Quale spiritualità per un altro mondo possibile?

Forum mondiale di teologia e liberazione

In che condizioni versa oggi la teologia della liberazione? 250 teologi, professionali e non, si sono incontrati a Nairobi per tastarle il polso e valutae l’impatto che ha oggi sul mondo contemporaneo.

La teologia della liberazione è ancora capace di produrre riflessioni che puntano a sovvertire uno status quo iniquo e ingiusto per milioni di persone? Può infiammare i cuori di tanti cristiani e spingerli a lottare a colpi di parola di Dio contro questo sistema, o si è anch’essa ridotta a pura conversazione accademica, tomba di tante teologie?
È ancora capace di chiamare «amici» o «fratelli» le vittime della storia o tende ad analizzarle asetticamente, mettendole in provette da laboratorio? Si alimenta ancora del sogno di Dio? Si lascia sfidare, assumendole come proprie, dalle provocazioni che vengono dai «grassroots movements» (movimenti di base), o ha perso lo slancio delle origini? In altre parole: è ancora viva la teologia della liberazione?
Queste e altre domande sottostavano alla celebrazione del secondo «Forum mondiale di teologia e liberazione», che si è tenuto presso il Carmelite Centre di Langata,  quartiere di Nairobi che ospita un alto numero di congregazioni religiose e centri di studio teologici importanti come il Tangaza College e l’Università cattolica dell’Africa Orientale (Cuea).
Dal 16 al 19 gennaio si sono riuniti circa 250 partecipanti provenienti da tutto il mondo, pronti a ribadire la vitalità della teologia che, senza dubbio, ha rappresentato una delle più evidenti novità della chiesa post-conciliare, una chiesa che si vuole incarnare nelle sofferenze di tutte le genti che attendono, già in questo mondo, un segno di liberazione.

DA PORTO ALEGRE A NAIROBI

La prima edizione si era tenuta due anni fa a Porto Alegre (Brasile) e, come in questo caso, la riunione dei teologi aveva preceduto la celebrazione del World Social Forum. L’idea di fondo era la seguente: se il motto «un altro mondo è possibile» ispirava la riflessione e l’azione di tanti gruppi e movimenti che operano nel sociale, tanto più doveva animare coloro che, per fede, credono veramente che questa utopia possa realizzarsi.
Il titolo che il comitato organizzatore aveva scelto per l’incontro di Porto Alegre era: «Teologia per un altro mondo possibile». Lo sforzo era stato, allora,  quello di riunire insieme un panel di teologi della liberazione di prim’ordine che potessero offrire un quadro il più possibile esauriente dello stato della riflessione teologica a livello mondiale. Molte conferenze, quindi, e poco spazio era stato riservato al contributo dei partecipanti.
Quest’anno si è cercato di dedicare buona parte del tempo a seminari e gruppi di discussione e limitando così lo spazio dedicato alle esposizioni degli esperti. Il tema, inoltre, si prestava maggiormente alla condivisione delle esperienze di tutti, essendo dedicato alla individuazione di una «spiritualità per un altro mondo possibile».
Altra nota positiva è stato organizzare questo secondo Forum in Africa e in modo particolare a Nairobi. Innanzitutto per l’importanza che la capitale del Kenya riveste oggi a livello teologico, grazie alla presenza di tante istituzioni accademiche e di ricerca, non soltanto cattoliche; ma anche perché Nairobi è in grado di offrire utilissimi spunti di riflessione a una teologia che vuole far partire la sua riflessione dal basso, da quegli anfratti del mondo che rimangono inesplorati a causa della miseria e del disagio che li invade. Non vi è città al mondo, oggi, che vive il dramma di un’urbanizzazione selvaggia, forzata e rapida, come quella che riempie quotidianamente le già traboccanti baraccopoli della capitale kenyana.
TEOLOGIA AFRICANA
Un altro punto positivo è rappresentato dallo spazio che la teologia africana ha avuto all’interno del Forum. Le presentazioni degli studiosi del continente hanno seguito due cornordinate principali: l’incontro del mondo africano e della sua religiosità con le grandi religioni e il dialogo che con esse può nascere.
La seconda cornordinata era orientata al sociale e soprattutto alle domande alle quali la teologia è chiamata a dare risposta oggi in Africa. La difesa dell’ambiente, il cappio del debito estero, la pandemia Hiv/Aids, il perdurare di situazioni di grave conflitto, come in Sudan o nel Coo d’Africa, sono veri e propri «luoghi teologici» che interpellano la teologia e la sfidano sul piano della coerenza e del senso.
Come ha sostenuto il sociologo e intellettuale belga Francois Houtart, l’Africa è il continente più intrinsecamente connesso con la globalizzazione e con il modello capitalista neoliberale imperante, proprio in ragione dei benefici che tutto il mondo trae dallo sfruttamento della sua gente e della sua terra.
Come unire queste due cornordinate in un unico flusso di pensiero, fedele alle radici culturali, aperto alle sfide di un mondo in perenne cambiamento e nello stesso tempo attento alle esigenze di chi soffre?
Laurenti Magesa, sacerdote cattolico e teologo tanzaniano di fama, autore fra l’altro di un recentissimo saggio sul modo di ripensare la missione in Africa ai nostri giorni (Rethinking Mission: Evangelization in Africa in a New Era, Aamecea, Eldoret-Kenya, 2006), ha ribadito come il cristiano africano di oggi debba imparare a dissetarsi nuovamente alla fonte di una spiritualità propria. È questo il primo passo di un viaggio verso un vero e proprio esodo mentale ed emozionale, dalla situazione attuale di schiavitù spirituale, sfruttamento e miseria, verso una nuova terra promessa. Un cammino di liberazione integrale verso la giustizia, la libertà, una patente di «credibilità» anche spirituale cui l’Africa anela.

GUARDARE LA VERITÀ

Il punto centrale del Forum (e in una certa misura anche il suo nervo scoperto) è stato il tentativo di individuare punti di contatto tra ricerca e prassi. Più volte è stato ribadito uno dei principi basilari della teologia della liberazione, cioè che il punto di partenza è la realtà vista da un’angolatura particolare: il mondo degli oppressi. Lo ha rimarcato con forza uno dei suoi padri storici, il gesuita salvadoregno Jon Sobrino, ricordando come «le vittime e solo le vittime aprono gli occhi alla realtà», una realtà spesso ovattata, camuffata da chi vuole difendere privilegi usurpati.
Giovanni nel suo vangelo scrive che il maligno è assassino e bugiardo. Se si vuole costruire un mondo alternativo e se si vuole affermae davanti a tutti la sua possibilità occorre vincere questo modello di menzogna e ricorrere a chi ti può presentare un quadro della realtà veritiero e affidabile. La vittima appare per quello che è, con il suo bagaglio di povertà, crudeltà e morte, incapace di nascondere una realtà che la umilia e la ferisce.
Uno dei momenti più importanti del Forum è stato il pomeriggio dedicato alle visite di alcune realtà significative di Nairobi: gli slums di Kibera e Korogocho, alcuni ostelli per l’accoglienza dei bambini di strada e, infine, un progetto di sviluppo comunitario, iniziato e portato avanti dalla comunità della parrocchia St. Joseph the Worker. Kibera, quartiere dormitorio di Nairobi in cui vivono, ammassate come formiche circa 800 mila persone, è lo slum più grande dell’Africa. Le vittime appaiono nude ai nostri occhi, sono lì, basta avere il coraggio di guardarle.

DALLA VERITA’ ALLA CON-PASSIONE

Ma guardare non è sufficiente. Bisogna passare dalla contemplazione della verità, resa manifesta dalle vittime, a una prassi che le liberi dalle catene che le opprimono. «Se il maligno – ricorda Sobrino – non solo è bugiardo, ma anche assassino, alla verità che smaschera la menzogna deve accompagnarsi allora una prassi di compassione capace di generare vita».
Nella compassione, intesa come una condivisione nel dolore e, quindi, una forza generatrice di giustizia e liberazione, può incontrarsi, secondo il teologo latinoamericano, il terreno per costruire una spiritualità per un mondo alternativo. Una spiritualità che deve essere comune, in dialogo con fedi e culture diverse, con le teologie delle grandi religioni, come quelle delle religioni tradizionali che cercano con decisione il loro spazio anche perché espressione di culture marginalizzate o oppresse.
Il discorso vale per le teologie tradizionali africane come per la teologia afro e quella india, tutte presenti con loro rappresentanti al Forum di Nairobi.
Sebbene il tema generale del Forum verteva sull’individualizzazione di una spiritualità per il mondo «altro», che si sta cercando di costruire, ciò che alcuni hanno notato e rimarcato è stato il carattere poco «religioso» del Forum, come se invece di camminare nel dialogo rispettando le proprie differenze, si cercasse di costruire una spiritualità senza religione, a-confessionale. Uno degli appunti fatti dalla platea al Forum è stato: «Qui si sta facendo molta teologia e poca liberazione», criticando così l’incapacità di liberarsi da schemi teologici fissi, vincolanti, senza immaginazione e profezia.
In realtà, a parere di chi scrive, non si è fatta neppure tanta teologia. Si è parlato di movimenti, si è disquisito di organizzazioni, di coscienza e di lotta, di chiesa e di religione, ma si è parlato poco di Dio. E una teologia che lasci Dio ai margini non solo non può esistere, ma è una contraddizione in termini.
L’intento di dare più spazio a laboratori di gruppo e seminari, sullo stile applicato al World Social Forum, è stato lodevole, ma le conclusioni sono risultate molte volte scollate dalle riflessioni presentate nelle conferenze e, spesso, dal tema generale del Forum. Anche l’apporto dei teologi professionali si è limitato in massima parte alla presentazione di un elaborato che non teneva conto degli spunti che arrivavano dai lavori di gruppo e che avrebbero meritato una più attenta lettura teologica.
Forse, per la prossima occasione, bisognerà pensare a qualche cosa di diverso, magari a organizzare questo Forum di teologia dopo il Social Forum, in modo da attingere spunti e provocazioni provenienti dal basso, dal mondo delle organizzazioni, dei movimenti, delle chiese o, soprattutto, da coloro che soffrono sulla loro pelle una forma di oppressione che non aspetta altro che di essere rimossa e chiedersi: «Dio, a questo grido, come risponderebbe?».
Non è una domanda che prevede una facile risposta. Tanto meno un Forum, proprio per le sue caratteristiche, poteva offrie una. Ne è prova la difficoltà che si è avuta nel redigere una dichiarazione conclusiva da presentare al World Social Forum.
In realtà, un tentativo lo aveva fatto la professoressa Mary Getui, presidente del comitato di organizzazione locale, suggerendo quello che poi è diventato il motto della manifestazione: «I am somebody and I can do something» (sono qualcuno e posso fare qualche cosa).
Restano profetiche, a questo riguardo, le parole con le quali Desmond Tutu ha chiuso il Forum, ricordando la sua esperienza in Sudafrica e la lotta senza tregua di un popolo oppresso per ottenere la propria libertà. Lo ha fatto comparando quei tempi con la situazione del Sudafrica odierno e delle sue chiese, che hanno perso la freschezza, la spontaneità e la genuinità della testimonianza, frutto della persecuzione e della lotta.
Il cammino della liberazione era chiaro negli anni dell’apartheid; oggi lo è molto meno, in Sudafrica come altrove. Forse troverebbe nuovamente il suo senso, se la teologia venisse nuovamente fatta a partire da Kibera e dagli altri innumerevoli luoghi che umiliano milioni di persone in tutto il mondo.

Di Ugo Pozzoli


Intervista con Maricel Mena Lopez

UNA TEOLOGIA DAI TANTI VOLTI

Terminati gli studi teologici di base presso l’università Javeriana di Bogotà (Colombia), hai proseguito il tuo iter accademico in Brasile, dove hai conseguito il dottorato in sacra scrittura. Da un po’ di tempo sei tornata alla Javeriana, questa volta come insegnante. Sei afro-colombiana e ti dedichi con passione alla ricerca nell’ambito della teologia etnica e all’accompagnamento pastorale di comunità afro-discendenti. Ti ho presentato, adesso raccontami qualcosa di questo tuo amore per la teologia afro.
Mi interesso delle teologie afro e della liberazione dagli anni ’80; da quando,cioè, ho iniziato a lavorare più direttamente con gruppi giovanili e comunità di base. Ma l’inizio delle mie inquietudini «teologiche» è coinciso con il lavoro nel barrio San Martín, un quartiere molto povero di Cali, popolato per il 95% da persone afro-discendenti. La maggior parte della gente veniva dalle comunità negre del Pacifico, esattamente come la sottoscritta. Insieme abbiamo iniziato a pensare come recuperare canti, tradizioni delle comunità di origine. La domanda che sottostava a tutto questo lavoro era: «Sarà possibile esser negra e cristiana nel medesimo tempo?».

E che risposta vi siete dati?
È stato l’inizio di una ricerca, di un lungo processo. Nei nostri paesi dell’America Latina abbiamo assunto un cristianesimo di stampo molto europeo. Si trattava di vedere come. Noi abbiamo solo cercato di dargli un volto e un corpo più afro; siamo partiti dall’esperienza di fede, che trascende il puro discorso teologico. L’esperienza è aperta, mentre la teologia tende a chiudersi dentro un linguaggio molto dotto, per addetti ai lavori; così facendo, ha finito con il rinchiudere l’esperienza che la gente aveva di Dio dentro una determinata tradizione. In Colombia, per esempio, la maggioranza degli afro-discendenti è cristiana. Nonostante in passato il cristianesimo abbia cercato di fare piazza pulita delle religioni tradizionali africane, noi ci troviamo nei ritmi, nei canti, nel modo di celebrare degli afro discendenti della costa pacifica che tiene molte radici comuni con la Madre Africa.

Come viene recepita in ambiente accademico questa nuova sensibilità religiosa e teologica?
L’impatto sui seminaristi è buono. Vi sono quelli più aperti al dialogo, altri più radicati su posizioni conservatrici. In tutti, però, l’interesse è alto e c’è dibattito, il che è positivo. È una sfida non facile. È una ricerca che va portata avanti con serenità e senza forzature, ma chiedendosi onestamente: «Perché dopo secoli e secoli di evangelizzazione la gente afro o quella indigena vivono facendo coesistere senza nessun problema la fede in Gesù con quella nelle proprie divinità? O partecipano con ugual fede a un candomblé e a una celebrazione eucaristica?». La nostra ricerca punta a dare alla nostra fede un volto latinoamericano, con tutte le sue diverse sfumature. Chiaramente sono temi che creano dibattiti anche accesi, soprattutto con parte dell’istituzione accademica e gerarchica, che si rifiuta di ammettere che possa esistere un altro tipo di teologia. Eppure, passi in avanti possono essere fatti. Per esempio, in maggio vi sarà ad Aparecida, in Brasile, la v edizione della Conferenza dell’episcopato latinoamericano. Non che nutra molte speranze, ma una piccola aspettativa ce l’ho: che ci si interroghi seriamente sul tema del dialogo fra le religioni. A Santo Domingo ci fu un’apertura verso le culture, ad Aparecida spero che emerga invece l’aspetto più spiccatamente religioso del dialogo, soprattutto con le tradizioni religiose afro e indigene. È importante sottolineare questo aspetto, perché a volte anche tra membri della stessa cultura vi possono essere casi di chiusura o di rigetto. Per esempio, alcuni afro-discendenti appartenenti a certe frange pentecostali sono molto ostili verso un lavoro di recupero delle tradizioni proprie. Senza contare che in molti è forte la difficoltà del sentirsi nero e di riconoscerlo con orgoglio davanti agli altri, soprattutto in un paese come la Colombia, in cui il razzismo è molto più diffuso di quanto si possa pensare.

Come vedi l’impegno pastorale della chiesa latinoamericana nei confronti delle minoranze etniche (che però in alcune regioni del continente sono numericamente delle «maggioranze» assolute) come quella afro o indigena? La teologia della liberazione è ancora viva?
Manca un lavoro più profondo e continuo a livello di comunità. Direi che la teologia della liberazione è viva, ma stiamo vivendo in un tempo totalmente diverso rispetto a quando è nata. È forte l’opzione per i poveri, non tanto quella verso le culture differenti. Dobbiamo imparare a dare al povero il volto che gli compete: afro o indio che sia.

Intervista con suor Jane Muguku

Teologia… della strada

Sister Jane, ho visto parecchie suore della Consolata al Forum… Tre di voi hanno anche guidato altrettanti workshops. Complimenti.
È stata una scelta mirata, essere lì dove la gente discute, organizza e soprattutto pensa teologicamente.

Cosa ti è piaciuto di più di questo Forum?
Il metodo. I molti workshops hanno aiutato a incarnare gli spunti teologici nella vita di tutti i giorni. È stato un bell’incontro fra teologi professionisti e noi, poveri teologi jua kali, come diciamo noi in Kenya, teologi «sotto il sole», della strada.

Qual è stato il messaggio più importante di questo Forum, quello che ti porti via in valigia?
Senz’altro la necessità di creare dialogo fra le nostre religioni. Se vogliamo veramente immaginare un mondo diverso e creare una spiritualità che possa animare questo mondo, dobbiamo renderci conto che il dialogo è un’esigenza imprescindibile. Allo stesso tempo,mi ha molto colpito, durante l’ultima assemblea plenaria, quanto ha detto un partecipante dell’India, cosa ribadita anche da una donna africana, che, cioè, se vogliamo creare un mondo diverso, fondato sul dialogo interculturale e religioso, dobbiamo iniziare dalle scuole. Soprattutto a livello religioso è fondamentale avere uno studio comparato serio delle altre religioni, almeno nelle linee fondamentali, condizione indispensabile per iniziare un dialogo su basi di parità.

Qualche elemento negativo?
Uno soltanto, a livello di percezione. Mi è sembrato che nell’assemblea si tendesse troppo a fare l’inchino al «dio» della liberazione sociale, dimenticandosi che l’uomo ha bisogno di essere liberato integralmente. Forse le altre dimensioni non hanno avuto uguale spazio e attenzione. Si vuole costruire una spiritualità per un mondo alternativo, ma se il rapporto con Dio viene limitato soltanto alla dimensione orizzontale e non si esplora sufficientemente quella verticale, sarà poi molto difficile trovare dei punti che ci accomunano, che ci rendano «fratelli e sorelle».

Ugo Pozzoli




Tra cielo  e … acqua

Nabasanuka: nuova missione alle foci dell’Orinoco

Nella missione di Nabasanuka, tra gli indios warao, nel delta del Río Orinoco, i padri Josiah K’okal (ugandese) e Vilson Jochem (brasiliano), hanno cominciato a sognare in grande, nonostante le sfide lanciate dalle difficoltà logistiche, studio della lingua e cultura indigena, povertà della gente… Stanno inseguendo lo stesso sogno di Dio.

Il 20 di giugno 2006,  festa della Consolata, abbiamo aperto ufficialmente la nuova missione di Nabasanuka, lungo il Río Adentro, uno degli innumerevoli rami che formano l’immenso delta del Río Orinoco. La scelta di questa nuova missione è avvenuta dopo un periodo di riflessione e di studio del luogo, a partire dalla fine del 2005, quando abbiamo iniziato a visitare il territorio, spendendo a più riprese alcune settimane con la gente.
Per avere un’idea di dove ci troviamo, basta dire che, partendo da Caracas o Barlovento dove lavoriamo da vari anni, occorrono 24 ore di viaggio: 17 sulla terra ferma per arrivare a Tucupita, sede dell’omonimo vicariato apostolico, e altre 7 per fiume, su barca a motore, per essere a destinazione. Ancora 40 minuti e si è in alto mare, in pieno Oceano Atlantico.
Naturalmente, per rispettare la tabella di marcia tutto deve filare liscio, il che non sempre accade. Nei primi viaggi, infatti, avevamo a disposizione una curiara (barca, canoa) con un motore vecchio di 30 anni: per la sua età faceva ancora miracoli, ma non sempre ci riusciva. Più di una volta ci ha lasciati in mezzo al fiume. Come quella volta che, partiti alle 2,30 della notte per andare a Tucupita, il motore cominciò a bloccarsi dopo un’ora di viaggio… e arrivammo in città alle 4,30 del pomeriggio.
Ma non sono esperienze che ci scoraggiano. Anzi, diventano occasioni per gustare la bellezza del creato. Ci sentiamo immersi in un altro mondo, un paradiso terrestre, tra cielo e… acqua, circondati dalla lussureggiante vegetazione della fitta foresta tropicale, popolata da miriadi di uccelli e altri animali acquatici e terrestri: siamo nell’immenso delta del fiume Orinoco (vedi riquadro).

Il territorio della missione di Nabasanuka misura oltre 15 mila kmq (pari all’Abruzzo e Molise messi assieme), in buona parte coperto di acqua; la terra ferma, in quanto tale, è molto scarsa.
Tutto il delta dell’Orinoco è abitato dagli indios dell’etnia warao, che vivono sparsi nel vasto territorio in piccole comunità, 63 delle quali sono comprese nei confini della nostra missione.
Tradizionalmente i warao si dedicavano alla caccia, pesca e raccolta di frutta e vegetali commestibili, offerti dalla natura circostante. Col tempo, però, i mutamenti climatici e geografici li hanno costretti a cambiare alcune abitudini di vita; hanno incrementato la pesca, principale fonte di alimentazione, e si sono dedicati anche all’agricoltura. Si tratta di agricoltura di sussistenza: unico prodotto coltivato è l’ocumo, una pianta erbacea con tuberi commestibili.
Anche nell’ambito dell’artigianato, la produzione è limitata alle necessità immediate della vita: amache, ceste, utensili vari.
Sotto l’aspetto materiale, quindi, i warao sono gente povera; vivono in fatiscenti palafitte di legno, piantate lungo le sponde dei fiumi. Eppure la scarsità delle risorse li ha portati a  sviluppare, fin dai primi anni di età, tutte le doti necessarie per la sopravvivenza. Basta guardare i bambini che, a 4 anni, nuotano come pesci e solcano le correnti dei fiumi in canoa con estrema maestria. Sembrano nati nell’acqua.
Ancor più ricco e sorprendente è l’aspetto umano e sociale dei warao. Anche se, come missionari, ci consideriamo stranieri, ospiti e pellegrini, fin dai primi incontri essi ci hanno accolto con tale semplicità e schiettezza da farci sentire subito in famiglia. Sorprendente è il modo con cui si riferiscono a noi: non ci chiamano «preti» o «missionari», ma fratelli. I giovani si rivolgono a noi con il termine «daje» (fratello maggiore), gli anziani con la parola «daka» (fratello minore). Questo ci fa sentire la missione come costruzione di legami di fratellanza.
Altrettanto stupenda è l’espressione usata per indicare il regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Anche questo ci fa vedere come Dio è in azione anche in questa sperduta parte del globo e, soprattutto, ci indica la natura della missione appena iniziata: trasformare il mondo per fae una casa, una famiglia dove tutti possono appendere il proprio chinchorro (amaca) e condividere il poco e il molto che si ha.

Costruire la Dioso a Janoko è, quindi, la grande sfida della nuova missione tra le 63 comunità warao che ci sono state affidate. E abbiamo già cominciato a stendere i progetti e fissare le priorità, tenendo conto della situazione religiosa della gente. Le comunità della missione, infatti, possono essere suddivise in tre gruppi: quelle già evangelizzate, dove la fede cristiana è radicata; quelle che hanno avuto contatti sporadici con i missionari, per cui la vita cristiana non è ancora impiantata; quelle che non hanno ancora avuto alcun contatto con il vangelo.
Per rispondere alla sfida, ci siamo gettati a capofitto nell’apprendere la lingua dei warao: senza di essa è impossibile entrare nel loro mondo culturale e trasmettere il messaggio del vangelo; anche perché buona parte delle comunità parla solo il warao e non conosce lo spagnolo.
Di pari passo con lo studio della lingua procede la visita alle comunità, intrattenendoci con loro per meglio conoscerle e farci conoscere. È una sfida che assorbe molto tempo, non solo per raggiungere le varie località, ma anche per l’approvvigionamento del carburante. In Venezuela la benzina costa poco, ma il rifoimento più vicino si trova a Tucupita: ciò significa sette ore di curiara nell’andata e altrettante nel ritorno.
C onsiderando il numero di comunità e le distanze da percorrere per raggiungerle, ci è impossibile visitarle con frequenza e svolgervi un lavoro in profondità. Per questo abbiamo scelto come priorità assoluta la preparazione di animatori e catechisti, i quali, in nostra assenza, assicurino l’assistenza religiosa ai gruppi cristianamente già formati e promuovano l’annuncio del vangelo in quelli ancora da evangelizzare.
Tale priorità fa parte anche del programma pastorale del vicariato apostolico di Tucupita. Non ci resta che inserirci nel progetto. Anzi, abbiamo già iniziato con la formazione di catechisti in tre comunità: Nabasanuka, Bononia e Araguabasi. Abbiamo circa 40 persone, uomini e donne, che frequentano il centro di Nabasanuka, che stiamo attrezzando con computer, fotocopiatrice e materiale didattico vario. Ma il problema più grande rimane quello del trasporto: abbiamo creato un piccolo fondo per fare fronte ai viaggi dei catechisti, senza pesare sulle loro tasche vuote. E fino ad ora la Provvidenza non vi ha fatto mancare nulla per coltivare i nostri sogni.
Altri sogni nel cassetto riguardano la promozione umana. Alla povertà economica, infatti, si aggiunge quella scolastica e sanitaria: il governo venezuelano ha praticamente lasciato gli abitanti del delta in uno stato di abbandono.
Sotto l’aspetto sanitario il discorso è molto breve: in tutta la regione (15 mila kmq) c’è un solo dispensario, con un solo dottore residente, che si è offerto volontariamente di prendersi cura di questa gente.
Per quanto riguarda l’istruzione, in tutto il territorio ci sono solo due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani si fermano alle elementari, senza la possibilità di completare il ciclo della scuola secondaria, che qui chiamano liceo.
Per di più,  anche l’insegnamento nella scuola elementare non eccelle per serietà e rendimento, per la mancanza di insegnanti professionalmente qualificati. Ed è comprensibile: quale insegnante o professore (e dottore) è disposto a vivere su una palafitta, isolato dal resto del mondo, in piccoli villaggi privi di ogni comodità e in un ambiente totalmente estraneo alla propria cultura?
Il vicariato apostolico di Tucupita ha dato vita a una bella iniziativa, in collaborazione con l’Università pedagogica Libertador (Upel) di Maracay di Caracas: due volte al mese, durante il fine settimana, alcuni professori di questa università vengono a Nabasanuka per svolgere un programma di formazione professionale per insegnanti warao. Nel giro di tre anni essi dovrebbero essere preparati per assumere la responsabilità di tutti i settori della scuola.
Intanto, a partire da ottobre 2006, con l’inizio dell’anno scolastico, anche noi missionari siamo coinvolti nell’insegnamento nelle classi del liceo di Nabasanuka, l’unico in tutto il territorio della missione, dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Ce lo ha chiesto la comunità e abbiamo accettato volentieri. La presenza nella scuola secondaria, oltre all’opportunità di contribuire alla loro preparazione accademica, ci offre l’opportunità di entrare nel mondo dei giovani warao e di accompagnare la loro crescita umana, culturale e religiosa.
Tale formazione sta diventando un problema sempre più preoccupante. Il bombardamento dei canali televisivi riversa sui giovani warao i nuovi modelli di vita dalla globalizzazione, erodendo i loro valori culturali e provocando un senso di inferiorità di fronte alla cultura dominante.
Per noi è un compito in più, che si aggiunge a quello prettamente di evangelizzazione, ma siamo convinti che anche questo contribuisce al processo di autornaffermazione e di sviluppo della popolazione warao. I giovani mostrano molto entusiasmo e voglia di imparare; ma, anche in questo ambito, mancano spesso gli aesi del mestiere: cioè i libri di testo. Per questo anno abbiamo bisogno di 800 testi, e ci stiamo organizzando per raccattarli, sempre confidando nella Provvidenza.

Alla fine del 2006 sono arrivate a Nabasanuka quattro suore della Consolata, completando così il quadro del personale programmato per questa nuova avventura missionaria. Ma siamo in contatto anche con alcuni laici, che un giorno potrebbero venire a condividere la nostra avventura.
Oltre a dare nuovo impulso alle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, continuiamo a sognare nuovi progetti. Uno dei quali riguarda la costruzione di un salone multiuso, per facilitare la formazione degli agenti di pastorale, il cui numero continua ad aumentare, e dare vita a nuove iniziative per accelerare il processo di recupero della cultura della popolazione warao.
Il progetto è ambizioso e costoso; ma abbiamo pazienza. In queste terre del delta, terre di pura acqua, continuiamo a coltivare il sogno di Dio: «Che tutti giungano alla conoscenza della Verità» senza perdere i valori della propria cultura. 

Di Josiah K’okal

Il Delta dell’Orinoco

Il più grande del Venezuela e terzo dell’America del Sud, l’Orinoco è uno dei fiumi più ricchi d’acqua del mondo, con una porta media di 38 mila litri al secondo. Nasce vicino al confine con il Brasile nella parte meridionale del Venezuela e scorre per 2.150 km; attraversata Ciudad Guayana, si dirige verso l’Oceano Atlantico, trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami, canali, lagune, che s’intrecciano tra loro fino a raggiungere, dopo oltre 200 km, l’Oceano Atlantico, con una superficie approssimativa di 22 mila kmq.
Gli ecosistemi terrestri e acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area terrestre è coperta da una fitta foresta tropicale che conta circa 2 mila specie  di piante, poi: ricchezza di uccelli (464 specie), rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410 specie). Una grande quantità di invertebrati.
Le terre del Delta del RÍo Orinoco sono abitate da tempi remoti da una etnia indigena, i warao, che significa «gente di curiara» (canoa). Sono oltre 100 mila. Vivono in villaggi, formati da famiglie unite fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La direzione e il controllo della comunità è affidato al più anziano, chiamato «aldamo».
I warao sono esperti pescatori con varie tecniche e metodi di pesca, la quale costituisce la principale fonte della loro alimentazione. Sono poi cacciatori, esercitando una caccia di sussistenza. L’agricoltura è esercitata in piccole aree (conuchi) e si basa sulla coltivazione dell’«ocumo», una pianta erbacea con tubercoli commestibili, che rappresentano attualmente il «pane» dei warao.

Giuseppe Bono

Josiah K’okal




Miracoli feriali

Presenza delle suore Marcelline nel «Paese delle aquile»

Sono arrivate nel paese quando molti albanesi si davano alla fuga; hanno aiutato famiglie e profughi negli anni di emergenza; e continuano a lavorare a fianco dei più bisognosi: cinque suore Marcelline raccontano le loro storie di amore a fianco di gente dimenticata e senza voce.

Ci sono luoghi nel mondo dove i miracoli hanno nomi, volti e raccontano storie. Storie bellissime, speciali, ma allo stesso tempo semplici, quasi «normali». Perché vissute ogni giorno e rinnovate con l’amore verso il prossimo, soprattutto se questo è indifeso, dimenticato, senza voce.
Saranda, cittadina del sud dell’Albania, è uno di questi luoghi e il miracolo che vi si compie ha il volto di cinque donne, tre italiane e due messicane: tutte appartenenti alla congregazione delle suore Marcelline. Suor Daniela e suor Lucia sono quelle che hanno aperto la strada della nuova missione, nel 1995. Suor Maricruz e suor Betty hanno lasciato Città del Messico qualche anno dopo, mentre suor Anna, giovanissima, è arrivata nel 2005.
Cinque donne e una grande storia da raccontare: quella che le ha portate, passo dopo passo, ad aprire un asilo, un centro medico, una mensa scolastica, un centro di formazione. Ma soprattutto, a guadagnare la fiducia della gente d’Albania, un popolo schivo e all’apparenza duro, dal passato oscuro e dal presente difficile, dove povertà e progresso sono due facce di una stessa medaglia.
Oggi le suore sono conosciute, rispettate e apprezzate da tutta Saranda. Autorità comprese: la loro presenza e il loro parere in consiglio comunale sono sempre ben accetti; la loro esperienza è sinonimo di affidabilità e saggezza.

STORIE DI EMERGENZA

Ma come si è arrivati a tutto questo? Piccoli miracoli di ogni giorno, si diceva. Con il volto e la storia di suor Daniela, che è arrivata in Albania quando tutti, anche gli stessi albanesi, si davano alla fuga. «Nei primi anni  ‘90 vivevamo a Lecce – racconta la suora, milanese di origine -.  Vedevamo passare centinaia di disperati in cerca di nuove speranze».
Erano gli anni delle navi mercantili sulle coste pugliesi, piene di albanesi in fuga dal proprio paese, dopo la caduta del rigido regime comunista. «Allora ci siamo dette – prosegue suor Daniela -: anziché aiutarli dando loro accoglienza, perché non andare nel loro paese e convincerli a rimanere?».
Detto fatto. Così nacque la prima casa delle Marcelline a Valona, appena 60 chilometri di mare da Brindisi. «Eravamo tre suore in una casa molto piccola – continua la suora -, ma da subito abbiamo attivato un piccolo asilo con 20 bambini, e l’aula era la nostra camera da letto». Un ricordo che ancora oggi le fa abbozzare un sorriso, assieme a quello dell’ambulatorio, «posto all’entrata dell’abitazione: un salottino senza finestre».
Ma erano tempi d’emergenza, che si sono poi aggravati nel marzo 1997, all’indomani della crisi finanziaria, che gettò sul lastrico migliaia di famiglie albanesi. In quel momento le suore si erano già trasferite a Saranda, dove la presenza internazionale era pressoché inesistente.
Suor Daniela ricorda il 1997 come un inferno, dal quale, però, non è voluta scappare. «Anche la polizia aveva abbandonato la città; tutti rubavano tutto; i ragazzini giravano in bande con i kalashnikov – racconta la suora -. Noi vivevamo rinchiuse nella nostra casa, ospitando più bambini possibile».
La normalità sarebbe tornata solo molti mesi dopo, ma un’altra emergenza era già alle porte: migliaia di sfollati dalla guerra del Kosovo inondavano l’Albania con le loro angosce. Siamo nel giugno 1999. Le Marcelline si rimboccarono subito le maniche e un altro miracolo si faceva strada, giorno dopo giorno. «Siamo riuscite ad accogliere 1.500 profughi – ricorda suor Daniela -; 600 di loro erano nell’hotel Butrint, che ancora oggi è l’alloggio più famoso della città».
Le suore erano aiutate dall’operazione Arcobaleno, ovvero decine di volontari che scaricavano container pieni di beni di prima necessità raccolti dal governo italiano. Alla fine, le suore ce l’hanno fatta. I kosovari sono poi rientrati nelle loro case e, con l’inizio del secolo xxi, una sorta di normalità ha preso piede in tutto il «paese delle aquile» (o Shiqperia, nome ufficiale dell’Albania; la bandiera nazionale è infatti una grande aquila nera su sfondo rosso).
Govei meno corrotti di un tempo, più relazioni paritarie con l’estero e lo sviluppo di un commercio interno hanno gettato le basi di una fragile, ma decisa democrazia, quella che tuttora vige nel paese.

NELLA GIUNGLA DI CEMENTO

L’Italia è il primo partner dell’Albania per tutto: import-export, aiuti umanitari residui, progetti di sviluppo. L’attività principale è ancora oggi quella che esisteva già ai tempi di Mussolini: la costruzione di strade. Appena fuori dalle città si possono leggere su enormi cartelli le scritte: «Strada realizzata grazie al contributo della Cooperazione italiana».
Così, chilometri e chilometri di asfalto rendono più veloci i collegamenti del paese; ma l’asperità del terreno fa di ogni viaggio una piccola odissea, permettendo, però, una lenta scoperta dell’Albania più profonda, quella dei piccoli paesi collinosi, dediti all’agricoltura e pastorizia, dove il tempo è fermo e lo rimarrà per chissà quanto ancora.
Tale è, per esempio, il paesaggio attraversato dalla strada che dalla capitale Tirana porta a Saranda: solo 120 chilometri, che con un maneggevole pulmino si coprono in «sole» sette ore. Dopo decine di colline, valli mozzafiato e quasi nessuna presenza umana (a parte alcune splendide cittadine come Argirocastro e il suo centro medievale, oggi sede di una grossa università), Saranda ti accoglie con la sua freschezza di città costiera, affacciata sul mar Mediterraneo e sull’isola greca di Corfù, meta migratoria agognata dagli albanesi tanto quanto l’Italia.
Grazie a Corfù e alla Grecia in generale, Saranda sta vivendo negli ultimi cinque anni un boom turistico senza precedenti: i 30 mila abitanti invernali triplicano d’estate. Molti rientri vacanzieri in famiglia di lavoratori albanesi, ma anche una crescente mole di turisti greci, che trovano alloggio in alberghi e appartamenti che spuntano come funghi in tutta la città.
Progresso, ma anche nuovi problemi, a cominciare dallo spazio. Non ditelo alle Marcelline e a Rocco, volontario italiano che da cinque anni vive con loro. Quando le suore sono arrivate nel quartiere, la loro casa era circondata da campi, e si vedeva il mare. Oggi tre dei quattro lati (il quarto dà sulla strada) sono coperti da palazzoni, due dei quali costruiti a metà. 
«Qui non c’è un piano regolatore e tutti costruiscono dove gli pare» dice Rocco, che si occupa dell’educazione di adolescenti albanesi tramite lo sport . «Poco tempo fa abbiamo avuto problemi con uno dei proprietari qui a fianco – continua il ragazzo pugliese – perché voleva che accorciassimo il campo di calcio per farci stare il suo appartamento».
Rocco e le Marcelline hanno dovuto accontentarlo, vista la sua prepotenza e l’assenza di regole. Lo stesso avviene nell’edificio dove le suore hanno adibito la mensa per bambini, che si trova a lato di un albergo che si espande sempre più, nonostante i pochi clienti che lo frequentano.

I SEGRETI DI SUOR LUCIA

Nonostante l’abusivismo edilizio, che sta trasformando e abbruttendo Saranda, la casa delle suore Marcelline rimane ancora oggi un punto di riferimento per tutta la città. Dal 2000, grazie al contributo economico della fondazione Pierfranco e Luisa Mariani, tutta la struttura ha subito un rinnovamento totale, e oggi risplende per ordine e semplicità.
All’interno del recinto in muratura si apre un mondo chiamato «Qendra sociale Santa Marcellina», un centro sociale composto da due grandi edifici, giardino con giochi per bambini, e un piccolo campo di calcio. Qui centinaia di persone si recano ogni giorno, per svariate ragioni.
La giornata al Qendra comincia prestissimo. Non sono ancora le otto, infatti, quando 150 bambini, accompagnati dai genitori, riempiono di colori e schiamazzi il cortile: ha così inizio l’asilo, la principale attività delle suore, aiutate da sei insegnanti albanesi, che ricevono regolare stipendio grazie all’impegno della stessa fondazione Mariani. Grazie all’asilo, le suore vengono a contatto con decine di famiglie in difficili condizioni economiche, che poi cercano di aiutare attraverso la condivisione dei loro problemi.
Suor Lucia è risoluta nel tracciare una profonda analisi della società albanese e non risparmia le critiche: «Violenza familiare, pregiudizi verso le persone con problemi di handicap, assenza quasi totale delle istituzioni, corruzione ancora molto viva: questi i maggiori problemi con cui abbiamo a che fare» enumera la suora, originaria di Tricase, paesino in provincia di Lecce.
Suor Lucia, oltre ad abile cuoca, è anche infermiera; è lei a gestire l’altra grossa attività del Qendra, l’ambulatorio di neurologia pediatrica, dove ogni pomeriggio arrivano le famiglie i cui bambini hanno problemi legati alle terminazioni nervose. «Esaurimenti ed epilessia sono le malattie più frequenti, e si presentano già dai primi anni di vita» spiega la suora.
Nell’area attorno a Saranda almeno 5 mila persone hanno problemi di natura epilettica, dicono gli ultimi studi. Una delle percentuali più alte d’Europa, superiore anche alle zone dove è alta la concentrazione di radiazioni. «A questi problemi se ne aggiungono altri, di natura psicologica, legati a quello che è successo nel 1997» continua suor Lucia.
Nell’ambulatorio, ad accogliere le centinaia di piccoli pazienti, lavorano vari pediatri ed esperti di neurologia; alcuni arrivano direttamente da Tirana almeno una settimana al mese. L’ambulatorio è l’ambito in cui la fondazione Mariani ha dedicato i suoi sforzi maggiori nell’aiuto alle suore. Per un semplice motivo: lo scopo principale della Mariani, da oltre 20 anni, è il sostegno a chi si dedica alla neurologia infantile, in Italia e nel mondo.
Quello delle Marcelline è l’unico centro medico specializzato del sud dell’Albania, anche perché l’ospedale cittadino è fatiscente e poco attrezzato, a cominciare dai medicinali.
Suor Lucia questo lo sa bene. Ciò che pochi sanno è che la religiosa ha il suo segreto-miracolo: una stanzetta, chiusa ermeticamente, adibita a dispensario medicinale. Centinaia di medicine diverse, di vario tipo, non solo neurologico, arrivate da varie donazioni italiane ed inteazionali. «Questo piccolo tesoro è vitale per molti albanesi – confessa la suora – anche perché molti di loro non si fidano a comprare medicinali fabbricati nel proprio paese».
La ragione? «A volte quello che c’è scritto sulla confezione non corrisponde alla realtà – spiega suor Lucia -. Le farmacie, forse approfittandosene un po’ troppo, consigliano alla gente di comprare quelle inteazionali, che però costano dieci volte tanto». Molte famiglie non ce la fanno, per questo la suora ha il suo «forziere», al quale attinge con molta cautela.

IL COMPUTER DI MARICRUZ

Anche suor Anna e le due suore messicane sono infermiere e sono un valido aiuto a suor Lucia. Ma oltre all’asilo e all’ambulatorio, le Marcelline a Saranda si occupano di formazione e promozione umana: corsi di artigianato, tessitura, turismo e informatica riempiono i pomeriggi al Qendra. Suor Maricruz è la responsabile e, da come si muove sul computer, si può dedurre la sua abilità d’insegnamento informatico. «Cerchiamo di dare ai giovani strumenti per trovare lavoro» dice la suora.
I risultati dei primi anni di corsi fanno ben sperare. Ad esempio, grazie al corso di operatore turistico, la 25enne Emirjeta Roboci lavora oggi come guida alle vicine rovine romane di Butrinto. La ragazza ha inoltre avviato la prima esperienza di turismo responsabile nella zona, ricevendo alcuni turisti italiani e portandoli nei luoghi che il turismo tradizionale non contempla.
Tra questi vi è il piccolo villaggio di Shendelli, situato in un lembo di terra vergine, tra due enormi laghi naturali, una visuale a 360 gradi, dalla quale si vedono le case di Corfù.
La particolarità di Shendelli, però, è nella sua gente: almeno cento famiglie rom, originarie del nord dell’Albania, arrivate in queste terre nel 1996.  Vittime di pregiudizi da parte dei locali, queste persone hanno vissuto per anni in baracche, fino a quando le suore Marcelline, tramite aiuti inteazionali, hanno dato loro quella dignità che era negata.
Ora, con case in muratura, piccole attività commerciali legate all’agricoltura e all’artigianato, riescono a vivere senza patire la fame. «Ma ora bisogna insegnare ai loro bambini a leggere e a scrivere», dice suor Daniela. Un altro piccolo miracolo da compiere. Un’altra bella storia da raccontare, un giorno non lontano.  

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Che sia la volta buona?

Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi

Burundi, ottobre 1993. Poi Rwanda e ancora le guerre del Congo. Conflitti che hanno coinvolto decine di stati e fatto milioni di vittime. Crocevia di interessi minerari, traffico di armi e milizie mercenarie. Area di frizione tra influenze (straniere) linguistiche. L’instabilità nella regione era diventata endemica. Oggi con un patto a 360° i capi di stato africani cercano di voltare pagina.

Un importante patto sulla sicurezza, stabilità e sviluppo della regione dei Grandi laghi, firmato da otto capi di stato e di governo. È il risultato del secondo summit della Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi, svoltasi a Nairobi dal 13 al 16 di dicembre scorso.  Anche l’Unione Africana ha partecipato con il presidente della Commissione, Alpha Omar Konaré, mentre era presente il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la regione dei Grandi laghi, Ibrahima Fall e quello dell’Unione europea.
È il secondo vertice ai massimi livelli organizzato per questo scopo. I responsabili sono finalmente giunti ad un accordo che, se messo in pratica, può portare ad una convivenza politica, sociale, economica e un completo accordo sul come raggiungere la meta prefissa. 

Un po’ di storia

Con due risoluzioni nel 2000 le Nazioni Unite avevano chiesto una Conferenza internazionale su pace, sicurezza, democrazia e sviluppo nei Grandi laghi. Regione, dal 1993, devastata dai conflitti (Burundi, Rwanda e infine Congo). I paesi chiamati a partecipare furono undici, a causa delle implicazioni inteazionali che avevano assunto le guerre in questa regione: oltre a Burundi, Rwanda, Congo, Uganda, Kenya e Tanzania, anche Angola, Sudan, Repubblica del Congo e Repubblica Centroafricana e Zambia. Altri sette i paesi «co-optati»: Botswana, Egitto, Etiopia, Malawi, Mozambico, Namibia e Zimbabwe. I primi incontri si erano svolti nel 2003 e il primo summit a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, nel novembre 2004, dopo 4 anni di lavoro diplomatico.

Incidenti collaterali

Purtroppo il giorno prima della firma dei capi di governo per l’approvazione del documento finale, in Kenya si è verificata nel distretto dei Turkana un’ invasione di banditi provenienti dal distretto West Pokot, sul confine con l’ Uganda, in cui sono state massacrate 19 persone, oltre 6.500 capi di bestiame rubati, case e capanne distrutte. I banditi si sono divisi in due gruppi: uno per rubare il bestiame e condurlo nel distretto West Pokot, e l’altro difendeva i ladri a colpi di Kalashnikov. Più di venti abitanti del villaggio di Lorengipi sono in cura in diversi ospedali del distretto dei Turkana, alcuni in serie condizioni. Per un momento è sembrato che tutto dovesse crollare, che questo attentato brutale dovesse porre termine alla Conferenza, senza plausibili conclusioni, ma il presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ha detto che se i banditi credono di fermare il progresso della Conferenza con le loro razzie e uccisioni, hanno fatto i conti sbagliati. «Nulla  – ha affermato Kibaki – fermerà questo processo di sicurezza, di pace, di progresso».
Oltre al presidente del Kenya gli altri capi di stato presenti erano: Jakaya Mrisko Kilwestern della Tanzania, Levy Mwanawasa dello Zambia, Yoweri Museveni dell’Uganda, Pierre Nkurunzia del Burundi, Joseph Kabila della Repubblica democratica del Congo, Beard Makuza,  primo Ministro del Rwanda. Il rappresentante delle Nazioni Unite, a nome del Segretario Generale  uscente Kofi Annan, ha aperto la conferenza dicendo che «la Regione dei Grandi laghi è stata vittima delle più brutali guerre civili del continente», e si è augurato che «tutti gli stati sentano questo problema come il proprio problema. Voi avete definito le priorità di questo impegno, e voi dovete trovare vie e mezzi per lavorare assieme e risolverlo». Nel messaggio Kofi Annan ha detto: «Questo accordo non è solo una visione, è un programma. Milioni di persone – donne, giovani, rifugiati, sfollati – stanno guardandovi e guardandoci e aspettano benefici concreti. Richiamo i paesi della regione a continuare a mostrare padronanza del processo».

Di cosa si è parlato

L’interesse dei capi di stato era rivolto a quattro aree di vita dei loro paesi e delle relazioni con i paesi confinanti. Si è discusso di pace e sicurezza, democrazia e buongoverno, sviluppo economico e integrazione regionale, questioni umanitarie e sociali. Nella discussione su queste quattro aree c’è stata molta correttezza e anche molta onestà. Nonostante qualche momento critico come quando i presidenti Museveni e Kabila si sono scambiati forti accuse e condanne per il loro operato nel Congo. Museveni ha accusato alcuni governi,  soprattutto quello di Kabila, di dare ospitalità e di difendere «gruppi ribelli». «Il problema di nazioni che danno ospitalità e si schierano con le milizie, deve essere discusso ora nel modo più categorico». Ha proposto un emendamento al testo del decreto finale, in cui si dichiara che «qualsiasi stato che dà ospitalità a ribelli, sia trattato come tale».

Servono soldi

Un altro punto di divergenza è stato il sostegno finanziario necessario per tutto ciò che si approva. Alcuni hanno chiesto che gli stati stessi siano totalmente obbligati a finanziare tutte le iniziative approvate, altri invece sostengono che questo sarebbe impossibile senza aiuti estei. Il presidente della Tanzania è riuscito ad armonizzare le due parti dicendo: «Il fondo monetario richiede una enorme quantità di capitali. Nutro la speranza che noi saremo i primi a contribuire sostanzialmente al fondo, anche come segno di determinazione politica. Ma, riconoscendo i nostri limiti finanziari, dobbiamo anche chiedere aiuti alle nazioni e agenzie che considerano importante questo passo, determinante per la pace e il progresso nella nostra regione».
Gli stati dei Grandi laghi s’impegnano a dar vita a un centro che promuova la democrazia nella regione e ristori la legge dell’ordine. Dovrà pure controllare che il patto approvato dai capi di stato, sia eseguito da tutti gli stati e in tutti i suoi particolari. Dovrà preparare programmi di educazione alla democrazia e alla partecipazione alla vita democratica dei loro paesi. Un’altra responsabilità del centro è quella di aiutare i governi a risolvere pacificamente le loro divergenze.
Un fondo monetario di 225 milioni di dollari è stato approvato. Lo scopo è di promuovere lo sviluppo, l’integrazione economica e ricostruire le istituzioni distrutte da anni di guerre, specialmente nel Burundi, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo.
Tutti gli stati presenti s’impegnano a disarmare e ad espellere i gruppi di ribelli che ancora si nascondono in certe zone, e operano contro altri stati limitrofi. Il testo è molto forte e impegnativo. Dice: «Gli stati membri sono d’accordo che qualsiasi attacco contro uno o più di loro dovrebbe essere considerato come un attacco contro tutti loro. Se questo succede, ogni membro, nell’ambito della difesa individuale e collettiva, assisterà gli stati attaccati».
Gli stati del Kenya, Uganda e Sudan s’impegnano a disarmare i gruppi di pastori e nomadi delle loro aree semi-deserte.
Altri temi considerati anche se brevemente, sono stati la situazione delle donne e delle ingiustizie generalizzate e l’epidemia di Aids.
I capi di stato sono determinati a rispondere in modo responsabile per proteggere le popolazioni da genocidi, crimini di guerra, la decimazione di etnie, crimini contro l’umanità e severe violazioni dei diritti umani commessi da, o entro uno degli stati che hanno approvato l’accordo.
«La regione dei Grandi laghi ha problemi di sfollati, violenza sessuale, aids, e altre malattie sociali» ha ricordato il presidente Kibaki. Un protocollo del patto rende obbligatorio agli stati di proteggere, aiutare e cercare soluzione per gli sfollati, stimati a 9,5 milioni nella regione.
I rappresentanti della chiesa cattolica, presenti alla Conferenza, sono stati molto soddisfatti del patto approvato per la sicurezza, stabilità e sviluppo nella regione dei Grandi laghi. Secondo i vescovi presenti, l’iniziativa presa dai capi di Stato «offre una possibilità di iniziare un processo di riconciliazione che la chiesa pienamente approva». I vescovi hanno anche fatto appello alle popolazioni che nel passato hanno sperimentato guerre, ingiustizie, razzie, a  «perdonare e riconciliarsi gli uni con gli altri, nell’interesse di una pacifica convivenza».

Dopo la firma la parte più difficile

Al termine del summit, tutti i capi di stato si sono ritrovati unanimi nell’ammettere che il patto è stato un passo decisivo per la pace, il benessere e la cooperazione nella regione dei Grandi laghi. Tutto vero sulla carta ma le sfide restano enormi. Quella della messa in opera del patto, il Kenya lo sta già violando, negando l’entrata dei rifugiati somali; la sfida del contributo delle nazioni ricche al fondo per le realizzazioni; la sfida della «moralità» nella gestione di quei fondi.
«Penso sia possibile chiudere questo triste capitolo della storia della nostra regione – ha dichiarato il presidente Kikwestern – un capitolo caratterizzato da conflitti, insicurezza, instabilità politica e perdita di opportunità economiche».

di Antonio Bellagamba

Antonio Bellagamba




«Mettete pane nei vostri cannoni»

Da Vicenza a Cameri, uno scandalo che non può essere taciuto

PERCHÉ?

Perché si aumentano le spese belliche?
Perché si perpetuano le servitù militari?
Perché non si utilizzano i soldi (pubblici) in favore di uno sviluppo «virtuoso»?

«Mi rivolgo alla vostra rivista di cui sono assidua lettrice per richiamare la vostra attenzione su quanto sta avvenendo a Vicenza in questi giorni. Vi prego di fare un articolo su questo argomento per aiutarci a vincere questa battaglia a favore della pace ma contro potenze fortissime. Se volete ulteriori informazioni vi segnalo il sito www.altravicenza.it.
Grazie per l’attenzione e continuate così.

Emanuela Lievore, Vicenza


Abbiamo pensato che fosse giusto accontentare la nostra lettrice, pur sapendo – per esperienza maturata sulla nostra pelle (dal Kosovo all’Iraq, dalla Palestina all’Iran) – che quando si affrontano questi argomenti si rischiano sempre le critiche e, a volte, gli insulti. Proprio per auto-tutelarci (senza, però, auto-censurarci) abbiamo chiesto di esprimere un parere su questi argomenti a 4 nostri collaboratori di prestigio, tutti preti (per questa volta). Prima di lasciarvi alle loro considerazioni, ricordiamo qualche dato.
Nel mondo, gli Stati Uniti sono di gran lunga il paese con la maggior spesa militare, pari al 48% del totale mondiale (dati Sipri). In Italia, le forze degli Stati Uniti si sono piazzate bene e comodamente, da Nord a Sud del paese. I casi più clamorosi sono quelli de La Maddalena (Sassari), una base navale che ospita sottomarini nucleari e che dovrebbe (finalmente) essere smantellata nel 2008; Aviano (Pordenone), da dove partirono i cacciabombardieri durante la guerra del Kosovo (1999) e Camp Darby (in provincia di Pisa, nonostante il nome inglese), dove esercito ed aviazione statunitensi custodiscono un ricco arsenale. Da anni l’Italia è tra i primi 10 paesi del mondo sia come spesa militare che come esportatore di armi.
Dimenticando totalmente le questioni etiche, parliamo di soldi. La Confindustria, la maggioranza dei politici, gli economisti e i giornalisti «schierati» (diciamo così) affermano che «basi militari e spese militari sostengono lo sviluppo economico perché incentivano gli investimenti e producono posti di lavoro». Provate soltanto ad immaginare che volano economico produrrebbe un dirottamento dei soldi pubblici spesi per la difesa (e per la costruzione di mezzi da guerra: ad esempio, gli aerei da combattimento Eurofighter e Joint Strike Fighter o le navi da guerra della classe Fremm) per progetti diversi come, ad esempio, investimenti nel settore delle fonti energetiche rinnovabili e contributi per l’edilizia bioecologica. Si incentiverebbe non soltanto lo sviluppo economico, ma anche e soprattutto uno sviluppo di tipo virtuoso. Quanto al (presunto) ritorno economico delle basi Usa, sarebbe meglio dare un’occhiata ai rapporti del «Dipartimento della difesa» degli Stati Uniti, alla voce Allied Contributions to the Common Defense. Nel 2004, ad esempio, l’Italia ha pagato agli Stati Uniti, per le cosiddette «spese di stazionamento», 366 milioni di dollari: soltanto Giappone e Germania pagano più del nostro paese. Washington prende i soldi, ma se i suoi soldati combinano qualche «marachella» (come la strage del Cermis, in Trentino, che nel 1998 provocò 20 morti) non possono essere processati in Italia. Di questo si è lamentato addirittura il Corriere della sera (pur favorevole, come tutti i grandi giornali, alla presenza delle basi Usa), che parla della necessità di «aggioare le condizioni dell’ospitalità» (17 gennaio 2007).
Come tutti sanno, mancano sempre i soldi per le Università, la ricerca, gli ospedali, le scuole, la salvaguardia dell’ambiente, il risparmio energetico, le pensioni, le politiche migratorie, la cooperazione internazionale, ma non mancano mai per le spese militari. Sembra che, in ogni parte del mondo, dagli Usa all’Italia, la lobby politico-militare-finanziaria esca sempre vincente. Una ragione in più per alzare la voce. Noi lo facciamo.

Paolo Moiola

A Vicenza si vuole ampliare la base degli Stati Uniti, a Cameri (Novara) si vogliono assemblare i nuovi caccia militari F-35. Si adducono motivi diplomatici («i patti sono patti»), economici («si porta lavoro
e ricchezza»), di opportunità («altrimenti se ne vanno da un’altra parte»), ma in verità nulla di tutto ciò può essere giustificato, se si considerano le spese militari un attentato alla pace e uno spreco assurdo di risorse. Da Vicenza a Cameri, dagli eserciti alla finanziaria: troppe scelte di guerra, troppa ipocrisia. E troppi interessi.

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Essere per sempre spettatori passivi (o impotenti) davanti alla morte del diritto e dell’etica?

Solo un occhio superficiale o, almeno, sprovveduto, può vedere nell’attuale dibattito sulla nuova base dell’Us Army a Vicenza una semplice questione riguardante i rapporti Italia-Usa (con il collaterale e strumentale dibattito sull’antiamericanismo) o un problema correlato alla nostra «politica estera» (con il consequenziale e ugualmente strumentale riferimento alla «fedeltà» circa gli impegni precedentemente assunti dall’Italia).
Il problema non è questo. Il problema è l’intero contesto nel quale questa scelta viene a porsi; e preoccupante è il panorama che ne emerge.
Ora noi sappiamo bene che nel mondo della comunicazione una parola, un’espressione ed anche un’intera affermazione prendono senso dal contesto del discorso: il luogo in cui si parla, il pubblico cui ci si riferisce, l’oggetto del parlare ed il parlare stesso. In contesti diversi le stesse parole assumono valori diversi, a volte anche contraddittori. La parola «padre», per portare un esempio, in contesti diversi può significare il padre che ha generato, ma può significare anche Dio, il padrino e perfino il padrone e il mafioso. Quindi, onde evitare incomprensioni e fraintendimenti si rende necessaria un’opera di contestualizzazione del «parlato» e di «sintonizzazione» con il parlante: tutto ciò al fine di una corretta comprensione e di una positiva comunicazione.
Questo lavoro «ermeneutico» in filosofia viene chiamato «sitz in leben». Ed è un lavoro non facile, eppur necessario. Una volta, a Raimon Panikkar, fu chiesto di indicare gli equivalenti sanscriti di 25 parole chiave latine ritenute emblematiche della cultura occidentale. Egli declinò l’invito, perché ciò che sta alla base di una cultura non sta necessariamente alla base di un’altra. È un campo in cui i significati non sono trasferibili. «Le operazioni di traduzione sono più delicate dei trapianti cardiaci» ebbe a dire in quella occasione.
Ora qui, non si tratta di «tradurre», ma di «leggere» dei fatti e onestà e correttezza vogliono che si faccia opera di contestualizzazione, «sitz in leben», appunto.
Proviamo allora a porre questa scelta del governo Prodi a favore dell’installazione di una nuova base americana presso l’aeroporto Dal Molin di Vicenza.
In sintesi, rileviamo che:
1. il Pentagono, unilateralmente e senza consultare gli «alleati», ha deciso di rischierare dalla Germania in Italia la sua brigata aerotrasportata;
2. la scelta americana è parte integrante del programma di Bush e della sua politica guerrafondaia che pretende di combattere il terrorismo con la guerra e di imporsi come unico gendarme mondiale, accantonando anche e depotenziando perfino la stessa Onu;
3. l’impegno con Bush è una eredità che ci viene dalla servile politica estera del precedente governo; una politica che in Europa non ha trovato nessun seguito, oltre l’infelice eccezione anglo-italiana.
Questo, in breve, il panorama circostanziato e a breve raggio.
E se proviamo ad allargare, come di dovere, l’orizzonte all’economia e alle politiche che caratterizzano il mondo nella sua attuale distretta?
Notiamo, allora, che la politica è stata asservita all’economia e che questa, a sua volta, trova la sua floridità nell’industria militare. Così l’Impero e la Guerra sono diventati fratelli siamesi, le banche sono i migliori azionisti delle lobby militari e l’euro-
dollaro e le armi sodomizzano sotto lo stesso tetto.
In questo contesto sia la querelle di Vicenza, come quella di Cameri, ma anche la questione dell’Afghanistan sono tutti tasselli che concorrono a rinforzare la morsa micidiale degli osceni connubi di cui sopra. Da lamentare, in aggravio al bilancio negativo delle ultime scelte governative, lo scandalo di una finanziaria che, dopo aver tagliato fondi su scuola, sanità e servizi, in nome del rigore e dell’austerità, per la guerra riserva privilegi ed extra: nella sola Tabella di bilancio della difesa il precedente importo totale di 17,782 miliardi di euro è stato portato a 18,134 miliardi, con un incremento di 352 milioni.
Si pone, allora, bruciante, la domanda su che cosa vada lavorando una politica di pace che invece di scalfire, almeno in parte, questi abbracci mortiferi li consolida e li perpetua.
Bisogna purtroppo lamentare che, nonostante affermazioni in contrario, la «politica» considera le obiezioni all’attuale deriva militarista come variabili irrilevanti, sterili trastulli di chi si attarda a parlare di «valori».
Si deve ancora lamentare, con Danilo Zolo, docente di filosofia del diritto internazionale all’Università di Firenze, che  «le ragioni morali hanno scarsissimo rilievo nei rapporti inteazionali. Oggi prevalgono i rapporti di forza. Il sangue di innocenti è un banale “effetto collaterale”. Il diritto internazionale, di fatto, è una razionalizzazione ex post della volontà delle grandi potenze. E se il diritto è scarsamente efficace, l’etica è addirittura incommensurabile con gli obiettivi politici, economici e militari che legittimano anche agli occhi delle maggioranze democratiche dei paesi occidentali l’uso dei mezzi di distruzione di massa. La logica delle grandi potenze non ha nulla a che fare con i “valori” cui pure si fa retorico riferimento: è una logica spietata i cui emblemi sono i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono Guan-tanamo e Abu Ghraib o, su altro versante, è l’11 settembre 2001» e, aggiungiamo noi, Sigonella, Vicenza, Cameri e, ancora, la finanziaria.

Aldo Antonelli

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Il primato della forza sulla ragione non deve uccidere la voglia e il dovere di sognare.

Sono due i nodi «bellici» dell’attuale realtà italiana: l’allargamento della base militare Usa in località Dal Molin a Vicenza e l’accordo per l’acquisto di nuovi aerei da combattimento denominati F35 con la prospettiva di un loro assemblaggio finale presso l’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara.
Il tema è uno di quelli spinosi e sui quali bisogna procedere con molta attenzione.
La Commissione diocesana Giustizia e Pace di Novara, da tempo allertata su questo tema, ha cercato di farsi interprete e di dare risonanza al magistero della chiesa su un tema così importante, ripercorrendo passo dopo passo gli interventi più incisivi e qualificanti elaborati a partire dal Concilio Vaticano II ad oggi sulla corsa agli armamenti. Ed è proprio ripercorrendo questi testi che si resta allibiti di fronte alla protervia della lobby delle armi. Quando la chiesa ricorda che ogni volta che capitali astronomici vengono destinati alla fabbricazione di strumenti di morte, sottraendo così ingenti risorse che potrebbero essere destinate allo sviluppo dei popoli e alla risoluzione di emergenze drammatiche (Aids, malattie, fame), gli si risponde obiettando che un polo tecnologico così d’avanguardia sarebbe una promozione non solo per tutta la realtà novarese ma addirittura per l’intero Piemonte, notoriamente in una fase di crisi per ciò che riguarda i posti di lavoro.
Ci sono molti modi da cui partire per affrontare un tema così spinoso come quello degli F35, noi preferiamo farlo stando dalla parte dei più poveri a cui non vorremo mai dire: «resta con la tua fame, le tue malattie, le tue emergenze, perché le risorse che potrei destinare a te e ai tuoi bambini, le utilizzeremo per costruire armi sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate che magari terremo in magazzino ma che ci aiuteranno a sentirci più sicuri di fronte alle paure che attanagliano i nostri stomaci». La scelta di stare accanto ai poveri ci sembra più aderente ai criteri evangelici che non a quelli dettati dalla «real politique».

La corsa agli armamenti è sempre stata una iattura per i popoli della terra ed in particolare per i paesi del cosiddetto Terzo Mondo: essa disperde enormi risorse che potrebbero essere destinate a risolvere i principali problemi dei paesi poveri.  È urgente più che mai passare da una strategia di guerra ad una strategia di pace. La corsa agli armamenti in quanto contraria all’uomo è contraria a Dio. Da un punto di vista pastorale bisogna lavorare e impegnarsi per bandire questa corsa folle per due ragioni principali:
1) non c’è nessuna proporzione tra i danni causati e i valori che si vorrebbero salvaguardare;
2) armarsi per difendersi, quando le armi di difesa hanno un potenziale distruttivo enorme, come l’atomica, perde ogni sua ragione d’essere, giustificazione, e legittimità.
Potremmo aggiungere che l’accumulo spropositato di armi nelle mani di pochi paesi, potrebbe spingere questi ad una politica di ricatto verso altre nazioni, mettendo a rischio il già precario equilibrio dei diversi paesi della comunità internazionale.
In più la corsa agli armamenti costituisce una profonda ingiustizia perché afferma il primato della forza sulla ragione (questo è un leit-motiv  che accomuna tutti i pontefici del secolo scorso fino a Benedetto XVI, nei loro incessanti appelli per la pace).
La corsa agli armamenti è inoltre una vera pazzia perché spinge i rapporti umani individuali e quelli politici inteazionali a basarsi sulla paura dell’altro creando attraverso il controllo dei mass media, una specie di isterismo collettivo. La corsa agli armamenti diventa un mezzo per imporre alle nazioni più deboli la propria visione del mondo. Tutto questo non è accettabile dalla coscienza cristiana.
La pace non è solo superamento del criterio di non belligeranza, è la riacquisizione di valori spirituali e ideali che promanano dal vangelo, come la difesa della vita, la valorizzazione della persona nella sua dignità e la costruzione di rapporti di giustizia tra individui e popoli. Se vogliamo che la pace non resti un sogno, dobbiamo avere il coraggio di sognare insieme.

Mario Bandera

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La guerra come sostegno di una pace che non c’è. Perché la pace ha bisogno di giustizia.

La logica del mondo è opposta alla logica cristiana evangelica:  l’una e l’altra sono incompatibili nel fine e nei mezzi. Il mondo del potere è finalizzato alla guerra come struttura di sostegno al dominio, il vangelo è finalizzato alla pace come struttura della coscienza individuale, fondamento della coscienza dei popoli. Il mondo vuole dominare, il vangelo esige di servire. Il mondo usa strumenti di distruzione anche quando potrebbe ricorrere a mezzi pacifici, il vangelo impone l’amore per i nemici come condizione essenziale della propria identità di figli di Dio. Il potere ha bisogno della guerra perché il suo obiettivo è l’annientamento dell’altro come ostacolo alla propria dittatura, la pace ha bisogno di giustizia perché il suo obiettivo è la convivenza. La guerra è serva del potere, il dialogo è trampolino per la pace. Due mondi e due strategie che non possono mai coincidere o soltanto venire a compromesso.

Opposti contraddittori. Bisogna scegliere: o Dio o mammona.  O il Dio dell’esodo o il vitello della schiavitù. O la pace o la guerra. Lev Nikolaevic Tolstoj  ci avverte che non è più tempo di «Guerra e pace» nel senso ineluttabile del destino, ma è tempo della responsabilità personale, sorgente del diritto pubblico e del destino dell’umanità.  Non c’è una via di mezzo. Non licet! Si deve scegliere. Il mondo guerrafondaio ha fatto proprio l’aforisma romano «se vuoi la pace prepara la guerra», sostenendo così il principio della moralità della guerra come sostegno della pace o per lo meno come deterrente dello stato di pace. Questa pseudo e lugubre filosofia è servita e serve a giustificare la guerra dovunque e comunque perché la pace deve essere difesa dappertutto e sempre e quindi necessita di armi che diventano così il fondamento primario dell’economia senza distinzioni di tempi e di qualità. L’aberrazione raggiunge livelli parossistici quando un’azione di guerra preventiva, un intervento armato o una spedizione di militari in assetto di guerra vengono spudoratamente definiti «azioni umanitarie». Le centinaia di migliaia di morti innocenti in Iraq o i torturati di Abu Graib e di Guantanamo avrebbero fatto a meno di questi aiuti umanitari che li hanno seppelliti sotto le bombe e al di fuori di ogni garanzia civile di diritto come prescrivono le convenzioni inteazionali.

Conseguenze logiche. Come cristiani siamo incastrati: o Dio c’è o Dio non c’è. Se Dio c’è, le conseguenze logiche sono inevitabili come lo sono quelle nell’ipotesi che Dio non ci sia. È finito il tempo e l’aberrazione del «giusto mezzo» che è la logica che tutto giustifica e nulla risolve come spesso hanno motivato la loro politica i partiti cosiddetti ispirati al cristianesimo. Non esistono né possono esistere partiti cristiani o cattolici come non può esistere un governo cattolico o cristiano, aspirazione truce di chi vorrebbe imporre la religiosità con la forza della spada o con l’obbligatorietà di leggi civili. La parola di Cristo è drastica e tagliente: non potete servire due padroni. L’uno (il mondo) si serve, l’altro (Dio) si cerca. I cattolici che sono nelle istituzioni elettive, i giovani che si arruolano volontari nell’esercito, uomini e donne che hanno ricevuto il battesimo nel Nome di Gesù Cristo crocifisso e risorto, non possono accettare qualsiasi compromesso con il militarismo comunque si camuffi e si manifesti. Nessun giovane oggi è obbligato a fare il militare in un esercito dove conta non più la difesa del proprio popolo, ma il grado di scientificità per ammazzare sempre meglio. Un giovane che sceglie di fare il militare si mette contro la logica del vangelo e si pone in una condizione di forte rischio per la sua sopravvivenza sia fisica che spirituale. Nessun credente può vestire una divisa militare che resta incompatibile con la veste bianca del battesimo. Anche dove il servizio militare fosse obbligatorio, il credente è obbligato a diventare obiettore di quella coscienza che è creata ad «immagine e somiglianza» di Dio. Il vangelo non è un codice di galateo o un manuale di realismo. Il vangelo è semplicemente la prospettiva del Regno di Dio che esige la non-violenza come pratica quotidiana di vita e di relazione:  a chi ti percuote sulla guancia destra porgi anche la sinistra; a chi ti chiede il mantello, offri anche la tunica. Una via di mezzo non esiste né può esistere.

Democrazia a sovranità limitata. I cosiddetti cattolici impegnati in politica a qualunque mangiatornia appartengano, sono indissolubilmente fedeli agli Usa. Divorziano cattolicamente dalle mogli, ma restano indissolubilmente fedeli nei secoli al matrimonio con gli Stati Uniti o meglio con il governo degli Usa che garantisce loro una masochistica sottomissione. Una parte di essi parla di pace, fa genuflessioni doppie davanti al papa, si appella ai «valori», ma sceglie sempre la guerra a favore della guerra. Berlusconi, drogato di americanismo e condizionato dal suo bisogno di essere fotografato accanto al texano Bush, ha dato carta bianca ai servizi segreti Usa e alle basi militari in Italia che come Paese cessa di essere una nazione autonoma e sovrana e diventa un pied-à-terre del governo degli Stati Uniti, come ha dimostrato il caso di Abù Omar. Non è da meno il governo Prodi, condizionato dal suo complesso di inferiorità (dimostrare di non essere anti-americano) che ha concesso il raddoppio della militarizzazione di Vicenza sulla testa e sulla vita degli abitanti, coprendosi con la foglia di fico della delibera comunale, relegando così la politica estera agli umori di un consiglio comunale di periferia. La smentita è venuta il 1o febbraio 2007 dal senato della Repubblica che ha votato un ordine del giorno dell’opposizione giustificato dal sen.  Renato Schifani, capo dei senatori proprietà di Berlusconi, con queste parole: «La scelta di ampliare la base è di rango politico ed è coerente con la politica estera del governo, in continuità con quella del governo precedente». L’Italia cagnolino di compagnia del governo statunitense e democrazia a tempo e limitata.
La voglia di guerra e il dovere della disobbedienza. Nel mondo cresce una voglia di armi e di guerra, una voglia così efferata e impudente che passa sopra i diritti naturali delle popolazioni chiamate a pagae il prezzo salato in termini di salute, di ambiente e di dignità. La concessione agli Stati Uniti del raddoppio della base militare già esistente a Vicenza è solo un sintomo tragico di una situazione senza ritorno.
Come se non bastasse a Cameri in provincia di Novara c’è il progetto di assemblaggio di caccia bombardieri da guerra aerea, trasportatori di bombe e/o testate nucleari. In 15 anni l’Italia dovrebbe acquistae 131 al costo previsto di 150 milioni l’uno (ma altri parlano di 200 milioni). Facciamo allora un po’ di conti: 8 F-35 all’anno costerebbero al nostro paese  1.200 milioni di euro, cioè circa il 4 % della finanziaria 2007. «Se non li faremo a Cameri, tante famiglie di lavoratori resteranno senza stipendio», è stato detto. Ma con tutti quei soldi (pubblici) quanti posti di lavoro «virtuosi» si potrebbero creare? Un fiume di denaro pubblico buttato nelle spese militari, mentre nel mondo la povertà avanza inesorabilmente e in Italia circa 3 milioni di famiglie non arrivano alla fine del mese.
A Vicenza e a Cameri bisognava dire un doppio «no», pretendendo una ridiscussione generale della politica estera e coinvolgendo l’intera Europa in una ricerca che analizzasse i fallimenti degli Stati Uniti, impedendo che continuassero a fare strage di democrazia e di integrità territoriale di paesi sovrani e liberi. Avremmo voluto assistere ad un governo compatto e univoco, mentre ancora una volta assistiamo allo scempio di una  non-maggioranza che sta dilapidando il patrimonio che le italiane e gli italiani gli hanno conferito sull’orlo del precipizio istituzionale berlusconiano.

Nemmeno un temperino. L’Italia terra strategica nel cuore del Mediterraneo per essere porta  tra Occidente e  Oriente, partecipa e condivide la politica suicida della rincorsa agli armamenti, diventando complice e causa di ingiustizie che si perpetrano in quel mondo che dice di volere aiutare con progetti di pace. I progetti di pace escludono le armi, anche il temperino degli scout perché la pace, ove fosse necessario, come è necessario, si arma dello scudo della non-violenza che consiste nel principio aureo: quando la violenza è inevitabile, è meglio subirla che darla. Nessuna deroga può esserci al principio evangelico: «Chi di spada ferisce di spada perisce». Il frutto maturo della nostra «civiltà» consiste nel fatto che oggi in ogni guerra in atto la percentuale dei militari morti è pari al 5% mentre i civili muoiono nella misura del 95%. I militari si divertono, gli innocenti muoiono. In caso di guerra nucleare, gli unici a salvarsi sarebbero i militari rinchiusi in qualche sommergibile. L’umanità corre a ritmo serrato verso la militarizzazione senza aggettivi perché oggi i governi sono condizionati da una politica militarista che determina l’economia, le alleanze e le scelte sociali.
Militarismo in clergyman.  Da questa prospettiva evangelica le cappellanie e gli ordinariati militari sono un controsenso evangelico e il segno grave di un’alleanza tra due poteri che si autoreferenziano e si alimentano reciprocamente. In nome del realismo. Il segno di questa aberrazione sono i vescovi e i preti militari che diventano parte integrante dell’esercito con titoli, stellette e relativo stipendio fornito dal ministero della difesa. Ministri dell’altare embedded  in tuta mimetica a servizio di una struttura di peccato perché strutturalmente finalizzata all’uccisione e alla morte. Nei primi tre secoli i militari non potevano accedere al sacerdozio come i figli dei macellai perché gli uni e gli altri erano familiari al sangue. Dopo ogni guerra i preti che vi hanno preso parte ricevono la dispensa nell’eventualità che avessero compiuto atti contrari allo status sacerdotale che propriamente non si addice al servizio militare (Codice Diritto Canonico 289 §1). In ogni guerra i cappellani delle diverse religioni pregano Dio perché protegga i propri soldati e ciò è una bestemmia perché esige da Dio un comportamento contraddittorio visto che in guerra qualcuno deve pur morire. Chi deve scegliere Dio? Con quale metodo? La guerra degli uomini diventa guerra tra gli «dèi» e ci riporta indietro all’Olimpo, quando le divinità parteggiavano per l’uno o per l’altro esercito. Oggi la presenza di preti e frati e vescovi inquadrati militarmente è una delle concause che giustificano e alimentano le guerre di religione e il dissesto etico delle nostre generazioni. Se anche la chiesa con proprio personale è dentro al processo militarista finalizzato alla guerra e alla violenza degli stati e dei loro eserciti, è impossibile annunciare il vangelo delle Beatitudini o del Magnificat o del Servo di Yhwh o pensare che il mondo possa cambiare e lasciare che la pace da sola possa farcela: davanti agli occhi del mondo la stessa guerra è giustificata e legittimata.

Esportare idiozia. Gli Usa hanno ammesso ufficialmente che la guerra in Iraq (ma anche quella in Afghanistan) è stata un fallimento completo (non potendolo dire così, parlano di «errori»). Gli unici risultati di quelle scellerate guerre, volute da un incapace e scellerato capo di governo a cui si accodarono altri scellerati capi di governo, pigmei illiberali e schiavi di servilismo, sono stati la destabilizzazione delle zone di guerre e del mondo intero che oggi è più fragile e più esposto al terrorismo che quelle guerre alimentano e ingrassano. L’idiozia di esportare la democrazia in armi ha prodotto l’accorciamento della democrazia negli stessi paesi produttori di guerra.  Quando, come Missioni Consolata, dicemmo (confortati anche da un papa) che la guerra è una pazzia fatta da pazzi contro pazzi e che nulla avrebbe risolto, ma tutto avrebbe aggravato, fummo tacciati di antiamericanismo, di disfattismo, di antipatriottismo e finanche di connivenza con i terroristi islamici. Fummo solo prevedibili e noiosi profeti impotenti. In una società civile democratica,  di fronte a questo sfacelo, uomini insignificanti come Bush, Blair, Berlusconi, Aznar che hanno voluto le guerre per ideologia avrebbero dovuto non solo dimettersi da ogni carica istituzionale, ma anche scomparire dalla scena politica perché hanno ingannato i loro popoli, li hanno defraudati della dignità, li hanno mandati allo sbaraglio e li hanno uccisi con falsità. Licenziati per incapacità di governo o peggio ancora per incapacità di valutazione previsionale. Un capo di stato che non sa prevedere le conseguenze delle proprie scelte è una iattura per il suo popolo.

Scenari mondiali: che succederà ora in Iran, Siria e Palestina?  Tony Blair ha di fatto affossato la (meritoria) proposta italiana all’Onu di moratoria sulla pena di morte. L’Europa, infatti, non parlerà una sola lingua perché Blair in Europa fa gli interessi degli Usa da cui non si discosta più di una museruola da cane. Una grande occasione perduta politicamente e moralmente. Il suo degno compare di guerre Bush, persa la guerra in Iraq, cerca di imbastie un’altra contro l’Iran con l’intento di scatenare una deflagrazione nel Medio Oriente e forse permettere ad Israele di usare armi atomiche per la soluzione finale di Iran, Siria e Palestina. Si è capovolto l’aforisma latino che diventa: parla di pace, ma prepara la guerra. Questa escalation verso la guerra sistematica cammina di pari passo con il degrado ambientale, la desertificazione del sud e dell’Africa  e la prospettiva della distruzione del pianeta per implosione della stupidità dei governi cosiddetti democratici. Per essere una civiltà occidentale ce n’è di che vergognarsi. In tutto questo frangente, siamo in attesa di sentire la voce della gerarchia ecclesiastica che in nome del vangelo e dell’etica che sgorga dalla sua dottrina sociale, sicuramente avrà una parola illuminante. Una parola di salvezza per i loro popoli e il loro ambiente geografico e sociale.

«Alienum a ratione». Semplicemente folle. «Quelli che vuol perdere, Dio rende pazzi», dice un proverbio latino  attualissimo oggi: la maggior parte dei governi sono in mano a uomini folli: il mondo è già collocato sulla bocca di un vulcano in eruzione perché con le riserve atomiche la terra può essere distrutta sette volte ed essi continuano ad armarsi sempre più modeamente, occupando sempre più territori, popoli e persone e perseguendo la sola logica che il demone della guerra concepisce e partorisce: la distruzione degli innocenti, la strage dei civili, la miseria e la povertà strutturale di due terzi dell’umanità. Con un cambio di strategia: nei prossimi mesi e anni sentiremo parlare di necessità di armarsi per la salvaguardia della stabilità ambientale. Il prologo è cantato dagli industriali che hanno fomentato abbondantemente il dissesto ambientale ad ogni livello (è drammatico il rapporto su clima e ambiente redatto dai maggiori esperti mondiali e reso pubblico lo scorso 2 febbraio), ma sono pronti a convertirsi all’ecologismo e all’economia ambientale perché vi hanno intravisto un modo «altro» per fare soldi e sottomettere sempre più popoli e territori ai loro guadagni. Non è lontano il tempo in cui vedremo i militari e gli eserciti convertiti alla difesa dell’ambiente per poterlo distruggere meglio, guadagnandoci anche il prezzo e sopraprezzo, mentre i loro popoli muoiono di fame o si avviano inesorabilmente verso la catastrofe ambientale annunciata. Pazzo o folle vuol dire senza ragione/illogico ed è così che Giovanni XXIII definisce la guerra nella enciclica Pacem in terris:  «alienum a ratione», semplicemente «folle».

La voglia di guerra è la soluzione finale dell’istinto di aggressività che regge la morale di questa nostra epoca: molti soldati, pur volontari, non vanno in guerra solo per guadagnare qualche centesimo in più, molti vanno perché spinti dall’odore del sangue a cui si sono allenati per anni senza mai avere la possibilità o di menare le mani o di mettere a frutto tutta la violenza che hanno incamerato nel tempo della preparazione professionale. I politici si divertono a garantire che i «nostri» soldati sono professionalmente preparati. Traduzione: i nostri soldati sono preparati ad uccidere professionalmente, cioè  a colpire per primi, cioè ancora ad agire «preventivamente» se vogliono salvarsi la pelle. I torturatori di Abu Graib torturavano «per diversivo o per noia». Allo stesso modo nelle strade delle nostre città persone fragili, ma che hanno sete di guerra senza poterla realizzare mettono in atto l’unica guerra possibile per bulli annoiati: aggredire persone ancora più deboli e fare ecatombe di stupri, di sesso, di violenza gratuita. Il futuro è già cominciato: la voglia militarista ha già intaccato il nostro vivere civile; la mentalità guerrafondaia dilaga e domina le nostre città e le nostre relazioni. Dio ci salvi da questo buco nero senza ritorno, se ancora è in grado di farlo. A noi cittadini inermi e credenti nel Dio di Pace, il dovere di resistere senza ambiguità.

Paolo Farinella

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Le armi non si devono nè vendere né costruire: «in piedi, costruttori di pace!»

«In piedi, allora, costruttori di pace. Anzi, come dicono i francesi, en marche!». Queste parole di don Tonino Bello (Arena di Verona, 1989) ci devono scuotere ancora oggi. Se ci guardiamo intorno e vediamo il crescere di una cultura militare e di guerra. Se apriamo gli occhi per vedere cosa davvero succede dietro alle scelte di ampliamento della base Usa a Vicenza, dietro alla notizia che il quotidiano Libero (non certo antiamericano…) riportava a fine gennaio 2007, in merito alla conferma della presenza nella base di Aviano di testate nucleari, dietro al folle progetto di assemblaggio a Cameri (Novara) degli aerei da guerra F35, i cui costi sono astronomici, davvero urge far risuonare le parole profetiche di don Tonino: «In piedi, costruttori di pace». Guai a chi mette velocemente nel cassetto le proprie motivazioni, magari anche cristiane, per buttarsi negli affari, nei vantaggi di un’economia armata, che pare essere davvero il motore di tutta l’economia e la finanza. Le armi sono un businnes pazzesco! Proprio pazzesco, sì! Perché la guerra, come dice la Pacem in terris di Giovanni XXIII, è «roba da matti» (alienum est a ratione).
Un segno profetico di fronte a questi progetti di morte ci viene dal documento, firmato da mons. Ferdinando Charrier, vescovo di Alessandria e presidente della Commissione Problemi sociali, Giustizia e Pace del Piemonte insieme a mons. Tommaso Valentinetti, vescovo di Pescara-Penne e presidente di Pax Christi Italia, del 25 gennaio scorso.
Scrivono i due monsignori: «Sulla scia dei pronunciamenti del magistero della chiesa desideriamo riaffermare, come comunità cristiana, la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione di strumenti concepiti per la guerra. Ci riferiamo, in particolare, alla problematica sorta recentemente sul nostro territorio piemontese relativa all’avvio dell’assemblaggio finale di velivoli da combattimento da effettuarsi nel sito aeronautico di Cameri (Novara). Riteniamo – continua il testo – che la produzione di armamenti non sia da considerare alla stregua di quella di beni economici qualsiasi».

Contro questa posizione si sono subito levate voci autorevoli, anche cattoliche (ahimè!), con questi toni  «pur dichiarandomi, in termini ideali, vicino ai vescovi, ritengo che non si possa prescindere, in una fase delicata per la nostra economia, da una valutazione pragmatica…  Dobbiamo fare tutto il possibile per far sviluppare il nostro territorio e non possiamo permetterci di perdere nessuna opportunità che vada in queste direzioni».
Come a dire: il vangelo va bene, ma a livello intimistico o per le suore di clausura. Nella vita poi bisogna essere realistici, e al vangelo subentrano altri criteri! Su alcuni valori non si transige (Pacs, aborto, famiglia, fecondazione artificiale…), su altri come l’economia, i soldi, la guerra… bisogna vedere, valutare…! 
Un altro messaggio profetico arriva dalla insanguinata terra dell’Iraq, dove ho molti amici. Ci sono stato più volte, anche nello scorso mese di dicembre. Avendo parlato del progetto degli aerei F35  al vescovo di Kirkuk, mons. Luis Sako, ecco cosa mi ha risposto:
«Che vergogna! Se un  beduino nel deserto si fabbrica  una spada per proteggersi,  si può capire. Ma gente del Primo Mondo, gente istruita e saggia, gente nobile che costruisce armi, aerei e altri strumenti di morte: questa è una cosa  vergognosa! Una cosa inammissibile. Basta armi! Basta distruzioni e gente che muore ogni giorno!  La vita è bella.  A causa delle armi fabbricate da voi e con i vostri soldi, in Iraq ogni giorno ci sono circa 100 morti, molti feriti e profughi. Lo stesso accade adesso in Somalia, Palestina, Libano e in  altri  paesi.  Il nostro paese è diviso e la popolazione che è rimasta vive nella paura».
«Queste armi sono solo fuoco e sono brutte come i loro fabbricatori. Con questi soldi potete costruire terre nuove  e formare gente nuova e aiutare positivamente alla crescita della vita!. Così sarete beati costruttori della pace e di una società migliore, invece di fare con queste armi una offesa a Dio e all’umanità intera. Questa è una colpa capitale», conclude Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, Iraq (31 gennaio 2007).

Brutti segnali di guerra e profetici richiami alla pace. Siamo in Quaresima, tempo di conversione. Ci aiutano ancora le parole di don Tonino all’Arena di Verona:  «Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire… che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena…  se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali».

Renato Sacco

Antonelli, Bandera, Farinella, Sacco




La missione nello spirito di Cristo

16 febbraio: festa del beato Allamano, fondatore dei missionri e missionarie della Consolata

Una lettura del pensiero spirituale del fondatore dei
missionari e delle missionarie della Consolata alla luce della teologia
di San Paolo. Anche oggi l’inviato alla missione è colui capace di
lasciarsi «rivestire» da Cristo e orientare le proprie scelte
di vita apostolica sull’esempio del Maestro.

Chi gode di una certa familiarità con l’insegnamento spirituale di
Giuseppe Allamano sa quanto questi insista sull’importanza della
santità nella vita missionaria. Non tutti, però, si rendono conto di
quanta importanza egli attribuisca alla centralità della persona di
Cristo in questo cammino di santità.
Un altro fattore che balza agli occhi quando ci si avvicina allo studio
della spiritualità che l’Allamano desidera comunicare ai suoi
missionari e missionarie è il fatto che egli non trasmette altra cosa
se non quanto lo spirito ha concesso a lui stesso di sperimentare; in
altre parole, l’insegnamento che l’Allamano offre nasce dalla propria
esperienza spirituale.
Come Gottardo Pasqualetti ebbe modo di rilevare nel breve studio
dedicato alla persona di Gesù Cristo nella vita dell’Allamano, uno
degli elementi fondamentali nel cammino spirituale del fondatore fu,
fin dalla sua gioventù, il costante sforzo di «rivestirsi» di Cristo.
Nella teologia paolina il «rivestirsi» di Cristo si presenta in una
duplice prospettiva. Da un lato, nel battesimo noi siamo rivestiti di
Cristo, cioè, siamo uniti in tal modo alla persona di Cristo che,
usando un linguaggio figurato, potremmo dire che la sua vita invade
tutto il nostro essere: questo lo riceviamo come dono gratuito di Dio.
D’altro lato, chi fu rivestito di Cristo nel battesimo è chiamato
costantemente a rinnovare continuamente questa «vestizione» nella sua
vita, realizzando ciò che per grazia ricevette nel battesimo. Il dono
si fa pertanto impegno esistenziale; l’azione di Dio esige la
cooperazione dell’uomo. Esiste, pertanto, qualcosa che è dato, nel
senso che è già una realtà presente, realtà che però, nello stesso
tempo, è anche aperta al suo divenire.
Davanti alla nuova realtà ontologica, data dalla nuova unione con Dio
in Cristo, diventa quindi pressante l’invito che Paolo fa a
«rivestitirsi» del Signore Gesù. È un caldo invito a impegnarsi
costantemente a imparare da Cristo, ad assimilare il suo modo di
essere, di pensare e di fare, perché ciò che il battesimo realizzò
nella nostra vita possa trasformarsi in una scelta esistenziale. Questa
coscienza appare nitidamente negli insegnamenti dell’Allamano: essere
cristiano significa soprattutto rivestirsi di Cristo. Ogni cristiano
vive una chiamata alla santità, che consiste essenzialmente nel farsi
simile a Lui.
Il 6 di gennaio del 1917, festa dell’Epifania, l’Allamano commenta ai
suoi missionari l’omelia del cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino,
tenuta per l’occasione in cattedrale. Le parole del cardinale lasciano
trasparire preoccupazione di fronte all’indifferenza religiosa la quale
fa sì che molti cristiani vivano la loro fede al minimo, senza
dimostrare entusiasmo e convinzione. L’Allamano completa la riflessione
dell’arcivescovo sostenendo che non basta essere battezzati e
frequentare le celebrazioni domenicali per essere realmente cristiani.
La vita di fede è un’altra cosa. Per potersi dire cristiano è
necessario che l’«uomo intero» sia trasformato a immagine di Cristo.

Questo aspetto della vita di fede, comune a tutti i cristiani, egli lo
applica, con alcune sfumature particolari ai suoi missionari. Il 28
settembre 1920, nella riflessione fatta in occasione della vestizione
clericale di un gruppo dei suoi seminaristi, prende come punto di
partenza un elemento concreto della vita dei missionari della
Consolata. L’istituto da lui fondato ha ormai quasi 20 anni di
esistenza e conosce già una certa espansione: oltre alle missioni del
Kenya, la congregazione di Propaganda Fide ha conferito anche la
missione del Kaffa (in Etiopia) e di Iringa (in Tanzania). I missionari
devono ora confrontarsi con un immenso campo di lavoro e, mossi da zelo
apostolico, sentono la necessità di aumentare significativamente il
personale per rispondere alle rinnovate esigenze della missione. Nello
stesso tempo, le urgenze della missione non devono far rinunziare ad
uno dei principi fondamentali del fondatore: quello della qualità. Non
è tanto il numero che conta, ma l’essere santi, sacerdoti e missionari.

Prendendo come spunto il significato della vestizione clericale, spiega
come questa indichi una certa separazione dal mondo, ma, soprattutto,
l’esigenza di «rivestirsi» dello spirito di Cristo.
In altre occasioni, l’Allamano applica le stesse riflessioni alla vita
missionaria: «Non mi basta essere cristiano, ma missionario; e devo
avere questa intenzione, e non basta volerlo, ma devo avee lo spirito
– e aggiunge – se non abbiamo questo spirito di farci santi a questo
modo, hic non est eius. Saremo ombre, ma non veri missionari» (CS
II,16).
A varie riprese, l’Allamano riprende questa insistenza sopra
l’importanza di conformarsi a Cristo per essere missionario secondo il
modello che lui vuole per i suoi: «Così pure voi, non solo dovete avere
lo spirito di nostro Signore; ma dovete avere i pensieri, le parole, le
azioni di nostro Signore. Voi dovete essere missionari nella testa,
nella bocca e nel cuore». (CS III, 16). E ancora, motivando i giovani a
prepararsi bene per la vita sacerdotale e missionaria, dice: «È questo,
d’ora in poi, tutto il vostro dovere: rivestirsi del Signore Gesù
Cristo» (CS I, 443).
Certamente, l’Allamano vede in Paolo quello che gli piacerebbe vedere
in ciascuno dei suoi missionari. Perciò ricorda loro una frase
dell’apostolo particolarmente significativa in questo contesto: «Siate
miei imitatori, come io stesso lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1 in CS
III, 31).

Negli insegnamenti dei maestri di spiritualità di tutti i tempi
incontriamo un uso abbondante del linguaggio simbolico o allegorico. Lo
stesso succede con l’Allamano. Nella conferenza tenuta alle missionarie
il 21 febbraio 1920, traccia una bozza del suo cammino formativo.
L’ideale che propone è la santità, attraverso l’assimilazione dello
spirito di Cristo; che questo spirito: «Subito s’impossessi di tutta
l’anima nostra. Pervada: vuol dire che entri nelle nostre vene; faccia
come il pane, che si mangia, si digerisce, poi passa nel sangue e
questo va nelle vene (…). In modo che siamo noi, ma non siamo più noi,
come disse S. Paolo: “Vivo io, non più io, vive in me Gesù Cristo”»
(CSS III, 39). L’Allamano legge questa frase di S. Paolo ai Galati (Gl
2, 20) come espressione di un’unione esistenziale con Cristo tale che
l’apostolo sente la sua vita permeata dal Signore. Grazie alla sua
presenza nella vita di Paolo, Cristo è per l’apostolo un nuovo
principio di azione, parte intrinseca della sua identità e parte
costitutiva del dinamismo della sua personalità. Realtà, questa, che
l’Allamano esprime con la frase: «Farsi una sola cosa – con Cristo»
(CSS II, 304).

Altra frase di particolare interesse fu pronunciata dall’Allamano nella
conferenza alle suore del 1 dicembre 1918: «Affetti. È lì il punto…
Il nostro cuore se vive di fede fa le cose diversamente. S. Paolo era
tutto di Gesù, viveva di Gesù… Vivo, ma non sono io che vivo, è
Cristo che vive in me… Io vivo solamente nel Signore» (CSS II, 432).
In primo luogo, la frase ci mostra che per il fondatore gli affetti
hanno una dimensione particolarmente importante nella vita spirituale.
L’espressione: «Ecco il punto» richiama l’attenzione su un elemento
centrale, di particolare importanza. In secondo luogo, ed è quello che
più ci interessa, con questa frase l’Allamano continua a spiegare la
relazione di Paolo con Cristo. Dato che l’apostolo è visto per Allamano
come un modello speciale che egli invita i suoi discepoli a imitare,
possiamo dire che, in verità, egli si serva di Paolo per parlare della
relazione di ogni cristiano con il Signore. A livello di contenuto, la
frase fa riferimento a una relazione molto intima al punto da poter far
dire a Paolo: «Il Signore vive in me». Così come il cristiano partecipa
di tal forma della vita di Cristo, al punto da poter dire: «Io vivo nel
Signore».

Considerando entrambi questi elementi, così come li cogliamo nei testi
dell’Allamano, potremmo dire che l’esperienza di fede coinvolge la
persona nella sua totalità.  «La nostra fede se non si dimostra
nelle opere è fede morta (…) La fede dev’essere il principio e la
regola dei nostri sentimenti, delle azioni e di tutta la nostra vita»
(CS III, 264). Il che consiste, in primo luogo, in una esperienza di
amore alla persona di Cristo e nell’unione esistenziale con lui; questo
è l’elemento fondamentale dal quale nascono gli altri. Tale elemento
appare di forma particolarmente chiara nella sua conferenza alle suore
del 29 giugno 1917. Punto di riferimento è nuovamente Paolo, l’apostolo
delle nazioni, nel quale individua particolarmente accentuate due
virtù: «Insomma tutte le virtù le aveva, ma le due principali furono:
l’amore verso Gesù Cristo e le anime. Tutti i momenti nelle epistole
nomina Nostro Signore. Lo nominava con gusto, si vedeva che per lui era
tutto… Diceva: “Non sono mica io che vivo, io sono un fantasma, è
Gesù Cristo che vive in me”» (CSS II, 104).
L’Allamano, pertanto, riconosce in Paolo un cuore che vibra per il suo
Signore e questo amore costituisce un motivo fondamentale della sua
adesione a lui. Il suo è un amore totale e viscerale, per Cristo e per
l’umanità (CS III, 115). L’Allamano coglie la centralità di Cristo
nella vita di Paolo, il fondamento, a partire dal quale l’apostolo
organizza tutta la sua esistenza. Da questa relazione, come normale
conseguenza, nascono le opere. Quando Cristo vive in noi in forma
permanente, la sua presenza viene automaticamente resa esplicita dal
nostro agire (CSS II, 105). Ciò significa che, vivendo in noi, Cristo
agisce in noi e attraverso di noi (CSS I, 420).
Dentro questa prospettiva del «rivestirsi di Cristo», ci sono alcuni
elementi verso i quali Allamano orienta in modo particolare
l’attenzione dei suoi missionari.
Innanzitutto, nota come Cristo viveva in forma armoniosa un’intensa
attività apostolica e un’intensa intimità con il Padre, manifestata in
modo particolare nel silenzio e nella orazione (CSS I, 265).
In secondo luogo ricorda che lo stesso Gesù chiese di essere imitato
nell’umiltà e nella mansuetudine: «Imparate da me che sono mite e umile
di cuore». Sottolinea come  la mansuetudine abbia caratterizzato
costantemente tutto il ministero apostolico di Cristo e vuole che
diventi un’attitudine che marchi vita e attività dei suoi missionari:
sa, l’Allamano, che qualsiasi tipo di violenza costituisce un ostacolo
per l’evangelizzazione.
Terzo, il fondatore si associa alla meraviglia delle tante persone che
presenziando quanto Gesù realizzava nelle sue opere, pieni di
ammirazione esclamavano: «Ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37).
Nell’esegesi attuale si identifica questa frase dell’evangelista Marco
come un’allusione al libro della Genesi (Gen 1,31), attraverso la quale
l’autore vuole presentare l’opera di Gesù come una nuova creazione. Le
parole dell’Allamano non puntano verso questa interpretazione. Al
contrario, mettono in evidenza il fatto che, dall’incarnazione al
Calvario, Gesù vede tutta la sua vita in perfetta sintonia con la
volontà del Padre. Per questa ragione, il fondatore insiste che «non
basta fare il bene, ma farlo bene; cioè che ogni nostra cosa anche
buona sia fatta nel retto fine e con tutte le circostanze volute da
Dio» (CS II, 669).
Questa frase fa riferimento a due elementi fondamentali: la retta
intenzione e la sintonia con la volontà di Dio. Fare il bene ben fatto
implica un’attitudine spirituale eucaristica: tutte le nostre azioni se
vogliamo farle bene dobbiamo farle per lui, con lui e in lui (CSS II,
305).
«Far bene il bene» si riferisce anche alla dimensione materiale delle
opere. Un accumulo eccessivo di lavoro, per esempio, può impedire di
fare questo lavoro bene. A questo riguardo, l’Allamano si mostra
contrario ad assumere territori di missione sproporzionatamente estesi.
Vuole, invece, che i suoi si limitino a prendersi cura di territori a
cui possano poi offrire adeguata assistenza. Non gli importa che siano
fatte molte cose, ma che quello che si fa sia fatto bene.
Quando l’Allamano parla di «imitazione di Cristo», non intende una
copia materiale del suo comportamento o una mera ripetizione delle sue
azioni. Questa espressione indica, al contrario, un’intima
partecipazione del cristiano alla vita di Cristo e, nello stesso tempo,
di Cristo nella vita del cristiano.
Molte volte, suggerisce ai suoi che si chiedano: «Che cosa farebbe
Cristo se si trovasse al mio posto?». Questa domanda, nella sua estrema
semplicità, riconosce che la vita cristiana esige un costante
discernimento. Spinge a conoscere il cuore di Cristo, il suo modo di
sentire e di relazionarsi con la vita, con gli altri e con il Padre,
facendo proprie le sue attitudini fondamentali. Saranno poi esse a
determinare il nostro comportamento nel contesto in cui viviamo,
inevitabilmente diverso da quello in cui visse Gesù e, quindi,
bisognoso di un approccio differente.
In altre parole potremmo dire che vivere di forma adeguata
all’esperienza di rivestirsi di Cristo comporta, in primo luogo,
l’assumere pienamente la dimensione storica della propria esistenza.
Ciò vuol dire che il cristiano vive inserito nel suo tempo, nel suo
mondo ma, nello stesso tempo, in costante riferimento alla persona di
Gesù. Questo lo porta a vivere come lui, ma nel proprio contesto
socio-culturale e storico. Un continuo discernimento diventa, quindi,
condizione essenziale per la realizzazione di una vita cristiana.
Questa infatti, per potersi considerare tale, deve essere vissuta non
al margine, ma inserita nelle tensioni e difficoltà caratteristiche
della storia: «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo» (Mt
5,13).
Gesù, Dio e uomo, non rifiutò nulla di quello che è pienamente umano.
L’incarnazione mostra che non esiste opposizione fra il mondo di Dio e
il mondo degli uomini e qualsiasi tipo di dualismo che tenda ad opporsi
a queste due realtà non è autenticamente cristiano. Senza perdere di
vista che il tempo ancora deve raggiungere la sua pienezza e solo
allora la configurazione con Cristo risuscitato sarà pienamente
raggiunta. 

Luiz Balsan

Luiz Balsan è un missionario della Consolata brasiliano; dottore
in teologia, professore di spiritualità, attualmente è rettore del
seminario filosofico della Consolata di Curitiba. Collabora alla
rivista Missoes.

Abbreviazioni:
CS: Conferenze Spirituali
CSS: Conferenze Spirituali alle Suore

Luiz Balsan




Sfratto agli «spiriti»

Religione tradizionale africana e cristianesimo

Mons. Buti Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg,
esamina l’impatto del vangelo nella religione tradizionale nell’Africa
Australe. Egli spiega come la conversione al cristianesimo produce un
cambiamento di mentalità: Dio è la sorgente ultima della forza vitale e
non gli antenati. Ma stregoni e indovini hanno ancora un ruolo guida
nella società, per cui poco è cambiato nella vita quotidiana della
gente. La trasformazione portata dal cristianesimo non è ancora
completa e deve essere portata avanti nel rispetto della cultura della
popolazione.

Nel mondo il cristianesimo è proclamato da quasi 2 mila anni; ma in
Africa conta poco più di 150 anni. Benché l’incontro tra la popolazione
indigena e i missionari sia stato difficile, anche gli africani hanno
recepito il vangelo come messaggio destinato a «tutto il mondo e a ogni
creatura» (Mc 16,15);  hanno partecipato all’effusione dello
Spirito e sperimentato il fuoco della pentecoste. I loro cuori sono
stati infiammati dalla parola di Dio, inculcata loro «in tempo e fuori
tempo» (1 Tim 4,2); Gesù Cristo è stato proclamato «via, verità e
vita», la «vera luce che illumina ogni persona» (Gv 1,9), compreso il
popolo africano.

VERITÀ LIBERANTE

L’annuncio cristiano ha prodotto negli africani un impatto
«sovversivo»: ha sconvolto le nozioni tradizionali riguardanti
l’origine e il destino umano; soprattutto, ha inciso profondamente sul
ruolo che gli antenati esercitano nella vita della gente.
Il messaggio evangelico, infatti, risponde alle aspirazioni più
profonde del cuore umano, che coincidono con il progetto di Dio,
origine e meta finale degli esseri umani. «Conoscerai la verità e la
verità ti farà libero» dice il vangelo (Gv 8,32). Nella rivelazione
cristiana Dio è padre dei vivi e dei morti, per cui gli antenati e gli
esseri umani sono tutte sue creature. Di conseguenza Dio solo diventa
il definitivo punto di riferimento, lui solo deve essere l’oggetto di
fedeltà e adorazione, non più gli antenati.
Tale verità libera la mente superstiziosa dalle paure o dalle
suggestioni provocate dagli «spiriti vagabondi». Nel contesto della
fede cristiana, i vivi non aspirano più a essere puramente incorporati,
dopo la morte, nella comunità degli antenati, ma vivono fin d’ora nella
speranza di essere riuniti con Dio, dal quale hanno ricevuto lo spirito
di vita. Inoltre, nasce una nuova consapevolezza: cioè, che gli
antenati non sono imprigionati in un mondo vagamente definito degli
spiriti, ma che anche essi sono in attesa di essere definitivamente
redenti.
La verità su Dio ha la forza di rifondare le relazioni di potere tra i
viventi e gli antenati. Questi ultimi sono inevitabilmente declassati
dallo stato di «quasi idoli». Ai viventi viene offerta la libertà dei
figli di Dio: liberi dalla paura del mondo degli antenati e degli
spiriti maligni, che vagabondano per città e villaggi.
Tutte queste verità vengono accettate in teoria. La conversione a
Cristo produce un cambiamento di mentalità e di percezione della natura
degli antenati: la loro collocazione nell’ordine delle cose non può più
essere la stessa. Nella pratica, però, l’accettazione di tali verità
sembra aver scalfito superficialmente il ruolo, l’influenza e l’impatto
degli antenati nella vita della gente. Il cambiamento non è stato così
radicale come ci si sarebbe aspettato.
Nonostante la chiarezza del messaggio cristiano e l’impegno dei
missionari, gli «spiriti vagabondi» non sono stati «sfrattati» dal loro
piedistallo di «semi-dei» e continuano ad essere consultati, invocati,
temuti.

ANTENATI E IZANGOMA

Nella religione tradizionale africana, il ruolo degli antenati è legato
in generale all’esperienza umana del bene e del male, del benessere e
della disgrazia, della salute e della malattia, della vita e della
morte. In particolare, tale ruolo riguarda il destino dei membri di
ciascun gruppo clanico.
Gli spiriti ancestrali sono descritti come esseri generalmente ben
disposti verso i membri del proprio clan; al tempo stesso, però, sono
ritenuti capaci di infliggere sofferenze ai vivi: o per puro capriccio,
o per punire determinate colpe, o per vendicarsi di essere stati
dimenticati, essi mandano sui loro discendenti ogni specie di male.
Nella visione cosmica africana gli antenati sono la sorgente ultima
delle forze primordiali: un potere misterioso che dà la vita o la
possono distruggere. Per liberarsi da eventuali disgrazie e malattie è
necessario entrare in contatto con le forze primordiali che le
causano. 
Il contatto con gli spiriti ancestrali avviene attraverso il guaritore
o divinatore che nell’Africa australe si chiama isangoma (plurale
izangoma), funzione esercitata in maggioranza da donne, ma non di raro
anche da uomini.
Si dice che l’isangoma è chiamata dagli antenati del proprio gruppo
clanico e sperimenta tale vocazione attraverso la malattia, autentico
segno che essa è posseduta (thwasa) dallo spirito ancestrale e ne
diventa il ricettacolo.
Riconosciuta e accettata tale chiamata, l’isangoma deve sottoporsi a un
lungo tirocinio presso un’altra isangoma, per apprendere l’arte della
divinazione e della guarigione. Al tempo stesso, tale iniziazione
introduce la nuova isangoma a una conoscenza esoterica, ne fa una
persona separata e le conferisce uno stato di «sacralità» che incute
timore e rispetto.
In quanto unico interprete dei desideri degli antenati, l’isangoma ha
il potere di fare scaturire da essi la forza vitale che guarisce. Una
volta diagnosticata la causa della malattia (quasi sempre attribuita
allo scontento degli stessi spiriti ancestrali), procede alla
prescrizione o cura medica, anch’essa suggerita dagli antenati. Tali
cure includono offerte di sacrifici riparatori o propiziatori, rituali
di «fortificazione» contro stregonerie e sortilegi, riti di
purificazione (esposizione a fumi e vapori, bagni in acque lustrali,
assunzione di sostante che provocano vomito, incensature, lavaggi
intestinali…) e assunzione di medicine vere e proprie.

MALATTIA,  MEDICINA E GUARIGIONE

L’indovino è uno specialista nelle malattie africane (ukufa kwabantu),
che fanno parte della visione africana del mondo. La malattia è
percepita come uno spirito, che può essere incarnato in una sostanza
(come il sejeso/idliso, veleno africano) o rimanere nella forma di
spirito; può essere diretto contro altre persone.
Sono tanti i mezzi con cui può essere causata una malattia:
direttamente dagli spiriti, da fattucchieri (gettando il malocchio su
un oggetto della vittima), da stregoni mediante le medicine, da odio e
gelosia. In questo caso la persona gelosa può richiedere i servizi del
fattucchiere per causare un malanno.
La malattia quindi è nel cuore di un sistema di credenze che comprende
da una parte antenati, maghe e stregoni, e dall’altra sentimenti di
odio e gelosia, emanati dal cuore umano. La malattia si dipana nel
tessuto di relazioni frantumate tra gli stessi viventi o tra i vivi e
gli antenati. La malattia africana non è un avvenimento accidentale, ma
è sempre causata da agenti malvagi, da qualche persona, viva o morta.
In una società come quella africana, dove le relazioni umane sono
fortemente sentite e ricercate, quando capitano eventi sfortunati e
inesplicabili, fioriscono i sospetti. Tale percezione della malattia è
caratteristica e profondamente impressa nella psiche africana. Di
fronte alla malaria, per esempio, l’africano non si accontenta di
sapere che essa è causata dalla zanzara; egli si chiede: chi ha mandato
la zanzara per pungermi?
Anche la medicina, al pari della malattia, è intesa come un «potere
misterioso». Per questo sono offerti sacrifici per placare l’ira degli
spiriti ancestrali; si esorcizzano gli spiriti maligni picchiando le
loro vittime, oppure vengono scacciati dal corpo con il vomito, bevendo
acqua mescolata al sale o cenere; si inseriscono medicine sotto la
pelle (ukugcoba) per proteggere la vittima dal male; si indossano
amuleti protettivi per contrastare il potere degli spiriti maligni. La
medicina per rinvigorire la forza vitale è ricavata da parti del corpo
umano, peli di animali selvatici, pelle di serpenti.
 Anche se malattia e cura riguardano il corpo umano, esse
appartengono al regno spirituale. Corpo e spirito costituiscono una
sola realtà. Per questo le izangoma, non si limitano a individuare le
cause delle malattie e l’eventuale mandante, a prescrivere rimedi e
medicine, ma cercano di far  scaturire dagli antenati un
contro-potere che si oppone alle forze distruttive o previene quelle
dei demoni vagabondi che spargono malanni.
Scopo dell’isangoma è sempre quello di ristabilire pacifiche relazioni
tra gli esseri viventi, tra i vivi e il regno degli spiriti. Il
processo per tale pacificazione e i riti usati denotano in lei una
discreta esperienza psicologica e sociale. Essa conosce odi e amori
interpersonali, conflitti e alleanze tra i gruppi familiari. È stato
più volte provato che proprio l’attenzione e interesse dell’isangoma
verso i suoi pazienti, la sua capacità di dipanare la matassa delle
relazioni familiari e comunitarie sono alla base di certe sorprendenti
guarigioni.
Il coinvolgimento fisico e mentale del paziente e dei familiari è
un’altra chiave di volta della guarigione, in vista dello
ristabilimento della pace e dell’armonia che devono esistere nel
paziente stesso, tra individuo, gruppo, ambiente, mondo degli antenati
e degli spiriti.
I riti stessi hanno una forte componente di suggestione simbolica e
psicologica: l’isangoma danza e canta, fa danzare e cantare; va in
trance per entrare in comunione con gli spiriti; pazienti e familiari
vedono con i loro occhi la malattia che viene «vomitata» per la
somministrazione di emetici; fumigazioni e bagni nell’acqua lustrale li
proteggono dall’assalto delle forze ostili; il capro espiatorio, a cui
viene addossato il castigo per il male, li libera dalla paura.

DISAGIO DEI CRISTIANI

Il culto degli antenati è più di una semplice «ritualizzazione di pietà
filiale»; è la «via africana» di affrontare e vivere il mistero del
male e della sofferenza; il modo con cui gli africani celebrano e
comunicano con il mistero del sacro in cui sono immersi. Si tratta di
un rituale diretto a rivitalizzare le forze naturali e celebrare la
nuova vita o assorbire il dolore della dissoluzione della vita.
Inoltre, è il riconoscimento rituale dell’esistenza di una realtà
spirituale, una intensità di potere al di là della vita e delle cose
naturali.
I cristiani sudafricani non solo capiscono perfettamente questa visione
del mondo, ma la condividono: ne fanno parte. Essi appartengono a due
mondi, quello tradizionale e quello cristiano, che non si sono ancora
armonizzati.
E questo crea non poco disagio tra i cristiani: alcuni giungono perfino
a stigmatizzare il mondo tradizionale e i suoi metodi di guarigione, ma
poi sono felici di farvi ricorso, quando sperimentano disgrazie e
sofferenze. È ormai di dominio comune l’osservazione di G. C.
Oosthuizen, professore di Scienza delle religioni all’Università di
Durban: «Durante il giorno e nelle conversazioni molti fedeli delle
chiese storiche si dissociano dalle chiese indigene, ma sono presenti
nei raduni nottui di guarigione» (Oosthuizen 1992). E durante tali
riunioni non si fa altro di diverso da ciò che fanno le izangoma nelle
cerimonie di guarigione.
Tale disagio deriva dal fatto che i cristiani continuano a far parte
della visione cosmica africana e credono nella presenza degli spiriti
ancestrali, ma sono incerti su come conciliare la credenza nella
mediazione degli spiriti con il nuovo contesto cristiano. Tale
inquietudine è sentita soprattutto in molti cattolici, quando vedono
che alcune izangoma frequentano la chiesa e desiderano ricevere
l’eucaristia. «Possono le izangoma ricevere la comunione?» si
domandano, dal momento che esse pretendono di ricevere conoscenza
esoterica, chiaroveggenza e poteri di guarigione dagli antenati e non
da Gesù Cristo. Anzi, tale potere è percepito in opposizione o in
competizione con quello di Cristo. Cristo e gli antenati sono visti
come due autorità spirituali differenti. Per questo alcuni cattolici
sostengono che non si può essere fedeli a tutti e due.

CHIESE INDIPENDENTI

Se alla luce della fede cristiana gli antenati non hanno quel potere
straordinario accordato loro dalla tradizione africana, ne dovrebbe
derivare una riduzione radicale del loro ruolo tra gli esseri viventi.
Invece l’abbondante presenza di indovini e izangoma, quali interpreti e
mediatori degli spiriti ancestrali, dimostra che è ancora molto forte
la credenza nel potere sovrumano degli antenati e l’esistenza di demoni
e spiriti maligni in giro per il mondo.
Tale sistema di credenze tradizionali è stato adottato da varie chiese
indipendenti africane, nelle quali vengono miscelate le credenze
tradizionali africane e alcuni elementi provenienti dal cristianesimo.
Esempio significativo di tale sincretismo è rappresentato dalla chiesa
zionista, i cui «profeti» sono la versione modea degli indovini
tradizionali: si dicono chiamati da un antenato e dallo Spirito Santo;
in alcuni casi lo Spirito Santo rimpiazza lo spirito ancestrale.
Le due tradizioni non stanno comodamente assieme: è un caso di vino
vecchio in otri nuovi. I riti di guarigione celebrati nelle chiese
indipendenti sono gli stessi compiuti dalle izangoma. Se da una parte
il contesto sociale offerto da tali chiese sembrerebbe liberare i
cristiani dallo stigma legato alle credenze africane nella stregoneria
e negli spiriti maligni, dall’altra sono considerate come un «movimento
moderno fabbricatore di streghe».
Eppure alle chiese indipendenti bisogna riconoscere alcuni meriti.
Innanzitutto, a differenza delle chiese cristiane storiche (cattoliche
e riformate), esse hanno preso sul serio la visione cosmica
tradizionale africana e hanno tentato il dialogo con la religione
cristiana. In secondo luogo, sembrano sapere affrontare meglio dei
cristiani le condizioni di sofferenza della gente, offrendo loro il
senso di appartenenza alla famiglia e comunità. Infine le chiese
indipendenti permettono alle donne di giocare un ruolo significativo
nella vita sociale.
Nonostante ciò, non viene cancellato il loro grande limite:  esse
stanno perpetuando credenze superstiziose, invece di sfidarle alla luce
della nuova esperienza di fede.
Guarigione nella
tradizione cristiana
Nella tradizione della chiesa primitiva, il rituale di guarigione
consisteva nell’unzione con olio e acqua da bere. A questi elementi era
attribuito, nel nome di Gesù Cristo, il potere di guarire, «così che
ogni febbre, ogni demone e ogni malattia possa sparire con questa
bevanda e questa unzione» (Empereur 1986).
Nella tradizione cristiana, quindi, la guarigione è fatta non in nome
degli antenati, ma nel nome e con il potere di Gesù Cristo, trasmesso
dagli apostoli: «C’è tra voi un ammalato? Chiamate gli anziani della
comunità ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del
Signore» (Gc 5,13-15).
Inoltre, nella tradizione cristiana la guarigione implica la fede da
parte del malato e il perdono dei peccati. È la fede che dà al paziente
la capacità di conoscere e partecipare al potere redentivo di Cristo,
che porta la riconciliazione, non solo con la comunità e gli antenati,
ma anche con Dio e con la chiesa.
Posti questi principi si impongono alcune domande: i cristiani che
lasciano le loro chiese per attendere alle sessioni di guarigione nelle
chiese indigene o per consultare le izangoma lo fanno perché dubitano
del potere di guarigione di Cristo, oppure perché non trovano nelle
chiese storiche quel supporto sociale, psicologico, comunitario che
hanno saputo creare le chiese indipendenti?
Soprattutto, per superare il disagio dei cristiani delle chiese
storiche, non basta rispondere alla questione se questa o quella
isangoma può ricevere la comunione. Il vero problema riguarda gli
aspetti di compatibilità o incompatibilità tra il sistema di credenze
africano e il cristianesimo. È una questione di quanta strada abbia
fatto il processo di evangelizzazione e se sia stato sviluppato o meno
un atteggiamento critico nei confronti della cultura tradizionale alla
luce del messaggio cristiano.
In tale processo critico, il potere di guarigione degli antenati e le
izangoma possono essere viste in una luce differente: la guarigione
viene mediante la fede in Cristo, invocato nel contesto del rituale di
guarigione tradizionale; gli antenati possono anche essere invocati,
non però come sorgenti ultime di potere in sé stessi, ma piuttosto come
mediatori, poiché ora è Cristo la sorgente basilare del potere di
guarigione.
Una cosa sta diventando sempre più chiara: la conversazione non avviene
in un giorno e l’annuncio del vangelo non può più essere un monologo.
Il sistema di credenze o la cosmovisione in cui è predicato il vangelo
devono essere presi seriamente in considerazione, fino a instaurare un
dialogo aperto.
Non si può pretendere di cancellare (o anche ridurre) la credenza nel
potente influsso degli antenati, semplicemente retrocedendoli a un
rango inferiore nella gerarchia delle forze. Stregoneria e divinazione
non spariranno dichiarandoli semplicemente una finzione
dell’immaginazione delle società tradizionali. La presenza degli
spiriti maligni resisterà contro ogni tentativo di bandirla
sommariamente dal cosmo africani.
È in questione la maniera tradizionale africana di affrontare i poteri
soprannaturali e la realtà del male. Queste forze costituiscono il
tessuto delle relazioni umane, sono una parte integrale dell’esperienza
religiosa africana e perciò la base di una spiritualità africana. Per
cui bisogna fare attenzione quando si è troppo preoccupati del potere
degli antenati, del male della stregoneria e della dittatura dei
demoni: cercando di eliminare il mitico e il superstizioso si rischia
di gettare via il bambino con l’acqua sporca.
Non è possibile giustapporre semplicemente una nuova serie di dogmi
accanto a «verità antiche», ritenendole ormai ridondanti o inadeguate
all’incontro con la fede cristiana. Il nuovo deve coinvolgere il
vecchio con tutta la sua limitatezza, altrimenti l’anima africana sarà
lacerata e strappata dal suo centro vitale e non riuscirà ad accettare
un altro centro su cui strutturarsi.
La novità evangelica deve essere articolata in tal maniera che
l’esperienza umana non venga privata del proprio modo culturale di
esprimersi e, al tempo stesso, deve permettere la trasfigurazione e
purificazione della vecchia verità, operate dal potere vivificante del
vangelo. 

Buti Tlhagale

Buti Tlhagale




Piccoli miracoli

I camilliani in lotta contro l’Aids nella capitale peruviana

Il Perù è il primo paese dell’America Latina raggiunto dai camilliani all’inizio del 1700,
per offrire la loro assistenza ai malati più poveri.
Un bel numero di giovani stanno rispondendo all’appello del carisma camilliano.
Nel 1995, a Lima, hanno dato vita all’Hogar San Camilo, dove si prendono cura dei sieropositivi
e malati di aids e organizzano vari programmi
di prevenzione a favore di famiglie, madri sole, bambini dei rioni più disastrati e abbandonati.

Vedi Lima solo dopo aver visto la niebla (nebbia). Non la nebbia
del Nord Italia, fitta, carica di pioggia, che va e viene a seconda del
peso dell’atmosfera. Quella di Lima è qualcosa che non se ne va via
mai: rimane lassù, sospesa sulla città a 30 metri d’altezza, si
traveste da cielo plumbeo, immobile e persino un po’ triste. È chiamata
«garúa».
A Lima non piove quasi mai. Gli abitanti, soprattutto, quelli più
anziani si ricordano la data precisa delle ultime gocce d’acqua cadute
sulla città. Sembra che la niebla abbia la funzione di tappo al
rovescio: non permettendo al cielo di arrivare alla terra, alle
precipitazioni sulle case. E che case: tolte quelle solide dei
quartieri residenziali e i palazzi storici sopravvissuti all’incuria,
la gran parte sono baracche, sorte come funghi qualche decennio or sono
e tuttora onnipresenti. Dalle pareti al tetto sono fatte di fango,
paglia e qualche legnetto; visti dall’alto appaiono come dei piccoli
quadrati marroni, sembrano una miriade di dadi gettati nel vuoto.
Qui vivono decine di migliaia di persone, di cui un buon numero fuori
Lima, in quei pueblos jovenes nati dal nulla e destinati allo stesso
nulla, poiché carenti delle strutture base: acqua, luce, fogne, gas.
Lima è una metropoli di 7 milioni di abitanti, di cui quasi il 50% vive
sotto la soglia della povertà e le baracche sono l’unico bene materiale
che possiede. Ma anche questo è un bene a rischio. Circola, infatti, un
timore nelle conversazioni dei limeños, i cittadini della capitale
peruviana: se arriva un potente nubifragio, chi può negare che tutte
quelle dimore possano non reggere l’urto e sciogliersi in un fiume
marrone devastante? Per ora, nei rarissimi giorni di pioggia, la realtà
parla di qualche disagio in più, insignificante nella vita di stenti di
questa gente ridotta in miseria.

Come altrove, anche nelle baracche di Lima povertà e malattia vanno di
pari passo. Sporcizia e malnutrizione rendono la vita difficile. Ma da
qualche tempo c’è ben altro che si insinua da queste parti: si chiama
aids, e sta proliferando, soprattutto fra i giovani.
All’inizio la diffusione della malattia era rimasta un segreto che
doveva rimanere «custodito» nella baracca. Solo negli ultimi anni le
cose sono cambiate. Più assistenza e prevenzione hanno portato più
controllo e qualche piccolo miracolo.
Uno dei più significativi di questi miracoli lo si trova immergendosi
nel centro storico di Lima, in un quartiere popolare dal nome
ingannevole di Barrios Altos (quartieri alti). Qui di turisti ne
passano, ma è un mordi e fuggi; vedono le cose importanti: la chiesa di
San Francesco, con le sue enormi catacombe, Plaza Mayor, la piazza
principale in cui si trova il Parlamento.
Proprio a due passi da Plaza Mayor, dal 1995 esiste un luogo conosciuto
come Hogar San Camilo, centro di accoglienza per le persone
sieropositive.  Qui pochi uomini, con il loro intenso lavoro,
ridanno speranza a decine di famiglie che con il «sida» (versione
spagnola di aids) combattono una dura battaglia quotidiana.
Questi uomini sono preti dell’ordine di San Camillo de Lellis. La loro
prima presenza nel cuore di Lima data metà secolo xviii, quando
aprirono una casa di formazione vocazionale nella parte nord del
Convento de la buena muerte, ancora oggi attiguo all’Hogar San Camilo.
Nell’Hogar, camilliani italiani, peruviani e di altre nazioni accolgono
in particolare le madri che hanno contratto la malattia con l’obiettivo
che i loro figli nascano sani. Un miracolo? Di certo un grande
traguardo raggiunto, a livello scientifico e, quindi, umano.
Un’innovazione che permette di salvare migliaia di vite.
Lo sa bene padre Zeffirino Montin, l’anima fondatrice dell’Hogar, che,
proprio per la sua attività missionaria, è stato nominato un paio di
anni fa Cavaliere della Repubblica italiana. «Siamo partiti con pochi
mezzi, ma tanta speranza, unita alla voglia di fare – dice padre
Zeffirino -. Oggi contiamo sempre di più; lo si capisce dal crescente
numero di persone che arrivano fin qui da tutte le zone disagiate di
Lima».
I numeri la dicono tutta sull’autorevolezza che il Centro ha acquisito
negli 11 anni di attività: 400 persone ospitate, almeno 6 mila
beneficiari diretti delle cure contro la malattia e 20 mila beneficiari
indiretti. Alle medicine, i gestori dell’Hogar alternano il latte
mateizzato, il vero antidoto che salva migliaia di bambini
dall’infezione sicura. «Oltre a distribuirlo all’Hogar, con due gruppi
di medici, operatori e volontari, andiamo a portarlo direttamente nelle
case dei malati, soprattutto quelli più poveri» continua padre
Zeffirino.
E ccoci di ritorno nelle baracche, quindi. Qui, nascosti tra i vicoli e
le strutture fatiscenti di quartieri come Callao, Ventanilla e tanti
altri, si addentrano i camilliani e i loro aiutanti. Le visite sono
sempre organizzate prima. Alla gente del posto il camioncino bianco è
sempre più familiare e, dove prima c’era diffidenza, ora c’è un
sorriso, anche se malato. Come quello a tre denti di Ana, 31 anni, ma
che ne dimostra almeno il doppio per lo stato avanzato della malattia,
e i sorrisi dei suoi figli Nina e Andres, 3 e 6 anni, che giocano con
alcune scatolette nella piccola aia di terriccio.
«Io so di non avere molta vita davanti, ma ai miei figli vorrei dare
qualcosa di più – dice Ana -; ma mi ritengo già fortunata: loro non
hanno preso la malattia grazie alle cure, già questo è un piccolo
miracolo».
Come Ana, tante altre donne hanno ripreso la speranza dopo aver
conosciuto l’Hogar. Oggi anche lo stato peruviano, dopo anni di totale
assenza, riconosce il lavoro dei camilliani e collabora ai loro
progetti, soprattutto dal punto di vista economico. Dall’inizio del
2006 molti bambini del Centro hanno anche una famiglia (italiana) in
più, grazie all’adozione a distanza, sostenuta dall’organizzazione non
governativa Coopi (Cooperazione internazionale), che ha sede a Milano e
una storia di 40 anni nella cooperazione.
M a la presenza dei padri ispirati a san Camillo, patrono dei malati e
dei dottori, vive anche di altre splendide realtà. Una di queste è il
seminario, sorto nel 1980 dopo l’arrivo di padre Giuseppe Villa
dall’Italia. Dagli 8 seminaristi peruviani con i quali è iniziata la
scuola vocazionale, oggi si arriva quasi a 40, molti dei quali
provengono dalle terre amazzoniche, nel nord del paese.
Oggi a dirigere la scuola del seminario è padre Camillo Scapin,
sacerdote veneto, da più di  20 anni a Lima. «Ogni anno accogliamo
nuovi studenti, mentre altri finiscono gli studi e sono a un passo
dall’ordinazione – dice padre Camillo -. Anche qui le vocazioni sono
diminuite, ma quelli che arrivano sono convinti, raramente lasciano gli
studi durante il cammino di formazione».
Gli alunni del seminario, oltre agli studi teorici, seguono la
vocazione camilliana fin da subito, entrando come volontari nelle
strutture ospedaliere della città per portare assistenza e spiritualità
ai malati. Alcuni di loro, terminati gli anni da seminaristi, ricevono
la chiamata per lavorare in altre nazioni. Oggi i camilliani sono uno
degli ordini più presenti nel mondo: offrono il loro servizio in ben 35
paesi.
Padre Camillo, oltre all’insegnamento, passa molto tempo negli ospedali
della capitale e nelle strade. Con lui può capitarti di fare un giro
nella Lima «quotidiana»: i mercati vivacissimi e pieni di frutta
esotica mai vista in Europa, le scuole blu costruite qualche anno fa
nei quartieri poveri dal presidente-ladròn Fujimori a caccia di voti;
oppure, nella Lima storica: le catacombe, la casa di Santa Rosa da
Lima, prima santa del continente americano di cui i peruviani sono
devotissimi, il monte San Cristobal, che domina tutta la città e,
quando la niebla lo consente, permette di vedere il mare, posto alla
fine dei quartieri ricchi.
«Ma anche qui da noi c’è qualcosa di particolare» svela padre Camillo,
che apre le porte della Iglesia de la Buena Muerte, chiesa del convento
spesso chiusa al pubblico per salvaguardae i tesori storici, tra cui
una serie di quadri inediti del Veneziano. «La chiesa è comunque aperta
a chiunque voglia pregare – continua il padre -. Lasciarla sempre
aperta in questa zona della città è pericoloso».
Fuori dal convento, infatti, un vociare continuo e macchine che passano
da tutte le parti fanno capire che Barrios Altos è un quartiere molto
frenetico, dove ognuno vende quel poco che ha, e chi non ce l’ha vive
di espedienti.

I problemi sono gli stessi di altre grandi metropoli, ma qui a Lima la
forbice economica è in continuo aumento ed è sottolineato
«geograficamente»: l’indigente non incontra quasi mai il ricco e
viceversa, poiché questi vive nei quartieri lussureggianti che
finiscono sul mare come Miraflores o quelli delle grandi ville come Los
Olivos, dove le strade sono perfette e i marciapiedi sono puliti. Unico
punto di contatto, le entrate delle tangenziali. Ma è un attimo, basta
un rombo e una chiusura di finestrino, e via.
Dall’altra parte, sulla strada, la vita è ardua. Nonostante il clima
temperato, polvere e smog fanno ammalare migliaia di persone ogni
giorno. Il peruviano in condizioni di povertà, come del resto molte
altre popolazioni sudamericane, è tenace e sorride sempre alla vita,
anche quando le cose non vanno granché bene. Spesso nasconde i
problemi, ancor più spesso (e qui si parla degli uomini) si attacca
alla bottiglia, primo passo per la rovina di sé e della famiglia.
Non che manchino le istituzioni, a Lima e in Perù: dal 2001 a questa
parte, ovvero dopo gli scandali di corruzione legati al dittatore
Alberto Fujimori e al suo braccio destro Vladimiro Montesinos, la
situazione politica nel paese sembra aver cambiato rotta. Il presidente
Alejandro Toledo, seppur mai troppo indipendente dal governo degli
Stati Uniti, ha avviato nuove riforme e cercato di farsi ricordare come
una figura «pulita». Ha aperto relazioni con altri paesi sudamericani e
asiatici, pur manifestando qualche rancore, soprattutto verso i vicini
cileni, con i quali, dalla fine della guerra del Pacifico (1884), il
Perù non ha mai avuto un rapporto veramente  amichevole.
Un’altra svolta è avvenuta con le elezioni di aprile-maggio 2006, nelle
quali, a scapito di una nuova figura politica, rappresentata dal
militare nazionalista e indigeno Ollanta Humala, ha preso il potere il
socialdemocratico Alan Garcia, che dice di essere al governo per
portare il Perù ad avere più peso internazionale e ridurre
drasticamente le differenze intee.

Ma ce la farà davvero? «I detrattori sono tanti, ma un po’ di speranza
non guasta» dice padre Camillo, profondo conoscitore della politica
peruviana.
Di certo una sorta di redistribuzione delle ricchezze non farebbe male,
soprattutto considerando un altro fattore importante di sviluppo: il
turismo. Il Perù è la culla degli Inca; a Macchu Picchu e alla città
sacra di Cuzco arrivano centinaia di migliaia di visitatori ogni anno.
Al sud ci sono splendidi scenari naturali, il canyon del Colca, le
misteriose linee di Nazca, la splendida città bianca di Arequipa, la
penisola desertica di Paracas. Al nord, l’immensa foresta amazzonica.
Il potenziare questo settore e il dividere equamente gli introiti senza
affidarli a società private, che «depredano» il mercato, come accade
per il monopolio ferroviario che PeruRail ha per Macchu Picchu,
porterebbe nuova linfa vitale ai peruviani. Un turismo, naturalmente,
che si attui nel rispetto dei luoghi e delle tradizioni e alla ricerca
del Perù nascosto, non solo quello degli abbaglianti depliant delle
agenzie di viaggio.
Si potrebbe cominciare proprio dalla «brutta» Lima, che poi, sotto la
sua niebla, così brutta non è. E perché no, passare da Barrios Altos,
nei pressi del Convento de la Buena Muerte, a visitare le opere dei
camilliani. Magari fermandosi qualche settimana, qualche mese, per dare
una mano. «Abbiamo sempre bisogno di persone con tanta buona volontà»,
suggerisce con un sorriso padre Zeffirino. 

Daniele Biella

Daniele Biella




Mosaico «esplosivo»

Potere, petrolio e milizie: dove sta andando il gigante africano

La grande diversità è la sua ricchezza. Ma, gestita
male, diventa la sua rovina. Così il paese più popoloso dell’Africa, e
attuale sesto produttore di petrolio al mondo, è attraversato da
movimenti identitari. La scadenza elettorale di aprile scatena voraci
appetiti nella classe politica, e stimola la galassia di milizie
armate. Tutti in cerca di una fetta di torta.

Il clima politico e sociale si sta surriscaldando in Nigeria ed è
destinato a peggiorare con l’avvicinarsi delle elezioni politiche di
aprile. Il presidente Olusegun Obasanjo, eletto nel 1999 e rieletto nel
2003, ha rappresentato una svolta democratica per il paese, che dei
suoi 46 anni d’indipendenza ne ha vissuti 28 di dittatura militare.
Obasanjo ha tentato di lottare contro la corruzione con pochi risultati
tangibili. Il suo maggior successo è stato invece rilanciare il paese a
livello internazionale, facendolo uscire dall’isolamento causato dai
governi militari. Non è riuscito tuttavia sul piano interno dove ha
continuato a svilupparsi il fenomeno delle milizie etniche e si sono
inaspriti gli scontri tra gruppi di interesse economici e politici.
Lo scorso maggio, Obasanjo ha tentato, senza successo, di far
modificare la costituzione, che impone il limite di due mandati
consecutivi, per poter prolungare la sua opera al vertice dello stato.
La vera questione è che la gestione del potere nel gigante africano fa
gola a molti.

Una potenza africana

Sesto produttore di petrolio a livello mondiale e primo in Africa con
2,5 milioni di barili al giorno (35.255 milioni di barili di riserve),
la Nigeria si contende la leadership continentale solo con il
Sudafrica.
Repubblica federale di 36 stati, 130 milioni di abitanti e oltre 250
popoli, il paese definito «mosaico» per le sue grandi diversità
etniche, culturali, religiose e linguistiche ha una certa difficoltà a
mantenersi unito. Divisioni tra gli stati musulmani del nord (dodici
dei quali hanno adottato la legge islamica, sharia) e quelli cristiani
del sud, ma anche tra potere centrale e  singoli stati federati.
Le tensioni tra cristiani e musulmani, ma anche tra allevatori e
coltivatori che spesso sfociano in massacri con centinaia di vittime,
sono oggi in lieve diminuzione, ma sempre latenti.
Il sistema federale che doveva garantire la partecipazione di tutte le
etnie, ma ancora prima l’impostazione coloniale, hanno in realtà
favorito i tre principali gruppi: haussa, yoruba e igbo. Questo ha
creato spesso un senso di emarginazione e alienazione rispetto allo
stato nigeriano delle altre centinaia di etnie.
Dalla metà degli anni ’90 questi sentimenti di identità etnica e
politica, esacerbati dai sistemi oppressivi delle dittature militari,
sono sfociati nella nascita di una moltitudine di milizie
etniche.  Gruppi armati attivi nelle diverse zone del paese con
origine simile ma anime molto diverse. Dalle rivendicazioni politiche
degli yoruba, al movimento per l’indipendenza del Biafra, alle milizie
islamiche nel nord, ai movimenti per la ripartizione delle risorse nel
delta del Niger.

Cambio ai  vertici

Lo scorso dicembre, il partito del presidente, Partito democratico del
popolo (Pdp), ha eletto il suo candidato per le presidenziali. Si
tratta di Umaru Yar’Adua, governatore, musulmano, di uno stato del nord
(Katsina). Uomo schivo, ma soprattutto uno dei rari governatori
«integri», secondo la Commissione per i crimini economici e finanziari
(Efcc), istituita dall’attuale presidente. La commissione ha aperto
inchieste su 31 dei 36 governatori. In effetti la Nigeria, secondo la
classifica annuale in base alla corruzione, stilata dall’Ong
Transparency Inteational, resta uno dei paesi più corrotti del mondo,
occupando il 142simo posto su 163 recensiti.
Secondo un tacito accordo tra gruppi di potere, dopo gli 8 anni di
governo federale a un uomo del sud, cristiano, sarebbe stato un uomo
del nord ad avere la presidenza. Con la riforma della costituzione il
presidente ha tentato di venire meno ai patti, senza peraltro riuscirci.
Allora Obasanjo ha preferito mandare avanti un uomo di secondo piano
del partito, ma musulmano del nord, e con una buona immagine a livello
nazionale. È riuscito così, allo stesso tempo a soddisfare l’accordo,
ma anche a scartare alcuni avversari «musulmani» diretti. Come
l’attuale vicepresidente, Atiku Abubakar, uomo potente del Pdp ma in
rotta con Obasanjo (è anche stato uno dei fautori del «no» alla riforma
costituzionale) che ora si candiderà sotto un’altra bandiera politica.
Oppure Ibrahim Badatasi Babangida, già presidente dittatore dall’85 al
’93 intenzionato di nuovo a correre per la presidenza.
È molto probabile che i giochi si definiranno all’interno del Pdp, che
oggi controlla 28 dei 36 governatorati e ha la maggioranza al
parlamento federale. Con una possibile vittoria di Yar’Adua, il partito
dovrebbe poi accontentare gli stati del sud con la vice presidenza.
Ma anche gli Igbo (Ibo) dell’est, etnia maggioritaria (40 milioni) e
che non hanno un presidente da 40 anni vorrebbero dire la loro.
Questa successione sarebbe il primo passaggio di poteri tra civili nella storia del paese.

Molte risorse,  ma per pochi

La Nigeria è dunque un paese molto ricco di risorse, che non vanno però a beneficio della sua numerosa popolazione.
Secondo gli analisti dell’Inteational Crisis Group (Icg), Ong
internazionale per la prevenzione dei conflitti, il sistema federale
non funziona e contribuisce all’aumento della violenza che destabilizza
il paese. Incoraggia lotte feroci tra gruppi d’interesse per
appropriarsi del potere. In questo contesto sono nate le milizie
etniche e politiche, ma è anche fiorito il crimine organizzato. Le tre
componenti si intrecciano in modo inestricabile. Lo stato, sempre
secondo l’Icg, vuole reprimere i sintomi, inviando più poliziotti e
militari, piuttosto che cercare di debellare le cause: controllo delle
risorse, uguaglianza dei diritti, condivisione del potere e della
responsabilità.
Questa situazione sta portando all’aumento dei conflitti interni, con
conseguente peggioramento della situazione di sicurezza e
un’instabilità crescente. Alcuni analisti parlano di possibile
«collasso» o «esplosione» del gigante.

Petrolio chiama sangue

Il caso emblematico è il sud dove si concentrano i giacimenti di
petrolio nel delta del fiume Niger e in mare. Da queste zone il paese
ricava il 95% delle sue entrate all’esportazione. Ma si stima che il
70-75% della popolazione del delta (oltre 20 milioni) vive con meno di
un dollaro al giorno.  Questa situazione costituisce un substrato
ideale per milizie armate, come il Mend (Movimento per l’emancipazione
del delta) sorto a inizio 2006 e molte altre, che rivendicano il
controllo locale delle risorse. I loro metodi sono attacchi al governo
federale e alle compagnie petrolifere, come rapimenti degli impiegati
(come il recente sequestro dei tre italiani e il libanese dipendenti
dell’Agip), ma anche attentati con auto bomba.  Vogliono
paralizzare l’industria del petrolio alla quale hanno già fatto ridurre
del 25% la produzione nel 2006.
Motivi di militanza spesso etnica o politica (come anche richieste
d’indipendenza), contrabbando e criminalità comune si intrecciano nella
galassia dei movimenti del delta, rendendo molto difficile districarsi,
e facili le strumentalizzazioni.  Le milizie riescono facilmente a
far crescere l’odio verso il governo centrale e garantirsi un supporto
popolare molto utile in questo tipo di guerriglia. Il governo risponde
con la forza, inviando esercito e polizia.  Azione poco efficace
in una zona i cui centinaia di fiumi sono impossibili da controllare.

Chi ci guadagna

Mentre nel 1960 era retrocesso ai singoli stati il 50% dei proventi del
petrolio estratto sul loro territorio, questa percentuale è scesa al
13% dopo il 1999 (toccando il minimo di 1,5% durante il governo del
generale Sani Abachi). Una delle rivendicazioni delle milizie del delta
è che questa ripartizione delle risorse sia più equa. Questo non sempre
risolverebbe i problemi della popolazione, perché sono spesso i
governatori corrotti che riescono ad approfittare di queste
retrocessioni.
Tra le altre rivendicazioni c’è spesso la questione ecologica, a causa
dell’impatto negativo dell’estrazione e trasporto del petrolio in
questo fragile ecosistema.  Secondo l’Icg per i disastri
ambientali le responsabilità sono condivise, oltre che dalle compagnie,
anche dai ladri di greggio che danneggiano le tubature causando
fuoriuscita di petrolio. Oltre ai danni ambientali questo fenomeno
provoca spesso incidenti devastanti come la recente esplosione a Lagos
(dicembre 2006) che ha causato la morte di oltre 280 persone.
Nonostante la grande instabilità che questi fenomeni di lotta armata
stanno creando, sembra lontano il pericolo di una vera insurrezione
organizzata, anche se questo spettro compare ogni volta si avvicini una
scadenza per il potere.

Marco Bello

Chirurgia «mini» per un paese «maxi»

Tutto è cominciato quando un amico mi propose un’esperienza in Nigeria,
presso la Nnewi University nello stato di Anambra, dove nessuno aveva
mai fatto chirurgia laparoscopica (1). Si trattava di partecipare al
primo congresso di chirurgia mini invasiva, durante il quale avrei
dovuto eseguire la prima operazione di quel tipo mai eseguita. La cosa
mi ha entusiasmato moltissimo e senza pensarci su, ho accettato
immediatamente. Io, abituato dal 1987 a missioni in Kenya, Burundi e
soprattutto in Sud Sudan, in condizioni estreme, avrei avuto la
possibilità di agire in un ambiente medico più consono al nostro. Avrei
potuto apportare con questa nuova tecnica chirurgica, già ampiamente e
lungamente utilizzata da noi, una ventata di attualità a tutto
vantaggio dei pazienti.
Arrivato in Nigeria, con tutte le paure, le tensioni emozionali (tutto
sommato fisiologiche), l’orgoglio, la speranza, la felicità, sono
subito entrato in sintonia con la gente e i luoghi,  che
sembravano a me già visti e vissuti. È infatti molta la somiglianza con
diverse città e villaggi di altri paesi africani, con le strade
polverose, rossicce e piene di gente e attività.
In ospedale siamo stati accolti molto bene e quasi coccolati.
L’interesse è stato molto alto e durante la mia relazione le domande
non si sono risparmiate. Talvolta con fare polemico, soprattutto dai
ginecologi, che già utilizzano la laparoscopia diagnostica ma non
quella operativa. Si sono visti forse minati nell’esclusività di tale
metodica, con il timore di essere surclassati dai chirurghi generali.
Sono state delle giornate interessanti di scambio di vedute e con
propositi positivi. Abbiamo realizzato delle sessioni di training
simulato, che hanno coinvolto a tuo tutti i partecipanti al
congresso, dimostrando il vivo interesse dei medici locali. Si è infine
passati alla sessione della chirurgia in diretta con dei casi
all’inizio semplici come un caso di colecistectomia laparoscopica
(asportazione della colecisti) e un’appendicectomia laparoscopica
(asportazione dell’appendice). D’altronde in tutto il mondo si è
iniziato con questi due tipi di interventi prima di passare a quelli
più complicati. La sala operatoria era gremita di medici, infermieri e
studenti interessati a questo grande evento (all’inaugurazione ha
partecipato il ministro della sanità). Nonostante questo non sentivo il
peso di tutti quegli sguardi, ma la leggerezza della voglia di essere
lì. Avevo sì dei timori all’inizio, perché in Nigeria nessuno aveva mai
preparato ferri chirurgici di quel tipo specifico, nessun aiuto
chirurgo aveva mai fatto esperienza su questi interventi. Ma
l’entusiasmo di avere vicino molte persone motivate, mi ha fatto subito
superare ogni difficoltà. Alla fine di tutto però ero stanco. Ma con
una stanchezza «carica» dovuta al fatto che tutto era andato
perfettamente bene e aveva creato immensa gioia e soddisfazione a
pazienti e ambiente medico.
È bello vedere l’entusiasmo e la voglia di andare avanti, anche quando
sussistono problemi sociali e politici come in questo paese. E questo,
secondo me, vale comunque a tutte le latitudini del mondo.

Dario Andreone

(1) Chirurgia laparoscopica o chirurgia mini invasiva è la tecnica
chirurgica che prevede l’esecuzione di un intervento chirurgico
addominale senza apertura della parete. Ciò avviene attraverso piccoli
strumenti che passano in fori nel ventre e l’intervento viene
visualizzato attraverso un monitor.

Marco Bello e Dario Andreone




Tristi le  mille colline

Esperienza estiva di un gruppo di giovani di Reggio Emilia

Da oltre 40 anni la diocesi di Reggio Emilia è legata alla chiesa rwandese. Tra le varie iniziative figura anche l’invio di gruppi giovanili desiderosi di fare esperienze di missione. Quello guidato dal padre Moreschi ha animato oltre 700 giovani di ogni etnia, gettando un seme di speranza in un  paese che non è ancora riuscito a liberarsi dall’incubo.

«Paese dalle mille colline», come è spesso definito, il Rwanda si trova a un grado e mezzo sotto l’Equatore, schiacciato tra Tanzania e Congo, Uganda e Burundi, con cui costituiva un territorio unico durante il periodo coloniale.  Grande come la Sicilia, è popolato da quasi 9 milioni di abitanti. La scorsa estate vi ho trascorso tre settimane, insieme a un gruppo di giovani della diocesi di Reggio Emilia per un campo di esperienza missionaria. 
Il legame tra la diocesi di Reggio e il Rwanda risale al 1969, quando vi approdò padre Tiziano Guglielmi, missionario reggiano della congregazione dei Padri Bianchi. Tale legame è diventato sempre più forte, anche dopo la morte del missionario, avvenuta il 19 maggio 1980 in un incidente aereo alle pendici del vulcano Bisoke, nel nord del Rwanda. Anzi, proprio tale disgrazia ha portato alla costituzione del gruppo «Amici del Rwanda. Padre Tiziano», per continuare le opere avviate dal missionario reggiano nella missione di Rwamagana, realizzando la costruzione di una scuola, un centro ospedaliero, la casa per le suore e un’altra per i volontari.
La guerra civile dell’aprile-luglio 1994 e conseguente genocidio ha costretto il gruppo e la diocesi a interrogarsi sul loro ruolo nel futuro del paese martoriato. Don Luigi Guglielmi, fratello di padre Tiziano e all’epoca direttore della Caritas diocesana, volle avviare un progetto che coinvolgesse più direttamente la diocesi reggina e fosse segno di speranza e di solidarietà con la popolazione e la chiesa rwandese.
Nasceva così, nel 1995, il primo progetto Amahoro (pace, in lingua rwandese) a Munyanga, nella diocesi di Kibungo: una casa-famiglia per accogliere i bambini rimasti senza genitori. Tale progetto non si limita a fornire le strutture materiali, si traduce soprattutto in una esperienza di comunità tra volontari italiani e rwandesi, condividendo insieme la vita quotidiana, orientamenti e scelte per l’avanzamento del progetto.
Oltre un centinaio di volontari italiani si sono avvicendati per assicurare il servizio della casa Amahoro e per aprie di nuove in altri luoghi, come a Kabarondo e Bare. A questi volontari si sono presto uniti anche gruppi giovanili, desiderosi di fare esperienze missionarie e realizzare progetti minori attraverso campi estivi di qualche settimana.

Anche il 2006 ha visto partire da Reggio Emilia due delegazioni di volontari. La prima, all’inizio dell’anno, aveva il compito di aggiustare delle pompe che si erano bloccate; la seconda, ad agosto, era il nostro gruppo di giovani, che ha trascorso una ventina di giorni nella missione di Munyaga. Abbiamo animato una marea di ragazzi, fino a 700 in alcune giornate dedicate a un campo estivo. Altri giorni sono stati impegnati nella costruzione di case di fango per i poveri, sotto la direzione di suor Bea, una religiosa belga in Rwanda da una vita.
Naturalmente abbiamo avuto anche il tempo per conoscere la situazione del paese. Il Rwanda è un paese con una storia gloriosa e splendide tradizioni; geograficamente bello e godibile per il clima e fertilità del suolo; non ha pascoli in abbondanza, ma sufficienti a sfamare molte mandrie di mucche dalle coa spropositatamente grandi.
Un’eterna primavera sembra regnare nel paese dalle mille colline, irrorate da piogge regolari, incastonate da molti laghi, piccoli e grandi (Kivu, Bulera, Ruhongo, Rweru, Muhazi e l’immenso Vittoria) e solcato da numerosi fiumi, due dei quali, che alimentano il lago Vittoria, sono ritenuti come le vere sorgenti del Nilo.
La gente è buona e laboriosa. L’intero territorio è coltivato come un giardino, tutto a mano, anche le colline più scoscese, con un ingegnoso sistema di terrazze.
Sulla brillantezza del paesaggio, però, incombe la tristezza infinita della gente. Le ferite aperte dall’eccidio, a più di 10 anni di distanza, non sono ancora rimarginate. La gente sembra avere ancora stampate negli occhi scene orrende di cui è stata testimone. Tutti gli adulti che abbiamo incontrato in quei 20 giorni ci hanno raccontato storie tristi, perché tutti hanno avuto la pertita di uno o più familiari. Una signora rwandese, sposata a un italiano, ha perso i genitori e un fratello con tutta la sua famiglia. Questo fratello, per non finire sotto i colpi di macete, si è gettato nel fiume insieme alla moglie e ai figli.
Le iniziative per ricostruire la convivenza civile e la riconciliazione sono molte. Il tribunale internazionale con sede ad Arusha (Tanzania) ha già emesso sentenze esemplari contro chi si è macchiato di delitti contro l’umanità e continua il suo lavoro fra tante difficoltà finanziarie e logistiche; i tribunali tradizionali, chiamati «gachaca», cercano di promuovere la riconciliazione; il governo vuole imporre la pace e l’unità nazionale usando il pugno di ferro e violando i diritti umani più elementari.

Visitando i «luoghi della memoria» sparsi su tutto il territorio, questo momento nero della storia rwandese risulta anche più tragico e indimenticabile.
Nella chiesa di Ntarama, per esempio, dove furono uccise oltre10 mila persone, si respira ancora l’odore della morte. I teschi delle vittime sono raccolti negli scaffali; sul pavimento ci sono vestiti e scarpe e contenitori di plastica lasciati dalle vittime. Sulle pareti della chiesa si è cominciato a scrivere la lunga lista di 10 nomi. Non difficile immaginare l’atmosfera di tristezza che pervade la gente del villaggio.
Di luoghi della memoria come questi è piena la nazione. Altra meta d’obbligo è Nyamata. Durante la guerra civile vi operava padre Joaquim Vallmajo, spagnolo, assassinato perché parlava troppo dei soprusi dei soldati del Fronte patriottico rwandese. Vicino al cippo che ricorda il missionario spagnolo c’è la tomba della volontaria italiana Antonia Locatelli, anche lei uccisa con una pallottola in bocca, nel 1992, per aver telefonato all’ambasciata del Belgio e a emittenti radio inteazionali (Bbc e  Rfi) dando l’allarme di quanto stava succedendo sotto i suoi occhi: il massacro di 300-400 tutsi. Il giorno seguente a tale appello fu uccisa davanti a casa da un gruppo di interahamwe (milizie speciali hutu) venuto appositamente da Kigali. Grazie a lei, però, il mondo fu informato e la polizia fu costretta a intervenire e a porre fine alla carneficina.
Anche con una breve permanenza nel paese ci si accorge che il Rwanda non è ancora uscito da una esperienza così tragica; il demone dell’odio e della divisione ha radici antiche. La popolazione è laboriosa, intelligente e pacifica, ma nel suo interno rimangono frange di estremisti che spingono allo scontro frontale. Per questo si incontrano dappertutto posti di blocco molto noiosi. Suor Bea e suor Mary Amè ci dicono che sono gli stranieri a essere sotto stretto controllo, ma in generale è tutta la popolazione rwandese a vivere sotto stretta sorveglianza.
A parte questo, tutto sembra rientrato in una discreta normalità. La gente cammina per le strade a piedi come un fiume perenne, dato che il traffico automobilistico nella zona rurale è  molto limitato. Kigali, la capitale, brulica di gente indaffarata, i negozi sono pieni di prodotti di ogni genere, anche quelli occidentali.

Kibeho non è solo un luogo della memoria, ma è diventato il simbolo del dolore assoluto, nel cuore dell’Africa dei massacri. Vi abbiamo incontrato una delle veggenti alle quali la Madonna, sarebbe apparsa più di una volta a partire dal 28 novembre 1981.
I protagonisti sarebbero sette. Ma la chiesa ha riconosciuto solo le apparizioni alle prime tre veggenti, studentesse delle scuole magistrali in un collegio cattolico. I messaggi consegnati alle tre giovani non si discostano da quelli di altre apparizioni mariane: invito alla preghiera, alla conversione e alla penitenza salvifica. Ma ciò che fa di Kibeho un evento particolarmente impressionante è che, il 19 agosto 1982, i tre veggenti ebbero la visione dei massacri che ci sarebbero stati di lì a pochi anni in Rwanda. «Abbiamo visto gente che si uccideva, corpi decapitati, fiumi di sangue lungo le strade» raccontavano i veggenti.
Inizialmente le apparizioni furono accolte con sospetto e scetticismo; i più benevoli pensavano che gli orrori annunciati riguardassero il Burundi. Poi, dopo 7 anni di indagini e il lavoro di una commissione medica internazionale, il vescovo approvò il culto della Vergine e la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna dei dolori.
E proprio in quella chiesa, il 7 aprile 1994, si rifugiarono circa 20 mila tutsi e hutu moderati. I tutsi che  si trovavano in chiesa vennero fatti uscire e massacrati ad uno ad uno a  colpi di machete. Quelli che non uscirono vennero uccisi con le granate in chiesa. Tra le vittime ci furono anche due delle tre veggenti.
Quando il Fronte patriottico rwandese giunse al potere, a Kibeho si rifugiarono decine di migliaia di hutu, per sfuggire alla vendetta dei tutsi, formando un enorme campo profughi, sotto l’assistenza di organizzazioni inteazionali. Ma il 18 aprile 1995 l’Esercito patriottico rwandese cinse d’assedio il campo, con lo scopo di controllare i rifugiati, arrestando i sospetti di genocidio e rimandando il resto alle proprie case.
La gente, presa dal panico, cercò di rompere il cordone militare e scappare a perdifiato, sotto i colpi dei soldati. Le strade furono cosparse di sangue,  come nella visione proposta ai veggenti 14 anni prima. Si parla di oltre 8 mila vittime, colpite alle spalle; 4 mila secondo le autorità rwandesi. 
Ma per Kibeho non era ancora finita. Le autorità rwandesi, in maggioranza tutsi, volevano confiscare il santuario e trasformarlo in mausoleo del genocidio del 1994. Il vescovo locale, mons. Augustin Misago si oppose, così pure la Santa Sede, spiegando che la chiesa non poteva diventare simbolo della memoria solo per una parte del popolo, ma doveva essere luogo di riconciliazione.
Proprio da Kibeho, il presidente del Rwanda lanciò contro mons. Misago l’accusa di genocidio nel 1999. Arrestato e condannato a morte, dopo un processo farsa durato tutto l’anno del giubileo, il vescovo fu poi assolto da un giudice di buon senso.
Oggi il santuario di Kibeho, con le sue travi e capriate di legno affumicate, rimane un monito contro ogni ideologia razzista di purezza etnica e continua ad accogliere migliaia di pellegrini di ogni etnia desiderosi di pace e riconciliazione.

A Munyaga, luogo della nostra esperienza, 700 ragazzi di tutte le etnie hanno giocato e cantato e ballato spensieratamente. Abbiamo gettato un piccolissimo seme di speranza, nell’attesa che cresca e maturi con frutti di pacifica convivenza, cancellando il velo di tristezza che ancora avvolge le mille colline del Rwanda martoriato. 

di Alessandro Moreschi

Alessandro Moreschi