Tanti «saponi» per un sogno

Paulina e Paola hanno la stessa età e il tesoro di una grande amicizia, nata per le strade di Madrid.
Paulina, ecuadoriana, venuta in Spagna in cerca di lavoro, ha una storia nel cassetto e la voglia di narrarla: la sua storia di emigrata.
Paola, italiana, ama chi si racconta e pensa che la vita della gente ha sempre molto da insegnare. La storia di Paulina rispecchia situazioni, problemi e sentimenti di ogni migrante, con la nostalgia di ciò che ha lasciato e un futuro da inventare.

A maggio ho compiuto sei anni da quando ho lasciato la mia patria, la mia famiglia, gli amici, il lavoro… tutto; non con il fine di conseguire il «sogno europeo», ma obbligata dalle difficili circostanze della mia famiglia, dovute alla crisi economica e politica che attanaglia l’Ecuador.
Sono arrivata in Spagna, il «paese dell’accoglienza», con paura, incertezza e tanta voglia di lavorare. Nella valigia portavo con me anche briciole di speranza, fiducia, innocenza e volontà. Inoltre, non mi mancava il desiderio di farcela.
Appena l’aereo toccò terra, il mio cuore iniziò a battere all’impazzata; ero nervosa perché temevo che qualche poliziotto dell’immigrazione potesse fermarmi e iniziare a fare domande. Grazie a Dio varcai la porta di uscita senza problemi e tirai un grande sospiro di sollievo.

DUE MONDI ALLO SPECCHIO

Presi la metropolitana e poi il pullman, per raggiungere un paese vicino a Madrid, dove sarei stata ospite di una figlia di amici di mio padre. Il percorso per arrivare nella mia nuova casa mi sembrò eterno: non pensavo che Madrid fosse così grande. La paura mi ha accompagnato per molto tempo; temevo che la polizia, o chi per essa, avrebbe potuto fermarmi per strada in qualsiasi momento, chiedendomi di esibire documenti e permessi di soggiorno e di lavoro. Ogni volta che scorgevo una qualsiasi uniforme cambiavo di marciapiede. Per questo motivo uscivo poco di casa e, quando lo facevo, ero sempre accompagnata dalla mia amica con il suo figlio più piccolo.
Per prima cosa ho dovuto imparare a gestire i mezzi di trasporto: fermate fisse, orari fissi, divieti di sovraccarico di gente: tutte cose inesistenti nei servizi di trasporto ecuadoriani. Per non parlare della metropolitana, le cui mappe rappresentavano per me soltanto un intreccio di linee colorate, zeppe di simboli di cui non conoscevo il significato.
Ben presto ho scoperto che l’affitto in questa città è molto caro; per questo la mia amica, i suoi figli e io abitavamo tutti in una stanza. L’altro locale del mini appartamento era affittato da un’altra coppia di immigrati. Tutto era in comune; ognuno aveva il suo spazio riservato nel frigo, nella dispensa e ciascuno si arrangiava nel preparare i propri pasti.
Quante volte, incontrandomi con altri immigrati, ho dovuto ascoltare storie sulla difficoltà di vivere ammucchiati, dormire per terra e dover pagare anche per un bicchiere di acqua! In alcuni casi erano proprio i nostri connazionali ad approfittarsi della situazione di bisogno, anche se va detto, questo non è stato il mio caso.
Il fatto di condividere in più famiglie uno stesso alloggio rappresenta una vera avventura: da una parte si ha la possibilità di conoscere persone diverse, con le loro abitudini ed esperienze, di non sentirsi troppo soli. Si perde però la propria intimità, non si ha uno spazio personale; non si riesce a riposare bene e quello che al principio può sembrare un’ avventura persino divertente si converte ben presto in seri problemi di convivenza. Questo tipo di co-abitazione «forzata» mi ha aiutata a vincere la solitudine, ma nello stesso tempo ha fatto emergere la nostalgia per le relazioni che sono state recise nel momento in cui ho dovuto lasciare l’Ecuador per venire a vivere qui.
Insomma, i primi tempi mi sentivo come una pecorella smarrita; non riuscivo neppure a entrare in sintonia con una comunità parrocchiale. Entravo e uscivo da una e dall’altra chiesa, tentando ogni volta di risollevare il mio spirito e cercando di incontrare nelle celebrazioni una qualche somiglianza con quelle che vivevo in Ecuador.
Sono rimasta sorpresa nel vedere così poche persone (per la maggior parte anziane) partecipare alla messa. La liturgia mancava di animazione e il ricordo della mia parrocchia d’origine mi riempiva di tristezza; più di una volta mi sono messa a piangere. Dovettero passare tre anni prima che potessi ritornare finalmente all’«ovile»: adesso faccio parte di una comunità cristiana che vive e celebra cercando di riscattare le tradizioni della chiesa latinoamericana, partecipando anche della ricchezza di quelle della Spagna.

I PRIMI PASSI

Avevo voglia di lavorare e mi misi subito alla ricerca di un impiego; iniziai a pubblicare annunci di lavoro in un quotidiano della capitale. Fermate di mezzi pubblici, centri commerciali e consultori si trasformarono in altrettanti punti di riferimento per lasciare bigliettini che dicevano: «Ragazza seria e responsabile si offre per lavorare come balia, badante o persona delle pulizie».
Ai colloqui di lavoro andavo sempre accompagnata dalla mia amica, che mi elargiva consigli per l’eventuale impiego, visto che alcuni colloqui potevano nascondere proposte indecenti o contratti capestro, con paghe infime e senza giorno libero.
Impiegai tre mesi per trovare occupazione. Non conoscevo ancora nulla della Spagna: abitudini, modo di mangiare, ritmo di lavoro; perfino certe espressioni nel parlare, tipicamente spagnole, mi erano del tutto sconosciute. Devo ringraziare una famiglia, che, conoscendo un po’ la realtà latinoamericana, insieme al lavoro mi offrì l’opportunità di imparare a condividere il loro modo di vivere. Con il lavoro ho appreso nuovi termini per definire i vari utensili per le pulizie della casa, che da noi hanno tutti altri nomi; ho imparato a distinguere la miriade di saponi e detersivi: quello per i vetri e l’altro per i pavimenti, l’uno per vestiti e l’altro per lavastoviglie, e ancora quello per lavare le stoviglie a mano… In Ecuador è più semplice: un solo sapone funziona bene per tutto. Per non parlare degli elettrodomestici che ho dovuto imparare a maneggiare: vetroceramica, minipimer, microonde… tutte cose di cui ignoravo completamente l’esistenza.
Naturalmente ho dovuto imparare a preparare il cibo alla spagnola. Ma ciò che più mi ha impressionato è l’attenzione che gli spagnoli hanno per i bambini e animali domestici: gli uni come gli altri hanno medico, vaccini, letto, giocattoli, shampoo, cibo speciale e lo stesso diritto di uscire a sgambettare tre volte al giorno.
Non riuscivo a capire come mobili, computer, vestiti venivano scartati e portati in strada solamente perché avevano un piccolo difetto o non servivano più. Questo particolare mi ha fatto riflettere sulla grande differenza che esiste fra questi due mondi: quello che ho lasciato e quello che ho incontrato. Per esempio, il bambino di cinque anni che accudivo era perennemente annoiato e insensibile a ogni provocazione dei genitori. Che contrasto con la gioia di vivere dei bambini nel mio rione a Quito. È proprio vero che «non è felice colui che possiede più cose, ma colui che ne ha bisogno di meno».
Tutto ciò che vivevo era in aperto contrasto con la realtà dalla quale provenivo. Sentivo di dovermi adattare a questa nuova forma di vita, anche se non l’approvavo. Ho preso un impegno con me stessa: non lasciarmi assorbire dal materialismo esistente, cercando di mantenere il più possibile il mio essere autentico.

«ODISSEA LAVORO»

Dopo alcuni mesi di lavoro al servizio della prima famiglia, iniziò a funzionare il «passa parola» che avevo attivato e, grazie alle referenze e all’esperienza maturata, riuscii ad avere un impiego migliore. Ma dovevo al tempo stesso ottenere i permessi di lavoro e di residenza. Il 14 agosto del 2001, iniziai le pratiche per ottenere un documento che certificasse la mia situazione lavorativa. In quegli anni le file agli sportelli per ottenere informazioni e kit di documentazione erano interminabili, anche se non si era costretti a passare la notte all’addiaccio per conquistarsi il tuo, come succede oggi. Il 7 agosto del 2002 notificarono al mio datore di lavoro la non concessione dei permessi, cosa che mi obbligò a fare ricorso.
Passati tre anni di permanenza in Spagna, tempo sufficiente per richiedere il certificato di residenza per arraigo, cioè per radicamento nel paese, decisi di contattare una donna avvocato. Mi assicurò che tutto si sarebbe risolto celermente e che per la fine dell’anno avrei potuto viaggiare tranquillamente in Ecuador e, altrettanto tranquillamente rientrare in Spagna, perché munita di regolari documenti di residenza.
Ero piena di entusiasmo e illusioni quando, come una doccia fredda, mi notificarono che avrei dovuto giustificare l’arraigo, comunicando i dati dei familiari (genitori, coniuge, figli) presenti in Spagna. Tutte le mie speranze crollarono di botto, visto che, non vivendo con me nessun membro della mia famiglia, ero impossibilitata a dare risposta alle richieste dell’Ufficio immigrazione. Tempo, fatica e soldi sprecati inutilmente.
Riassumere in poche righe il mio cammino nei labirinti della burocrazia spagnola non è impresa facile. È una storia lunga, fatta di grandi illusioni e tante repentine delusioni, di lunghe code davanti agli sportelli degli uffici competenti, di ritardi burocratici e inspiegabili «silenzi» amministrativi. A volte io stessa ho commesso errori, che sarebbero stati evitabili con una maggior informazione e conoscenza del sistema giuridico spagnolo. Ma la delusione più cocente la ebbi quando l’ennesimo iter burocratico fu interrotto bruscamente a causa della situazione fiscale irregolare del mio datore di lavoro. Che beffa arrivare a toccare il cielo con un dito per poi vederselo portar via all’ultimo istante.
Grazie a nuovi datori di lavoro e all’esperienza acquisita, sono riuscita a consegnare a tempo tutti i documenti necessari: ora attendo fiduciosa di ottenere, finalmente, i tanto agognati permessi di lavoro e residenza. Con questi documenti in mano mi si apriranno nuove prospettive, tra le quali anche la possibilità di tornare in Ecuador ad abbracciare, dopo sei anni, la mia famiglia.
Sicuramente esistono innumerevoli casi simili al mio. Personalmente, ringrazio il Signore di aver incontrato una donna avvocato capace di aiutarmi a conoscere i miei diritti e a muovermi con sicurezza nel mondo della burocrazia spagnola. La mia esperienza e il suo aiuto mi hanno anche aperto gli occhi e spinta a lottare per quello che sento essere un diritto di tutti; anche se c’è, e ci sarà sempre, qualcuno che pensa di avere il diritto di approfittarsi di altri, solo perché questi sono indifesi o fuori legge, essendo privi dei dovuti documenti.

Di Paulina Ceballos

UN SOGNO DALLE MILLE FACCE

Agli occhi del turista, Madrid si presenta come un intreccio logico di vie oate da palazzi chiari. Orientarsi è semplice, grazie all’ottima metropolitana che con le sue dodici linee urbane e i collegamenti ai frequenti treni interurbani, conduce da una parte all’altra della città in tempi brevi e a prezzi modici.
Signorine sorridenti all’ingresso della metropolitana consegnano foglietti su cui l’amministrazione comunale «si scusa per aver temporaneamente sospeso il servizio tra Plaza de Castilla e Fuencarral», sostituito da un servizio autobus, e le scritte sui cartelloni pubblicitari di quello spazio sotterraneo assicurano a ogni cittadino la possibilità di essere operato entro trenta giorni dalla domanda di ricovero. Incentivi all’imprenditoria giovanile e femminile vengono promessi dagli spot mandati in onda per tenere compagnia ai passeggeri in attesa, e facce di ogni colore si mischiano nel vieni e vai di una mappa che si muove e fa muovere a un ritmo intenso, ma per fortuna ancora umano: c’è sempre tempo per fermarsi a bere un paio di cervezas (non importa che ora del giorno sia, una birra si beve sempre volentieri), accompagnate da qualche tapas, spuntini di pane, prosciutto e salse.
Le vie sono invase da gente che transita, ma che spesso si ferma, si siede e chiacchiera godendo l’aria, mite o fredda che sia: a Madrid il conversare non è questione di stagione. I giovani si ritrovano la notte per le tradizionali bevute in mezzo alla strada, nelle piazze e per le scalinate, tirando fuori dai sacchetti di plastica innumerevoli bottiglie di tinto (vino rosso) e di cerveza.
Madrid è una città che invoglia a fermarsi, che offre teatri, cinema e musei a prezzi modici, e che ha il piacere di essere vissuta.

LA GRANDE CASA

Per molti latinoamericani rappresenta «el sueño», il sogno, la possibilità di riscattarsi. Scelta per motivi geografici e linguistici, soprattutto dopo le molte restrizioni che il governo statunitense ha posto all’immigrazione, la Spagna è diventata uno dei punti di maggior convoglio dei flussi migratori, provenienti in particolar modo dall’Ecuador.
Ben un terzo della popolazione dell’Ecuador è emigrata e attualmente l’economia del paese si basa per il 51% sulle rimesse che i residenti all’estero inviano ai familiari rimasti a casa. La lontananza comporta lo sviluppo di fenomeni particolari, ad esempio lo sfaldamento dei legami tra il migrante e la famiglia di origine (spesso «integrata» o addirittura sostituita con una nuova, creata nel paese di arrivo), o il diradamento della fascia dei trentenni-quarantenni, con conseguente distribuzione nella popolazione di vecchi e bambini.
Sono proprio i bambini a essere chiamati a gestire le rimesse di denaro inviate dai genitori lontani, che devono servire per il sostentamento, ma soprattutto per la «grande prova», per quel segno tangibile di sé che resisterà nel tempo: la costruzione di una casa. L’Ecuador è un paese pieno di case enormi in stile nord americano, con colonne bianche e porticato, costruite come prova di esistenze generate da lì, ma destinate a non tornare: case fantasma, incarnazioni di miti e nulla più.
A Madrid, gli immigrati che mandano soldi in Ecuador per costruire enormi case-fantasma, vivono stipati in piccoli appartamenti della periferia, condividendo in sette, otto, persino in dieci persone, spazi di settanta metri quadrati. Spesso sono i connazionali ad accogliere i nuovi venuti, con lo scopo di estorcere loro un affitto non compatibile con la bassa qualità della sistemazione offerta.
«El sueño» diventa la realtà quotidiana della sopravvivenza, delle difficoltà a trovare lavoro, permesso di soggiorno o la carta sanitaria. Diventa un atteggiamento di diffusione identitaria, che porta a due tipi di reazioni possibili: alla chiusura nella propria comunità di origine, con rafforzamento dei tratti culturali comuni, o al rifiuto degli stessi, con conseguente aderenza superficiale agli stili di vita del paese di arrivo.
Paulina viene da Quito, la capitale dell’Ecuador. Volò in Italia sei anni fa nella speranza di fermarsi nel Veneto ma, non trovando lavoro, fu costretta a tentare la carta della Spagna.
«El sueño» per lei si tradusse in un lavoro di pulizia a ore e in spazi di vita così ristretti da impedire l’intimità. Per Paulina imparare a orientarsi a Madrid non fu certo facile, così come richiese impegno abituarsi alle parole e ai modi di dire che condividono la madre lingua comune agli spagnoli e ai latini, ma non la coloritura culturale che si portano appresso.
Madrid vista con gli occhi di Paulina non è la città dei bei palazzi chiari, della cerveza e delle tapas. Non è la città dei musical, i cui biglietti, rapportati al suo stipendio, diventano proibitivi e persino un po’ offensivi. Non è la città della sanità che funziona e degli incentivi all’imprenditoria femminile: per Paulina Madrid è la coda infinita al Ministero del lavoro che quasi ogni settimana è costretta a fare, per sapere se la sua domanda di residenza è stata accettata o ancora una volta respinta.
Madrid è il negozietto vicino alla stazione, dove un colombiano amico suo importa prodotti latini di cui può riconoscere l’odore e il gusto. Madrid è il parco del Retiro, dove la domenica mattina incontra i connazionali che passeggiano con l’illusione di tranquillizzante omogeneità, è il call center dove telefonare a casa, a Quito, costa meno di un’interurbana a Siviglia.
Camminando accanto a Paulina per le strade di Madrid, si incontrano fiumi di occidentali che comprano un detersivo diverso per ogni tipo di sporco, mentre in Ecuador un sapone basta per tutto. Accanto ai cassonetti della spazzatura si vedono materassi dove ci si potrebbe dormire ancora per anni, e nei menù appesi fuori dai ristoranti si legge che la banale frittata di uova è diventata una ben più chic «tortilla francesa».
Le strade sono ostiche, piene di elementi da decifrare, riconoscere, inglobare nella ricerca di una ridefinizione di sé che fatica ad arrivare. È la nostalgia il sentimento dominante di Paulina. Il termine nostalgia deriva dalle parole greche nostos e algos, cioè «ritorno in patria» e «dolore, tristezza».
Introdotto nel ‘700 dal medico svizzero J. Hofer per indicare il sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalla loro patria, cioè una sorta di malattia, una vera e propria sofferenza per la sottrazione del paesaggio d’origine, la nostalgia è tanto più intensa quanto più è profondo il legame con i luoghi che hanno contribuito a strutturare l’identità individuale e sociale.
Come dice lo scrittore libanese Amin Maalouf, prima di diventare un immigrato, si è un emigrato, e prima di arrivare in un paese, si è dovuto abbandonae un altro: solo considerando i due lati della questione si capisce come i sentimenti di una persona verso la terra abbandonata non siano mai semplici.
Se si è partiti, vuol dire che si è rifiutato delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto si accompagni a un senso di colpa per la terra, la casa, le persone che ci si rimprovera di aver abbandonato; senso di colpa che spesso si accompagna alla nostalgia. In questi casi è importante che gli individui possano rivisitare i paesaggi interiori, grazie ai quali riscoprire le radici che permetteranno la ripresa del processo di crescita.
Paulina prova a cercarsi nelle lunghe passeggiate alla scoperta di Madrid, aprendosi al nuovo e allo stesso tempo imparando a non perdersi. Camminando mi racconta il suo sueño, quello nuovo: sentirsi a casa propria. E non importa in che parte del mondo.

Di Paola Cereda

RITROVARE LA STRADA

La strada è sempre stata un luogo tradizionale di incontro e di scambio. Quando si arriva in una nuova città o in un nuovo paese, le prime impressioni sono date dalla strada, che è un insieme di persone, mestieri, storie, oggetti, case, uffici, negozi, direzioni, mete, divieti di accesso, regole e pregiudizi. La strada racconta una storia che è sempre in movimento: l’architettura e l’urbanistica mostrano le origini, i cambiamenti, le evoluzioni, le involuzioni e rispondono a esigenze umane e sociali che non sono soltanto mere risposte a bisogni materiali, ma che rispecchiano soprattutto i mutamenti relazionali.
Il primo passo per conoscere un luogo è l’orientamento, cioè la progressiva acquisizione di dati e punti di riferimento, con cui «un luogo» è trasformato e diventa «il luogo». Le cornordinate spazio temporali prendono forma in base a esigenze personali e a vissuti di attaccamento e radicamento. Con il tempo e l’abitudine «quella» strada diventa «la» strada: la strada di casa, il tragitto per andare a lavorare, il percorso per arrivare al ritrovo di ogni sera… Questa acquisizione di senso permette il passaggio dal sentimento di estraneità all’appropriazione del territorio, dal sentirsi straniero al sentirsi «parte di».
In ogni città esistono luoghi tradizionali di ritrovo per chi «è appena arrivato»: la stazione, il parco, un certo quartiere, un punto di aggregazione religiosa…
I fenomeni migratori hanno disegnato nuove mappe possedute e vissute da chi, straniero, arrivava per necessità nelle grandi città.
Uno dei luoghi che maggiormente raccontano un paese è il mercato, dove si assiste alla circolazione non solo monetaria, ma anche di merci che rispondono a bisogni aggregativi. È sempre più facile incontrare banchi che vendono il tradizionale platano latino americano o le spezie arabe, segno di una sensibilità ai cambiamenti sociali, sia dal punto di vista della domanda e della risposta che della gestione economica, non più a esclusiva conduzione locale.
In alcuni strati sociali, specialmente in quelli più storicamente radicati nel territorio, la strada perde la caratteristica di luogo di incontro e diventa semplicemente luogo di transito, che fa paura per i possibili pericoli che nasconde o palesa, che stressa per i suoi ritmi frenetici, che separa dai rifugi privati, in cui la gente si chiude per stare «bene, al sicuro». In questo caso la domanda principale è quella della sicurezza: «Voglio essere sicuro che per la strada non mi succeda niente». Il tradizionale gioco del pallone, che ha cresciuto generazioni di bambini nelle strade di tutto il mondo, ora rischia di diventare un fatto privato da gestire in spazi ristretti o in luoghi predisposti.
Per chi non può o non vuole godere di «rifugi privati», la strada è ancora l’unica alternativa possibile. Essa è casa, espediente, sede di lavoro, risorsa di sopravvivenza e risposta ai bisogni. È «il gruppo», quella dimensione sociale e identitaria che permette di riconoscersi e di essere riconosciuti. Sulla strada si possono vedere i tentativi di adattarsi al nuovo ambiente, che si sposano con la necessità di ricostruire elementi che appartenevano alla propria terra di origine. La strada dà l’opportunità di riflettere sugli argini: le case, chi le abita, come vengono vissute.

Di Paola Cereda

Paulina Ceballos e Paola Cereda




SILENZIO! Il padrone ti ascolta

Alteando pugno di ferro e patealismo, il governo ha fatto di Singapore una delle più floride economie dell’Asia, a scapito di libertà politiche, valori sociali e ideali umani. Dietro lo scintillio dei grattacieli, si nascondono sacche di emarginazione, soprattutto tra gli immigrati, aiutati dalla chiesa cattolica e altre associazioni umanitarie.
Nella babele di lingue, culture e religioni, il governo cerca di costruire l’identità nazionale, usando anche le canzoni patriottiche.

Gli Annali Malesi del xvi secolo, raccontano che il governatore di Palembang, Sri Tri Buana, navigando nelle acque dell’attuale Stretto di Malacca, fu sorpreso da una tempesta, che lo costrinse a cercare rifugio su una piccola isola pressoché disabitata, chiamata dai cinesi Pu-luo-chang (isola alla fine della penisola). Qui, mentre aspettava che l’uragano si calmasse, il funzionario credette di aver avvistato, tra la fitta vegetazione, un leone, cosa alquanto rara, se non impossibile.
Si era nel xiii secolo e, da allora, i leoni nessuno più li ha visti. A dir la verità, anche il racconto degli Annali non sembra avere molta attinenza con la realtà; con tutta probabilità, l’animale che Sri Tri Buana intravide era forse un daino, un tapiro o anche una tigre, allora comune nella giungla tropicale.
La leggenda, però, non morì; anzi, il racconto del governatore divenne così popolare e affascinò talmente il sultano, che lui stesso decise di battezzare il minuscolo villaggio dell’isola di Pu-luo-chang col nome di Singha Pura, Città del Leone.
E fu a Singapura che sir Stamford Raffles, nel gennaio 1819 mise piede per fondare un avamposto commerciale per la Compagnia delle Indie Occidentali, dando inconsapevolmente il via a una delle più incredibili e stupefacenti storie di sviluppo economico del mondo.

BENESSERE SÌ, OPINIONI NO

Alteando, in perfetto stile confuciano, pugno di ferro e patealismo, Lee Kuan Yew è riuscito a compiere quello che la maggior parte degli osservatori politici avevano dichiarato impossibile a farsi: costruire una delle economie più floride dell’Asia (sviluppatasi il 6% nel 2005) e dove ogni cittadino, in media, guadagna più di un lavoratore del Regno Unito, a cui Singapore è appartenuta come colonia per più di un secolo.
I costi sociali che hanno permesso un tale sviluppo sono però stati assai pesanti: eliminazione di ogni opposizione intea, soppressione della libertà di stampa e di parola, perdita di valori e di ideali.
Turisti e uomini d’affari, sin dal loro arrivo all’aeroporto di Changi, vengono immersi in una città ovattata, in cui tutto è controllato e programmato. Sul pullman che mi porta dal terminal al centro, una targa scritta nelle quattro lingue ufficiali (mandarino, malay, tamil e inglese), informa che chiunque venga sorpreso a lordare la città, verrà multato e costretto a un periodo di servizi sociali obbligati.
Più severe sono le leggi che puniscono i possessori di droga, la cui pena prevede anche la morte. L’ultimo a essere stato impiccato è Nguyen Tuong Van, un venticinquenne australiano di origine vietnamita, ucciso il 2 dicembre 2005 perché trovato in possesso di 400 grammi di eroina.
Le regole ferree che controllano ogni aspetto della vita dei cittadini di Singapore vengono ridicolizzate con battute da parte degli stranieri. Mentre ceno al ristorante con Reiko, una giornalista che lavora presso un’importante agenzia di stampa giapponese, questa si mette a raccontare una barzelletta: «Un europeo, parlando con un russo, un bengalese e un singaporeano, si lamenta di quanti soldi occorrano per comprare del cibo a Singapore e chiede l’opinione dei suoi tre interlocutori. Il russo domanda: “Cosa sono i soldi?”. Il bengalese chiede: “Cosa è il cibo?”. E il singaporeano: ”Cosa è un’opinione?“».
Solo dal novembre 1990, con la volontaria consegna di Lee dei poteri di primo ministro al delfino Goh Chok Tong, il governo della città-stato, accortosi che la mancanza di libertà e di espressione alla fine si traduceva in perdita d’iniziativa e di inventiva in campo economico, ha ammorbidito la linea, permettendo timide critiche al suo operato.
La parentesi di Goh, però, sembra già essere tramontata, da quando alla poltrona di primo Ministro è salito Lee Hsien Loong, 54 anni, figlio di Lee Kuan Yew. Neppure il parziale flop delle elezioni generali dello scorso 6 maggio, sembra abbia scalfito la leadership di Lee: il Partito di azione popolare (Pap), al governo ininterrottamente dall’indipendenza, è calato dal 75% del 2001 al 67% attuale.
«Vista con gli occhi di un occidentale può sembrare che viviamo in una sorta di dittatura, e in effetti, in un certo senso, lo è. Ma è un dispotismo illuminato, accettato dalla maggior parte dei cittadini come controparte per la stabilità sociale ed economica» dice Liu Kuang-chou, proprietario di un negozio di computer al Raffles City. E come Liu molti altri suoi connazionali giustificano il rigore con cui il loro governo ha condotto la sua politica negli anni passati. Insomma, meglio vivere in una prigione sicura, che liberi ma insicuri.

EQUILIBRIO MULTIETNICO

Nella piccola città-stato, la molteplicità di lingue, etnie, religioni, volti, è la caratteristica che più risalta agli occhi di noi stranieri. I quattro milioni e mezzo di singaporeani si dividono essenzialmente tra cinesi (76%), malay (13,9%) e indiani (7,9%), ma ognuno di questi gruppi propone varianti linguistiche e religiose che spezzettano ulteriormente il mosaico sociale.
Nelle edicole, tra le strade, nei cinema, nei ristoranti, si mischia teochew, mandarino, inglese, hokkien, cantonese, malay, tamil, mentre le litanie buddiste, islamiche, taoiste, hindu e cristiane si intrecciano tra loro nei luoghi di culto. Ma l’equilibrio multietnico è tanto difficile a creare quanto facile a sbilanciare.
«Singapore è una società multietnica e non possiamo permettere che le diverse razze che la compongono lottino tra loro – afferma la suora canossiana Janet Wang, una delle persone più informate e impegnate sulla realtà del Paese -. Quello che tutti noi siamo riusciti a costruire, è qualcosa di meraviglioso: razze di diverse etnie, tradizioni, culture, religioni, lingue, si sono riunite e convivono pacificamente».
La paura di un equilibrio funambolico, ha però sclerotizzato il sistema, come arguisce Sinapan Samydorai, del Think Centre, un gruppo di studio che promuove il multipartitismo e una maggiore apertura politica: «Non è solo questione di libertà civili: il governo considera ogni cosa che può costare la stabilità del sistema sociale, politico ed economico come una minaccia per l’esistenza stessa di Singapore. Ha quindi sempre cercato di eliminare o sedare rivolte sociali e chi le fomentava. Per questo la gente ancora oggi ha paura di parlare. E un popolo che ha paura di parlare non è creativo. L’economia di Singapore risente di questa mancanza d’immaginazione».

IN DIFESA DEGLI SFRUTTATI

La fobia del comunismo e delle tensioni razziali, ha portato i leaders della nazione a sospettare di chiunque difendesse i diritti dei più deboli, giungendo nel 1989 ad accusare la chiesa cattolica stessa di essere portavoce di istanze marxiste.
«La chiesa di Singapore ha sempre lavorato con quelli che in Italia chiamate “sfruttati” – afferma suor Janet – e fino a che si limita a svolgere lavoro pastorale, non ha alcun problema, ma quando invade il campo della giustizia, del sociale, dei diritti, allora ecco che il governo si mette in allarme».
Non per questo, comunque, la chiesa locale ha rinunciato al suo impegno sociale, dimostrando anche ai governanti più scettici la validità dei suoi progetti e, soprattutto, guadagnandosi la loro fiducia. Lee Hsien Loong è stato educato in scuole cattoliche, mentre lo stesso ministro della Pubblica istruzione ha recentemente elogiato il lavoro svolto dalle scuole cristiane nel proporre alle nuove generazioni quei valori che colmino quel vuoto creato dall’eccessivo consumismo e materialismo.
Già, perché la Singapore più conosciuta, quella dei luccicanti centri commerciali e parchi di divertimento, ne cela un’altra meno pubblicizzata, ma non meno reale. Nelle zone più periferiche della città, i palazzoni dell’Housing Development Board nascondono sacche di povertà e di emarginazione che alimentano la crescente microcriminalità.
«Non siamo a livelli europei o nordamericani, ma anche qui a Singapore abbiamo le nostre bande giovanili, formate soprattutto da adolescenti che la società ha escluso, in parte per la crisi economica, in parte perché essi stessi hanno rifiutato le regole che venivano loro imposte» rivela suor Gerard del convento del Buon Pastore, che assiste i detenuti cattolici nella prigione di Changi.
La crisi economica del dopo 11 settembre, a Singapore si è ripercossa nel campo edilizio, un settore dove trovano occupazione la maggior parte dei lavoratori immigrati: una volta persa la fonte del loro reddito, essi acquisiscono automaticamente lo stato di illegalità. Per questi disoccupati particolarmente disagiati, le organizzazioni sociali, sia religiose che laiche, hanno istituito centri di ascolto e di aiuto che cercano, con ogni mezzo a loro disposizione, di ridare fiducia e sostentamento a chi è in condizioni di bisogno.
«Ma la paura di uscire allo scoperto, la mancanza di personale, di strutture e, non ultima, la differenza di credo, riducono di molto le potenzialità di questi progetti» mi confida Maya, una volontaria che lavora al Catholic Welfare Centre di Waterloo Street; e aggiunge che più dell’80% degli stranieri da loro assistiti è formato da lavoratori filippini di estrazione cattolica.
«La nostra speranza è quella di poter raggiungere anche gli immigrati indonesiani, bengalesi e pachistani, che a Singapore sono la parte più consistente dei lavoratori di manovalanza. Ma per coronare questo sogno sappiamo che dovranno passare ancora molti anni» conclude la ragazza.

CONTRO LA CRISI DI VALORI

Oggi l’80% dei reclusi è reo di aver commesso reati comuni come furti, scippi, traffico di droga. E se all’inizio il problema era circoscritto a singole persone che operavano per proprio conto, ora si è creata una rete malavitosa, che comprende anche bande di adolescenti emarginati.
«Il problema della delinquenza non è solo dovuto a mancanza di beni materiali; anzi, se mai è l’opposto – spiega suor Janet Wang -. La società è prosperata sulle basi del materialismo, portando a identificare il successo di una persona con la marca dell’abito o la macchina che possiede. Tutto questo ha mortificato la spiritualità e la morale umana, creando enormi scompensi etici. La crisi che stiamo attraversando non è solo materiale, ma è essenzialmente spirituale».
Lo stesso Lee Hsien Loong, dopo che suo padre ha spinto per anni i suoi connazionali a lavorare per la prosperità economica del paese, ha iniziato a chiamare a raccolta le associazioni di impegno sociale e umano, perché aiutino a ridare valori a una popolazione troppo protesa al successo e al profitto.
I piani del governo, comunque, non sono dettati solo da esigenze umanitarie: l’espulsione di migliaia di lavoratori clandestini, ha creato un’allarmante penuria di manodopera, che il governo non riusciva a colmare. I piani di sovvenzionamento sociale sono sufficienti per evitare che il 3,3% dei disoccupati venga improvvisamente emarginato e molti singaporeani senza lavoro rifiutano di coprire ruoli considerati «poco dignitosi».

TIGRI IN COMPETIZIONE

La competitività di Singapore è ancora elevata, nonostante gli alti costi di produzione, grazie al passaggio di Hong Kong alla Cina: molte delle compagnie inteazionali che avevano la loro sede asiatica nell’ex colonia britannica, hanno preferito trasferirsi a Singapore piuttosto che rischiare di incappare nelle maglie della burocrazia di Pechino.
«Singapore può ancora contare su una produzione di qualità eccellente, nettamente superiore a quella degli altri paesi della regione e questo lo rende ancora competitivo. Per il momento» spiega Chow Hung-t’u, della Camera del commercio cinese. La domanda, quindi è: quanto durerà questo momento?
La Malesia, ha già costruito la sua «Silicon Valley» nell’isola di Penang e molte aziende hanno cominciato a guardare alla vicina nazione con ingordigia.
In altri periodi, sotto la guida di Lee Kuan Yew, Singapore avrebbe risposto alla minaccia dei vicini con aggressività, utilizzando la sua esperienza e i legami con gli istituti finanziari a mo’ di artigli, non esitando a imprimere un’accelerata alla filosofia economica del laissez-faire che, assieme alla stabilità sociale e politica, è stata il leit motive della storia del paese sin dai tempi di Raffles.
Ma Singapore e l’economia mondiale devono fare i conti con nuove sfide: la globalizzazione ha rotto ogni schema, rendendo le economie dei singoli paesi interdipendenti l’una con l’altra. Inoltre al governo della piccola isola non c’è più il duro e dispotico Lee Kuan Yew, ma il più malleabile figlio. Il quale ha capito che il suo paese non avrebbe sostenuto, a lungo andare, il confronto con i giganti di cui è circondato. E allora, piuttosto di riproporre una sorta di konfrontasi economica, il governo ha preferito cercare un accordo che possa avvantaggiare tutti, sfruttando le migliori opportunità che Malesia, Indonesia e Singapore possono offrire al mercato.
Lo aveva già azzardato Goh Chong Tong: far nascere un «Triangolo di Crescita», un’area geografica che ha gli epigoni tra la città di Johor, in Malesia, Singapore e l’isola indonesiana di Bintan, la più settentrionale dell’Arcipelago delle Riau. Johor potrebbe offrire terreno per nuovi insediamenti industriali con regole ambientali meno ferree; l’Indonesia potrebbe coprire il fabbisogno di manodopera a basso costo e Singapore garantirebbe tecnologie, infrastrutture, collegamenti inteazionali di prim’ordine.
«Per ora il Triangolo di Crescita rimane solo sulla carta: l’instabilità politica indonesiana e la crescente islamizzazione della società malese, rappresentano sfide che nessun imprenditore di buon senso avrebbe il coraggio di affrontare» conclude Sinapan Samydorai.
E così, Singapore continua per la sua strada. Coraggiosamente, così come coraggiosamente il 9 agosto 1965 si era distaccato dalla Federazione Malese. Anche quel giorno, Singapore, se ne andò per la sua strada.

Di Piergiorgio Pescali

SINGAPORE IN MUSICA

Sin dal giorno della sua indipendenza, avvenuta il 9 agosto 1965 con l’abbandono della Federazione Malese, il governo di Singapore ha profuso notevoli sforzi perché indiani, cinesi, malay, europei aventi passaporto della città-stato, ponessero in secondo piano la propria identità etnica per sentirsi tutti singaporeani. Una sfida improba che, forse, non raggiungerà mai una soluzione definitiva, anche se oggi l’80% della popolazione è nata dentro i confini dell’isola.
Nel 1991 il primo ministro Goh Chok Tong, conscio di tali difficoltà, affermava: «Fino a quando l’economia è in fase di crescita e c’è ricchezza per tutti, non penso che la gente abbia voglia di lottare per affermare la propria etnicità. Ma se non vi sarà sufficiente torta da spartire per tutti, allora ci troveremo di fronte al test decisivo per verificare se siamo davvero coesi e solidi».
Il governo deve quindi continuamente proporre nuovi spunti, affinché il trapianto del Dna della «singaporeanità» nei tre milioni di cittadini abbia successo. Una delle difficoltà maggiori riguarda il modo in cui è possibile raggiungere la sfera psichica di ogni singola persona; trovare cioè un linguaggio semplice e accessibile a tutti, quale che sia la razza, religione, grado di cultura, età.
Ecco allora affacciarsi la musica e le parole che, combinati assieme e diretti verso un fine ben preciso, riescono a far suscitare emozioni e sensazioni altrimenti impossibili ad altri mezzi.
Non è un caso che tutte le rivoluzioni siano accompagnate da canti che perpetuano la memoria di chi le ha vissute. E chi più di altri ha bisogno di una rivoluzione interiore, se non stati multietnici come Singapore?
Così il ministero della Comunicazione e dell’Informazione ha pubblicato una serie di motivi orecchiabili, elevandoli a titolo di Canzoni Nazionali e raggruppandole in un Cd dal titolo «Sing Singapore».

I testi, abilmente scritti in modo semplice, così da essere facilmente assimilati nella mente (e nel subconscio), sembrano avvalorare la fama di patealismo, a volte così ossessivo da sfociare quasi in una sorta di dittatura, che viene addossata al governo di Singapore:
«Caro pedone, quando scendi dal marciapiede
e attraversi la strada, segui le strisce zebrate,
rispetta i semafori» si canta in Road Safety for you.
Tale apprensione può essere vista da due angolazioni differenti: in segno positivo potrebbe rappresentare un particolare modo d’insegnamento del codice stradale; nell’accezione negativa potrebbe essere vista come una sorta di ossessivo controllo sul popolo.
Ma il vero obiettivo a cui mirano le Canzoni Nazionali rimane il senso della nazionalità. Nella canzone più nota e più trasmessa da radio e televisione, We are Singapore, la strofa più dirompente esclama:
«Noi, cittadini di Singapore
ci consideriamo come un popolo unito
a prescindere dalla razza, lingua o religione
per costruire una società democratica
basata sulla giustizia e l’eguaglianza…
Noi siamo Singapore, Singaporeani…
Singapore, per sempre una nazione forte e libera».
Durante la festa del Gioo dell’Indipendenza di quest’anno, migliaia di persone intonavano questa canzone, tenendosi per mano e sventolando bandierine bianche e rosse con la mezzaluna e cinque stelle. Uno spettacolo nello spettacolo, se non altro perché è una delle poche volte in cui ho visto cinesi, indiani, europei, malay mischiarsi, bere e mangiare assieme al di fuori dei luoghi di lavoro. Un ennesimo esempio, se ve n’era bisogno, di quanto sia difficile dimenticare le proprie origini e rivestirsi di nuovi abiti.
E nell’occasione del National Day ogni finestra degli appartamenti costruite dall’Housing Development Board, in cui abita l’80% della popolazione, ha esposta una bandiera singaporeana:
«C’è una nuova luna
che sorge dal mare in burrasca…
Ci sono cinque stelle
che sorgono dal mare in burrasca.
Ognuna è una fiaccola
che guida la nostra via…
C’è una nuova bandiera
che sta sorgendo dal mare in burrasca.
Rossa come il sangue
di tutto il genere umano,
ma anche bianca,
pura e libera» (Five Stars Arising).
Rossa, come il sangue di tutto il genere umano per accomunare tutte le razze in un’unica nazione.

È però anche vero che, contrariamente alle prospettive poco rosee lanciate dagli economisti all’indomani della separazione di Singapore dalla Federazione Malese, lo sviluppo che Lee Kuan Yew è riuscito a imprimere alla nazione, ha qualcosa di eclatante, di cui gli stessi abitanti possono andar fieri. E non esitano a rinfacciare a questi Soloni dell’epoca che predicevano un futuro di miserie, la loro prosperità attuale:
«C’era un tempo in cui la gente diceva
che Singapore
non sarebbe mai potuto essere
una nazione,
ma noi l’abbiamo resa una nazione.
C’era un tempo in cui i problemi
sembravano troppo grandi
per essere affrontati,
ma noi li abbiamo affrontati.
Abbiamo costruito una nazione forte e libera
raggiungendo insieme la pace e l’armonia.
Questo è il mio paese, questa è la mia bandiera,
questo è il mio futuro, questa è la mia vita,
questa è la mia famiglia,
questi sono i miei amici» (We Are Singapore).
Il paragone alla famiglia implica anche un impegno di ogni suo singolo componente, per far sì che la sua conduzione sia coronata da successo:
«Riconosci che devi giocare il tuo ruolo…
Sii preparato a dare qualcosa in più…
Per Singapore» (Stand up for Singapore).
Un passo in perfetto stile confuciano, dove ogni cittadino, o meglio, ogni componente della «famiglia Singapore» deve svolgere un compito ben preciso occupando un ruolo ben preciso nella ferrea gerarchia comunitaria,
«per mostrare al mondo cosa Singapore può essere…
Conta su di me, Singapore, conta su di me
per dare il mio meglio e ancora di più» (Count On Me Singapore).

Q uesta filosofia, tipica delle società asiatiche, ha trovato piena attuazione nella minuscola nazione, favorendo la trentennale permanenza al potere di un governante dispotico, ma che sa anche essere benevolo, come Lee Kuan Yew. Grazie alla sua guida «illuminata»,
«in Singapore puoi trovare felicità per tutti» (Singapore Town).
Ma questo benessere deve essere difeso sia dagli attacchi speculativi di operatori finanziari che tentano di assaltare l’economia di Singapore dall’esterno, sia da improbabili, ma non impossibili, attacchi militari dalle nazioni vicine. La «sindrome Kuwait» è assai viva tra il governo, che destina il 5% della finanziaria alle proprie forze armate, tra le meglio addestrate nella regione.
Ma i leaders sanno bene che il minuscolo territorio non potrà essere difeso a lungo in una guerra convenzionale; quindi, anche in caso di invasione dall’esterno,
«C’è una parte per ognuno
in questa terra a cui apparteniamo.
C’è una parte per ognuno e per tutto
per mantenere la pace che vogliamo.
Anche se non tutti con le armi,
per aiutare a difendere la nostra terra
dobbiamo far tutto quello che possiamo
insieme, mano nella mano…
Abbiamo marinai, aviatori,abbiamo soldati,
impavidi uomini addestrati e pronti…
Aiutali ad aiutare tutti noi»
(There’s a Part for Everyone).
Parole dure, sferzanti, che si spera non dovranno mai trovare impiego nella realtà. Già, perché alla fin fine la multietnicità che caratterizza Singapore può essere di esempio anche per gli stati europei che si trovano a fronteggiare, spesso con intolleranza e xenofobia, l’arrivo di rappresentanti di altre culture.
E si potrebbe terminare questa cartolina di Singapore in musica, con le strofe forse più significative di One People, One Nation, One Singapore:
«Abbiamo costruito una nazione con le nostre mani,
con la fatica di gente da una dozzina di terre.
Stranieri quando arrivammo,
ora noi siamo Singaporeani…
Un popolo, una nazione, un Singapore».


Piergiorgio Pescali




Solidarietà in passerella

Ancora una volta Missioni Consolata dà spazio
alla manifestazione di AfroItalyFashion,
giunta alla sua quinta edizione. Tale iniziativa
va ben al di là di una frivola sfilata di moda: numerose persone, in collaborazione con associazioni italiane e africane, sono coinvolte
in tale manifestazione per fare cultura
e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo, per poi promuovere progetti di impegno sociale
a favore del continente africano.

È sempre un grande piacere per me parlare di AfroItalyFashion, una manifestazione che seguo da molto tempo come addetto stampa. Seguire i preparativi che cominciano mesi prima, i contatti intercorsi tra gli organizzatori e i vari professionisti che, superati i primi momenti entrano subito nella magica atmosfera di un appuntamento molto atteso.
Per capire meglio quanto lavoro vi è dietro questa manifestazione, cominciamo col dire che AfroItalyFashion è organizzata dalla Associazione Culturale «Abissa» di Torino, di cui è presidente il dott. Diego Cudia, con il fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e le persone più abbienti, verso una realtà molto diversa dalla nostra, eppure a noi molto vicina, in termini culturali e geografici.
La produzione esecutiva è affidata all’agenzia Didacus Communication di Milano, che si occupa dei contatti con stilisti italiani e stranieri, con indossatori e indossatrici, artisti e ospiti vari, rapporti con i vari mass media, con professionisti vari. Lo studio Area Fotografica di Torino ha curato i servizi fotografici e video, luci e direzione della fotografia, elementi scenografici e lo studio CD Comunicazione di Torino ha cornordinato i servizi pubblicitari, le sponsorizzazioni e marketing.
Motore della manifestazione è stata soprattutto l’associazione umanitaria Mission Sinan di Cuneo, la quale promuove progetti di cooperazione tra Italia e Africa, come la costruzione e mantenimento di un centro ginecologico moderno ed efficiente in Costa d’Avorio, ricerca fondi in denaro, attrezzature tecnologiche, mezzi per il commercio e persone volonterose affascinate dall’idea di un aiuto concreto al continente africano.
Nomi importanti, quindi, che muovono decine di persone verso una iniziativa che, anno dopo anno, acquista dimensioni sempre maggiori; persone che riescono a supportare una manifestazione che qualcuno ha definito «sincera e pulita», in riferimento all’idea di base: fare cultura e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo.

Direttore artistico di AfroItalyFashion è il dott. Diego Cudia, che è anche presidente dell’Associazione Culturale «Abissa» (acronimo di Attività sociale, beneficenza, immobiliare, spettacolo, sport, arte). A lui rivolgiamo alcune domande sul significato della manifestazione.

Come si concilia la solidarietà verso un mondo di bisognosi e una manifestazione di moda, musica, spettacolo…?
Ogni anno cresce sempre più il consenso degli stilisti italiani e, soprattutto, stranieri verso la manifestazione AfroItalyFashion; i vari stilisti africani cedono gratuitamente i loro abiti (sopportando le spese di iscrizione, spedizione, assicurazione), questi abiti verranno venduti successivamente e metà del ricavato ritoerà in Africa sotto forma di aiuto verso quelle etnie più disagiate (se non è solidarietà questa…).
E vorrei ringraziare i vari stilisti che hanno partecipato, essi sono: Alfadi (Nigeria), con il suo pret-a-porter tradizionale; Cris Seydou (Mali), con i suoi abiti per il teatro, cinema, come fornitore ufficiale delle divise per le hostess di Air Afrique; Dramé (Costa d’Avorio), con la sua linea di abiti femminili; Fabiene (Costa d’Avorio), giovane stilista di abiti tradizionali da giorno e da sera, da cerimonia; Mirelle (Senegal), specializzata in abiti da matrimonio; Pathé (Burkina Faso), molto conosciuto dai vip tra cui Nelson Mandela.
Accanto a questi stilisti, molti dei quali presenti, il pubblico ha potuto ammirare le stupende creazioni per sposa di Claudio Ambrogio (Boutique sposa di Bene Vagienna, Cuneo), e di giovani creatori di moda italiana, freschi di studi accademici.

E il discorso culturale, l’impegno sociale, dove sono?
Chi assiste alla manifestazione AfroItalyFashion, oltre ad ammirare delle bellissime creazioni di moda multietnica, sente parlare di progetti di cooperazione, costruzione di ospedali e scuole, raccolta di attrezzature professionali, risorse umane operanti in luoghi difficili, malattie e condizioni di vita inconcepibili. I vari ospiti invitati parlano delle loro esperienze passate e presenti, a contatto con una realtà che spesso ci è difficile da immaginare; gli stessi artisti si esibiscono con musiche e brani coreografici, sono testimoni di una situazione di vita non proprio serena e felice. Tutti questi discorsi servono a ricordare che esistono persone che hanno fatto dell’impegno sociale una ragione di vita, che può dare grandi soddisfazioni morali. Discorsi che devono portare tutti alla convinzione che siamo un paese che può fare moltissimo per gli altri, senza grandi sforzi economici e organizzativi; che devono fare riflettere soprattutto i giovani, perché il loro futuro sarà sempre più influenzato dai problemi presenti a livello di politica comunitaria internazionale.

Prima Torino, dove è nata e cresciuta, poi Cuneo, con il pubblico in piazza. Dove sarà il prossimo appuntamento con AfroItalyFashion?
Torino e Cuneo sono le città dove «Abissa» è nata e si è fatta conoscere; era naturale pensare di realizzare la manifestazione prima a Torino (presso il teatro dei missionari della Consolata) poi a Cuneo (piazza Audifreddi); per la prossima edizione stiamo valutando le proposte di alcuni sponsor che la vorrebbero in una città della Lombardia (Brescia o Como), per estendere a un pubblico sempre diverso la conoscenza della nostra associazione e i suoi progetti.

A proposito di progetti, avete in cantiere qualcosa di cui parlare?
Stiamo lavorando alla realizzazione di «Il Canario», un calendario nazionale fotografico a colori, in cui i proprietari di cani possono comperare, per pochi euro, uno dei 288 spazi fotografici a disposizione, manifestando la loro solidarietà attraverso la pubblicazione di una fotografia in compagnia del fidato amico di vita. La somma raccolta con la vendita del calendario, sarà destinata all’acquisto di generi di conforto (alimentari, medicinali, cucce…) per i cani ospitati nei vari canili d’Italia.
A Il Canario aderiscono molti vip e personalità dei più disparati settori sociali, oltre a persone comuni, a riprova che l’amore di un cane verso l’uomo non è vincolato alla sua condizione umana, ma libero e sincero.

Di Dino Sassi

Per informazioni: Associazione Culturale Abissa onlus – V. Lancia 121/F – 10141 Torino – Tel 339.3701387.
Per Il Canario: Area Fotografica – Tel 011.704264.

Dino Sassi




Nagasaki e Hiroshima

Tappe obbligate del nostro pellegrinaggio sono Nagasaki e Hiroshima, le due città distrutte dalla bomba atomica nell’agosto 1945. Entrambe le città sono state ricostruite, conservando, però, la memoria dell’incredibile tragedia: nel cuore di ognuna delle due città sono stati fatti bellissimi parchi, con vari monumenti alla vita e alla pace. In quello di Nagasaki ce n’è uno intitolato «Inno alla vita», offerto dalla città di Pistornia 1987.
Nei musei passano ogni giorno migliaia di persone e sostano in silenziosa meditazione davanti all’orrore stampato sulle fotografie di volti, scene, situazioni, e sugli oggetti sfigurati dal calore della nube atomica. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare qualche superstite: sul loro volto non si legge alcun sentimento di rancore, ma solo la speranza che mai più si ripetano orrori del genere.

Identici sentimenti li ritroviamo nel santuario dei martiri cristiani a Nagasaki, dove riviviamo una pagina triste e, al tempo stesso, tra le più gloriose della storia del Giappone e della chiesa.
Era il 5 febbraio 1597: Paolo Miki e altri 25 cristiani, dopo essere stati invitati a rinnegare la propria religione, furono messi a morte per crocifissione. Alcuni morirono pregando in silenzio, altri cantando i salmi e tutti perdonando ad alta voce il loro persecutore e i carnefici che eseguivano gli ordini di morte.
A quella persecuzione seguirono oltre due secoli d’isolamento, finché i missionari poterono ritornare nel paese. Il venerdì santo del 1865, a Nagasaki, si presentò in chiesa un gruppetto di giapponesi che rivelarono agli stupiti missionari la presenza in zona di circa 10 mila cristiani, sparsi nei villaggi dell’isola di Goto e nella valle di Urakami. Li chiamavano kakure kirishitan, cioè «cristiani nascosti». Un vero miracolo: per generazioni avevano resistito a persecuzioni e umiliazioni, trasmettendo la fede cristiana di padre in figlio, senza l’aiuto e la guida di nessuna struttura ecclesiastica.

VM




Un bambino ci salverà

La chiesa in Ciad vive eventi simili a quelli presenti nel racconto evangelico del paralitico: le folle bussano alla porta della chiesa, malattie e guerra paralizzano la società, africani, donne e uomini, si fanno carico dei problemi della propria gente, tradizioni culturali ne congelano le aspirazioni di liberazione, giovani sensibili all’invito di Cristo di alzarsi e camminare con le proprie gambe: la salvezza dell’Africa dipende dagli africani; a noi il compito di assecondare tale cammino.

Prima di partire per un soggiorno prolungato (3 mesi e mezzo) nella missione di Fianga (Ciad) affidata a 3 preti Fidei donum di Treviso, mi è stato chiesto di raccogliere alcune informazioni e riflessioni su questo paese che è piuttosto sconosciuto. Vorrei farlo, a esperienza conclusa, sulla falsariga del racconto evangelico della guarigione del paralitico.
Si tratta indubbiamente di un modo singolare di raccontare, ma potrebbe essere un genere letterario molto appropriato quando si voglia «raccontare la missione».

LA RESSA… AMBIGUA

«Quando si seppe che Gesù era in casa, si radunarono tante persone da non esserci più posto neanche davanti alla porta».
L’impressione che in Ciad si faccia ressa davanti alla porta della chiesa è molto netta, specialmente nei giorni di festa. Si possono vedere fiumane di gente, dai vestiti sgargianti, che si affrettano verso chiese, aree sacre, o all’ombra di immense piante, dove si celebra la preghiera domenicale con o senza eucaristia.
Questo è tanto più stupefacente, se si pensa che il cattolicesimo è entrato piuttosto di recente in Ciad. La missione di Fianga, per esempio, non ha neppure 50 anni. La popolazione di questa nazione, che si autorappresenta come paese musulmano dal punto di vista dell’appartenenza religiosa, può essere divisa a metà, se da una parte si collocano i musulmani (51%) e dall’altra si mettono insieme seguaci delle religioni tradizionali e cristiani (protestanti e cattolici).
C’è ressa anche di richiedenti il battesimo. Nella sola missione di Fianga sono in media 200 gli adulti che chiedono di incominciare l’itinerario della preparazione al battesimo, anche se, poi, dopo i 3-5 anni di preparazione non ne resterà che una quarantina.
Questi dati sembrano tanto più lusinghieri, se si tiene conto di quanto mi è stato detto da un vecchio missionario del nord Camerun: l’attuale crescita dell’islam è più di carattere fisiologico e non più di carattere propulsivo, come sembrava essere nelle decadi 70-80 del secolo scorso.
Tuttavia questi dati non sono in grado di giustificare alcun trionfalismo. Molti preti locali, che d’altronde stanno diventando sempre più numerosi, sembrano più attratti dal ruolo che chiamati alla sequela di Gesù, pastore che dà la vita. La loro richiesta di amministrare il battesimo ai bambini segnala la tendenza a una pastorale di conservazione e di contenimento, piuttosto che a una pastorale missionaria. La debolezza delle motivazioni che li conducono al sacerdozio ha pesanti ripercussioni sul loro stile di vita. In genere non li ho visti molto motivati ai problemi di inculturazione del cristianesimo.
La produzione dei testi della bibbia e della liturgia sembra essere più la preoccupazione degli stranieri che dei locali. Per quanto riguarda i battezzati non è raro il caso che un certo numero di essi tornino a certe pratiche ancestrali, abbandonando di fatto la vita cristiana.
La maggioranza dei richiedenti il battesimo è costituita generalmente da giovani appartenenti a famiglie cristianizzate o per lo più di religione tradizionale. «La ressa» che si nota alle porte della chiesa nasconde, quindi, ambiguità e debolezze che potrebbero compromettere l’incontro forte e personale con Gesù Cristo.

I MALI PARALIZZANTI

«Si recarono da lui con un paralitico».
Il Ciad può essere raffigurato dal paralitico? Oggi è un po’ rischioso parlare «dell’Africa del dolore, della fame, della morte…».
Le classi medio-alte africane, assecondate dai mass media occidentali desiderosi di cancellare ogni traccia di neo-colonialismo, rifiutano questa immagine dell’Africa. Non è così in America Latina, dove la presa di coscienza collettiva e dichiarata dei propri mali provoca dinamiche di liberazione. Non vorrei che tale atteggiamento delle classi medio-alte africane significhi una presa di distanza rispetto alle masse dei poveri del continente e un occultamento delle loro condizioni di vita.
Durante il periodo che ho passato nella missione di Fianga ho avuto la forte sensazione che il tema della vita costituisca il messaggio centrale del cristianesimo della savana, la quale resta un luogo dove la vita sembra minacciata dalla onnipresente signoria della morte. Le minacce più violente sono costituite dalla malaria e dall’Aids.
La malaria, più di tutto. La morte per malaria sembra ancora più gratuita, perché è conosciuta e curabile. Ma quando è unita a una mancanza cronica di alimentazione bilanciata, alla tenace resistenza di pregiudizi legati alla cultura tradizionale, alle distanze che separano le persone dai dispensari e ancor più dall’ospedale, all’assenza di mezzi di trasporto, all’impraticabilità delle vie di comunicazione, essa è all’origine di un numero così elevato di morti da creare l’impressione di trovarsi di fronte a una qualche forma di peste.
Il tema della vita e, perciò, il tema della liberazione dalle cause strutturali, ambientali, igienico-sanitarie e culturali che la minacciano è, forse, il motivo profondo che determina l’attrazione avvertita da molti africani della foresta verso Gesù guaritore.
«Il grido dell’uomo africano» come è stato definito dal teologo camerunese J. Marc Ela, è un grido che reclama vita e liberazione.

GUERRA E TURBOLENZE

A questi fattori di morte si unisce ora la guerra. Una guerra strana che riguarda direttamente alcuni territori, soprattutto quelli frontalieri con il Sudan e, particolarmente, con il Darfour. Bisogna tentare di individuare nella migliore maniera possibile, le dinamiche di questa strana guerra e le sue conseguenze sulle popolazioni.
Da più di 2 anni affluiscono verso il Ciad i rifugiati della regione del Darfour, cacciati da ribelli armati, i cui collegamenti con il governo di Khartoum sono avvolti da una complice oscurità. La fuga verso il Ciad era favorita non solo dalla vicinanza con il Sudan, ma anche dal fatto che le popolazioni profughe appartenevano, in genere, alla stessa etnia del presidente ciadiano. Esse, perciò, confidavano in una qualche solidarietà etnica con «il fratello presidente».
Ma all’interno del clan presidenziale, in questi ultimi mesi, si è sviluppata una lotta intestina durissima, determinata, molto probabilmente, dalla spartizione del potere e delle risorse: da 3 anni il Ciad è un paese produttore di petrolio. Gli «oppositori» trovano, perciò, nella regione del Darfour un ambiente favorevole per stabilire alleanze e svolgere eventuali incursioni in territorio ciadiano. Dal mese di dicembre 2005 si è creato uno stato di belligeranza tra il Ciad e il Sudan, il cui esito finale è estremamente incerto.
Il resto del paese apparentemente non sembra sfiorato dalla guerra, anche se alcune situazioni fanno capire che, di fatto, il Ciad si trova in un periodo di turbolenza.
Fra queste segnalo le retate di giovani che, specialmente nei mercati della capitale, vengono fatte dalla polizia che poi, dopo averli rasati e rivestiti di casacca militare, provvede a inviarli al fronte. Insegnanti e personale medico e paramedico da mesi non vengono pagati, creando una forte inquietudine sociale.
Questi e altri fattori fanno capire che i soldi che restano, dopo il saccheggio operato da una voracissima corruzione, vengono utilizzati per la guerra, piuttosto che per lo sviluppo del paese.

I BARELLIERI

«Il paralitico era portato da 4 uomini».
Chi sono i 4 volontari che si fanno carico del popolo della savana, paralizzata dai suoi molti mali? Durante il mio ultimo soggiorno ho avuto la conferma che non siamo noi, i bianchi, i barellieri dell’Africa.
Essi sono africani, anche se per il momento sembrano essere maledettamente pochi e anche se per ora non hanno raggiunto quella dimensione collettiva che caratterizza, invece, i popoli e i credenti latinoamericani.
È giusto ricordare almeno alcuni di questi barellieri che, a mio parere, costituiscono il fermento pasquale, che è all’opera all’interno di una situazione apparentemente stagnante.
Ricordo Arsène, un giovane medico ciadiano di 34 anni, padre di 4 figli. Laureato a N’djamena, scarta l’ipotesi di farsi un gabinetto medico privato nella capitale, per inserirsi nel servizio pubblico. Viene assegnato all’ospedale di Fianga, lasciato già da alcuni anni da médécins sans frontières.
Prima di arrivare a Fianga fa uno stage nel campo specifico dell’Aids. A pochi mesi dal suo arrivo ha già messo in piedi un comitato per la lotta contro l’Aids, dove sono presenti 2 suore cattoliche, alcuni membri delle chiese protestanti, un giovane musulmano.
Allo stesso tempo fa interventi chirurgici e pratica le cure mediche che sono possibili. Nonostante qualche fallimento che gli brucia dentro, continua con passione la sua lotta personale contro «la signoria della morte», che sembra dominare senza efficace contrasto nella zona.
Un efficace ruolo di barelliere è svolto da suor Maria Albert, settantenne senegalese, che dal mattino alla sera visita malati di ogni tipo ed entra nelle case di tutti, accolta con affetto da musulmani e cristiani e non cristiani. Con i suoi metodi, pur ispirati a un cristianesimo di altri tempi e da una molto improbabile farmacopea, riesce a convincere molti malati di Aids a dichiararsi, a sottomettersi al test.
Considero barellieri due signori, nativi di un grosso villaggio, che hanno il coraggio e il potere di far mettere in prigione il temutissimo e intoccabile «capo locale», che aveva bastonato a morte il loro fratello trentenne.
Anche Pascal, responsabile del centro per disabili, fisioterapista autodidatta, fa parte a mio parere del gruppo di barellieri. Con il tempo si è fatto un fiuto particolare per scoprire le persone colpite da handicap e metterle a contatto con il centro.
Infine, dentro questo ristretto gruppo di barellieri, inserirei il giovane emigrato, di ritorno da Douala, che sfida costumi e convinzioni ancestrali, facendo ricorso alla giustizia ordinaria che finisce per dargli ragione.
Sono tutti barellieri con un volto africano. L’opera di qualsiasi bianco sarebbe meno efficace della loro.

FARISEI… AFRICANI

«Seduti là, erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: perché costui parla così?».
L’azione liberatrice di Gesù viene criticata dagli scribi, cioè dai ringhiosi custodi delle leggi e delle tradizioni svuotate di anima e di senso. Nell’Africa profonda sono all’opera fattucchieri, impostori, gerarchie, che vogliono conservare immutabile il passato.
Certo, le culture, perché non di una sola si tratta, non possono essere liquidate come eredità inutile o, peggio, dannosa del passato. Negli anni ‘70, l’Africa ha riscoperto e riaffermato la sua autenticità e identità culturale, a dire il vero in maniera piuttosto sventurata in alcuni paesi, come l’ex Zaire di Mobutu, la Repubblica Centrafricana di Bokassa, il Ciad di Tambalbaye. In ogni caso, la sua cultura costituisce la spina dorsale di un popolo e delle sue strategie di organizzazione sociale e di resistenza.
Tuttavia, nel delicatissimo film Yaaba (nonna), successivo a quel periodo, opera di un regista africano, si ebbe il coraggio di guardare in maniera critica agli aspetti disumani legati al rispetto di certe tradizioni. Il compito di superarli fu affidato, nel film, a un bambino, che nell’innocenza del suo rapporto con una donna anziana, proscritta dalla comunità perché considerata come «strega», ha messo a nudo i limiti e le disumanità di certi comportamenti indotti dalla rigida osservanza della tradizione.
La sfida dell’inculturazione nei diversi paesi africani ha bisogno anche di questi occhi e comportamenti innocenti, liberi e liberati dalla paura.
Congelare le tradizioni e le culture africane, nonostante il mutamento dei tempi, è lo stesso che distruggerle e risponde più agli impossibili sogni degli occidentali che alla ricerca degli africani.

FACCIAMO TIFO

«Ti ordino: alzati e va a casa tua!».
«Alzati e cammina»: è lo slogan della campagna proposta alla gioventù cristiana del Ciad per quest’anno. Con due numerosi gruppi di giovani ho realizzato due ritiri e qualche incontro su questo tema.
La gioventù ciadiana sembra essere particolarmente sensibile a questo appello di Gesù. Penso che, per accoglierlo in profondità, i giovani devono superare due sfide: la prima è la titubanza, o addirittura la paura, che essi provano di liberarsi da maniere di pensare e agire, determinate da alcune tradizioni ancestrali. Credo che, razionalmente, essi riescano a vedee i limiti e la nocività, ma emotivamente è molto difficile opporvi una efficace resistenza.
La seconda sfida è costituita dall’attrazione del consumismo e dei modelli occidentali che esercitano un forte fascino su di essi.
«Africa, alzati e cammina»: se questo avverrà, gli africani lo dovranno solo a se stessi. A noi il compito di stare ai limiti dell’area, di offrire, quando richiesti, la nostra collaborazione e di fare tifo perché ciò avvenga.

Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto




Guerra strana… ma non troppo

Da mesi il Ciad è sull’orlo della guerra civile: gruppi ribelli ed esercito regolare si combattono nelle regioni dell’est e del sud del paese, ai confini con il Sudan e la Repubblica Centrafricana; il 14 aprile la guerriglia è arrivata nella capitale, N’Djamena, nell’ennesimo tentativo di rovesciare il presidente Idriss Deby, al potere dal 1990. Il colpo di stato è fallito, ma la tensione rimane; l’episcopato ciadiano teme una catastrofe nazionale.
Ad aggravare la situazione ha contribuito la modifica della Costituzione, per consentire al presidente un terzo mandato, e della legge del petrolio, per usae i proventi in spese militari, anziché in opere pubbliche a lungo termine, come imposto dalla Banca mondiale.
Tali cambiamenti hanno provocato diserzioni in massa dell’esercito inviato a sedare le ribellioni al confine con il Sudan, ma soprattutto tra gli alti ufficiali, quelli più vicini al presidente, passati dalla parte dei ribelli, raggruppati sotto diverse sigle: Fronte unito per il cambiamento (Fuc), Fronte unito per il cambiamento democratico (Fucd), Fronte per il cambiamento, l’unità e la democrazia (Scud), Movimento per la democrazia e giustizia del Ciad (Mdjt), Coalizione per la democrazia e la liberà (Rdl).
A prima vista sembrerebbe una lotta di potere tutta intea, tra i membri dello stesso clan di cui fa parte il presidente: gli zaghawa, originari del Darfour. Ma i burattinai che tirano le fila sono altrove.
La Francia, per difendere la stabilità politica nella regione e nel resto del continente, mantiene in Ciad un contingente di 1.200 soldati, offrendo aiuto logistico e informativo all’esercito regolare, come ha fatto durante il colpo di stato.
Gli Stati Uniti sono padroni delle finanze del paese attraverso la Banca mondiale, che finanzia le compagnie americane Exxon e Chevron Texaco nella trivellazione ed estrazione del petrolio, che dal bacino di Doha viene convogliato da un lungo oleodotto sulle coste atlantiche del Camerun.
La Cina fornisce armi e mezzi di trasporto ai ribelli, nella speranza di mettere le mani sulle risorse petrolifere, ancora inesplorate, della regione confinante con il Sudan, e convogliarle verso il Mar Rosso.
Di fronte alle turbolenze del Medio Oriente, l’Africa sta diventando la grande riserva petrolifera sulla quale si rivolgono le mire di Usa e Cina, sempre più assetata di oro nero. Il Ciad è una pedina strategica nel grande gioco per l’accaparramento energetico del futuro.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Un prete per la pace

A quarant’anni
dalla morte del prete «guerrigliero» colombiano Camillo Torres, la
chiesa continua a predicare l’astensione da ogni tipo di violenza, ma
non quella dall’impegno sociale, per la giustizia e la pace. La storia
di Giacinto (Jacinto) Franzoi, missionario della Consolata in Colombia,
incarna questo secondo cammino.

Nato a Trento nel 1943, in pieno conflitto mondiale, padre Giacinto Franzoi si definisce un «figlio della guerra». L’esperienza della fame, la grande povertà, la prematura scomparsa della madre e la dura esperienza del dopoguerra lo hanno forgiato, lasciandogli un carattere ribelle e un atteggiamento da leader nato, tratti che ancora oggi lo accompagnano e contraddistinguono.
La sua storia di missionario comincia da giovanissimo, quando suo padre lo fece entrare nel seminario della Consolata, l’unico modo che aveva per potergli offrire un’istruzione decente. Lì, ebbe modo di incontrare amici, ma anche di dover fare i conti con la disciplina che l’istituzione imponeva. Nonostante le difficoltà, l’unico momento di crisi che ricorda di quel periodo fu quando, in pieno noviziato, stava per cedere alle sirene di due importanti squadre di calcio, ben impressionate dalle sue gambe atletiche poste al servizio della squadretta dei missionari. Ma più del football poté la missione…
Nel 1978, venne inviato in Colombia, a Cartagena del Chairá, una piccola cittadina adagiata sulla riva del fiume Caguán, nella provincia meridionale del Caquetá. Del viaggio di andata gli sono rimasti ben impressi nella mente i 45 giorni di mare e l’improvvisa notizia della morte di suo padre, che lo colse nel bel mezzo della traversata atlantica. Dovette ricacciare indietro la tentazione di ritornare per poter andare a benedire la tomba del suo vecchio e tirò dritto per il suo cammino. Fu su quella nave che iniziò a scrivere il diario, un racconto che lo accompagnerà per anni e verrà pubblicato tempo dopo con il titolo: «Dio e coca».
«Arrivavo nel Caguán carico di tutto quanto avevo letto sulla teologia della liberazione: molti sogni albergavano nel mio spirito che è sempre stato un po’ rivoluzionario. Sul posto mi incontrai con rivoluzionari di altro tipo: i guerriglieri. L’incontro, devo ammettere, fu alquanto deludente: trovai una guerriglia che non aveva sostanza e aveva perso tutta la sua carica profetica», commenta al riguardo padre Giacinto.

UN’AMARA LEZIONE

I libri non avevano potuto prepararlo in anticipo su quanto avrebbe incontrato in quelle terre: la coca e la guerra. L’amaro apprendistato con la guerra iniziò immediatamente dopo il suo arrivo, quando le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia, il principale movimento guerrigliero colombiano, ndr) assassinarono due catechisti della parrocchia. Il sacerdote ricorda così quest’avvenimento: «Li crivellarono di colpi mentre andavano a cavallo e mi toccò seppellirli. La guerriglia non ha mai potuto sopportare chiunque avesse una posizione di preminenza all’interno della comunità. Come sempre accade quando c’è un funerale fra la nostra gente il cimitero era stracolmo di persone venute a dare l’estremo saluto a questi due concittadini. E lì – non potevo credere ai miei occhi – mischiati fra la gente c’erano anche i loro assassini. Scelsi il brano di Caino e Abele, dove si dice che l’assassino non deve essere perseguitato dagli uomini perché ha già ricevuto il proprio castigo: andrà per il deserto come un serpente, carico del rimorso per la sua colpa. Pare, però, che alla gente del nostro tempo queste parole suonino come leggende vuote che non provocano nessuna reazione».
Quasi per par condicio, la seconda amara lezione la ricevette pochi mesi dopo dall’ esercito governativo, che stava facendo operazioni militari nella zona. Arrivarono in forze, portando cadaveri di guerriglieri che pendevano appesi ad un elicottero; li lasciarono cadere dall’alto nella piazza centrale del paese. «Fu un vero e proprio insulto alla decenza», ricorda con rabbia padre Giacinto. Insieme a un funzionario del comune di Cartagena si recò immediatamente a reclamare i corpi dei guerriglieri morti per poter dar loro sepoltura, ma i soldati presero tempo, e non vollero procedere alla consegna dei cadaveri. Passò la notte e, al mattino successivo, i corpi erano scomparsi. «Mi dissero che erano dei banditi e che non meritavano nessuna sepoltura. Questa frase mi offese moltissimo. Nell’antichità si usava trattare con pietà il corpo di un nemico morto. Si rendeva onore al cadavere. Questa guerra, però, non sa neppure che cosa significa la parola onore».
Padre Giacinto non si arrese e continuò a cercare con determinazione nei campi intorno al paese, fino a quando, dopo tre giorni, scovò la traccia delle fosse scavate di fresco nel terreno del vecchio aeroporto di Cartagena. Giacinto, che non è solito «mandarle a dire» a qualcuno, non risparmiò una battuta ai militari che continuavano a seguirlo come ombre: «Andate a dire al presidente Turbay che il prete di Cartagena del Chairá è stufo di essere angariato e preso in giro. Perché l’esercito colombiano deve uccidere due volte i propri nemici?».
Giacinto fece ritorno in Italia, dove vi rimase per cinque anni. Arrivato nuovamente in Colombia, nel 1988, la situazione era peggiorata ulteriormente. Gli venne assegnata la parrocchia di Remolino del Caguán, un villaggetto che egli stesso aveva collaborato a fondare anni prima e che ora stentava a riconoscere: «Una Babilonia. La coca era venduta per le strade. Il paese era pieno di bordelli e la violenza il pane quotidiano. A Remolino ho imparato a convivere con il delitto, la corruzione e la guerra», ricorda con dispiacere. Gli toccò persino comprare una sala da ballo per poter costruire la chiesa del paese.
«Lo stato è sempre stato assente in quest’angolo della Colombia, come se questo luogo non significasse nulla per la politica del governo, visto che era così lontano dalle città e dai centri di potere».

LA PROVA PIÙ DIFFICILE

Nonostante le grandi difficoltà, padre Giacinto si è sentito in dovere di restare sul posto, per difendere il valore della vita. Un lavoro, il suo, ricco di tante, troppe delusioni. Nel 1992, avvenne un episodio che ricorda come il più amaro di quel periodo.
«Un sabato, proprio alla vigilia della celebrazione delle cresime, la guerriglia arrestò un individuo accusato di aver violentato un bambino e voleva fucilarlo sul posto, nella pubblica piazza, davanti a tutta la gente. Tutto il paese era lì riunito, gridando di ammazzarlo. Decisi di intervenire; afferrai l’uomo di peso e lo consegnai alle autorità del comune. Persino i bambini del posto mi correvano dietro, prendendomi in giro e insultandomi. Mi sentii come defraudato. Avevo rischiato la mia vita, la mia reputazione e questi erano i frutti! Presi su due piedi la decisione di andarmene. Quella, fu la notte più amara della mia vita. Piansi a lungo, perché pensai di esser stato un fallimento come sacerdote e come uomo», dice Giacinto, ricordando come aveva pensato di lasciare il paese la mattina successiva, all’alba.
«Avevo la valigia pronta, vuota, con dentro solo la mia rabbia quando la gente iniziò a riunirsi nella piazza. C’erano circa 700 persone. Gli uomini riconobbero il loro errore e mi chiesero perdono. Ma io, veramente, sentivo di non farcela a rimanere. Infine, arrivò un bambino, uno di quelli che il giorno prima era stato tra i più aggressivi nei miei confronti. Mi disse: “Padre, io ero tra quelli che ieri non la stavano ad ascoltare e la insultavano. Mi perdoni”. Quel bambino mi provocò una stretta al cuore. Mi chiusi un attimo nella mia stanza, dicendomi “Giacinto, è vero, questi te l’hanno fatta sporca, ma che hai intenzione di fare?”. Uscii con forza dalla canonica e, con tutto il coraggio che avevo, dissi agli adulti presenti: “Non è per voi che ho deciso di restare, ma per questo bambino che è venuto a chiedermi scusa. È per lui che continuerò a lavorare in questo posto”. Decisi di restare a Remolino».
Padre Giacinto non se ne andò, sapendo che la sua vita sarebbe stata costellata di giorni felici e di altri amari. «Il benessere, frutto della coca, finì presto e tutto ciò che rimase fu la stessa povertà di sempre. Con l’unica differenza che, in questi ultimi 15 anni, la chiesa si è convertita in un punto di riferimento morale e nel motore di una nascente economia basata su attività economiche lecite, come la produzione di cacao e caucciù e l’allevamento di bestiame. Infine, per rispettare l’impegno contratto con i giovani del posto, quest’anno entra in funzione un collegio per 60 giovani che potranno studiare e conseguire l’esame di maturità. Avranno così un’alternativa in più per non scegliere un futuro fatto solo di guerra o narcotraffico».
Sono stati in molti a definire una pazzia il pensare di poter costruire un collegio nel profondo della foresta, ma in padre Giacinto Franzoi vibra ancora il cuore di quel ragazzo orfano e ribelle che imparò a Trento come si può ricostruire una nazione dopo la guerra. O nel bel mezzo di essa.

Semana




L’eretico dell’amore

Prete di frontiera, è di scena nell’Italia del dopoguerra come padre degli abbandonati. Ligio e ribelle, obbediente e rivoluzionario. Si definisce un acrobata sul trapezio del tempo, un funambolo sul filo d’acciaio della fede a tentare l’esperienza di una comunità di famiglie. Nel 25° anniversario del trapasso di don Zeno Saltini, il suo confidente, Fausto Marinetti, ne celebra la memoria, mettendo insieme, con le sue parole, questa testimonianza: Zeno racconta Zeno.

Fin da giovane sento la missione di dedicarmi agli altri. Sotto le armi, il mio più caro amico, un anarchico, mi provoca: «Voi cristiani mangiate Cristo in chiesa e fuori avete i poveracci; vi dite fratelli e tra voi ci sono sfruttati e sfruttatori. Non m’interessa il singolo, ma il fenomeno sociale. E le crociate, l’inquisizione, le guerre di religione?».
Che lite! Ha torto lui a demolire senza costruire; ho torto io a essere un cattolico borghese. Sconvolto, chiedo a Dio di morire. Prendo una boccata d’aria alla finestra, fisso un punto lontano: «Né padrone né servo. Cambio civiltà in me stesso». Non un santo, ma un ateo è riuscito a farmi sentire complice del delitto sociale. Decido di rispondergli, testimoniando il vangelo con la mia vita.
Pian piano vado scoprendo, che la fede non è una dottrina sterile e astratta; Cristo non è una mummia. Lo abbraccio, vivo, nei diseredati. Affondo cuore e mani nelle stigmate dei piccoli delinquenti. Li tiro fuori dalla galera e li prendo con me.
Fondo una scuola di arti e mestieri. Risultato? Noi assistenti ci gratifichiamo, bevendo le loro lacrime, ma loro si sentono sempre dei beneficati, dei diversi. Finché non si è alla pari, non ci può essere rapporto di amore.
Studio legge per difenderli in tribunale. La laurea in mano, mi dico: «Potrei mitigare la pena, ma sono stanco di fare del bene in modo che tutto rimanga come prima. Curare è bene, prevenire è meglio. Basta con l’assistenzialismo, mi faccio prete».
Dopo un anno mi presento all’altare con Barile, appena uscito dal carcere. Il primo di 4 mila. La mia messa è quella lì: sposo la chiesa, le do un figlio, non un assistito. Odio l’assistenza. Sono le lacrime delle vittime a darmi la passione per una nuova società, a farmi sentire la nausea dell’assistenza. In parrocchia mi faccio padre del popolo, perché sono due secoli che la chiesa insiste sul sociale e sul politico, ma non sentiamo questi problemi.

Conosco le obiezioni del mondo missionario: «Come essere alla pari con gli oppressi del mondo? Da sempre portiamo religione, cultura, civiltà: cosa è cambiato? I popoli del Nord, bianchi e cristiani, hanno in mano mezzi e strumenti per asservire i popoli del Sud. La religione è funzionale all’economia globale? Dove appoggiare l’uomo evangelico, se non c’è il minimo di dignità umana? Come fare l’adozione a distanza dei popoli-schiavi?».
Rispondo con la mia vita. A che serve denunciare le cause del delitto sociale, se non si propongono esempi alternativi? La canonica piena di abbandonati m’impensierisce: va bene accoglierli, ma così siamo servi del sistema. Esso produce le vittime e noi gliele curiamo. È meglio battersi in piazza, perché questi ragazzi sono frutto di una politica sbagliata. Se non si cambiano le strutture, non cambia niente. Non solo, ma collaboriamo con il disordine costituito.
Sulle piazze, nelle osterie, fisarmonica a tracolla, vangelo nel cuore, invito le donne a venire a fare da mamma e le famiglie a frateizzarsi tra loro. Nel ‘41 arrivano le mamme; nel ’48 le famiglie volontarie. Occupiamo l’ex-campo di concentramento di Fossoli, uomini e bambini buttano a terra muraglie e reticolati con le mani. I giornali parlano di guerra degli angeli. Il mio sogno di una città di Dio prende forma: Nomadelfia, dove la frateità è legge.
Finalmente le famiglie si frateizzano, offrendo al mondo un esempio di vita sociale, la cui legge è il vangelo: tutto quello che è mio è tuo; quello che è tuo è mio; non dalla carne, non dal sangue, ma da Dio siamo nati. Una parentela nuova, oltre le razze e le patrie. Vogliamo far vedere come è possibile essere un popolo nuovo a livello individuale, familiare, sociale e politico.
Perché il cristianesimo non ha attaccato in Cina? Perché non l’abbiamo praticato neppure in Occidente. Non è ancora nato. Tante opere di beneficenza, ma di giustizia, neanche l’ombra. Senza di questa non si fa l’uomo, tanto meno il cristiano. Non più una giustizia provinciale, ma planetaria.
Gli orrori della guerra m’insegnano che in situazione di calamità sociale non è lecito non essere eroi. Al tempo degli schiavi, la fede era così viva che sono sorti i mercedari, uomini che scambiavano se stessi con gli schiavi. E oggi cosa risponde la cristianità ai popoli del terzo mondo, incatenati da nuove schiavitù?
Nomadelfia non è che il laboratorio nel quale lo Spirito mi ha introdotto, per fare l’esperimento di applicare la fede a tutto l’umano. Un modellino piccolo piccolo, ma, se riesce, molti potranno ispirarsi ai suoi principi.
Nel ’51 alcuni disoccupati vengono a chiedere lavoro. «Se volete farvi fratelli, condividiamo quello che c’è, ma noi non siamo padroni di nessuno». Macché fratelli! Vogliono la paga a fine mese.
Danilo Dolci vuole tenerli a tutti i costi. Gli spiego: «Non sono io che rifiuto di aprire le porte ai sofferenti, è la legge della impenetrabilità dei corpi che lo impone. Se il chirurgo tralasciasse di operare il paziente che ha sotto mano, per curare quello che bussa alla porta, non sarebbe nei piani di Dio. A operazione ultimata, curerà l’altro. Noi stiamo facendo l’operazione chirurgica più delicata: tagliare l’individualismo globale, per donare al mondo un esempio di santità sociale».
Ci sono due vocazioni: quella del samaritano, che cura i feriti della società-brigante, e quella di chi vuol piantare una nuova società di fratelli, nella quale non ci sia più bisogno di curare le vittime. Io ho scelto di farmi fratello universale. C’è una sola forza che può salvare il mondo: la frateità.

Nel dopoguerra la mia provocazione sarà travisata dalla paura della guerra fredda, dall’inconfessato timore che un governo di sinistra impedisca al papa di esercitare il suo potere spirituale sul mondo intero.
Predico in piazza: «Fate due mucchi! Chi ha i soldi da una parte, chi non li ha dall’altra. Noi poveracci siamo il 95% e andiamo al potere a fare le leggi che vanno bene per noi… Che cosa sono due monetine, niente! Ma se le metti davanti agli occhi, come fai a vedere gli altri? Dio ti ha dato una misura precisa: uno stomaco, non due. Perché vuoi guadagnare più dell’altro?».
Ripeto in alto e in basso: «Le opere di Dio per loro natura portano lo scompiglio nelle coscienze». Le folle, elettrizzate, sognano con me un mondo nuovo. Dio m’ha insegnato a toccare le corde magiche del cuore. Comunico più con la presenza, con il gesto, con tutta la persona. Il mio linguaggio è tagliente, ma non urta, perché parlo col cuore in mano: «I poveri sono dei derubati, non dei condannati da Dio a essere miseri. E da chi? Da tutti coloro che non sono poveri».
Quando narro le parabole politiche, il popolo annuisce, applaude il sogno di tutti. Come nella piazza di Vignola: «Il signorotto abita nel castello sulla collina. Tutte le terre della vallata sono lavorate dai suoi sudditi. Un giorno apre la finestra e vede una moltitudine dirigersi verso lo stradone del castello, chi con il badile, chi con la forca, la falce, la vanga. Chiede al capo dei servi: “Cosa fa quella gente, laggiù? Parla chiaro e subito”. Capiva che si preparava il temporale.
– Béh! Se vuol proprio saperlo, quella gente è stanca di essere sfruttata… da suo padre, dal suo nonno, dal suo bisnonno.
– Ma questo è contro la legge, l’ordine!
– Signore, vada lei a spiegarglielo.
Il signorotto raduna tutti i servi: “Tu, prendi mille lire, corri là in mezzo e grida: viva Gesù Cristo. Tu, ecco mille lire, vai là e grida: viva Carlo Marx. Tu, grida: viva la Russia. Tu: viva l’America”. E sta alla finestra a guardare.
I contadini dicono a quello che grida viva Gesù Cristo: “Dai che andiamo al castello a farla finita”.
E lui: “Viva Gesù Cristo”.
“Cosa dici? Cosa c’entra?”.
In quel mentre saltano su gli altri: “Viva Carlo Marx”; “Viva l’America”; “Viva la Russia”. E si danno tante di quelle botte da orbi, che è un disastro.
Il signorotto chiude la finestra: “Anche questa volta mi è andata bene. Posso dormire tranquillo“».

Negli anni ’50 il sogno della città di Dio è alle stelle. La domenica, curiosi e tifosi della carità, invadono il campo. La comunità, benedetta dai prelati, ammirata dai visitatori, elogiata dalla stampa, sogna borgate e città. Le mamme prendono dal brefotrofio di Roma 120 scartini. Il card. Schuster, in duomo, affida loro una quarantina di abbandonati, pronunciando parole famose: «Tutto il resto è coice, Nomadelfia una pagina di vangelo». Il nunzio, mandato per inquisire, torna entusiasta: «Una città così non la si può capire da Roma, bisogna vederla con gli occhi».
Io guardo in prospettiva: con questo tasso di crescita annua, nel 1972, se non succederanno diaspore, saremo 120.000. È logico, quindi, chiedere al governo un territorio di 30 mila ettari solo per cominciare…
Il congresso di Nomadelfia stabilisce di «costruire una borgata nomade per la missione al popolo; prepararci a costruire una città in Africa; avere un’ambasciata presso la Santa Sede; il papa, oltre che vescovo di Roma, sarà anche vescovo della città di Nomadelfia».
Quali reazioni possono provocare, al di qua e al di là del Tevere, sfide e denunce, proiezioni di città fratee con le vittime della società? Intanto un dossier della prefettura di Modena parla di «amministrazione incontrollata e debiti a non finire». Il ministro Scelba non accetta Nomadelfia e non ripassa gli aiuti assistenziali. Non mi resta che scrivere a mons. Montini: «Guardi, eccellenza, che lo stomaco è d’interesse divino…». Il ministro invia il rapporto modenese al Vaticano, lamentandosi della mia fede troppo audace nella Provvidenza e delle «idee sociali un po’ spinte di Zeno».
Troppo dure le mie sfide, inapplicabili le proposte? «Nessuno ci vuole, perché non siamo né di destra, né di sinistra, né di centro: abbiamo cambiato strada». Paradossale prendere il vangelo sul serio? Praticarlo, poi…? Svuotare il brefotrofio di Roma, farla finita con i correzionali, pretendere di liberare i carcerati, urlare in piazza che siamo fratelli, incominciando dal portafoglio… Non è troppo fustigare i ricchi e le istituzioni inadempienti?
Il silenzio della chiesa avrebbe potuto voler dire consentimento? Secondo padre David Turoldo, proprio la chiesa mi avrebbe impedito di applicare il vangelo: «Ci hanno fermati perché avevano paura che stessimo riuscendo, che noi facessimo la rivoluzione cristiana. Ed è stata impedita dalla chiesa con la DC».

Nel 1951, ridotti alla fame, i miei rifiutano di votare il partito della chiesa, per dare una lezione ai politici. Il Vaticano mi impone di ritirarmi dalla comunità, non può tollerare che un prete, nell’Emilia rossa, predichi la giustizia, facendo il gioco dei senzadio! La mia identificazione con le vittime s’è consumata. È in nome loro che mando lettere e cuore al papa, per scuotere le fondamenta di San Pietro: «Il costume sociale della chiesa è pagano. Santo Padre, la rivoluzione comincia dall’alto. Non sono un ribelle, ma una vittima».
Dei politici dirò: «Il caso Nomadelfia, una delle infinite prepotenze di Scelba. Il mondo ritiene necessario sopprimerci, perché non ci sopporta. Ci hanno crocifisso nel nome di Dio. Non è un’accusa, ma un pianto».
Il ministro Scelba, temendo un’emorragia di voti, ordina la liquidazione coatta di Nomadelfia: gli adulti sono rispediti nei luoghi d’origine, gli accolti riportati nei collegi. Senza il padre alcuni figli tornano in galera. Con la morte nel cuore chiedo la laicizzazione pro gratia: «Se non posso essere loro padre come prete, lasciatemelo essere come laico».
Mi capita un fatto strano e corro a raccontarlo al card. Ottaviani: «Sa cos’è successo stanotte? Entro in pizzeria e vedo una ragazza tutta pitturata, con un uomo: una delle mie figlie.
– Cosa fai qua?
– Tu mi hai abbandonato. Questo signore mi mantiene e faccio quel che vuole…
Neanche a farlo apposta, ho sotto il naso la riprova che i figli tornano alla malavita per causa mia. Io ho il dovere di dirle che, se non rimedio, non posso celebrare, perché sono in peccato. Adesso lo sa anche lei ed è corresponsabile. Fra poco lei parla con il papa ed è responsabile anche lui. Se non mi date la laicizzazione, né io, né lei, né il Santo Padre possiamo celebrare. Mi sono fatto prete per salvare i figli alla deriva e adesso chiedo la laicizzazione per salvarli di nuovo. Tanto, se sono sacerdote, lo sono lo stesso».
Qualche giorno dopo il vescovo mi convoca:
– È arrivato il decreto. Quanto mi dispiace!
– Dispiace anche a me. Fino ad oggi ho sacrificato Cristo, ma questa mattina ho immolato lui e la mia persona. Ed è stata l’ultima messa.

Quasi tutti mi disapprovano. La laicizzazione è considerata una defezione sacrilega o un castigo per colpe gravi. Dalla mia, pochi intimi. Il sacrificio più grosso della mia vita. Quando si arriva a questi estremi, ciò che conta non è la propria persona, ma il bene dell’umanità e della chiesa.
Ma io continuo a torturarmi e a torturare: «Può la chiesa condannare Nomadelfia? A me pare di no, perché condannerebbe se stessa».
E seguito a pestare i piedi, perché senta, nella mia, la voce delle vittime: «Perché ubbidiamo? Lo facciamo come fanno i bambini, consapevoli che da soli nulla possono. Perché ci impenniamo senza ribellarci, ma solo pestando i piedi? Lo facciamo come fanno i bambini, sicuri che, se avremo ragione, il Padre ce la darà e piegherà la Madre a farlo».
Laicizzato, alla fame, continuo il pellegrinaggio nel deserto della chiesa verso la nostra terra promessa, per donarle un popolo che dica con le opere: «Siate nostri imitatori come noi, in quanto popolo, siamo imitatori di Cristo».
Tra noi non c’è il ricco e il povero, padrone e servo, benefattore e beneficato, assistente e assistito. Tutti figli, tutti fratelli, spezziamo il pane sicuri di non mangiare la nostra condanna.
Per dieci anni (1953-1962) vado a messa come un laico qualsiasi. Vi lascio immaginare il mio sacrificio a sentire certe prediche! L’unica cosa, cui mi aggrappo con le vittime è quella briciola di pane innalzata sul mondo, che dice alla storia la verità ultima sull’uomo: «Avevo fame di fratelli e voi vi siete fatti miei fratelli».
Negli anni ’60, irrobustiti i figli, placati i creditori, chiedo di riprendere l’esercizio del sacerdozio. Il 6 gennaio 1962 salgo l’altare, con Barile e tutti gli altri figli, per celebrare la mia seconda prima messa.

Che cosa è rimasto della semente evangelica, che ho gettato a piene mani? Una comunità con una cinquantina di famiglie frateizzate, una tenuta di 380 ettari, sulla statale Siena-Grosseto: Nomadelfia, dove il sogno di un mondo fraterno vive e continua.

Fausto Marinetti

Fausto Marinetti




Muro o dialogo?

Dopo la nascita dell’Eire (cfr. dossier MC maggio ‘06), i cattolici irlandesi rimasti nell’Ulster britannico hanno lottato per la riunificazione dell’isola e contro l’oppressione dell’autorità protestante. Per decenni Belfast e Londonderry sono state insanguinate da feroci attentati e repressioni. Ora un muro separa i quartieri cattolici da quelli protestanti; una serie di accordi hanno messo a tacere le armi. Ma la vera pace ci sarà quando le due comunità cominceranno a dialogare.

La famiglia di turisti si ferma davanti al Republican Memorial Hall, che sorge a pochi passi dal Clonard Monastery. Sean, il taxista che fa anche da guida, illustra in modo partecipato e commosso le fasi che hanno portato le comunità cattoliche e protestanti di Belfast a confrontarsi per decenni, mietendo tra il 1969 e il 2006 più di 3.600 vittime.
«Sono stato catturato nel 1974, con l’accusa di essere membro attivo dell’Ira» spiega Sean, quando mi vede seguire con attenzione la sua esposizione; poi continua: «Ho passato 14 anni in diverse prigioni dell’Irlanda del Nord prima di essere liberato. Da allora ho vissuto svolgendo lavori saltuari fino a quando, con alcuni amici ex militanti politici, abbiamo fondato la Belfast Black Taxi Tours, una compagnia che accompagna turisti attraverso i luoghi più simbolici della guerra che ha sconvolto la città».
Mi presenta i suoi ospiti: una famiglia americana di New York che vanta discendenze irlandesi. «Mio padre era membro della Noraid» dice con orgoglio il capofamiglia, stringendomi la mano. La Noraid (Irish Northe Aid) è la potente organizzazione statunitense che, con generosi sovvenzionamenti, ha permesso all’Ira di comprare armi dalla Libia e ai suoi aderenti di addestrarsi nei campi palestinesi dell’Olp.
La famiglia O’Brian continuerà il suo «political tour», entrando nella zona protestante e osservando il bellissimo monastero cattolico di Clonard dalla parte opposta del muro.

BARRIERA DI VERGOGNA

Già, perché se a Berlino il muro che divideva simbolicamente due mondi politicamente e ideologicamente contrapposti, è crollato oramai da diciassette anni, a Belfast il quartiere protestante di Shankill e quello cattolico di Falls continuano a essere separati da una parete di cemento e acciaio alta 5-6 metri. Una barriera di vergogna nel cuore della Comunità Europea e della cristianità che, nel goffo tentativo di farla apparire meno truce e spettrale, è stata denominata Peace Wall (Muro della pace).
Un divisorio, questo Muro della pace, voluto e costruito da una classe politica incapace di amministrare un territorio in guerra, nel disperato tentativo di riportare tranquillità in una Belfast sconvolta dai troubles (disordini) degli anni ‘70 e ‘80. Un muro che da 20 anni divide europei cattolici da europei anglicani, europei repubblicani da europei unionisti, europei filoirlandesi da europei filobritannici.
È pur vero che molti analisti, specialmente quelli più legati alle comunità ecclesiastiche cristiane, pur non negando le radici religiose del conflitto irlandese, spiegano il suo acutizzarsi con lo sviluppo di elementi comuni a tutti gli stati di belligeranza: prevaricazione economica di un gruppo rispetto a un altro, differenze culturali che si ripercuotono sul tessuto sociale e familiare, contrasti politici a sfondo ideologico e, non ultimo, ingerenze di potenze straniere, che, sfruttando la debolezza intea britannica, hanno giocato la carta dell’irredentismo irlandese per rafforzare i propri interessi inteazionali e le lobby di potere.

LACRIME E SANGUE

Il dramma dell’Irlanda del Nord è questa micidiale miscela di ingredienti che, spaziando dal nazionalismo storico al dogmatismo religioso, hanno finito per sfociare in una lotta che divampa sin dal xvii secolo, quando, con le Plantations, Londra sostenne la colonizzazione dell’isola a favore dei coloni inglesi e scozzesi, espropriando le terre coltivate dai contadini locali.
Il fatto che questi ultimi fossero cattolici e i primi protestanti, trasformò quella che sarebbe stata una contesa economica e nazionalista, in una lotta confessionale che vide confrontarsi la chiesa di Roma e quella anglicana; papa e re.
Fu Oliver Cromwell, sbarcato nell’agosto 1649 sulle coste irlandesi, a sfogare il suo odio contro la chiesa di Roma, stritolando l’economia agricola degli irlandesi e massacrando un quarto della loro popolazione. Da allora la storia irlandese è sempre stata segnata dalla divisione tra le due fedi, frattura che venne sancita definitivamente nel 1795, dopo che il re cattolico Giacomo ii fu sconfitto da Guglielmo iii d’Orange. Non è un caso che ancora oggi il movimento Orangista, nato allora «per sostenere il re (Guglielmo) e i suoi eredi, finché egli o costoro sosterranno la supremazia protestante», viene ancora oggi ritenuto l’organizzazione più fedele alla Corona britannica di tutta l’Irlanda.
Eppure furono proprio i protestanti, ansiosi di allargare i loro domini al di fuori delle sei contee in cui erano maggioranza assoluta, a reclamare per primi l’indipendenza da Londra, raggiungendo una semiautonomia nel 1782. La rivoluzione americana prima e quella francese poi, indussero gli irlandesi, prescindendo dalla confessione religiosa, a riunirsi nella Society of United Irishmen (società di irlandesi uniti), un movimento politico che si prefiggeva di ottenere la totale secessione dell’isola. La repressione inglese della Society e l’approvazione dell’Union Act (legge dell’unione), che riportò l’Irlanda in seno al Regno Unito, comportò anche un radicale cambiamento della politica da parte di Londra. I governi britannici vararono una serie di riforme agrarie, economiche e sociali miranti a proteggere esclusivamente i cittadini di fede protestante. Ed è in questo preciso periodo che le parti si invertono: i cattolici diventano nazionalisti e gli anglicani unionisti.
Le carestie che sconvolsero l’Irlanda tra il 1845 e il 1849, vennero viste da Westminster come un’opportunità per sbarazzarsi del nascente movimento cattolico secessionista fondato da Daniel O’Connell. La voluta e cinica inefficienza inglese nel prestare soccorso alla popolazione irlandese, falciò un milione di vite, mentre indusse un altro milione di persone alla fuga verso gli Stati Uniti.
Coloro che rimasero nell’isola, anziché sottomettersi all’impero, ritrovarono la forza di riunirsi in diversi movimenti, tra cui l’Irish Republican Brotherhood (Fratellanza repubblicana irlandese), la Gaelic League (lega gaelica) e il Sinn Fein (Solo noi), sostenitore dell’idea che i deputati irlandesi avrebbero dovuto riunirsi nel Dail (Parlamento) di Dublino e non a Westminster.
Per arginare ciò che era diventato un chiaro tentativo di separazione, nel 1913 Londra varò la Home Rule, una legge che consentiva l’amministrazione autonoma dell’Irlanda a eccezione delle sei contee di Tyrone, Donegal, Derry, Armagh, Cavan e Ulster, dove storicamente risiedevano i protestanti unionisti.
Ma le carte erano state ormai giocate e l’inizio della prima guerra mondiale diede chiari segnali di non collaborazionismo con Londra da parte dei nazionalisti irlandesi, riunitisi nell’Irish Volunteers (volontari irlandesi) tramutatisi in seguito nell’Irish Republican Army (Ira).
Fu prima l’insurrezione di pasqua del 24 aprile 1916, con la proclamazione della Repubblica d’Irlanda, e due anni dopo la riorganizzazione degli Irish Volunteers, da parte di Michael Collins, a indurre Londra a concedere, il 6 dicembre 1921, l’indipendenza dell’Eire, a esclusione delle «Sei Contee» (Ulster).
E mentre il Dail Eireann (parlamento irlandese) accettò la divisione dell’isola, l’Ira continuò la sua battaglia per la riunificazione completa. Le ostilità tra i nazionalisti irlandesi e gli unionisti delle Sei Contee, sostenuti rispettivamente dai governi di Dublino e Londra, si fecero immediatamente pesanti con l’emanazione di leggi speciali, come il Civil Authority (Special Powers) Act (legge sull’autorità civile, con poteri speciali) che, rimasto in vigore fino al 1974, consentiva alle autorità britanniche di arrestare, imprigionare, perquisire senza mandato o accusa chiunque fosse sospettato di attività repubblicana.

VIOLENZA E REPRESSIONE

Gli anni ‘70 videro l’escandescenza della guerra con il culmine raggiunto il 30 gennaio 1972, quando a Derry, tredici civili vennero uccisi dai parà inglesi, in quella che passò alla storia come il Bloody Sunday (domenica di sangue). Fu la svolta: le critiche piovute da tutto il mondo su Londra e, non ultima, l’ondata emozionale rimarcata dal famoso brano degli U2, ebbero l’effetto di indurre Londra a ricercare una soluzione non più solo militare, ma anche politica del conflitto.
Accanto alla recrudescenza della violenza delle organizzazioni paramilitari (tra il 1972 e il 1979 si contarono 1339 morti, di cui 479 solo nel 1972), si assistette a timidi tentativi di aperture. Vennero riallacciate le relazioni diplomatiche con l’Eire e con gli Accordi di Sunningdale del 1973 si stabilì un principio che sarà alla base degli Accordi del venerdì santo del 1998 e di tutti i futuri trattati anglo-irlandesi: se Dublino accoglie lo status dell’Irlanda del Nord come entità separata e integrante il Regno Unito, Londra a sua volta accetta la riunione delle Sei Contee col resto dell’isola, quando la maggioranza della popolazione esprimerà il desiderio di farlo.
Nel frattempo, però, il governo Tatcher perseguì la linea dura, commettendo errori di sottovalutazione del movimento cattolico. Il più clamoroso di questi fu l’insofferenza verso la Blanket Protest (rifiuto della divisa carceraria, indossando solo una coperta), iniziata dai detenuti politici dell’H-Block nella prigione di Long Kesh, i quali volevano essere riconosciuti dal governo di Londra con lo status di prigionieri politici e non come criminali comuni.
Lo sciopero della fame proclamato dai detenuti, portò dieci di loro alla morte e uno di questi, Bobby Sands, divenne l’icona del movimento repubblicano. La sua eredità viene oggi contesa da tutti i movimenti nazionalisti irlandesi, dal moderato Sinn Fein di Gerry Adams, al più radicale 32-County Sovereignity Committe di Beadette Sands, sorella di Bobby.
Per capire quanto profonde siano le divergenze tra i movimenti repubblicani, due frasi estrapolate da interviste effettuate ai leaders delle due organizzazioni: «Mio fratello non avrebbe mai siglato gli Accordi del venerdì santo. Avrebbe continuato la sua battaglia senza compromessi contro gli occupanti britannici» riferisce Beadette, oggi residente a Dublino. «Bobby Sands era un uomo di pace. Voleva raggiungere i suoi obiettivi senza spargere sangue. Gli Accordi del venerdì santo miravano a questo. Per ciò siamo sicuri che Bobby li avrebbe accettati» replica Gerry Adams nella sede dello Sinn Fein a Fall Roads, proprio sotto un murales che ritrae il martire repubblicano.

TACCIONO LE ARMI

Gli Accordi, sanciti il 10 aprile 1998, pur approvati in un referendum dal 71% degli elettori nordirlandesi, segnarono la spaccatura di tutte le fazioni unioniste e nazionaliste. Le organizzazioni paramilitari si frammentarono in miriadi di gruppetti più o meno agguerriti e numerosi, rendendo più problematica la gestione del panorama politico e militare. Solo la presenza di figure come John Hume, leader del Social Democratic and Labour Party (Partito socialdemocratico e laburista) o di Martin McGuinness, fondatore storico dell’Ira degli anni ‘60, riuscirono a sostenere l’arroganza e la determinazione di un Ian Paisley, leader dell’estremismo unionista e ispiratore di molti gruppi militari antirepubblicani.
Il lavoro iniziato con gli Accordi del venerdì santo trovò un importante e forse decisivo sbocco il 28 luglio 2005, quando l’Ira rilasciò il famoso comunicato in cui si invitavano tutte le sue cellule a deporre le armi: «La leadership di Oglaigh na hEireannn (Ira) ha ufficialmente ordinato la fine della campagna armata. A tutte le unità dell’Ira è stato ordinato di deporre le armi. A tutti i volontari è stato chiesto di assistere agli sviluppi dei programmi politici e democratici attraverso metodi pacifici. I volontari non devono ingaggiare alcuna attività».
Ma il comunicato va oltre, affermando che la smilitarizzazione dovrà essere seguita da un rappresentante della chiesa cattolica ed uno della chiesa anglicana. Un segno delle radici che nutrono il conflitto e che solo con la buona volontà delle due chiese potrà essere risolto. E di buona volontà ce ne vorrà tanta, perché neppure la politica potrà essere la panacea che riporterà la pace in Irlanda del Nord.
L’equazione esposta con troppa sufficienza cattolico=repubblicano e protestante=unionista, non regge, come ha dimostrato la storia. Infatti, se così fosse, già oggi l’Irlanda del Nord potrebbe tentare il referendum per l’unione con l’Eire. I cattolici, infatti, rappresentano il 44% della popolazione, mentre i protestanti dichiarati il 36% (esiste un 9% di non dichiarati che le statistiche indicano essere a maggioranza protestante). Ma è anche vero che il 35% dei cattolici, in caso fossero chiamati a scegliere tra le due opzioni, opterebbero per rimanere affrancati al Regno Unito, in modo da non perdere i sussidi elargiti da Londra.
Dalla parte opposta, molto più compatto è il movimento unionista, con il 94% dei protestanti favorevoli allo status quo. «Perché l’Irlanda del Nord si unisca all’Eire, bisogna che accadano due fattori concomitanti: che la popolazione cattolica superi nettamente quella protestante, cosa che, con gli attuali ritmi di crescita demografica potrà avverarsi entro il 2030, e che una considerevole parte dei cattolici sia favorevole all’opzione repubblicana. E questo è molto più improbabile che avvenga in pochi lustri» mi dice Stefan Andreasson, professore di Politica internazionale alla Queen’s University di Belfast.

ALLA RICERCA DEL DIALOGO

Le elezioni per il Parlamento locale del 2005 hanno dimostrato che la polarizzazione dell’elettorato si acutizza sempre più, anche se il divario tra i due blocchi si assottiglia. Il Democratic Unionist Party (Dup) di Ian Paisley è divenuto il maggior partito nordirlandese con il 29,6% delle preferenze, superando nettamente il più moderato Ulster Unionist Party (18,0%); mentre nel fronte opposto lo Sinn Fein, raggiungendo il 23,3% dei consensi, ha aumentato il vantaggio sul Socialist Democratic and Labour Party, rimasto al 17,4%.
Forte dei 9 seggi conquistati, il Dup ha chiesto immediatamente la revisione dei trattati del 1998, al fine di «garantire alla comunità protestante, discriminata dagli Accordi del venerdì santo», il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. «Il fatto significativo delle elezioni del 2005 – dice Sean Mac Labhrai, professore di Studi Irlandesi alla St. Mary’s University College di Belfast – è che sono scomparsi i partiti minori, che garantivano la partecipazione politica delle organizzazioni paramilitari. Questo schiacciamento ha portato le frange più estremiste, come il Dup a raggiungere i risultati ottenuti e ad alzare il tiro sulla comunità repubblicana».
Si sta quindi assistendo a una semplificazione della vita politica del paese, che per molti rischia di rianimare le lotte. «L’Irlanda del Nord è stata sempre snobbata dai grandi partiti britannici – afferma Catherine Mellen, della Campaign for Equal Citizenship -. Se i laburisti e i conservatori propagandassero le loro idee qui, come fanno in Inghilterra, anche le differenze tra le comunità cattoliche e protestanti scomparirebbero, per dare luogo a differenze sociali presenti nella normale vita politica britannica, consentendo a Londra una migliore gestione del conflitto».
Ma c’è chi addirittura si prefigge di lottare per la completa indipendenza del Nord Irlanda, come Murray Smith, del New Ulster Political Rasearch Group: «La soluzione del problema nordirlandese deve essere trovata al di fuori degli schemi convenzionali. Non è uno scegliere tra Eire o Gran Bretagna, perché qualunque sia la scelta, una delle due comunità sarà sempre scontenta. La soluzione che proponiamo noi è la creazione di un terzo stato completamente autonomo e indipendente sia da Londra che da Dublino».
Naturalmente queste ultime due tesi non tengono conto del tessuto sociale impregnato di cultura e tradizione religiosa e del fatto che nessuna delle due comunità vuole una Irlanda del Nord indipendente. Rimane quindi il dialogo costante e senza prevaricazioni con tutte le parti in causa, nessuna esclusa, così come la stessa Ira ha chiesto e ribadito nel proclama del 28 luglio scorso. Ian Paisley permettendo.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




I protagonisti della lotta

Il movimento d’indipendenza irlandese trae origine dall’United Irishmen (irlandesi uniti), fondato nel 1790 sull’onda degli ideali della rivoluzione americana e francese. Lontana dagli ideali religiosi, l’United Irishmen aspirava a creare una nazione unita e secolare attraverso l’azione politica. Solo nel 1850, con la fondazione del Movimento feniano, appoggiato dagli irlandesi emigrati in Usa dopo la grande carestia, si fa strada l’idea di una rivoluzione armata su larga scala.
Nel novembre 1913 vennero formati gli Irish Volunteers (Oglaigh na hEireann. volontari irlandesi) per «assicurare e mantenere i diritti e le libertà comuni a tutta la gente dell’Irlanda». L’Insurrezione di pasqua del 1916, repressa nel sangue da Londra, indusse Micheal Collins, leader degli Irish Volunteers, a iniziare la guerriglia, divenendo l’Irish Republican Army (esercito repubblicano irlandese), dal quale nacquero tutte le altre organizzazioni paramilitari repubblicane che operano in Irlanda del Nord.
La divisione dell’isola sancita nel 1922, con la nascita dello Stato libero d’Irlanda menomato delle Sei Contee a nord, provocò un violento dibattito all’interno del movimento repubblicano che sfociò in una sanguinosa guerra civile tra l’Ira dell’Eire e l’Ira delle Sei Contee. Nel 1932 Eamon de Valera, si staccò dall’Ira fondando il Fianna Fail, il maggior partito della nazione.
L’Ira continuò la sua battaglia nel territorio britannico, senza però destare particolari preoccupazioni all’esercito di sua maestà. Solo dopo gli anni ‘60, con la comparsa dei movimenti dei diritti civili attaccati violentemente dagli unionisti e dalla polizia locale (Royal Ulster Constabulary, Ruc), la popolazione cattolica nordirlandese cominciò a chiedere protezione ai volontari armati. I vertici dell’Ira, però si divisero sulle azioni da intraprendere e nel dicembre 1969 l’organizzazione si divise tra Official Ira (Oira), di orientamento marxista e ateo, contraria all’uso della violenza, e la Provisional Ira (Pira o Ira, chiamati anche Provos), di ideali socialisti, dichiaratamente cattolica, che continuò la lotta armata.
Se la Pira era politicamente rappresentata dallo Sinn Fein, l’Oira ebbe come ombrello politico il Partito dei lavoratori (Workers’ Party). Nel 1972 l’Oira dichiarò una tregua armata, non condivisa dai membri più radicali che, il 10 dicembre 1974, fondò il Pra (People’s Republican Army, esercito repubblicano del popolo), in seguito diventato Crf (Catholic Reaction Force, forza di reazione cattolica) e infine Inla (Irish National Liberation Army, esercito di liberazione nazionale irlandese), ancora oggi presente con una trentina di membri attivi, rappresentata politicamente dall’Irsp (Irish Republican Socialist Party, partito socialista repubblicano irlandese).
Il processo di pace in cui venne coinvolta la Pira dal 1986 non trovò consensi tra un centinaio di militanti, i quali nel 1986 fondarono la Cira (Continuity Ira), appoggiata dal Republican Sinn Fein, responsabile della bomba al Kyyhelvin Hotel di Enniskillen del 1996 e dell’uccisione di lord Mountbatten. Proprio la bomba di Enniskillen portò una successiva divisione della Cira che vide staccarsi un gruppo di militanti fondatori della Real Ira (Rira), politicamente appoggiata dal 32-Counties Sovereignity Movement (movimento per la sovranità delle 32 cotee).

Piergiorgio Pescali