono poche e piene di buche e, se si vuole raggiungere certe località, bisogna viaggiare su piste, guadare fiumi e, soprattutto, affidarsi sempre a un’autista mongolo, che abbia uno spiccato senso dell’orientamento.
Per raggiungere la nostra destinazione finale, dobbiamo scalare una montagna, passare il valico e scendiamo verso una grande vallata. All’improvviso vediamo migliaia di persone: sono cercatori d’oro! Intere famiglie, uomini, donne e bambini scavano, trasportano e setacciano la terra in cerca di polvere d’oro. Alcuni sono lì da due anni. Le condizioni di vita e di lavoro sono veramente disumane. I locali li chiamano «ninja», perché vanno in giro con una bacinella di plastica sulla schiena e assomigliano alle popolari tartarughe dei cartoni animati.
La sera arriviamo, finalmente, alla città di Arvaikheer, capitale di regione con 22 mila abitanti. È in questa piccola città che i nostri confratelli e consorelle apriranno la nuova missione. La casa in affitto dove abiteranno è quasi pronta, ma non abbastanza per passarci la notte.

21 agosto

Visita alla città e al museo. Nel mercato, che fornisce tutta la regione, troviamo prodotti provenienti dalla Cina, Corea, Russia. Con grande sorpresa constatiamo che, addirittura, alcuni cantanti e attori coreani sono popolari in queste remote zone.
La nostra sarà in assoluto la prima presenza cattolica in questa regione. Auguriamo ai nostri confratelli tanta fortuna e fede nei piani di Dio.
Riprendiamo la strada verso Ulaanbaatar, facendo qualche sosta per pranzare e per sgranchirci le gambe. Dopo varie ore di viaggio, su piste e tratti di asfalto, raggiungiamo la capitale tutti impolverati.

22 agosto

Ultimo giorno in Mongolia. Stanchi del viaggio, decidiamo di prendercela con calma. Al mattino facciamo una visita a padre Kim, coreano e parroco della parrocchia in cui risiedono i nostri. La chiesa è ancora in costruzione, per cui la messa si celebra in un grande gher.
Facciamo poi qualche acquisto e nel tardo pomeriggio celebriamo la messa con i pochi fedeli e catecumeni della parrocchia. Restiamo meravigliati del fervore e attenzione con cui tutti i fedeli della giovane comunità partecipano alla liturgia e ai canti. Anche padre Giorgio ci stupisce per la scioltezza con cui maneggia la lingua mongola.
Arriva il momento di ripartire per la Corea: dalle fresche e secche notti mongole ci rituffiamo nel caldo umido dell’estate coreana.
Mentre ci salutiamo, pensiamo a come continuare in futuro questi incontri. Per ora ci rimane nella mente e nel cuore le cose che non ho raccontato: i gesti di simpatia, accoglienza fratea e tutte le altre belle cose che i nostri confratelli hanno fatto perché il viaggio fosse quello che è stato: sentire la Mongolia come parte di noi stessi! La Consolata è anche in Asia e ci vuole tanto bene. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Le mille frontiere senza vergogna

Posti di blocco ed estorsioni: una denuncia

Nel paese del cacao, un tempo il più ricco dell’Africa Occidentale, ma oggi spaccato in due dalla guerra civile scoppiata alla fine del 2002,
il taglieggio lungo le strade è diventato
una consuetudine, un mestiere redditizio.
E tutto questo arricchisce chi esercita il potere dell’uniforme lungo le vie di comunicazione. Sempre a scapito della povera gente.

«Da questo affare statevene fuori, lasciate fare a noi…» rassicura l’autorità ecclesiastica competente. Ma, da missionario cattolico, voglio fare una denuncia. Anche se non foisco informazioni in quantità, ci tengo a far capire la rabbia che, in molti, trangugiano in Costa d’Avorio. Soprattutto nel territorio sotto il controllo delle forze governative, in tutto il sud, da est a ovest.
Si dice che il paese è diviso in due dal 2002, dato che il nord è in mano agli avversari del controverso presidente Laurent Gbagbo, i cosiddetti ribelli. Ma non è affatto così. Ascolto e vedo che in Costa d’Avorio le divisioni sono centinaia. Le nuove frontiere, infatti, non si possono più contare.
Le strade principali del sud sono continuamente interrotte da posti di blocco dove pullulano uniformi di tutti i tipi: militari, gendarmi, agenti della dogana, polizia del traffico e municipale… e persino quelli che da noi sono le guardie forestali. Qui si chiamano «i corpi in uniforme». Ebbene, ognuno di questi gruppi si dà da fare per estorcere – ormai anche ad alta voce si dice rackettage – con qualsiasi scusa e con le brutte maniere il denaro della povera gente che lavora.

Il sistema dei posti di blocco era una prassi conosciuta, ma non era diventata una fonte di guadagno sfacciato. Con la guerra tra governativi e ribelli la faccenda ha cominciato a diventare seria. Ufficialmente i barrages (barriere) dovevano diventare un filtro necessario – argomento credibile – per bloccare il trasporto di armi, gli spostamenti di nemici o cose del genere. Con il tempo sono diventati un’attività di lucro illecito e vergognoso.
Può sembrare una barzelletta, ma i «corpi in uniforme» hanno cominciato il loro servizio spostandosi con i mezzi che avevano; poi ognuno ha iniziato a diventare autonomo, perché il rackettage rende. Ai diversi posti di blocco, con i frutti dell’indefesso «lavoro» ci si può comprare dapprima un motorino o una moto usata, poi una più grossa; dopo un po’ arriva la piccola automobile e infine si viaggia nella macchina di grossa cilindrata.
Inoltre, bisogna tener conto che da quello che si preleva alla gente c’è spesso anche la parte da scremare per i «capi» dei vari corpi. Il servizio al paese bisogna farlo bene e fino in… cima.
Un posto di blocco è un insieme più o meno ordinato di tronchi, vecchi pneumatici e sbarre di ferro chiodate e scorrevoli. Il tutto è sistemato in modo da essere ben visibile agli automezzi in arrivo. Ai lati dell’asfalto si possono notare tettornie sgangherate, con massicce sedie di legno, dove i «gradi maggiori» osservano e sonnecchiano, mentre gli inferiori ispezionano i veicoli, i passeggeri e le merci.
Più che a una ispezione, sembra di assistere a uno sciagurato gioco: si cerca di leggere nel volto dei malcapitati se hanno indosso denaro o altri beni, da scroccare senza pietà e in nome di nessuna legge o regola infranta. Ai «gradi maggiori» si ricorre per i casi più ostinati o «delicati».
Può darsi che, agli inizi, buona parte degli avoriani fosse, non dico entusiasta, ma almeno d’accordo con questo meticoloso sistema di sicurezza intea. In effetti, i destinatari di questa accurata struttura di controllo erano e rimangono anzitutto i lavoratori stranieri (beninesi, burkinabé, togolesi, liberiani, ghanesi, maliani, ecc.).
Perché? Perché molti arrivano in Costa d’Avorio senza visti (da loro, in fondo, si esige che lavorino sodo e in silenzio); altri non riusciranno mai a infrangere la barriera dell’inefficienza e della corruzione della burocrazia locale per aggioare i loro permessi di soggiorno; altri ancora, sentendosi vinti dalla loro stessa paura o ignoranza, resistono nell’umiliante anonimato, che la legge battezza col nome di clandestinità.
La demagogia del sistema non ha avuto difficoltà a «dimostrare» che i primi nemici del paese e alleati dei ribelli sono proprio loro, gli stranieri che faticano per gli avoriani.

Dunque, il denaro si estorce anzitutto agli stranieri. Certo non si toccano i grossi commercianti, i vip, i missionari delle diverse denominazioni cristiane o altre autorità religiose. Ma, dato che ce n’è di strada da fare per partire dal motorino e arrivare alla grossa auto, la lista delle possibili vittime si è allungata.
Anche «l’infrastruttura» di questo latrocinio permanente e istituzionalizzato si è estesa oltre ogni limite di sopportazione. E dire che «i corpi in uniforme» percepiscono un ottimo stipendio, come del resto tutti gli impiegati dello stato. Eppure…
La lista delle vittime si è allungata e le aree da depredare si sono allargate a macchia d’olio. Per esempio, se vai alla capitale o nelle principali città della zona costiera, ti verrà detto dai tassisti che non ne possono più di dover pagare, anche più volte al giorno, un «piccolo dazio» agli uomini in uniforme, che li bloccano senza altra ragione che quella di estorcere denaro.
Se vai verso l’interno, dove l’asfalto finisce e inizia la foresta con le sue piantagioni di cacao, palme da olio, caffè,  a qualsiasi ora e in qualunque giorno della settimana ti imbatti con uniformi di ogni specie, pronti alle loro arbitrarietà e vessazioni per arricchirsi.

Ti stai spostando con una bicicletta sgangherata su una strada sterrata dell’interno per rientrare a casa o per andare a lavorare nei campi? Se ti imbatti in un «controllo» dovrai sganciare 5 mila franchi Cfa di multa. (Un euro vale poco più di 655 franchi Cfa; la paga giornaliera di un lavoratore, bracciante, manovale, oscilla tra i mille e i due mila franchi).
Perché? Non fare domande o la bici è requisita e dovrai, alla fine, pagare quattro o cinque volte tanto per riscattarla. Sei uno straniero o un avoriano originario di un’altra zona? Se ti chiedono i documenti d’identità, rispondi che non li hai e te la caverai con una multa di 2 mila franchi. Non azzardarti a mostrarli: primo te li requisiscono, perché il tuo sbaglio è di non essere stato sorpreso in flagrante; secondo, anche se tutto è in regola, la multa sarà almeno raddoppiata.
È il tempo del raccolto in foresta e sei un piccolo trasportatore di cacao o di noci da olio? Anche se percorri la pista più recondita, ti beccano comunque, e devi pagare almeno 2 mila franchi al giorno. Perché? Perché la legge dei fuorilegge ha deciso che per una settimana o due sarà così: punto e basta!
Sei un commerciante di «mezzo calibro», che carica su un grosso camion i raccolti agricoli di una piccola fetta di foresta per trasportarli in città? Sappi che il tuo viaggio di nemmeno 100 km dovrà fruttare almeno 100 mila franchi ai difensori della legge.
Sei straniero e devi rientrare in patria per motivi familiari o per le vacanze? Sappi che sanno che hai guadagnato qualcosa e non ti molleranno se non dopo un buon salasso. Soluzione? Ti umilierai il più possibile a ogni posto di blocco fino alla capitale e inventerai storie pietose, così ti estorceranno qualcosa di meno.
E per i prossimi barrages, prima di arrivare alla frontiera? Niente paura. Affidati a un’impresa seria di viaggi inteazionali. Al prezzo del biglietto ti chiederanno di aggiungere un altro bel po’ di denaro in modo che tra tutti i passeggeri dello stesso bus si raggiunga la cifra di un milione, un milione e mezzo di franchi (1.500-2.000 euro). Ci penserà l’esperto autista a distribuire il malloppo a seconda del posto di blocco e per te finiranno umiliazioni,  perquisizioni, vessazioni.
Vivi in un villaggio sperduto e sei regolarmente «visitato» dalla sicurezza statale? Mettiti d’accordo con gli altri del posto e, alla scadenza che sai, fatti trovare preparato: un lauto pasto, un po’ di sacchi pieni di beni in natura (si sa, in città tutto costa più caro) e la somma di denaro necessaria per calmare lo zelo dei servitori dello stato. Tutto andrà bene e vi diranno con soddisfazione di non temere, ormai ci si conosce e si è amici, si è di casa. E così via…
Anche al nord, nel territorio controllato dai ribelli, ci sono posti di blocco, sulle strade principali e, mi dicono, si chiedono 100-200 franchi.

Il sistema funziona così e la spirale di prepotenza innescata cresce, nonostante le altisonanti e fumose campagne promosse dagli «alti gradi» per fare pulizia, eliminare corruzioni e soprusi.
Si è ormai instaurata quella macabra convivenza in cui, secondo gli psicologi, il boia acuisce e rende più crudele la propria violenza, mentre la vittima sceglie di arrendersi, di umiliarsi sempre di più, accettando supinamente nuove sofferenze. La situazione si è incancrenita e ognuno, alla fin fine, si sente nel ruolo che gli compete.
Potrei riportare altri piccoli flash o far notare che altri barrages sono sorti in altri settori cosiddetti pubblici; quelli riportati sono sufficienti per fare capire ciò che ho detto all’inizio: la frontiera in Costa d’Avorio non è segnata dagli aggettivi «governativo» o «antigovernativo».
Se l’inconcludente processo di riunificazione dovesse superare lo stagno chiamato censimento e disarmo (tutti coloro che hanno una coscienza sperano e pregano per la pace), si potranno superare le altre mille frontiere che nel frattempo si sono diffuse nel sud del paese? Chi sarà alla guida dello stato, potrà controllare i suoi fedeli guardiani, ormai abituati a ingrossare il loro non indifferente stipendio con scaltrezza e prepotenza? 

J.A.B.

J.A.B.




CUSTODI DEL CREATO

L’interesse per l’ambiente come parte dell’impegno cristiano quotidiano

Dalla celebrazione della prima «Giornata per la salvaguardia e la difesa del creato», istituita dalla Conferenza episcopale italiana, giungono segnali importanti di un rinnovato interesse del mondo cattolico ai temi della difesa dell’ambiente. Una materia che può essere affrontata efficacemente
se inserita nell’ambito più generale della giustizia
e della pace.

Il 1° settembre scorso, per iniziativa della Conferenza episcopale italiana (Cei), si è celebrata la prima «Giornata per la salvaguardia e difesa del creato». Il 27 ottobre è ricorso il 20° anniversario dello storico incontro interreligioso per la pace, convocato ad Assisi da Giovanni Paolo ii. Due eventi recenti e importanti che stimolano alcune riflessioni: quanto interesse reale suscitano nell’opinione pubblica e fra i credenti i temi della pace e della tutela dell’ambiente? E quali legami uniscono questi due temi fra di loro?
Stando al risalto che vi riservano i mezzi di comunicazione di massa, gli argomenti che coinvolgono maggiormente l’opinione pubblica sono: politica, economia, sicurezza, calcio e… «gossip». Altri temi salgono alla ribalta soltanto se strumentalizzabili ai fini di un’informazione spettacolarizzata ed emotiva. La promozione della pace e la tutela dell’ambiente rientrano in questa categoria. La prima si riduce a mera cronaca di tragiche vicende belliche (ma solo quelle che coinvolgono gli interessi geopolitici ed economici del mondo ricco) o di manifestazioni pacifiste, specialmente per stigmatizzae il carattere contraddittorio ogni qual volta queste assumano tratti tutt’altro che pacifici.
Della tutela dell’ambiente ci si occupa solo in caso di disastri naturali di grande portata, ma senza spiegare a sufficienza come e quanto essi siano conseguenze di scelte e attività umane.
Fortunatamente esistono anche minoranze di cittadini che, per specifica attività professionale o per sensibilità individuale, si dedicano con passione ai temi della difesa della pace e dell’ambiente. Questo fattore, di per sé positivo, potrebbe però indurre la collettività a intendere le due questioni esclusivamente rivolte agli «addetti ai lavori».
E che dire riguardo all’atteggiamento dei cattolici in merito a questo problema?
Nella quotidianità delle nostre parrocchie – oltre alla cura della propria vita spirituale, auspicabile e non derogabile presupposto di ogni cammino di fede – gli impegni più concreti sono rappresentati da catechesi, carità e accoglienza. Molto più sporadica è invece l’attenzione rivolta a un impegno costante e non estemporaneo sui temi ambientali e della convivenza pacifica.
Premesso che chi è credente sarebbe sempre tenuto a preoccuparsi anche per le sorti e le sofferenze degli altri popoli e nazioni che abitano la terra, è pur vero che la lontananza «fisica» da persone ed eventi contribuisce a creare anche una certa lontananza «spirituale».
Limitandoci alle problematiche ambientali, queste considerazioni sono da tempo all’attenzione della chiesa cattolica nei suoi vari livelli: di gerarchia, di singoli esponenti, di piccole comunità e associazionismo; e sono già stati molteplici gli interventi sull’argomento.
Sorprenderebbe fosse vero il contrario. La terra è oggi l’unico pianeta conosciuto sul quale vi sono condizioni favorevoli per la vita umana, ma non solo! Conoscenze e capacità tecnologiche attuali pongono in mano all’umanità la scelta di continuare a mantenere ospitale la propria «casa» o di ridurla ad un’arida distesa rocciosa, avvolta da gas velenosi. I termini della questione, dalla quale dipendono la qualità della vita delle generazioni presenti e la possibilità di sopravvivenza per quelle future, evidenziano che la tutela dell’ambiente naturale debba obbligatoriamente diventare un tema di ordine etico e antropologico di interesse generale.

L’istituzione formale di una giornata dedicata alla salvaguardia del creato è perciò molto significativa; così pure l’invio della «Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace» a «dare adeguato risalto alla “giornata” nella vita delle diocesi e delle comunità». È una presa di posizione di rilievo, perché qualifica l’impegno dei credenti sensibili a questi temi, dando la stessa dignità riservata a chi si dedica ad altri servizi.
Il titolo della giornata «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15), invita l’umanità ad assumere un atteggiamento ben diverso da quello dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e dell’incuria del creato. È, anzi, uno stimolo a farci co-responsabili della creazione, prendendolo in custodia e impegnandosi affinché i nostri sforzi nei confronti dell’ambiente si orientino verso il bene comune.
Ma in qual modo l’invito ad attivarsi nella collaborazione alla creazione divina si lega all’impegno per la pace? La risposta è suggerita dal messaggio di Giovanni Paolo ii per la «Giornata mondiale della Pace» del 1° gennaio 1990:  «Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato».
Nel  documento è riaffermata l’importanza della «questione ecologica», con le sue implicanze etiche e sociali; è evidenziata la necessità di un impegno dei cristiani a promuovere atteggiamenti più maturi e responsabili nel rapporto con il creato, collegando strettamente l’«ecologia dell’ambiente» a quella che lo stesso papa definiva «ecologia umana».
In tale messaggio viene spiegato lo stretto legame esistente tra difesa dell’ambiente, pace e giustizia, umana e divina. Papa Wojtyla avvertiva la crescente consapevolezza che la pace mondiale è minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, conflitti regionali e  ingiustizie planetarie, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Situazione che genera precarietà, insicurezza, egoismo collettivo, accaparramento e prevaricazione. Secondo il papa, non si può continuare a usare i beni della terra come nel passato, ma si deve lavorare per la maturazione di una coscienza ecologica che trovi adeguata espressione in programmi e iniziative concrete. Molti valori etici sono direttamente connessi con la questione ambientale e l’interdipendenza delle molte sfide del mondo odierno conferma l’esigenza di soluzioni cornordinate, basate su una coerente visione morale del mondo.
Per il cristiano questa visione poggia sulle convinzioni religiose attinte alla rivelazione. All’uomo e alla donna Dio affidò tutto il resto della creazione, poi poté riposare «da ogni suo lavoro» (Genesi 2, 3). Quando si discosta dal disegno di Dio creatore, l’uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace:  «Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno» (Osea 4, 3).
L’esperienza di tale «sofferenza» della terra è comune anche a coloro che non condividono la fede in Dio. Infatti, sono evidenti le crescenti devastazioni causate nel mondo della natura dal comportamento degli uomini indifferenti alle esigenze  dell’ordine e dell’armonia che lo reggono.
Che la crisi ecologica sia un problema morale lo rivela, in primo luogo, l’applicazione indiscriminata dei progressi scientifici e tecnologici. Si è già constatato che talune scoperte in ambito industriale e agricolo producono, a lungo termine, effetti negativi, evidenziando come ogni intervento in un’area dell’ecosistema si ripercuote in altre aree e sul benessere delle future generazioni.
Ma il segno più profondo e grave delle implicazioni morali insite nella questione ecologica è la mancanza di rispetto per la vita. La si avverte in molti comportamenti inquinanti: quando le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici precedono il bene delle singole persone, se non addirittura quello di intere popolazioni.
Infine destano profonda inquietudine le formidabili possibilità della ricerca biologica. In un settore così delicato, l’indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portano l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione. È il rispetto per la vita e la dignità della persona umana la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.
Nonostante la complessità del problema, vi sono alcuni principi basilari che possono indirizzare la ricerca verso idonee e durature soluzioni. Sono principi essenziali per costruire una società pacifica, in cui non è possibile ignorare il rispetto per la vita e l’integrità del creato.
Ma non si otterrà il giusto equilibrio ecologico, se non saranno affrontate direttamente le forme strutturali di povertà esistenti nel mondo e l’altra pericolosa minaccia che ci sovrasta: la guerra.
La scienza modea è già capace di modificare l’ambiente con intenti ostili; tale manomissione può avere nel tempo effetti imprevedibili e ancora più gravi. Nonostante accordi inteazionali lo proibiscano, nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi per la guerra chimica, batteriologica e biologica.
Ogni forma di guerra su scala mondiale causa di per se stessa incalcolabili danni ecologici; ma anche le guerre locali o regionali, oltre a distruggere vite umane e strutture delle società, danneggiano la vegetazione e avvelenano i terreni e le acque. I sopravvissuti alla guerra si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni naturali molto difficili, che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale.
Oggi, quindi, la questione ecologica ha assunto dimensioni tali da coinvolgere la responsabilità di tutti, cornordinando gli sforzi per stabilire doveri e impegni dei singoli e dell’intera comunità internazionale. Tutto questo, non solo si affianca ai tentativi di costruire la vera pace, ma li conferma e li rafforza.
Inserendo la questione ecologica nel più vasto contesto della ricerca della pace nella società umana, ci si rende meglio conto di quanto sia importante prestare attenzione a ciò che la terra e l’atmosfera ci rivelano: nell’universo esiste un ordine che deve essere rispettato; la persona umana, dotata della possibilità di libera scelta, ha una grave responsabilità per la conservazione di questo ordine, anche in vista del benessere delle generazioni future. La crisi ecologica è un problema morale.
Anche gli uomini e le donne senza particolari convinzioni religiose, per il senso delle proprie responsabilità nei confronti del bene comune, riconoscono il dovere di contribuire a risanare l’ambiente. A maggior ragione, coloro che credono in Dio creatore, e quindi sono convinti che nel mondo esiste un ordine ben definito e finalizzato, devono sentirsi chiamati a occuparsi del problema.
I cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del creatore sono parte della loro fede. 

Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




Delitto senza castigo


E’ stato il peggor disastro industriale della storia. La notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, a Bhopal, in India, 40 tonnellate di gas letali fuoriusciti dalla fabbrica di pesticidi Union Carbide, hanno causato, fino ad oggi, la morte di olre 16 mila persone. Dopo 22 anni, i sopravvissuti non hanno ricevuto un risarcimento adeguato; il sito non è stato bonificato e la gente continua a bere acqua contaminata. La Dow Chemical, che ha comperato la Union Carbide, dice di operare in maniera diversa, ma declina ogni responsabilità.

Zamira mi accompagna per le stradine sporche e melmose del quartiere di Qazi Camp, a Bhopal. A prima vista sembra un’area come molte altre in India: bambini che si rincorrono per la strada, vecchi cenciosi che chiedono l’elemosina, casupole buie, sbilenche, stipate l’una addosso all’altra. L’afa rende l’aria pesante e gravida di odori posticci. A un tratto Zamira si ferma di fronte a una capanna di compensato e lamiera, mi guarda e poi con voce emozionata dice: “Ecco, è qui”.
È qui che la notte del 3 dicembre di 22 anni fa, Zamira e la sua famiglia si erano addormentate dopo aver recitato le rituali preghiere ad Allah. Il padre, la madre e una delle sue tre sorelle non si sarebbero mai più svegliate, uccise da un gas di cui neppure sapevano l’esistenza, l’isocianato di metile (Mic), rilasciato dai serbatorni di stoccaggio della vicina fabbrica dell’Union Carbide. Zamira si è salvata grazie alla sua giovane età e dall’essere stata raccolta da Rahman, un vicino di casa, attirato dal pianto della bambina.

I RICORDI DI RAHMAN

“È stata una notte terribile – racconta l’ormai ottantenne Rahman -. Era tutto tranquillo e silenzioso. La temperatura di notte scendeva di parecchi gradi e chi aveva il fisico debilitato veniva colto facilmente da tubercolosi o da bronchiti. Perciò non mi allarmai più di tanto quando cominciai a sentire colpi di tosse più forti del solito. Poi, a un tratto, udii delle urla, dei rantoli, gente che si lamentava; anche io ebbi i primi spasmi di vomito e bruciore agli occhi. Fu allora che capii. Qualcosa era accaduto. Non sapevo cosa, ma qualcosa di inaudito doveva essere accaduto. L’istinto mi suggerì di scappare e così feci”.
Ma prima di fuggire, Rahman ebbe il coraggio e il tempo di passare dalla casa di Zamira per constatare, con orrore, l’ecatombe che stava accadendo. Raccolse il corpicino della bambina e corse disperatamente. Non sapeva nemmeno lui dove. Corse, corse solamente fino a che le sue gambe glielo permisero. Poi si accasciò. Si risvegliò in una corsia di ospedale. Gli occhi bendati, i polmoni bruciati dal cianuro. Non si rimise mai più.
Le immagini di decine di corpi allineati lungo le strade di Bhopal sono ancora vivide nella memoria di chi, come Rahman, è sopravvissuto alla più grande catastrofe industriale della storia, il 3 dicembre 1984.
Quella notte, dalla vicina fabbrica dell’Union Carbide (Ucar), 27 tonnellate di isocianato di metile (Mic), a cui si aggiunsero altre 13 tonnellate di composti intermedi usati per la produzione di un fertilizzante, il Sevin, fuoriuscirono dai serbatorni di stoccaggio, disperdendosi tra gli slums che circondavano la fabbrica.
Circa 2 mila persone morirono prima del sorgere del sole, ma altre migliaia continuarono ad aggiungersene nel corso degli anni. Nell’ottobre del 1995, anno dell’ultimo dato ufficiale emesso dal governo indiano erano 7.575; oggi, dopo più accurate ricerche sul campo, si stima che almeno 16 mila persone siano state vittime del Mic.

DISASTRO ANNUNCIATO

“Sedici mila morti che in Occidente contano assai poco – mi dice la scrittrice indiana Arundathi Roy -, perché l’India è vista come un enorme serbatornio di manodopera e 16 mila persone sono solo un’infima, trascurabile percentuale, per di più senza alcun diritto e voce”. È vero, Bhopal è stato “solo” un “deprecabile incidente” dello sviluppo tecnologico portato dalle multinazionali.
“Cosa sarebbe accaduto se il Mic avesse ucciso a Detroit, Manchester, Colonia o a Torino?” si chiede Thara Gandhi, nipote del Mahatma, che si batte affinché alle vittime di Bhopal sia riconosciuto il diritto di avere giustizia.
La domanda di Gandhi apre un altro spazio di discussione: sarebbe stato possibile per una Union Carbide aprire una fabbrica, la cui gestione poco attenta alla sicurezza era stata più volte denunciata, in un paese dell’Europa occidentale o negli Stati Uniti? Sicuramente no. Non sarebbe stato possibile, ad esempio, stoccare 40 tonnellate di Mic, prodotto altamente tossico e il cui trattamento esigeva particolari precauzioni; non sarebbe stato possibile lasciare che attorno alla fabbrica sorgessero cittadelle di sottoproletari; non sarebbe stato possibile far funzionare una fabbrica tanto complessa con manovalanza poco istruita e deficitaria in numero. Eppure, paradossalmente, nessuno è stato ritenuto responsabile di queste e altre mancanze.

CRIMINE IMPUNITO

Arjung Singh, il primo ministro del Madhya Pradesh che, in cambio di voti per la sua rielezione aveva permesso l’occupazione del terreno attorno alla Ucar, non è mai stato accusato. Gli speculatori di borsa, che si sono allegramente precipitati a comprare le azioni dell’Ucar, crollate subito dopo l’incidente per poi rivenderle appena sono risalite, hanno incassato parole di elogio per la loro sagacia e prontezza.
Warren Anderson, il presidente dell’Ucar al tempo del disastro, ha avuto tutto il tempo di raggiungere felicemente la pensione, ritirarsi in Florida e scomparire nel nulla, fino all’estate del 2002, quando Greenpeace è riuscita a rintracciarlo nella sua nuova tenuta di Hamptons, a Long Island.
Ora il governo indiano non ha più scuse per non richiedee l’estradizione; ma Dominique Lapierre, autore del libro Mezzanotte e cinque a Bhopal, afferma sconsolato di essere “sfortunatamente convinto che Anderson potrà godersi la sua ricca pensione, anche se i muri di Bhopal sono coperti di scritte che dicono: “Impiccate Anderson!””.
L’India ha bisogno del sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente per fronteggiare i suoi nemici pakistani e cinesi e per garantirsi l’entrata nel mercato libero; non può rischiare di creare tensioni per dei derelitti ed emarginati. Recentemente si è riusciti a evitare per un soffio che l’accusa di omicidio colposo diretta verso Anderson, fosse tramutata in innocua negligenza.
Infine la maggioranza della stampa specializzata in industria chimica (e quella italiana si è particolarmente distinta in questo) ha fatto quadrato attorno alla Ucar, scagliandosi contro gli ambientalisti e arrivando a dipingere Anderson come un eroe.

L’ETICA PRIMA DEL PROFITTO

In tutto questo quadro sembrano stonare le parole del Premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, che mi dice: “Senza etica il progresso non ha futuro. Purtroppo in un mondo sempre più globalizzato, per i poveri è arduo entrare nel processo di sviluppo. È difficile per chi non sa scrivere o leggere, per chi è malato o per chi non sa nulla del mondo esterno, sentirsi parte di un meccanismo economico che vada al di là dei limiti del proprio villaggio. Occorrono basi che non tutti gli stati possono o vogliono garantire: l’istruzione in primo luogo, ma anche la sanità, il cibo, un’informazione esauriente e corretta, la possibilità di viaggiare, non dico all’estero, ma nella città più vicina”.
Tutto questo può convivere con un’economia rivolta verso il consumo sfrenato e il profitto? John Musser, capo Ufficio stampa della Dow Chemical, la compagnia che nel 1999 ha assorbito ciò che rimaneva dell’Ucar, risponde affermativamente: “Il motto della Dow è chiaro: prima l’etica, poi il profitto”.
Eppure sembra contraddirsi quando afferma che, “anche se la Dow Chemical ha acquisito la totalità delle azioni dell’Union Carbide, non intendiamo assimilare alcuna loro vertenza legale”.
Bhopal fa paura all’industria? Certamente non se ne parla volentieri. Nella filiale italiana della Praxair, la costola fuoriuscita dalla Ucar nel 1992 nel tentativo di evitare ogni coinvolgimento con Bhopal, non è mai esistita alcuna forma di informazione su ciò che è accaduto in India. La conseguenza è che ben pochi dipendenti delle consociate, la Rivoira di Torino e la Siad di Bergamo, sono a conoscenza di ciò che è successo quella tragica notte di 22 anni fa.
Del resto, a differenza dell’incidente di Seveso, da cui è scaturita una legge che si riconduce al fatto specifico, non è mai stata emessa una Legge Bhopal. 

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Come evitare altre Bhopal

Giovanni Natile è una figura di spicco nel panorama della chimica italiana ed europea. Fino al 2005 ha occupato la presidenza della Società chimica italiana e oggi è presidente dell’Associazione europea delle sostanze chimiche e molecolari (EuChems). Ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande sull’incidente di Bhopal.

Prof. Natile, cosa pensa personalmente dell’incidente occorso a Bhopal?
Prima di tutto è opportuno fare delle considerazioni di carattere generale. Quando succede un incidente in un impianto chimico si sente da parte dell’opinione pubblica, con la mediazione o sotto la spinta dei mezzi di comunicazione di massa, un’ostilità profonda verso l’industria chimica in generale e ancor più per la chimica come scienza. La chimica è sentita come sinonimo d’inquinamento, di degrado della qualità della vita e così via.
Ogni incidente, diciamo pure ogni catastrofe, è una miscela di colpe e di fatalità: la componente casuale è spesso aggravata da leggerezza e superficialità; però, mentre nel caso di un disastro aereo o ferroviario a nessuno verrebbe in mente di abolire il trasporto aereo o su rotaia, davanti a un incidente di tipo chimico si avverte un sentimento di rifiuto della chimica in toto.
Sarebbe possibile un mondo senza chimica? La risposta può essere affermativa a patto che siamo disposti a fae veramente senza: un mondo senza chimica sarebbe un mondo senza mezzi di trasporto (eccetto il trasporto animale), senza farmaci, senza indagini cliniche, ecc., visto che tutto o quasi tutto ha alla base un processo chimico. Detto questo penso di poter rispondere alle sue domande.

La tragedia di Bhopal era evitabile?
Davanti a una tragedia che ha avuto costi enormi in termini di vite umane distrutte o danneggiate è doveroso porsi delle domande affinché quanto accaduto non debba ripetersi. Si impone quindi un’accurata anamnesi dell’accaduto per valutare al meglio origini e cause possibili dell’incidente; cause che possono dipendere da colpevoli disattenzioni, dall’aver agito secondo modalità ad alto rischio, o anche da altri fattori sino a quel momento non documentabili come fattori di rischio. Da ogni tragedia dovremmo poter imparare qualche cosa, e di sicuro possiamo imparare.
Faccio un esempio attuale: il triste episodio dell’11 settembre 2001. A parte tutte le considerazioni che si possono fare, ha sicuramente posto in discussione la costruzione, per insediamenti umani, di megastrutture metalliche difficilmente governabili. È vero che la costruzione di edifici molto sviluppati in altezza può stimolare la ricerca e la messa a punto di materiali non convenzionali, contribuendo così al progresso scientifico, ma alla fine qual è la necessità di levarsi così in alto? Anche la sfida della torre di Babele non ebbe molto successo.
Una risposta onesta e chiara a quanto lei mi chiede è comunque difficile. Spero che l’incidente di Bhopal sia stato oggetto di uno studio accurato e abbia contribuito alla messa in atto di adeguati provvedimenti di sicurezza degli impianti che escludano negli anni a venire incidenti simili.

Si parla tanto di etica, ma nessuno mette in dubbio che l’etica della sicurezza nelle fabbriche nel Terzo Mondo è meno seguita che da noi. Numerose multinazionali vi esportano capitali perché, oltre a essere il costo del lavoro inferiore, anche le misure di sicurezza e ambientali possono essere oggetto di compromessi.
Il conflitto tra cultura dell’essere e quella dell’avere è vecchio quanto il mondo; vincere la corsa a profitti sempre maggiori, opponendo esclusivamente ragioni etiche, credo sia pura utopia. Non penso di essere un cinico e non voglio togliere valore a chi s’impegna su basi etiche per un mondo migliore; tento di essere pratico e di suggerire, forse, una via possibile per mitigare la spregiudicatezza del nostro sistema economico. Sarebbe opportuno che tutte le parti in causa facessero uno sforzo comune per far comprendere che i risparmi in certi settori (sicurezza, ambiente, salute) sono nel medio termine penalizzanti anche in termini economici.
Il timore di forti penalizzazioni economiche, derivanti da dover risarcire i danni prodotti, potrebbe essere l’unico deterrente in grado di convincere le imprese a produrre in termini di maggior sicurezza.

I responsabili del disastro di Bhopal sono rimasti impuniti. Non crede che questa impunità porti nell’opinione pubblica una sorta di sfiducia nei confronti delle multinazionali, specie quelle operanti in settori delicati come quello chimico?
Non so se l’assenza di una punizione per eventuali responsabili, o la mancata individuazione dei responsabili, sia la causa prima della paura e dello scetticismo dell’opinione pubblica. Dal mio punto di vista la paura può derivare sia da mancanza di conoscenza come pure dalla consapevolezza che qualche cosa stia avvenendo senza il rispetto delle regole, e quindi con rischi gravi.
Per quanto riguarda la mancanza di conoscenza posso affermare, con rammarico, che la cultura chimica è scarsa anche tra persone con grado di istruzione medio alto. Basta scorrere gli articoli a tema scientifico dei più diffusi quotidiani, per rendersi conto che sono infestati di autentiche sciocchezze, che non aiutano a migliorare le cose. Bisognerebbe cominciare dalla scuola; ma come si fa se nei nostri licei, dove pure è previsto l’insegnamento di chimica, i laureati in chimica non vi hanno accesso come docenti?
Questa, però, è solo una parte del problema. Veniamo a quello del produrre entro limiti più che ragionevoli di rischio. Nel campo della sicurezza si  assiste all’intreccio perverso con la necessità di mercato di abbattere i costi di produzione quanto più possibile. Anche qui le risposte e gli interventi sono complessi e di non facile attuazione. Il miglioramento dei processi parte dalla ricerca, finanziamenti per ricerche di base sono limitati; da noi sono costituzionalmente bassi, ma anche altrove la situazione non è così facile.
Investire nello studio di nuovi processi per produzioni, per le quali è già presente una via a costi bassi, non rappresenta un investimento remunerativo, a meno di non prendere in seria considerazione gli aspetti della sicurezza e dell’impatto ambientale, ma queste cose vanno incoraggiate dai governi.
A livello europeo c’è sicuramente una sensibilità maggiore rispetto agli stati ricchi dell’America, ma manca ancora una seria politica della ricerca. Infine i controlli: piuttosto scarsi e talvolta con un livello di competenza piuttosto limitato.
Chi esce dalle nostre università con una buona laurea in discipline scientifiche, conseguita nel tempo legale di studio, ha di sicuro una preparazione eccellente, ma si scontra con una realtà lavorativa precaria e poco retribuita. Ne segue una forte demotivazione, con conseguente emorragia verso altri percorsi di studio meno impegnativi e più remunerativi.  In altri termini, il controllo reale necessita anche di un substrato culturale, i cui presupposti vengono da lontano, con responsabilità molto diffuse.

Ma cosa può fare l’opinione pubblica di fronte alle lobby che governano l’industria chimica mondiale?
Se le lobby esistono, non sono esclusivo appannaggio dell’industria chimica. Anche in questo senso un’opinione pubblica, non solo attenta ma anche preparata, può, attraverso quesiti precisi e non con condanne generiche, chiedere ragione di comportamenti e pretendere risposte. Istituzioni ed enti locali devono essere in grado di interloquire in modo utile con il mondo industriale, settore chimico compreso.

Thara Gandhi, nipote del mahatma, si chiede cosa sarebbe accaduto se anziché a Bhopal l’incidente fosse accaduto in un paese dell’Europa o dell’America. Greenpeace afferma che l’ex fabbrica Ucar continua a inquinare le falde acquifere e la nuova proprietaria, la Dow Chemical, rifiuta di porvi rimedio. Le organizzazioni che si occupano dei malati cronici di Bhopal denunciano il disinteresse delle autorità. Come si può avere fiducia in un settore così poco attento alle problematiche umane?
Il lavoro delle associazioni che lei ha nominato penso sia non solo utile, ma anche prezioso per diffondere cultura e sensibilità. Forse alcune necessitano di essere più propositive per poter essere più incisive. 

Piergiorgio Pescali




I nuovi padroni… si lavano le mani

Intervista esclusiva

Non è facile avvicinare un portavoce di una industria chimica, quando questa rappresenta il legame diretto che esiste con un disastro umano e ambientale come quello di Bhopal. John Musser, capo dell’ufficio stampa della Dow Chemical, la compagnia che ha assorbito la Union Carbide, ha invece accettato la sfida. Ecco, quindi, una rarissima intervista rilasciata ufficialmente da un dirigente della ditta statunitense, in esclusiva per Missioni Consolata.

La Dow Chemical ha acquisito la Union Carbide Company (Ucc), sapendo che sia il governo indiano sia le vittime di Bhopal chiedono un compenso più elevato e l’estradizione di Warren Anderson, presidente dell’Ucar all’epoca del disastro. Non pensa che con tale acquisizione la Dow Chemical abbia anche ereditato tutti i debiti morali, etici e materiali lasciati irrisolti dall’Ucar a Bhopal?
Come sa, immediatamente dopo la tragedia di Bhopal, la Union Carbide ha accettato tutte le responsabilità morali per il rilascio del gas. Nel 1989 è stato raggiunto un accordo con il governo dell’India, in base al quale l’Ucar si impegnava a pagare al governo 470 milioni di dollari come risarcimento per tutte le richieste associate al disastro. L’accordo venne ratificato dalla Suprema corte indiana, che lo trovò “giusto, equo e ragionevole”, dichiarando chiusa la questione. L’Union Carbide, quindi, pagò i 470 milioni di dollari al governo indiano, contribuendo tra l’altro con altri 90 milioni di dollari, ricavati dalla vendita delle sue proprietà a Bhopal, alla costruzione e operatività di un ospedale per il trattamento delle vittime del disastro.
Infine la prego di prendere nota che l’Union Carbide Corporation non è da identificarsi con la Dow Chemical Company. La Union Carbide è un’entità legale separata. Con tutto il rispetto della tragedia di Bhopal, noi crediamo che la Union Carbide ha assolto a tutte le proprie responsabilità. Anche se la Dow Chemical ha acquisito tutte le azioni dell’Union Carbide, noi non abbiamo comunque ereditato tutte le pendenze, ammesso che ce ne siano ancora. La Dow Chemical, quindi, non accetta alcuna responsabilità del disastro e dei suoi effetti. Questo a prescindere dal fatto che siamo assolutamente d’accordo col fatto che nessuno dovrà mai scordare la terribile tragedia umana di Bhopal.

Quando una multinazionale o una compagnia localizzata in poche aree ristrette deve produrre profitto per sopravvivere nell’economia di mercato, la protezione dell’ambiente, i diritti dei lavoratori e la sicurezza degli stessi e delle persone che vivono attorno alle fabbriche non vengono mai visti come priorità assoluta. Se ciò è vero in paesi avanzati, in quelli del Terzo Mondo la situazione è tragica: qui le compagnie occidentali possono produrre prodotti pericolosi a costi contenuti. Tutti questi fattori, mischiati assieme, possono reagire tra loro trasformando ogni fabbrica in un’altra potenziale Bhopal. Cosa si sta facendo per fermare questa spirale?
La nostra filosofia afferma che noi dobbiamo prima di tutto lavorare in modo etico e, certamente, guadagnare profitto al tempo stesso, altrimenti nessuna fabbrica potrebbe sopravvivere. Questa è la nostra filosofia, a prescindere dal luogo dove le nostre fabbriche sono situate. Inoltre la nostra politica ambientalista, della sicurezza e della salute, è identica in qualsiasi parte del mondo.

La direzione della Dow Chemical sarebbe pronta a parlare con le organizzazioni che rappresentano le vittime di Bhopal per risolvere i problemi ancora aperti?
Ci sono già stati numerosi colloqui con le organizzazioni da lei citate, ma non hanno portato a nessun cambiamento nelle posizioni delle due parti. Non ci sono altri motivi, quindi, per allungare altre discussioni, se l’oggetto della contesa è la richiesta delle organizzazioni delle vittime di una nostra responsabilità per la tragedia di Bhopal.

L’ex fabbrica della Ucar a Bhopal è ancora fonte d’inquinamento, specie acquifero, che colpisce migliaia di persone. Sareste disposti a ripulire o almeno a contribuire alle operazioni di risanamento del sito?
Il terreno dove sorgeva la fabbrica dell’Union Carbide India Ltd. è sempre stato di proprietà del governo del Madhya Pradesh. Questo è un fatto importante da tenere a mente per continuare la nostra discussione. Nel 1988 l’Ufficio per il controllo dell’inquinamento del Madhya Pradesh ha rilasciato un comunicato stampa, indicando di aver prelevato e analizzato campioni di acqua sia dalle tubature che dalle fonti potabili nelle aree attorno allo stabilimento. Le analisi non hanno dato alcuna traccia di composti chimici nocivi, che dovrebbero in qualche modo essere stati rilasciati dalle operazioni in corso nella fabbrica della Union Carbide India Ltd. L’Ufficio per il controllo, inoltre, aggiungeva nel comunicato che l’inquinamento delle fonti d’acqua potabile è causato da un improprio drenaggio dell’acqua e da altri fattori d’inquinamento che nulla hanno a che fare con le attività dello stabilimento.
Nel 1997, il National Environmental Engineering Research Institute (Neeri), un’organizzazione parzialmente governativa di esperti ambientalisti indiani, ha analizzato 14 pozzi situati entro 500 metri dal sito della fabbrica. La conclusione è stata che i pozzi non sono stati inquinati a causa delle passate attività del sito.

I lavoratori della Dow Chemical in Usa e in Europa, come hanno visto l’acquisizione dell’Union Carbide?
Non c’è stato alcun sondaggio ufficiale per verificare le reazioni degli impiegati sull’acquisizione. Al tempo stesso non ci sono state manifestazioni contro l’acquisizione.

L’Union Carbide ha sempre sostenuto la teoria del sabotaggio per spiegare l’incidente di Bhopal. Anche la Dow appoggia tale tesi?
La Dow non ha mai condotto proprie investigazioni. Sappiamo che le squadre della Union Carbide, così pure studi specialistici come la Arthur D. Little & Co., hanno speso anni per risalire alle cause del rilascio del gas. Tutti, comunque, in modo indipendente, ma univoco, hanno concluso che il disastro è stato causato da un’aggiunta deliberata e intenzionale di acqua al serbatornio di stoccaggio del metilisocianato. Quando tutta la verità è stata appurata, la maggior parte di quello che era stato detto fino ad allora si è dimostrato essere sbagliato. È un tema molto complicato quello di Bhopal, ma la Union Carbide è convinta che la causa del disastro sia stato il sabotaggio da parte di un impiegato della stessa fabbrica e non un’errata valutazione progettuale o un’operazione sbagliata. E noi non abbiamo alcuna ragione per dubitarlo.




MESSICO, fagioli neri e champagne

Preti d’America

È la dodicesima potenza economica mondiale.
Ha alcuni tra gli uomini più ricchi del pianeta. Ma, allo stesso tempo, è un paese con enormi disparità.
Ne abbiamo parlato con padre Gabriel Estrada Santoyo, missionario comboniano, poco dopo la controversa elezione del nuovo presidente, il conservatore Felipe Calderón.

Soltanto lo scorso 5 settembre, due mesi dopo le elezioni,  il Tribunale federale elettorale ha ufficializzato la vittoria di Felipe Calderón,  candidato del Partito d’azione nazionale (Pan). Per i prossimi 6 anni, sarà lui il presidente del Messico, dodicesima potenza economica mondiale. Intanto, lo scorso 4 ottobre il presidente degli Stati Uniti ha firmato la legge che prevede la costruzione di un lungo muro tra Messico e Usa, per frenare l’immigrazione illegale (cfr. Glossario). Di tutto ciò abbiamo parlato con padre Gabriel Estrada Santoyo, missionario comboniano, nato in Messico nello stato di Michoacán, sacerdote da quasi 20 anni. Padre Estrada ha lavorato in Brasile, Perù e Bolivia. Dal 2000 è tornato nel suo paese natale. Vive a Città del Messico, dove lavora come produttore televisivo per la chiesa locale. Collabora anche con Esne Tv, canale cattolico che trasmette da Los Angeles (Califoia).

Vicente Fox:
sei anni di delusioni

Quando, nel luglio del 2000, Vicente Fox pose fine al dominio del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) si parlò di svolta epocale per il Messico. Padre Gabriel, oggi, a mandato presidenziale concluso, come giudica gli anni di governo di Vicente Fox?
«I vescovi messicani avevano progettato alcuni elementi da prendere in considerazione per aiutare la transizione democratica. Fox, il candidato trionfatore, li aveva assunti come impegno e programma di lavoro. Oggi, trascorsi i 6 anni di presidenza, vediamo che molte di quelle promesse furono solo demagogia elettorale e che anzi la situazione si è aggravata preoccupantemente. È cresciuta la minaccia di una regressione autoritaria (anche per via elettorale), nonché la minaccia più temuta di tutte: la violenza tra fratelli (come accaduto ad Oaxaca a fine ottobre, ndr)».

A parte il 2001, per l’economia messicana questi anni non sono stati negativi. Fox ne ha approfittato per far progredire il paese?
«Il periodo di governo di Vicente Fox è stato favorito da una certa stabilità economica mondiale e dal mercato petrolifero. L’innalzamento del prezzo del greggio lo ha aiutato moltissimo a tenere tranquilli i leaders dei partiti d’opposizione. Gli ha permesso altresì di aumentare i sussidi ai singoli stati, molti dei quali, non sapendo come spendere questo bonus, si sono dedicati alla costruzione di opere faraoniche non necessarie. Altri, devotamente, hanno aiutato nella costruzione di alcune cattedrali o santuari secondo la vecchia usanza del Pri.
Si è sempre detto che Fox è stato “un eccellente candidato ma un pessimo presidente”.  È stato come uno di quei cavalli che hanno un buon slancio ma poi si perdono nella corsa. Egli non ha saputo lottare con il potere e la sua preparazione amministrativa e commerciale non gli è servita molto per governare tutta una nazione. Questo suo stile “rancero” si è scontrato con la classe politica; i suoi continui errori nel parlare e i suoi atteggiamenti popolani sono stati criticati dalla classe intellettuale e sono stati sempre motivo di burla da parte dei mezzi di comunicazione.
Oltre a ciò la “primera dama”,  la quale non era inclusa nel pacchetto iniziale (Marta Sahagun Jiménez, sposata da Fox nel luglio 2001, ndr), ha pesato molto su questo mandato presidenziale. Sulla signora Fox sono cadute accuse di ogni tipo: corruzione e arricchimento illecito dei parenti; abuso di posizioni di potere; spese superflue in viaggi e vestiti; le iniziative della fondazione “Vamos Mexico”, da lei presieduta senza mai chiarire le sue entrate e uscite economiche.
Altra cosa che ha influenzato pesantemente il cammino del paese in questi sei anni è stato senza dubbio la crescita del narcotraffico, il suo radicamento in alcuni stati del paese (il caso più noto è quello dello stato di Sinaloa, ndr), la indifferenza del presidente verso queste ruberie e verso le esplosioni di violenza.  Molti sostengono che stiamo andando verso una “colombizzazione del paese”, un paese senza legge, dove la violenza è aumentata in forma spaventosa, dove ogni giorno le morti e le rese dei conti sono le notizie principali nei telegiornali nazionali».

Calderón o Obrador:
chi ha vinto veramente?

Lo scorso luglio Felipe Calderón (candidato del Pan) ha battuto  per pochi voti Lopez Obrador (candidato del Prd). Ma Obrador ha parlato di brogli massicci. Secondo lei, sono state elezioni regolari o no?
«Senza dubbio queste elezioni sono state pianificate dal potere in una maniera tanto meticolosa da farci credere che tutto sia stato legale e pulito. Per arrivare ad una simile vittoria si è messo in moto tutto l’apparato dello stato: l’intervento della presidenza della repubblica con programmi sociali per comprare il voto a favore del suo candidato; l’aperta campagna dello stesso presidente Fox in tutti gli ambiti pubblici in cui egli si presentava; la cupola imprenditoriale del Pan che ha fatto una propria campagna. E poi la guerra sporca fatta per screditare Obrador, dicendo che egli costituiva un pericolo per il Messico, diffondendo timori (in puro stile nazista) tra le classi meno protette. Per tutto questo non si può parlare di elezioni limpide.
Comprendo perciò le mobilitazioni e le marce in favore del candidato del Prd. La protesta è stata a livello nazionale. Qui, nella capitale della repubblica, alla prima manifestazione si sono radunate un milione e 200 mila persone; alla seconda, domenica 30 luglio, i manifestanti sono stati più di 2 milioni. Insomma, con il governo del Pan si sono ripetute le stesse trappole messe in atto dal Pri nei suoi 71 anni di “dittatura perfetta” (definizione dello scrittore Mario Vargas-Llosa, ndr). Sfortunatamente il potere cambia le persone e qui noi lo stiamo vedendo chiaramente».

Il neopresidente Felipe Calderón goveerà come Vicente Fox?
«Non si può prevedere esattamente che cosa avverrà con Calderón. Io credo, però, che ci sarà una continuità politica dato che le linee del partito sono rimaste le stesse. Potrebbe accadere che nei prossimi sei anni aumenti l’intransigenza dato che nell’équipe di Calderón ci sono gruppi di fanatici di ultra destra che potrebbero creare seri conflitti».

Televisa e Tv Azteca:
sempre con i vincitori

Lei lavora nel campo della produzione televisiva. In tutto il mondo, i mezzi di comunicazione e in particolare le televisioni giocano un ruolo fondamentale nelle elezioni. Dal suo osservatorio privilegiato, può spiegarci com’è andata in Messico?
«I mezzi di comunicazione si sono venduti al migliore offerente: chi pagava loro lo spazio poteva andare in onda. L’Istituto elettorale federale (Ife) aveva posto un limite alle spese di propaganda sui mezzi di comunicazione. La cosa non è stata però rispettata in alcun momento da parte del Pan, danneggiando molto gli altri candidati. Quel partito ha speso milioni di pesos.
Apparentemente Televisa e Tv Azteca, le due catene televisive più grandi del paese (cfr. Glossario), sono state molto attente a non sbilanciarsi troppo su un lato o sull’altro e questo perché le elezioni erano tanto incerte che esse correvano il rischio di “bruciarsi” con il candidato vincitore.  Senza dubbio, dopo il primo annuncio di Calderón come possibile vincitore, si è vista immediatamente la simpatia di entrambe le televisioni per detto candidato, ponendo sempre il presunto perdente Obrador come un destabilizzatore della pace sociale del paese, come qualcuno che stava facendo perdere milioni di pesos alla borsa messicana. Come qualcuno che attentava contro gli interessi molto particolari dei due gruppi televisivi. Va ricordato che Obrador ha sempre parlato contro i monopoli televisivi esistenti nel paese e mai è stato d’accordo con la famosa legge di radio e televisione, recentemente approvata. Senza dubbio tutto ciò ha favorito Calderón».

Poco stato, poca giustizia

Lo stato offre adeguati servizi pubblici alla popolazione messicana (scuola, sanità, trasporti, pensioni)   oppure anche qui ha vinto il modello neoliberista?
«L’indice di mortalità è diminuito. Però dire che in Messico tutti hanno  il diritto alla salute è molto lontano dalla realtà. Si continua ad avere cittadini messicani che non hanno un centro di salute nel raggio di cento chilometri. Penso pertanto che la salute come servizio pubblico negli anni di Fox sia regredita. L’assicurazione sociale poi non dispone di fondi sufficienti per avere un maggior numero di medicine. Si continua quindi a prescrivere “aspirine” per ogni patologia… ».

E a livello di istruzione come vanno le cose, padre?
«Per quanto riguarda l’educazione a livello universitario continua ad essere un lusso che molti non possono pagare. In generale, moltissimi debbono cominciare a lavorare in giovane età per guadagnarsi  la sopravvivenza. Soltanto una minoranza che termina la scuola media può aspirare ad una iscrizione universitaria; nell’università pubblica i posti sono limitati, mentre in quella privata i prezzi sono inaccessibili. Senza dimenticare che, in questi ultimi anni, il livello scolastico si è abbassato considerevolmente. Si possono incontrare giovani che hanno terminato l’istruzione secondaria senza saper leggere ed altri che sanno leggere ma non hanno una ortografia corretta».

Il Messico è un paese giovane. Ma esiste un’assistenza pubblica per le persone anziane? Obrador, quando era governatore del Distretto federale, aveva tentato qualcosa…
«Le pensioni per la gente anziana non esistono come tali per la legge messicana. Esiste soltanto un diritto per chi era assicurato dallo stato durante il suo tempo di lavoro cioè fino ai 65 anni di età. Tutti coloro che non avevano un lavoro pagato da alcuna impresa non hanno alcun diritto: casalinghe, contadini ed altri non possono pertanto godere di alcun beneficio. Nel Distretto federale, durante il suo governo, Obrador cominciò a dare una piccola pensione a tutte le persone maggiori di 60 anni e per questo fu duramente accusato di populismo dal governo Fox.  Tuttavia molta gente anziana della mia parrocchia vive con quei 65 dollari mensili che il governo della capitale le offre. Anche nella campagna presidenziale Calderón ha proposto qualcosa di simile se avesse vinto e anche questa volta è stato tacciato di populismo».

L’imbroglio petrolifero
e la trappola del Nafta

Parliamo di economia, padre. Le famose maquilas (cfr. Glossario) portano benefici al paese?
«Le maquilas vanno e vengono: non c’è una sicurezza di lavoro con esse. La politica dello stato verso le maquilas non è mai stata chiara. Hanno dato loro molti benefici per installarsi nel nostro paese, ma non si è mai richiesto di pagare un salario giusto ai loro dipendenti. Intanto, negli ultimi 5 anni, migliaia di maquilas sono andate dal Messico alla Cina, dove come sappiamo, la manodopera è cinque volte meno costosa del Messico. Quelle che arrivano da noi lo fanno soltanto per la vicinanza con gli Stati Uniti. I lavoratori delle maquilas costituiscono una vera e propria manodopera schiava. Non dimentichiamo che sono proprio donne che lavoravano nelle maquilas quelle che sono state assassinate a Ciudad Juárez».

L’alto prezzo del petrolio (di cui il Messico è grande produttore) ha portato benefici al paese o soltanto a pochi privilegiati? 
«Il tema del petrolio è un tema complesso. Il Pri ci ha lasciato in eredità un sindacato petrolifero ingovernabile e per di più corrotto. I dirigenti petroliferi sono gli unici beneficiari dell’incremento dei prezzi petroliferi, molti sono implicati in ruberie milionarie ma nessuno di essi sta in carcere. La gente del popolo non ha quindi beneficiato per nulla dell’aumento delle entrate petrolifere. Fox non è mai stato chiaro su queste questioni. Avendo timore dei sindacati del Pri, ha preferito chiudere gli occhi davanti al furto, convertendosi quindi in complice. Probabilmente alla fine del suo governo, le cose appariranno più chiare e sapremo cosa sta dietro questa complicità , come è solito succedere al termine di ciascun sestennio presidenziale».

Messico e Usa (con il Canada) sono legati dal 1994 dall’accordo Nafta. Secondo i messicani, il trattato ha portato più conseguenze negative o positive?
«Per la grande maggioranza dei messicani il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti è stato negativo. Soltanto pochi grandi impresari hanno beneficiato di esso. Per la maggioranza esso ha significato la morte delle loro piccole imprese che non sono state in grado di competere con i prodotti venuti da fuori. C’è poi la poca chiarezza del Trattato. Noi accettiamo senza fiatare tutto quello che loro ci vendono mentre loro con molta facilità vietano i nostri prodotti, inventando un gran numero di ragioni false.  Esempio: io provengo da uno stato che è il primo produttore mondiale di “aguacate” (conosciuto anche come “avocado”, ndr), frutto cui, per molti anni, gli Stati Uniti hanno vietato l’ingresso nel paese, argomentando che, negli anni Cinquanta, esso aveva una malattia, che però già dagli anni Settanta è stata sradicata.            La malattia non esiste più ma soltanto pochi stati degli Usa (13 in tutto) accettano il nostro aguacate. Come interpretare tutto questo? Ci sono una serie di requisiti che loro violano con estrema facilità. Ci mandano latte in cattivo stato di conservazione, prodotti scaduti ecc. Abbiamo dovuto chiudere le industrie zuccheriere del paese perché siamo obbligati a comprare da loro glucosio per l’industria delle bibite. Senza alcun dubbio di tutto questo è colpevole il nostro governo che si piega molto facilmente a tutte le loro richieste e nel contempo non è capace di difendere i nostri prodotti sul loro mercato. In altre parole, noi lasciamo entrare tutto senza guardare la qualità, mentre loro esigono da noi l’adempimento di ogni minima cosa».

Il Nafta ha causato la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli, mandando in rovina circa 2 milioni di contadini messicani. Oggi a che punto è la questione agraria?
«Altro tema complesso. Da tempo immemorabile non esiste una politica di aiuto all’agricoltura. Ci sono stati soltanto inganni e programmi inefficienti da cui derivano benefici per pochissimi. Come risultato si sono verificate grandi migrazioni verso le città, da dove poi molto difficilmente i contadini ritoeranno alle loro terre.
Anche perché molti agricoltori, per sopravvivere, hanno svenduto. Così pochi “furbi” si sono andati arricchendo con le loro terre, costituendo grandi estensioni e guadagnando con produzioni vantaggiose,  sempre e comunque per un beneficio personale».

Miliardari e nullatenenti:
è giusto così?

Per molti messicani gli Stati Uniti sono il paradiso da raggiungere a qualsiasi costo. Perché?
«Sappiamo perfettamente che il problema della migrazione è un problema di mancanza di impiego e di opportunità nel nostro paese. E non è solamente la gente semplice e senza studi che va in cerca del “sogno americano”. Allo stesso tempo abbiamo una grande fuga di cervelli, i quali trovano l’opportunità di progredire con l’aiuto del governo gringo, che li incentiva a progredire nel proprio campo.  Per i nostri contadini c’è invece un impiego che li aiuta perlomeno a coprire le loro necessità basilari: non va dimenticato che gli Stati Uniti necessitano sempre di molta manodopera.
Fox, che si professa grande amico di Bush, non ha ottenuto alcuna concessione in tema migratorio. Hanno fatto molto di più i nostri connazionali illegali che, come sappiamo, attraverso manifestazioni multitudinarie (come quelle del 2 maggio, ndr) stanno obbligando il governo di Bush a discutere sulla questione e a legalizzare un buon numero di essi. Tutto questo, però, comporta costi molto alti: le retate quotidiane della polizia statunitense per deportare migliaia di indocumentati; il famoso muro della vergogna, tanto discusso ecc. ecc.».

Come porre un freno alla fuga verso il Nord?
«Un primo freno alla migrazione ci sarà quando il Messico sarà in grado di offrire migliori opportunità alla sua gente, a tutti i livelli, nei campi del lavoro, della sanità, dell’istruzione, dell’economia, ecc.».

Secondo la rivista statunitense Forbes, il messicano Carlos Slim Helu è il terzo uomo più ricco del mondo. A parte Slim, in Messico ci sono molte famiglie tra le più ricche del pianeta. Il fenomeno della concentrazione della ricchezza in pochissime mani è tuttora vigente? 
«Il tema della giustizia sociale è una questione pendente che il Messico non sa come risolvere. La storia del signor Carlos Slim è molto emblematica per capire anche gli altri grandi ricchi del paese: Slim “compera” dal suo amico, il presidente Carlos Salinas, l’impresa telefonica di stato (Teléfonos de México, cfr. Glossario) per pochi milioni, un investimento che recupera a tempo di record in alcuni mesi, aumentando le tariffe del servizio telefonico senza alcun controllo del governo, senza che la gente possa reclamare per le alte spese delle sue bollette telefoniche. Il signor Slim cresce come panna montata nel mondo della finanza, comprando a destra e a sinistra imprese ed aumentando i poveri del paese. Questo caso illumina un po’ quello che è successo a molti altri milionari del paese. Ad esempio, il signor Ricardo Salinas Pliego, che ha comprato la televisione di stato (Imevision) per una cifra irrisoria e ora è tra i cinque uomini più ricchi del Messico».

Padre Gabriel, secondo lei esiste un’economia che si possa definire etica?
«Siamo davanti ad una economia senza Dio o  meglio l’unico dio riconosciuto è il denaro. No, l’economia manca completamente di etica. Ma la cosa più drammatica è il silenzio dei nostri pastori davanti alla situazione e la loro amicizia complice con molti di quegli impresari (la maggioranza dei quali si dice cattolica), che pagano salari ingiusti e miserabili ai loro dipendenti».

La condizione femminile
e il caso di Ciudad Juárez

In Messico, il machismo è ancora molto diffuso? L’uomo medio messicano come si comporta con la moglie, i figli, ecc.?
«Per fortuna le cose sono cambiate per il meglio in questo aspetto. L’accesso all’istruzione ha agevolato molto questo cambio.  I mezzi di comunicazione inoltre hanno fatto conoscere i diritti fondamentali della persona umana. La stessa chiesa ha mutato la sua predicazione  in cui si evidenziavano la sottomissione della donna all’uomo, l’uomo come unico capo della famiglia e cose di questo genere.  Ha favorito il cambio il fatto che la donna abbia più opportunità sia nel campo dell’istruzione che in quello del  lavoro.  Da ultimo, il cambio è venuto dai figli i quali, come sappiamo, hanno oggi molti altri “educatori” e questo significa che i loro genitori non hanno più l’ultima parola, cosicché occorre negoziare su molte cose». 

Dunque, la condizione delle donne è migliorata rispetto al passato?
«Oggi per loro ci sono più opportunità. I genitori sono più coscienti che debbono mandare a scuola tanto il maschio come la femmina. C’è una competizione aperta nel campo lavorativo. Oserei dire che nelle grandi città sono più le donne che concludono i corsi universitari rispetto agli uomini.
Oggi la donna sposata non ha tanti figli come anteriormente. In media, ha dai 2 ai 3 figli, mentre dobbiamo ricordarci che, fino a 20 o 30 anni fa, per una famiglia la normalità erano 8 o 10 figli.  Infine, non va dimenticato il numero sempre maggiore di donne non sposate».

Se la condizione femminile è migliorata, allora come spiegare il caso di Ciudad Juárez (cfr. Glossario)?
«Il caso delle donne assassinate a Ciudad Juárez è un caso unico e tuttora non risolto, anche perché si vede poca volontà di risolverlo da parte dei vari governi. Ci sono varie ipotesi al riguardo:  alcuni correlano il fenomeno al narcotraffico, altri ad alcuni gruppi di assassini seriali provenienti dagli Stati Uniti, altri ancora alla normale violenza contro le donne in questa città. Non va dimenticato che la grande maggioranza delle donne uccise provenivano da altri stati ed erano arrivate in questo posto di frontiera in cerca di lavoro». 

Agli indios del Chiapas
non basta Marcos

In Messico, ci sono 56 gruppi indigeni, che rappresentano circa il 25-30 per cento della popolazione totale. Gli indios del Chiapas sono i più noti perché si sono ribellati alla loro condizione. Che ne pensa, padre?
«I governi di tuo hanno fatto poco per la popolazione indigena. Questa rappresenta quella parte della popolazione messicana che manca anche dell’indispensabile. Il Chiapas è uno degli stati messicani più dimenticati.  Il governo di Fox non ha fatto niente per superare questa dimenticanza, anzi ha mostrato una notevole indifferenza. Gli stessi mezzi di comunicazione si sono alleati al governo per parlare poco di questa situazione di povertà estrema, secondo  la regola per cui ciò che non apporta voti non è di interesse per il governo.  Per tutte queste ragioni sono più che giustificate le proteste che sono state fatte in Chiapas.  In tutta sincerità io credo che c’è più interesse ed informazione all’esterno del Messico che all’interno e ciò dovrebbe far vergognare i messicani.  Credo inoltre che con la partenza di mons. Samuel Ruiz dal Chiapas siano venute meno molte delle voci a favore degli indigeni di questa zona del Messico».

È rimasto il subcomandante Marcos, che in Italia è sempre molto famoso…
«Marcos ha compiuto alcuni gravi errori in questo sestennio e ciò ha prodotto molta indifferenza da parte di un buon numero di simpatizzanti.  Fox lo annullava con la sua mancanza di dialogo e la sua indifferenza.  Quando egli affermava che in 15 minuti avrebbe potuto risolvere il caso del Chiapas, non voleva dire altra cosa se non che la migliore arma per annullare Marcos era di non prestare attenzione ai suoi reclami. Tutto questo va letto assieme a certe dichiarazioni di Marcos, per esempio a favore dell’Eta spagnola o contro lo stesso Obrador… Ci sono, infine, i malpensanti i quali affermano che Marcos si è venduto al governo di Fox come dimostrerebbe il silenzio che egli ha tenuto durante questi ultimi sei anni. Un silenzio che gli è valso la totale dimenticanza di gran parte della popolazione».

La chiesa, le sètte,
i legionari di Cristo

Qual è l’importanza della religione in Messico?
«Continua ad essere motivo di unità nel paese. Senza dubbio però non c’è una profonda evangelizzazione nella nostra gente. La rottura tra fede e vita fa sì che tutta questa serie di ingiustizie che caratterizzano il Messico vengano giustificate. Ci sono narcotrafficanti cattolicissimi che da un lato ammazzano, dall’altro presenziano alla messa domenicale e sono i principali benefattori della chiesa. D’altra parte, sempre a causa di questa evangelizzazione rachitica, la gente umile si sposta facilmente verso altre religioni oppure frequenta altri  riti o ancora sviluppa riti sincretici o combina la sua fede cattolica con esoterismi senza alcun problema di coscienza.
Adesso, qui in Messico, è di moda il culto della “santa morte” (cfr. Glossa-
rio), devozione nata tra i narcotrafficanti e i ladroni che sta causando grossi problemi alla chiesa cattolica. Non di meno la maggioranza dei suoi seguaci si dice cattolica».  

In Messico, ci sono molti istituti missionari. Come operano? Sono in accordo con la gerarchia cattolica del paese?
«Generalmente in Messico gli istituti missionari lavorano nelle situazioni di frontiera, tra gli indigeni soprattutto. In molte diocesi noi siamo semplicemente tollerati, quasi mai valorizzati dai vescovi che sempre ci vedono come un pericolo a livello vocazionale (cioè temono che possiamo sottrargli candidati) e a livello economico. Attualmente c’è un fiorire di vocazioni diocesane ma non di vocazioni missionarie perché, come spiegato anteriormente, noi non godiamo di un appoggio aperto e cosciente dei nostri prelati. Il Messico è stato l’iniziatore dei famosi congressi missionari, che ora si tengono ovunque. Senza dubbio, essi hanno suscitato euforia, ma come chiesa messicana non ci hanno portato ad assumere impegni. Abbiamo vocazioni sufficienti, ma – come suggerisce Puebla (DP 368) – non osiamo dare “dalla nostra povertà”».  

Come in tutti i paesi latinoamericani, le sètte evangeliche hanno guadagnato molti adepti. Come si spiega questo fatto?
«Come ho spiegato in precedenza, l’evangelizzazione non  è profonda, non ha messo radici, manca di testimonianze da parte di noi del clero. A ciò va aggiunta la penalizzazione della “teologia della liberazione” e delle “comunità di base”, che stavano rispondendo alle necessità dell’umile e del povero. Pertanto la gente cerca un luogo dove sia ascoltata, dove sia valorizzata come persona, dove si trovino risposte alle sue necessità come appunto facevano le comunità di base. Oggi non ci sono questi spazi all’interno della chiesa cattolica, mentre ci sono all’interno delle sètte evangeliche. Inoltre le sètte rispondono immediatamente, senza pretendere di arrivare alla coscienza dei suoi adepti. Fanno molta leva sul sentimentalismo, sulla guarigione rapida, sul miracolo. È chiaro che la gente preferisce vivere nell’inganno piuttosto che vedere la cruda realtà che caratterizza gran parte del nostro paese».

Il Messico è la patria dei «Legionari di Cristo» (cfr. Glossario) di padre Marcial Maciel Degollado. Può spiegarci qualcosa su di loro?
«Sono nati per influire sul potere, nello stile dell’Opus Dei durante la Spagna franchista. Hanno metodi similari. Però noi sappiamo bene che il potere è una “croce dalla quale nessuno vuole scendere”. Credo che i Legionari, invece di influenzare le classi politiche evangelizzandole, abbiano preso gusto al potere e si siano accomodati lì, secondo lo stile dei potenti, con i benefici che essi possono ottenere.
Stanno aprendo collegi e università per le élite del paese, rafforzando quella coscienza di classe secondo la quale i loro figli sono migliori di tutti gli altri e di conseguenza meritano una istruzione a parte, senza coinvolgimenti con le altre classi sociali.
In sintesi, i Legionari hanno saputo adattare il vangelo al ricco e in cambio hanno ottenuto grandi benefici economici e di status nella società messicana». 

Paolo Moiola

Glossario messicano
Parole e personaggi per orientarsi nel paese latino

Calderón, Felipe: è il contestato successore di Vicente Fox alla guida del Messico. Come Fox appartiene al Pan. Nelle elezioni del 2 luglio 2006, ha vinto con il 35,9 per cento dei voti.

Ciudad Juárez: città nello stato di Chihuahua, al confine con gli Usa. Divenuta famosa perché, in pochi anni, circa 400 giovani donne vi sono state rapite, stuprate, torturate ed uccise. Le indagini non hanno mai portato ad una soluzione, anche a causa dello scarso impegno delle autorità locali e del governo messicano.

Emigrazione: le rimesse degli emigrati costituiscono la seconda voce nel Pil messicano, dopo il petrolio.

Fox Quesada, Vicente: è stato responsabile della Coca-Cola Company per il Messico e l’America Latina. Nel 2000 è divenuto il primo presidente messicano non appartenente al Pri.

Helu, Carlos Slim: nel 1990 il presidente Carlos Salinas de Gortari decise la privatizzazione della compagnia statale Teléfonos de México. Slim la acquistò per una cifra eccezionalmente bassa (suscitando molte polemiche). Oggi, secondo la classifica stilata annualmente dalla rivista statunitense Forbes (www.forbes.com), il magnate messicano della telefonia (Telmex) è al terzo posto tra gli uomini più ricchi del pianeta (23,8 miliardi di dollari nel 2005).

Legión de Cristo: congregazione religiosa fondata nel 1941 dal sacerdote messicano Marcial Maciel Degollado. Conta più di 650 sacerdoti e 2.500 seminaristi. Ha proprie sedi in 18 paesi. Il fondatore, padre Degollado, accusato di svariati abusi sessuali, nel maggio 2006 è stato invitato dalla Santa Sede a lasciare gli incarichi pubblici e a svolgere una vita di preghiera e penitenza.

Marcos, subcomandante: leader dell’«Esercito zapatista di liberazione nazionale» (Ezln), che dal 1994 combatte per la dignità del Chiapas, stato meridionale a maggioranza maya, molto povero, ma ricco di riserve di petrolio e gas.

Maquilas: fabbriche che lavorano, con contratti di subappalto, per gruppi industriali stranieri. Il termine «maquila» viene dal verbo spagnolo maquilar; significa, per il mugnaio, prendere per sé una parte della farina macinata in cambio dell’utilizzo del mulino concesso al contadino.

Muro: si estende per 120 chilometri sulla frontiera con la Califoia; ad ottobre 2006, il presidente Bush ha firmato la legge che finanzia un nuovo tratto di muro per 1.125 chilometri. Ogni anno circa 450 mila messicani attraversano illegalmente il confine tra Messico e Stati Uniti, una frontiera di 3.200 chilometri.

Nafta: è il «Trattato nordamericano di libero scambio» tra Stati Uniti, Canada e Messico entrato in vigore il 1.º gennaio 1994.

Obrador, Andrés Manuel López: detto Amlo (dalle lettere iniziali del suo nome), è stato governatore del distretto federale di Città del Messico dal 2000 al 2005, quando si è dimesso per concorrere alle presidenziali. Secondo i dati ufficiali (sempre contestati), avrebbe perso le elezioni avendo ottenuto il 35,3 per cento contro il 35,9 di Calderón.

Pemex: compagnia petrolifera di stato. Attraverso il sindacato degli impiegati della compagnia ha spesso finanziato illegalmente con milioni di dollari il Pri.

Pan, Partito d’azione nazionale: è il partito conservatore, che ha rotto l’egemonia del Pri.

Prd, Partito della rivoluzione democratica: è il principale partito della sinistra.

Pri, Partito rivoluzionario istituzionale: al potere ininterrottamente dal 1929 al 2000, quando è stato sconfitto da Vicente Fox, candidato del Pan.

Santa Muerte: figura santa messicana, non riconosciuta dalla chiesa cattolica. È venerata soprattutto da criminali, narcotrafficanti, truffatori, poliziotti.

Televisa: è una delle più grandi e potenti reti televisive di lingua spagnola; si autodefinisce «el Canal de las Estrellas» (www.televisa.com.mx).

Tv Azteca: la seconda televisione privata del paese. È nata nel 1993 in seguito alla (controversa) privatizzazione di Imevisión, la televisione pubblica messicana. Il suo principale azionista è il miliardario Ricardo Salinas Pliego.                                                

  Paolo Moiola

Paolo Moiola




Testimoni del risorto, speranza del mondo

Il convegno ecclesiale di Verona (16-20 ottobre 2006) sul tema «Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo» interpella gli istituti missionari in quanto ne tocca la propria identità di annunciatori di Cristo «nostra speranza». Nata nell’ambito della rivista «Ad Gentes», la seguente riflessione vuole essere uno stimolo offerto da missionari che lavorano per mantenere viva, all’interno della chiesa italiana, una sincera ed effettiva apertura alla missione universale.

Gli istituti missionari che hanno sedi in Italia, pur dipendendo giuridicamente dalla Santa Sede e rimanendo legati a tante chiese locali sparse nel mondo, riaffermano la loro appartenenza alla chiesa italiana nella quale molti di essi hanno avuto origine. Si sentono espressione di questa chiesa fra i popoli per l’annuncio del vangelo. Si rallegrano per il riconoscimento del loro carisma specifico di consacrazione a vita per la missio ad gentes e sono lieti di collaborare in questa missione con tante altre forze della chiesa italiana, che servono l’ad gentes con modalità e carismi loro propri (Cf. Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, n. 10).
Si rallegrano anche per tutto quello che la chiesa che è in Italia fa per la missio ad gentes e si impegnano a collaborare sempre meglio all’animazione missionaria della chiesa italiana, portando il contributo della loro lunga esperienza, della testimonianza di tanti confratelli e consorelle sparsi fra i popoli, della più diretta conoscenza delle giovani chiese con le loro ricchezze di fede e le loro necessità materiali e spirituali.
Prendono giorniosamente atto che è incominciata in Italia, fin dal Convegno di Palermo (1996), la cosiddetta conversione pastorale alla missione, diretta più immediatamente alla «nuova evangelizzazione» nel territorio, ma che non trascura la missio ad gentes e anzi trova in essa – come dicono gli stessi vescovi italiani (Cf. Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, n. 32) – il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. La missione è unica e universale e, pur avendo in diversi contesti modalità e urgenze diverse, si avvantaggia dell’unica passione per la testimonianza della fede e per l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini.

Bisogno di conversione e di riforma

Nel prendere parte al «convenire» della chiesa italiana, gli istituti missionari sono consapevoli che devono essi stessi «partire» con una profonda revisione della loro vita personale e istituzionale. A livello personale si parlerà di «conversione» e a livello istituzionale di «riforma». Già dal 1999 si incontrano nei cosiddetti «Forum di Ariccia» per mettere a punto, unitariamente, lo spirito, il senso e le modalità della loro presenza nella chiesa italiana. Nel primo Forum (3-6 febbraio 1999) proposero a se stessi uno stile di presenza qualificato, che rispecchiasse anche in Italia quanto da essi vissuto nei territori lontani:
– missione nella debolezza: sì alla parola di Dio, allo Spirito, alle frontiere, alle periferie, alla precarietà; no a sicurezze, potere, prestigio, strutture pesanti, ecc.;
– missione nella povertà: riesame di opere e strutture; ridistribuzione delle comunità sul territorio nazionale; vicinanza, attenzione e preferenza per i poveri;
– missione nel martirio: serietà, radicalità, carità, dono della vita, continuità di donazione.
Nel secondo Forum (4-8 febbraio 2002) l’attenzione si appuntò sulla capacità di collaborazione degli istituti missionari fra loro e con gli altri soggetti della missione, nonché sulla loro «integrazione» nella chiesa locale in Italia. Si ribadì la fedeltà al carisma specifico («non negoziabile», si disse) dell’ad gentes, ad extra e ad vitam, ma sottolineando nello stesso tempo che i missionari non sono in Italia «di passaggio» o solo per compiti interni agli istituti, ma per una testimonianza e un’azione specificamente loro di «animazione missionaria delle chiese locali». Si disse fra l’altro: «Forse non lo sappiamo, ma abbiamo sulle spalle una grossa responsabilità. Siamo considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la chiesa locale. Con tanta disinvoltura lo abbiamo fatto e lo facciamo in terre geograficamente considerate di missione. Con altrettanta timidezza, paura e ritrosia ci ritroviamo a farlo con la nostra gente». Essere profetici non significa fare i supplenti.
Oggi in Italia si stanno creando situazioni di missione… La nostra tentazione – e la tentazione della stessa chiesa locale – è di affidare agli «addetti del mestiere» quelle zone e situazioni. Da parte nostra è doveroso privilegiare tali servizi, ma è compito della chiesa locale far fronte a queste realtà, trovare risposte concrete: può certamente attingere dal «libro della missione» (e in questo dobbiamo certamente aiutarla), ma non può delegare ad altri i compiti che spettano ad essa.
Il terzo Forum (31 gennaio-4 febbraio 2005) ha voluto essere anzitutto un momento di «ascolto»: della chiesa locale italiana, della cultura che circola nella società che ci circonda, dei «movimenti» che prendono piede in ordine a un mondo nuovo e diverso. L’ascolto è necessaria premessa alla profezia. Il primo ascolto, infatti, rimane sempre quello del vangelo, che però dobbiamo far risuonare nell’oggi che Dio ci propone in Italia all’inizio di questo terzo millennio.
«Ci siamo sentiti piccoli di fronte a sfide che paiono a prima vista insormontabili, ma questo non ci ha tolto il coraggio di riaffermare la nostra missione di essere lievito, luce e sale, attraverso l’ascolto e la testimonianza profetica: due atteggiamenti nuovi per una società malata di solitudine esistenziale».

Convenire ascoltando

La prima «lezione» che i missionari ricevono dalle giovani chiese è che ogni programmazione ecclesiale, per essere veramente missionaria, deve partire dall’ascolto. Un convegno ecclesiale ha bisogno di un lungo tempo di ascolto per disceere l’oggi di Dio nella storia e udire quello che lo Spirito dice alla chiesa che è in Italia. Per essere un vero convenire della chiesa è necessario che tutte le sue componenti abbiano voce e che le loro attese, le loro esigenze, i loro propositi e le loro speranze costituiscano la trama su cui il convegno si costruisce. Anzi, la chiesa non deve ascoltare solo le proprie componenti, ma nella misura del possibile tutte le componenti della società, anche i cristiani non cattolici, i credenti di altre religioni, i non credenti. Ci pare che nell’Italia di oggi l’urgenza dell’ascolto sia soprattutto rivolta verso coloro – e sono grande maggioranza – che si dicono cristiani ma conservano con la chiesa solo rari momenti di contatto e non pongono più il vangelo a fondamento delle loro scelte.
Possono essere preziosi gli apporti degli esperti delle varie discipline teologiche e delle scienze umane, ma non devono chiudere la strada ai giudizi e ai sentimenti della «base». Lo Spirito si manifesta anzitutto nella voce dei piccoli e dei semplici. Non è cosa nuova, ma è certamente pertinente dire che il metodo del convegno – della sua preparazione, del suo svolgimento, della sua ricezione – ne definisce già gli orientamenti, ne condiziona i contenuti, ne pregiudica in senso positivo o negativo l’efficacia pastorale.
Seguendo l’itinerario di preparazione del convegno, ci poniamo alcune domande: è stato ascoltato a sufficienza il popolo di Dio? È stata ascoltata «la gente», anche quella che si ferma alle porte della chiesa? Sono stati interpellati «gli altri»? Non è necessaria l’unanimità che scende dall’alto, quanto la sinfonia di voci che la Parola illumina e raccoglie efficacemente in unità.

Il tema «speranza»

Si può ben capire come il tema del convegno di Verona sia «congeniale» ai nostri istituti. «Gesù risorto, speranza del mondo» è quanto siamo mandati ad annunciare. Ne siamo «testimoni» anzitutto fra le genti. Riverberiamo quindi sulle nostre chiese di origine – quelle da cui siamo inviati – la forza che i convertiti al vangelo trovano in Gesù Signore per superare difficoltà di vario genere, legate spesso alle situazioni di miseria, di oppressione, di sfruttamento, di emarginazione, di esilio, di persecuzione in cui si trovano i loro gruppi umani e/o le loro chiese.
È ammirevole la fiducia in Dio che i cristiani delle giovani chiese mantengono anche nelle circostanze più dolorose. Una grande fiducia, anche se non illuminata dalla fede nel Risorto, si incontra spesso anche in tanti fedeli di altre religioni e, in genere, nel mondo dei poveri.
In queste situazioni la speranza non può essere annunciata solo nell’orizzonte escatologico. Il Regno futuro è dono che i cristiani attendono con gioia e riconoscenza. Ma c’è una loro precisa responsabilità nel riconoscere il germe del Regno già in questo mondo e nel partecipare al suo dinamismo lottando per la giustizia, per il rispetto dei diritti dell’uomo, per la dignità di ogni persona, per la difesa di ogni forma di vita e per la salvaguardia del creato, in unità di intenti con quanti tendono verso gli stessi obiettivi, insiti nella stessa natura umana e sostenuti anche dal messaggio di molte religioni.
Ci pare che questo «impegno per il Regno che viene» non sia al centro della predicazione della chiesa italiana, così come lo era nella predicazione di Gesù. Se è ammirevole in Italia l’attività del volontariato, specialmente per il concorso dei cristiani, se è diffuso e concreto l’operare della Caritas, ci pare però che si collochino più sul versante dell’assistenza che non su quello di una solidarietà anche politica con i poveri, i disoccupati, gli immigrati, le famiglie numerose, gli sfruttati. Constatando il crescere dei settori deboli della popolazione, ci si aspetterebbe una più convinta mobilitazione della gerarchia cattolica al loro fianco.
Se ci sono dei magnifici esempi di «suscitatori di speranza» – talvolta anche martiri della speranza, come don Pino Puglisi, don Tonino Bello, Annalena Tonelli, e tanti altri – essi sembrano piuttosto marginali rispetto alla chiesa «ufficiale» e sono tardivamente riconosciuti come suoi rappresentanti. Perché la gerarchia ecclesiastica è così reticente rispetto a figure come don Oreste Benzi, Eesto Olivero, don Luigi Ciotti, Francuccio Gesualdi e tanti altri suoi figli fedeli, che raccolgono gli aneliti della popolazione italiana?

L’orizzonte globale

Proprio perché presenti con i loro membri in tante parti del mondo, a contatto con tanti popoli, tante culture, tante religioni, tante travagliate storie, gli istituti missionari sentono l’urgenza che ogni chiesa locale si collochi in quell’orizzonte globale che è il segno più proprio di questo nuovo secolo. Ogni chiesa locale, pur radicata nel territorio e impegnata a testimoniare la fede e annunciare il vangelo al popolo nel quale è inserita, deve avere il mondo negli occhi e nel cuore, perché è mandata «a tutte le genti». In Italia si ha l’impressione di una cultura, di una politica e di un’informazione assai «provinciali».
Vengono ingigantiti i fatti locali e non si presta sufficiente attenzione a eventi globali, quali l’immensa moltitudine e la quotidiana sofferenza dei poveri, la fame, le guerre, le schiavitù, il progressivo degrado del pianeta, gli ingiusti rapporti Nord-Sud, lo sfruttamento dei lavoratori, il livellamento e l’omologazione progressiva delle culture, ecc. Solo quando questi eventi vengono a toccare le abitudini e il benessere del proprio gruppo – come nel caso dell’immigrazione o delle risorse energetiche (petrolio, gas, ecc.) – si prende coscienza di ciò che avviene, ma restando sempre confinati nel proprio «particolare». Sembra che a volte anche la chiesa italiana resti chiusa dentro queste mura. La connotazione di «cattolica» è più un riferimento alla tradizione che non un’assunzione del mandato che il Risorto le ha dato per tutte le genti. Gli istituti missionari sentono la loro responsabilità in questo campo, ma per quanto si sforzino, con la stampa e altri media (Fesmi, Emi, Misna), di aprire gli orizzonti, i loro sforzi non risultano abbastanza efficaci; soprattutto non trovano ascolto proprio in quel mondo «cattolico» (delle parrocchie, delle associazioni) che più dovrebbe essere pervaso dall’ansia dell’universalità.
Occorrerà sviluppare le collaborazioni e trovare le sinergie per sviluppare, sia nella società che nella chiesa, quello spirito di mondialità che da più di 50 anni gli istituti missionari coltivano in Italia e che rappresenta l’antidoto ideale alla globalizzazione di marca neoliberista.

«Il grido dei poveri»

La prima conseguenza di una visione globale a partire dal locale è la presa di coscienza della crescente povertà nel mondo, con 3 miliardi di poveri su 6 miliardi di abitanti del pianeta e con un miliardo e 200 milioni di «poveri assoluti» o schiavi della sopravvivenza (ultimi dati Onu). La vicinanza ai poveri è una necessità per la chiesa, perché solo a partire da essi si ha la percezione autentica del vangelo: «Ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt 11, 5). Una chiesa che non ha coscienza della povertà nel mondo e che non sta concretamente dalla parte dei poveri, non è più la chiesa delle beatitudini, la chiesa che segue le orme di Gesù Cristo, così come recita il noto n. 8 della Lumen gentium: «… come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Cristo Gesù“ pur essendo di natura divina… spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 6-7) e per noi“ da ricco che era si è fatto povero” (2 Cor 8, 9): così la chiesa, quantunque abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempio l’umiltà e l’abnegazione».
Il rischio per la chiesa italiana è duplice: che lasci i poveri del suo territorio «fuori dalla porta», perché composta in prevalenza da una classe media volenterosa, ma più che mai pervasa di consumismo e preoccupata del suo fragile benessere; e che dimentichi del tutto – salvo periodiche collette – i tre miliardi di poveri nel mondo. Al grido di tanti bisognosi sul territorio nazionale e nel Sud del mondo si risponde con gesti di una generosità che acquieta le coscienze, ma con poca attenzione al dovere di giustizia. Pare che negli ultimi documenti dell’episcopato italiano la parola «giustizia» risuoni con minore forza. Missione e nuova evangelizzazione passano, anche per la chiesa italiana, attraverso la scelta preferenziale dei poveri, chiamati nelle scelte pastorali a essere soggetti attivi nella società e, se cristiani, nella chiesa.

Missionari di ritorno

La maggior parte dei membri degli istituti missionari che si trovano attualmente in Italia è reduce dalle missioni. Il loro rientro è spesso traumatico. Partiti per «portare la fede della loro terra» ad altre terre, trovano che nel paese «cristiano» da cui sono partiti c’è meno fede, meno speranza e meno amore che nei paesi da cui rientrano. Si trovano immersi in una cultura del consumismo che troppo contrasta con le visioni di miseria e di sofferenza che hanno negli occhi. Meno profonda è l’intensità delle relazioni umane, diversi i ritmi del tempo, poco praticata l’ospitalità; superficiali, rapide e prevalentemente emotive le reazioni ai fatti anche più gravi… Diventa allora difficile per loro riprendere i contatti con «questa» realtà.
Pensano di farsi voce delle giovani chiese nella loro «antica chiesa», ma qui incontrano forse la più forte delusione. Perché di quelle esperienze di grazia sentono che si fa poco conto. Parlano di celebrazioni lunghe e festose, di piccole comunità cristiane o comunità di base, di una ricca manifestazione di carismi, di tanti ministeri esercitati con fervore e responsabilità, di impegno a fianco dei poveri, di lotte per la giustizia e i diritti umani, di fatica e bellezza dell’inculturazione, di severi catecumenati, di sofferenze e martìri di cristiani coerenti… e non trovano eco, come se quella non fosse vita, chiesa e patrimonio di tutta la famiglia dei credenti. «Qui è tutto diverso – si sentono dire -. Tutto questo non serve».

Nuovo modello di chiesa

I «missionari di ritorno» raccontano un nuovo modello di chiesa, che certo non può essere trasportato di peso nel nostro mondo – dove una chiesa dalle antiche radici ha il suo ricco patrimonio di tradizione, di teologia, di pratica pastorale – e tuttavia può offrire molti stimoli al rinnovamento in senso missionario della pastorale. Proviamo a enumerae alcuni.
1. La centralità del primo annuncio. Nelle giovani chiese si ha coscienza che Cristo, crocifisso e risorto, deve essere proclamato «agli altri» come principio di speranza. Si vive la gioia di quanti lo incontrano per la prima volta e trovano in lui la conoscenza del padre e la possibilità di una vita nuova.
2. La ricchezza dei carismi e dei ministeri, che rende sacerdoti, religiosi e laici corresponsabili della vita e della missione della chiesa. Si pensi ai catechisti, agli animatori delle piccole comunità cristiane, alle guide della preghiera. Le chiese dell’Estremo Oriente asiatico enumerano, per esempio, nei loro documenti ben 70 ministeri riconosciuti!
3. La bellezza e vitalità delle «Comunità ecclesiali di base» (America Latina) o «Piccole comunità cristiane» (Africa e Asia), dove il vangelo si coniuga con la vita e si fa esperienza di chiesa come frateità, condivisione, collaborazione, corresponsabilità… Sempre fragili, piccole e disperse, queste comunità rendono più solida la fede di quanti ne fanno parte e proclamano concretamente la risurrezione del Signore.
4. Il distacco dal potere e dalle sicurezze mondane. Non ci sono privilegi da difendere, non c’è ricchezza da mantenere, non c’è (e per fortuna spesso non è possibile!) nessun compromesso antievangelico con i potenti. Chiese deboli e povere, qualche volta anche perseguitate, ripongono la loro unica fiducia nella forza della Parola e dello Spirito. La chiesa istituzione evita intrusioni nel dibattito politico e lascia le scelte concrete al libero confronto delle opinioni e delle valutazioni dei cittadini, conservando così la sua libertà profetica, che diventa quando è necessario – e spesso è purtroppo necessario – ferma denuncia della corruzione, degli sfruttamenti, delle ingiustizie commesse dai pochi potenti contro i tanti deboli. Proprio per questo acquista autorevolezza fra la gente e viene allora chiamata, ma in «seconda istanza», a opera di pacificazione e/o di mediazione politica.
5. La «prossimità» con i poveri e i sofferenti, che sono spesso, come avveniva nella prima chiesa, la maggioranza dei credenti. La chiesa sta di più «tra la gente» e ne condivide spesso la povertà, i disagi, le debolezze.
6. Lo sforzo dell’inculturazione, che obbliga a ripensare l’immutabile messaggio per incarnarlo nella vita e nella cultura propria di un popolo o di un gruppo umano. Cultura che spesso va purificata, ma che pure rappresenta una ricchezza per la fede.
7. La lunga pratica del catecumenato, che prepara gli adulti ad assumere consapevolmente il battesimo e la vita nuova che da esso scaturisce.
8. Il dialogo ecumenico e quello con le altre religioni, che diventa spesso una necessità, in quanto si vive e si opera nello stesso ambito territoriale, ma che proprio per questo è anche uno stimolo a definire la propria identità sulla base originaria della Parola di Dio e non di tradizioni umane.
Affrontando oggi la chiesa di Dio che è in Italia, il passaggio dalla pastorale di conservazione alla pastorale di missione dovrebbe confrontarsi con queste dinamiche delle giovani chiese. Non significa che esse siano modelli da imitare, né che non abbiano in sé debolezze e umane miserie (di cui sono anche loro ricchissime: «Ecclesia semper reformanda»). Significa solo che in esse si sperimenta meglio la freschezza del vangelo, novità di vita e orizzonte di speranza per tutti.

Conclusione

Gli istituti missionari presenti in Italia e parte della chiesa italiana vivono con questa tutte le difficoltà del momento presente:
a) le difficoltà del popolo italiano in un’ora di grande «crisi» (sociale, politica, istituzionale), che è passaggio (pasquale) ad un nuovo modo di vivere la sua appartenenza all’Europa e al mondo, ad una società non più monolitica, ma multietnica, multiculturale, multireligiosa, nel quadro di una globalizzazione che resta inquinata da presupposti ideologici di individualismo, agnosticismo, relativismo e liberismo;
b) le difficoltà della chiesa, che deve conservare la ricchezza della tradizione religiosa del popolo italiano in un quadro completamente mutato. «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia» è per questa chiesa un compito inedito. La missione in Italia (ed anche in Europa e in tutto il mondo post-cristiano) è tutta da inventare.
«Esperti di missione fra i popoli non cristiani», i missionari non sono né modelli, né maestri. Possono solo mettere a disposizione la radicalità del loro impegno per il vangelo e quello che apprendono sulle strade del mondo. Lo fanno come umili figli di quella chiesa di Dio che è chiamata a essere testimone del Cristo Risorto in Italia, in Europa e fino ai confini della terra.

Cimi, Suam, Ad Gentes




Ripensare… l’Africa

Paese tra i più piccoli dell’Africa, disastrato da 38 anni di dittatura di Gnassimgbé Eyadéma, nazione composta di 37 etnie, società dominata da feticci e fattucchieri… Il Togo rimane un enigma, anche dopo aver visto e ascoltato le testimonianze di alcuni missionari, impegnati nel dare speranza a una popolazione stremata, e delle suore di San Gaetano, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri.

Ritoo dall’Africa occidentale. Una terra rossa, nera, cupa, un cuore di tenebra. La gente è fiera e scontrosa, chiusa in un mondo arcaico e lontano, impenetrabile.
Ho visitato Togo e Benin, due paesi che si affacciano sull’Atlantico, sul litorale conosciuto come "costa degli schiavi". L’oceano che la bagna fa paura, non si può avvicinare: le onde sono enormi, le risacche e le correnti impietose. Altri pericoli sono gli insetti, serpenti, malaria.
Si nasce e si muore molto in Africa. I funerali sono belli, grandiosi: si balla e si canta, con gli abiti della festa, ma solo se a morire è un anziano. Il giovane colpito dal male è ritenuto vittima di una maledizione. Tutti temono l’incidente, che sarebbe prova di disgrazia presso il divino. Gli spiriti sono potenti, onnipresenti, e fanno da tramite tra umani e creatore, innominato e invisibile.
Qui, più che nel resto del continente, si viene presi dall’inquietudine. I feticci sono agli incroci dei sentirneri, dentro gli alberi giganteschi, davanti alle capanne di fango.
Il mito si succhia col sangue della madre, dicono, e le madri africane sono forti, fiere. Devono esserlo, perché tutto dipende da loro: lavorano, trasportano pesi sul capo, vendono nei mercati, sempre col piccolo legato sul dorso, col capo penzoloni.
Le bambine di pochi mesi hanno già gli orecchini e minuscoli bracciali. Ti guardano con uno sguardo profondo, maturo. Pare sappiano già tutto sul loro destino e appena possono cercano la tetta matea per consolarsi.
Bambini con la zappa sulla spalla, che partono all’alba per i campi e ritornano la sera. Non ci sono macchine agricole in Togo. Ci sono loro, cui è negata la scuola e l’assistenza sanitaria. Ridono, se li fotografo.
Il viaggio
Dopo lo scalo ad Abidjan, ci ritroviamo in pochi sul volo da Parigi. Sono iniziate le vacanze, ma evidentemente a nessuno interessa venire in Togo. Katia è una signora di Padova che vive in Africa da 20 anni. "A febbraio è morto il presidente Eyadéma e per tre mesi abbiamo avuto gravi disordini – mi spiega -. Giovani scatenati sotto l’effetto di droghe terrorizzavano, uccidevano e saccheggiavano le case. Il console era partito per l’Italia senza avvertire la nostra piccola comunità. Un amico mi ha chiamato per dirmi di correre a casa con quante più provviste possibili e non muovermi".
Katia ama l’Africa e ha deciso di impiantarvi un’azienda che importa dall’Italia vecchi macchinari industriali, buoni per avviare attività in questi paesi ancora molto arretrati. "Abbiamo fatto arrivare le macchine per far mattoni; qui li fanno ancora a mano" mi spiega e pare orgogliosa del fatto che anche il figlio lavora con lei e ha allargato l’attività a molti altri paesi africani.
Lomé
La mattina sono svegliata dal grido sinistro di migliaia di pipistrelli. Apro la finestra e il paesaggio che vedo è sconfortante: tristi edifici in cemento emergono dal verde dei parchi; il cielo grigio è oscurato dagli sgradevoli animali.
A colazione incontro solo militari francesi in divisa mimetica, tra i quali noto anche una donna robusta, in calzoni corti come i compagni. "Siamo qui per i problemi in Costa d’Avorio" mi dice per rassicurarmi.
Gli unici senza divisa sono due grassi cinesi, che fumano e si riempiono il piatto di salsicce. La guardia all’ingresso mi sconsiglia di uscire verso la spiaggia, può essere pericoloso. Cerco allora un autista, che in un’ora mi porterà ad Anfoin, dalle suore di San Gaetano.
Lasciamo la capitale attraversando un vasto mercato; poi superiamo il porto, con lunghe file di containers. Lo hanno venduto a stranieri; di stranieri sono i capannoni industriali che stanno sorgendo lungo la strada costiera.
Olandesi, francesi, anche italiani, ma i più ricchi sono i libanesi, da sempre presenti in Africa occidentale. Pare siano anche molto arroganti; ma da sempre sono loro a provvedere agli approvvigionamenti in questi paesi disastrati.
La missione è immersa in un giardino bellissimo di fiori e frutta. Vengo accolta dalla superiora della piccola comunità, suor Natalina, che è infermiera e responsabile del dispensario. Con lei farò le prime visite e ascolterò i consigli utili per il viaggio che da qui mi porterà nel nord.
VENTO
L’harmattan è un vento carico di polvere, che sfuma i contorni delle cose e rende il sole pallido. Dopo tre mesi di siccità, questo vento sta prosciugando la terra. Solo la manioca resiste. Le folate dovrebbero portare sollievo dall’afa, ma mi rendo conto che il sudore continua a bagnare la camicia, anche se resto immobile. Il viaggio è duro, su strade polverose, attraverso villaggi dove la vita degli abitanti è rimasta a livelli primordiali.
Prima di partire sapevo che avrei visitato l’Africa dell’animismo e che la popolazione, pur aderendo ormai al cristianesimo o all’islam, non ha abbandonato il credo degli antenati. L’idea del sacro insito in ogni cosa, albero, roccia, fiume, mi affascina. Così percorro queste strade cercando di cogliee gli aspetti.
Quassù nel nord non riesco a dormire; qualcosa di profondo mi turba: il paesaggio è arido, punteggiato da grandi alberi e denuncia uno sfruttamento antico delle foreste. La pastorizia è ancora praticata dai peul, gente fiera e bella, venuta da lontano, che vive spostandosi continuamente alla ricerca di nuovi pascoli. Poi i tatasumba, con i loro castelli d’argilla, che cercano di uscire dalla loro arretratezza.
Ovunque sono presenti i feticci e i feticheurs, uomini dai poteri magici, che sovrintendono la vita delle comunità. Incontro anche alcuni giovani che vanno a scuola e, specialmente le ragazze, che desiderano un’altra vita.
Missione
Ritoo nella missione di Anfoin e comincio a capire. "Noi suore abbiamo imparato molto da un’anziana donna, ora defunta – mi dice suor Natalina -. I suoi insegnamenti saggi, di grande rispetto per la vita, hanno influenzato e segnato la vita della famiglia e della comunità. Era animista, ma era una santa donna".
Questi sono paesi di grandi, antiche civiltà, che a contatto con gli europei hanno subito lo scardinamento sociale. C’era una forma di governo che si fondava sulla scelta della persona più idonea, fatta dal consiglio dei saggi. Gli inglesi hanno imposto un loro uomo di fiducia, che facesse i loro interessi, inviso alla popolazione, ma scelto tra gli abitanti. I francesi, invece, hanno governato direttamente i territori, sfruttandoli senza scrupoli. Anche oggi lo fanno, tramite i corrotti capi di stato che sostengono, anche con le armi.
La mattina padre Coelio celebra la messa. Alto, pelle scurissima, le sue poche parole di commento al vangelo mi commuovono. Poi incomincia la giornata di lavoro.
Suor Luciana è una marchigiana energica e positiva, arrivata in Benin tanti anni fa, dopo una lunga esperienza missionaria in Brasile. Suor Luciana trova molta soddisfazione nella cura dell’orto e del giardino. "Non posso più fare a meno di questo paese – mi confida – il caldo, il senso di libertà… Quando mi chiamarono a Torino, per due anni in casa madre con le sorelle cieche, mi pareva di essere in prigione".
Quando deve uscire dalla missione suor Luciana indossa un pareo sopra la veste bianca e si fa sempre accompagnare da un africano. Ciò risolve molti problemi, nei mercati così caotici, dove il francese non è molto conosciuto. Innocent è uno degli uomini di fiducia della missione e in questo periodo ha grandi preoccupazioni. La moglie, incinta del terzo figlio, è stata messa in un convento di feticheuses dalla sua mamma. Ora vorrebbe ritornare, ma Innocent non potrà più accoglierla in casa.
La più anziana del gruppo è suor Adolfa, una vera roccia, che sa gestire le proprie forze in questo paese dal clima impietoso. "In Brasile, dove ho lavorato per 19 anni prima di arrivare in Africa, le cose erano più semplici, per via della lingua comune a tutti". Adolfa mi spiega che qui a volte non ci si capisce da un villaggio all’altro.
Suor Anna è un tesoro di cuoca. Sa che dipende anche da lei la salute della comunità. Qui ci si ammala e si muore improvvisamente, come è capitato la scorsa estate, quando una consorella cadde ammalata e morì in poco tempo, pare per un blocco renale. Nell’orto si coltivano manioca, melanzane, banane, mais e frutta. Poi ci sono le galline, per le uova fresche. Alle palme da olio mature è stata praticata un’incisione, da cui fuoriesce un succo che beviamo a tavola, come vino. Fermentando, produce la soda B, una specie di acquavite, amata dai locali.
A tavola si conversa e vengo a sapere tante cose. In questa natura forte, primordiale, noi non potremmo sopravvivere, con tutte le nostre conoscenze e la nostra supponenza. La gente è molto abile nel catturare i serpenti velenosi, mentre rispetta i pitoni sacri, che non uccidono. I serpenti si possono nascondere nelle case o sugli alberi e sono sottili, invisibili. Prima di avvicinarsi a un albero e salire sui rami, l’africano getta un pugno di terra. Per farsi la casa scava una buca e ne lavora la terra, con cui costruirà i muri; poi la buca si riempirà, durante le piogge, evitando che il terreno dilavato danneggi i muri.
Corale
L’Africa può cambiare una vita. Non sarò più la stessa dopo aver mangiato questa polvere, aver udito queste voci.
Si sono seduti in circolo, ora. Stanno solo accordando le voci e stonano anche. La notte è fuori e ci avvolge. Siamo nel gazebo della corale e ho accanto i due piccoli al tamburo. Questa sera mi pare si canti meglio del solito. I ragazzi erano venuti a dirmelo nel pomeriggio, che ci sarebbero state le prove.
Oggi si è presentata in missione una giovane in carrozzella. Era in lacrime. Pare sia stata scacciata dalla sorella, che l’accudisce da quando, bambina, è stata colpita dalla polio: non la vuole più e le ha anche preso i soldi ricevuti per pagare il corso da parrucchiera.
Suor Luciana controlla, la ragazza è nell’elenco degli handicappati seguiti dalla missione. Prima di tutto carichiamo la giovane sul mototaxi per riportarla a casa, e le diamo 2.000 franchi (Cfa) per il vicino, che la assisterà nei prossimi giorni. Poi suor Luciana decide di portare la carrozzella dal meccanico: è tutta rotta e arrugginita, la faremo riveiciare. Emergenze ce ne sono sempre e le suore si organizzano; con calma cercano una soluzione a tanti problemi.
Padre Roberto
Padre Elio è un personaggio vulcanico, pieno di iniziative e col piglio deciso dei comboniani. Dopo aver diretto per qualche anno la rivista Nigrizia, ha fondato Radio Speranza, che trasmette dalla sua parrocchia, a 30 km da Anfoin. Sono ospiti in questi giorni un missionario spagnolo molto simpatico e un veronese dall’aspetto triste e sofferente. Quest’ultimo mi pare critico nei confronti di un confratello molto conosciuto nel paese e stimato per la sua profonda conoscenza del Togo e della sua gente.
È Roberto Pazzi, un missionario che ha fatto una scelta radicale: vivere da eremita nell’arida brousse, in una capanna di paglia come un africano, contando solo sulle proprie forze e su ciò che produce la terra.
Suor Luciana me lo farà conoscere, perché è a lui che le suore di Anfoin si confidano.
Il terreno per il romitaggio è stato concesso dalla diocesi, che ne è proprietaria. Si arriva percorrendo una pista tra palme da olio e campi di manioca. Superata la fontana artesiana, ora a secco, proseguiamo a piedi lungo uno stretto sentirnero e sostiamo davanti alla cappella di fango secco col tetto di paglia. Il crocefisso è fatto con due bastoni di legno incrociati e legati.
Siamo accolti da un’anziana suora, Marie Jeanne. Capo rasato, i piedi scalzi, vestita con un abito-grembiule a fiorellini, mi indica il lusso della sua capanna: il pavimento di cemento. Poi con un sorriso invita suor Luciana, sua cara amica, a visite più frequenti dicendo: "Jamais trop loine la maison d’une amie" (mai troppo lontana la casa di un’amica), uno dei tanti proverbi di questa gente d’Africa, che ha una saggezza antica, impermeabile alle nostre critiche e giudizi affrettati.
Suor Marie Jeanne ha lavorato per anni come infermiera in Togo; ma quando la sua congregazione ha lasciato il paese, ha scelto di restare, per condividere la scelta di padre Roberto.
Non ha certo l’aspetto macilento e sofferente dell’eremita questo comboniano: il fisico robusto, non dimostra i suoi 70 anni; lo sguardo è vivo e sorridente. Mi riceve tra i libri e le carte del suo rifugio: una povera capanna di paglia, meta da anni di tanti visitatori. Lo lascio parlare, dopo 40 anni di vita africana, di cose da dire ne ha molte. Quando suor Luciana mi chiama, mi rendo conto che sono già passate due ore.
Cosa mi ha detto? Forse quello che volevo sentirgli dire. Il rispetto per il paese e la sua gente; la forza della terra e di antiche credenze; Dio creatore e le forze che interagiscono con gli uomini; il vudù come mezzo per avvicinare il divino; la lotta tra il bene e il male; l’intervento dell’uomo bianco con i suoi pregiudizi; gli errori degli aiuti, che si inviano a fin di bene. Come si può adottare a distanza un bambino, che avrà scuola e libri, vestiti e sussidi? E gli altri del villaggio o della sua stessa famiglia? Bisogna ripensare i nostri interventi in Africa e mi sembra che lo si stia già facendo.
Padre Roberto arrivò in Africa 40 anni fa. Durante la Seconda guerra mondiale, da Milano la sua famiglia era sfollata nella campagna di Como, dove Roberto conobbe un padre comboniano e incominciò a sognare l’Africa. Dopo la consacrazione fu inviato missionario in Togo, allora paese modello che, dopo la fine del protettorato tedesco si era ridotto di dimensioni, mantenendo però una solida struttura.
"Anche oggi, gli aiuti che arrivano dalla Germania sono i più intelligenti, mirati allo sviluppo e alla crescita del paese" spiega padre Roberto, che ha occhi che brillano e un sorriso giovane, aperto, con l’unico incisivo rimastogli in bocca. Scalzo, ha un piede bendato alla belle meglio, il segno violaceo di una contusione sotto il ginocchio.
"Noi non possiamo capire l’africano, che non si aprirà mai a un occidentale" mi ripete padre Roberto. Rimane l’enigma e mi torna in mente una frase emblematica, letta su un recente numero di National Geographic: "Qualsiasi cosa tu abbia pensato dell’Africa, pensaci ancora".

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti