MESSICO, fagioli neri e champagne

Preti d’America

È la dodicesima potenza economica mondiale.
Ha alcuni tra gli uomini più ricchi del pianeta. Ma, allo stesso tempo, è un paese con enormi disparità.
Ne abbiamo parlato con padre Gabriel Estrada Santoyo, missionario comboniano, poco dopo la controversa elezione del nuovo presidente, il conservatore Felipe Calderón.

Soltanto lo scorso 5 settembre, due mesi dopo le elezioni,  il Tribunale federale elettorale ha ufficializzato la vittoria di Felipe Calderón,  candidato del Partito d’azione nazionale (Pan). Per i prossimi 6 anni, sarà lui il presidente del Messico, dodicesima potenza economica mondiale. Intanto, lo scorso 4 ottobre il presidente degli Stati Uniti ha firmato la legge che prevede la costruzione di un lungo muro tra Messico e Usa, per frenare l’immigrazione illegale (cfr. Glossario). Di tutto ciò abbiamo parlato con padre Gabriel Estrada Santoyo, missionario comboniano, nato in Messico nello stato di Michoacán, sacerdote da quasi 20 anni. Padre Estrada ha lavorato in Brasile, Perù e Bolivia. Dal 2000 è tornato nel suo paese natale. Vive a Città del Messico, dove lavora come produttore televisivo per la chiesa locale. Collabora anche con Esne Tv, canale cattolico che trasmette da Los Angeles (Califoia).

Vicente Fox:
sei anni di delusioni

Quando, nel luglio del 2000, Vicente Fox pose fine al dominio del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) si parlò di svolta epocale per il Messico. Padre Gabriel, oggi, a mandato presidenziale concluso, come giudica gli anni di governo di Vicente Fox?
«I vescovi messicani avevano progettato alcuni elementi da prendere in considerazione per aiutare la transizione democratica. Fox, il candidato trionfatore, li aveva assunti come impegno e programma di lavoro. Oggi, trascorsi i 6 anni di presidenza, vediamo che molte di quelle promesse furono solo demagogia elettorale e che anzi la situazione si è aggravata preoccupantemente. È cresciuta la minaccia di una regressione autoritaria (anche per via elettorale), nonché la minaccia più temuta di tutte: la violenza tra fratelli (come accaduto ad Oaxaca a fine ottobre, ndr)».

A parte il 2001, per l’economia messicana questi anni non sono stati negativi. Fox ne ha approfittato per far progredire il paese?
«Il periodo di governo di Vicente Fox è stato favorito da una certa stabilità economica mondiale e dal mercato petrolifero. L’innalzamento del prezzo del greggio lo ha aiutato moltissimo a tenere tranquilli i leaders dei partiti d’opposizione. Gli ha permesso altresì di aumentare i sussidi ai singoli stati, molti dei quali, non sapendo come spendere questo bonus, si sono dedicati alla costruzione di opere faraoniche non necessarie. Altri, devotamente, hanno aiutato nella costruzione di alcune cattedrali o santuari secondo la vecchia usanza del Pri.
Si è sempre detto che Fox è stato “un eccellente candidato ma un pessimo presidente”.  È stato come uno di quei cavalli che hanno un buon slancio ma poi si perdono nella corsa. Egli non ha saputo lottare con il potere e la sua preparazione amministrativa e commerciale non gli è servita molto per governare tutta una nazione. Questo suo stile “rancero” si è scontrato con la classe politica; i suoi continui errori nel parlare e i suoi atteggiamenti popolani sono stati criticati dalla classe intellettuale e sono stati sempre motivo di burla da parte dei mezzi di comunicazione.
Oltre a ciò la “primera dama”,  la quale non era inclusa nel pacchetto iniziale (Marta Sahagun Jiménez, sposata da Fox nel luglio 2001, ndr), ha pesato molto su questo mandato presidenziale. Sulla signora Fox sono cadute accuse di ogni tipo: corruzione e arricchimento illecito dei parenti; abuso di posizioni di potere; spese superflue in viaggi e vestiti; le iniziative della fondazione “Vamos Mexico”, da lei presieduta senza mai chiarire le sue entrate e uscite economiche.
Altra cosa che ha influenzato pesantemente il cammino del paese in questi sei anni è stato senza dubbio la crescita del narcotraffico, il suo radicamento in alcuni stati del paese (il caso più noto è quello dello stato di Sinaloa, ndr), la indifferenza del presidente verso queste ruberie e verso le esplosioni di violenza.  Molti sostengono che stiamo andando verso una “colombizzazione del paese”, un paese senza legge, dove la violenza è aumentata in forma spaventosa, dove ogni giorno le morti e le rese dei conti sono le notizie principali nei telegiornali nazionali».

Calderón o Obrador:
chi ha vinto veramente?

Lo scorso luglio Felipe Calderón (candidato del Pan) ha battuto  per pochi voti Lopez Obrador (candidato del Prd). Ma Obrador ha parlato di brogli massicci. Secondo lei, sono state elezioni regolari o no?
«Senza dubbio queste elezioni sono state pianificate dal potere in una maniera tanto meticolosa da farci credere che tutto sia stato legale e pulito. Per arrivare ad una simile vittoria si è messo in moto tutto l’apparato dello stato: l’intervento della presidenza della repubblica con programmi sociali per comprare il voto a favore del suo candidato; l’aperta campagna dello stesso presidente Fox in tutti gli ambiti pubblici in cui egli si presentava; la cupola imprenditoriale del Pan che ha fatto una propria campagna. E poi la guerra sporca fatta per screditare Obrador, dicendo che egli costituiva un pericolo per il Messico, diffondendo timori (in puro stile nazista) tra le classi meno protette. Per tutto questo non si può parlare di elezioni limpide.
Comprendo perciò le mobilitazioni e le marce in favore del candidato del Prd. La protesta è stata a livello nazionale. Qui, nella capitale della repubblica, alla prima manifestazione si sono radunate un milione e 200 mila persone; alla seconda, domenica 30 luglio, i manifestanti sono stati più di 2 milioni. Insomma, con il governo del Pan si sono ripetute le stesse trappole messe in atto dal Pri nei suoi 71 anni di “dittatura perfetta” (definizione dello scrittore Mario Vargas-Llosa, ndr). Sfortunatamente il potere cambia le persone e qui noi lo stiamo vedendo chiaramente».

Il neopresidente Felipe Calderón goveerà come Vicente Fox?
«Non si può prevedere esattamente che cosa avverrà con Calderón. Io credo, però, che ci sarà una continuità politica dato che le linee del partito sono rimaste le stesse. Potrebbe accadere che nei prossimi sei anni aumenti l’intransigenza dato che nell’équipe di Calderón ci sono gruppi di fanatici di ultra destra che potrebbero creare seri conflitti».

Televisa e Tv Azteca:
sempre con i vincitori

Lei lavora nel campo della produzione televisiva. In tutto il mondo, i mezzi di comunicazione e in particolare le televisioni giocano un ruolo fondamentale nelle elezioni. Dal suo osservatorio privilegiato, può spiegarci com’è andata in Messico?
«I mezzi di comunicazione si sono venduti al migliore offerente: chi pagava loro lo spazio poteva andare in onda. L’Istituto elettorale federale (Ife) aveva posto un limite alle spese di propaganda sui mezzi di comunicazione. La cosa non è stata però rispettata in alcun momento da parte del Pan, danneggiando molto gli altri candidati. Quel partito ha speso milioni di pesos.
Apparentemente Televisa e Tv Azteca, le due catene televisive più grandi del paese (cfr. Glossario), sono state molto attente a non sbilanciarsi troppo su un lato o sull’altro e questo perché le elezioni erano tanto incerte che esse correvano il rischio di “bruciarsi” con il candidato vincitore.  Senza dubbio, dopo il primo annuncio di Calderón come possibile vincitore, si è vista immediatamente la simpatia di entrambe le televisioni per detto candidato, ponendo sempre il presunto perdente Obrador come un destabilizzatore della pace sociale del paese, come qualcuno che stava facendo perdere milioni di pesos alla borsa messicana. Come qualcuno che attentava contro gli interessi molto particolari dei due gruppi televisivi. Va ricordato che Obrador ha sempre parlato contro i monopoli televisivi esistenti nel paese e mai è stato d’accordo con la famosa legge di radio e televisione, recentemente approvata. Senza dubbio tutto ciò ha favorito Calderón».

Poco stato, poca giustizia

Lo stato offre adeguati servizi pubblici alla popolazione messicana (scuola, sanità, trasporti, pensioni)   oppure anche qui ha vinto il modello neoliberista?
«L’indice di mortalità è diminuito. Però dire che in Messico tutti hanno  il diritto alla salute è molto lontano dalla realtà. Si continua ad avere cittadini messicani che non hanno un centro di salute nel raggio di cento chilometri. Penso pertanto che la salute come servizio pubblico negli anni di Fox sia regredita. L’assicurazione sociale poi non dispone di fondi sufficienti per avere un maggior numero di medicine. Si continua quindi a prescrivere “aspirine” per ogni patologia… ».

E a livello di istruzione come vanno le cose, padre?
«Per quanto riguarda l’educazione a livello universitario continua ad essere un lusso che molti non possono pagare. In generale, moltissimi debbono cominciare a lavorare in giovane età per guadagnarsi  la sopravvivenza. Soltanto una minoranza che termina la scuola media può aspirare ad una iscrizione universitaria; nell’università pubblica i posti sono limitati, mentre in quella privata i prezzi sono inaccessibili. Senza dimenticare che, in questi ultimi anni, il livello scolastico si è abbassato considerevolmente. Si possono incontrare giovani che hanno terminato l’istruzione secondaria senza saper leggere ed altri che sanno leggere ma non hanno una ortografia corretta».

Il Messico è un paese giovane. Ma esiste un’assistenza pubblica per le persone anziane? Obrador, quando era governatore del Distretto federale, aveva tentato qualcosa…
«Le pensioni per la gente anziana non esistono come tali per la legge messicana. Esiste soltanto un diritto per chi era assicurato dallo stato durante il suo tempo di lavoro cioè fino ai 65 anni di età. Tutti coloro che non avevano un lavoro pagato da alcuna impresa non hanno alcun diritto: casalinghe, contadini ed altri non possono pertanto godere di alcun beneficio. Nel Distretto federale, durante il suo governo, Obrador cominciò a dare una piccola pensione a tutte le persone maggiori di 60 anni e per questo fu duramente accusato di populismo dal governo Fox.  Tuttavia molta gente anziana della mia parrocchia vive con quei 65 dollari mensili che il governo della capitale le offre. Anche nella campagna presidenziale Calderón ha proposto qualcosa di simile se avesse vinto e anche questa volta è stato tacciato di populismo».

L’imbroglio petrolifero
e la trappola del Nafta

Parliamo di economia, padre. Le famose maquilas (cfr. Glossario) portano benefici al paese?
«Le maquilas vanno e vengono: non c’è una sicurezza di lavoro con esse. La politica dello stato verso le maquilas non è mai stata chiara. Hanno dato loro molti benefici per installarsi nel nostro paese, ma non si è mai richiesto di pagare un salario giusto ai loro dipendenti. Intanto, negli ultimi 5 anni, migliaia di maquilas sono andate dal Messico alla Cina, dove come sappiamo, la manodopera è cinque volte meno costosa del Messico. Quelle che arrivano da noi lo fanno soltanto per la vicinanza con gli Stati Uniti. I lavoratori delle maquilas costituiscono una vera e propria manodopera schiava. Non dimentichiamo che sono proprio donne che lavoravano nelle maquilas quelle che sono state assassinate a Ciudad Juárez».

L’alto prezzo del petrolio (di cui il Messico è grande produttore) ha portato benefici al paese o soltanto a pochi privilegiati? 
«Il tema del petrolio è un tema complesso. Il Pri ci ha lasciato in eredità un sindacato petrolifero ingovernabile e per di più corrotto. I dirigenti petroliferi sono gli unici beneficiari dell’incremento dei prezzi petroliferi, molti sono implicati in ruberie milionarie ma nessuno di essi sta in carcere. La gente del popolo non ha quindi beneficiato per nulla dell’aumento delle entrate petrolifere. Fox non è mai stato chiaro su queste questioni. Avendo timore dei sindacati del Pri, ha preferito chiudere gli occhi davanti al furto, convertendosi quindi in complice. Probabilmente alla fine del suo governo, le cose appariranno più chiare e sapremo cosa sta dietro questa complicità , come è solito succedere al termine di ciascun sestennio presidenziale».

Messico e Usa (con il Canada) sono legati dal 1994 dall’accordo Nafta. Secondo i messicani, il trattato ha portato più conseguenze negative o positive?
«Per la grande maggioranza dei messicani il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti è stato negativo. Soltanto pochi grandi impresari hanno beneficiato di esso. Per la maggioranza esso ha significato la morte delle loro piccole imprese che non sono state in grado di competere con i prodotti venuti da fuori. C’è poi la poca chiarezza del Trattato. Noi accettiamo senza fiatare tutto quello che loro ci vendono mentre loro con molta facilità vietano i nostri prodotti, inventando un gran numero di ragioni false.  Esempio: io provengo da uno stato che è il primo produttore mondiale di “aguacate” (conosciuto anche come “avocado”, ndr), frutto cui, per molti anni, gli Stati Uniti hanno vietato l’ingresso nel paese, argomentando che, negli anni Cinquanta, esso aveva una malattia, che però già dagli anni Settanta è stata sradicata.            La malattia non esiste più ma soltanto pochi stati degli Usa (13 in tutto) accettano il nostro aguacate. Come interpretare tutto questo? Ci sono una serie di requisiti che loro violano con estrema facilità. Ci mandano latte in cattivo stato di conservazione, prodotti scaduti ecc. Abbiamo dovuto chiudere le industrie zuccheriere del paese perché siamo obbligati a comprare da loro glucosio per l’industria delle bibite. Senza alcun dubbio di tutto questo è colpevole il nostro governo che si piega molto facilmente a tutte le loro richieste e nel contempo non è capace di difendere i nostri prodotti sul loro mercato. In altre parole, noi lasciamo entrare tutto senza guardare la qualità, mentre loro esigono da noi l’adempimento di ogni minima cosa».

Il Nafta ha causato la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli, mandando in rovina circa 2 milioni di contadini messicani. Oggi a che punto è la questione agraria?
«Altro tema complesso. Da tempo immemorabile non esiste una politica di aiuto all’agricoltura. Ci sono stati soltanto inganni e programmi inefficienti da cui derivano benefici per pochissimi. Come risultato si sono verificate grandi migrazioni verso le città, da dove poi molto difficilmente i contadini ritoeranno alle loro terre.
Anche perché molti agricoltori, per sopravvivere, hanno svenduto. Così pochi “furbi” si sono andati arricchendo con le loro terre, costituendo grandi estensioni e guadagnando con produzioni vantaggiose,  sempre e comunque per un beneficio personale».

Miliardari e nullatenenti:
è giusto così?

Per molti messicani gli Stati Uniti sono il paradiso da raggiungere a qualsiasi costo. Perché?
«Sappiamo perfettamente che il problema della migrazione è un problema di mancanza di impiego e di opportunità nel nostro paese. E non è solamente la gente semplice e senza studi che va in cerca del “sogno americano”. Allo stesso tempo abbiamo una grande fuga di cervelli, i quali trovano l’opportunità di progredire con l’aiuto del governo gringo, che li incentiva a progredire nel proprio campo.  Per i nostri contadini c’è invece un impiego che li aiuta perlomeno a coprire le loro necessità basilari: non va dimenticato che gli Stati Uniti necessitano sempre di molta manodopera.
Fox, che si professa grande amico di Bush, non ha ottenuto alcuna concessione in tema migratorio. Hanno fatto molto di più i nostri connazionali illegali che, come sappiamo, attraverso manifestazioni multitudinarie (come quelle del 2 maggio, ndr) stanno obbligando il governo di Bush a discutere sulla questione e a legalizzare un buon numero di essi. Tutto questo, però, comporta costi molto alti: le retate quotidiane della polizia statunitense per deportare migliaia di indocumentati; il famoso muro della vergogna, tanto discusso ecc. ecc.».

Come porre un freno alla fuga verso il Nord?
«Un primo freno alla migrazione ci sarà quando il Messico sarà in grado di offrire migliori opportunità alla sua gente, a tutti i livelli, nei campi del lavoro, della sanità, dell’istruzione, dell’economia, ecc.».

Secondo la rivista statunitense Forbes, il messicano Carlos Slim Helu è il terzo uomo più ricco del mondo. A parte Slim, in Messico ci sono molte famiglie tra le più ricche del pianeta. Il fenomeno della concentrazione della ricchezza in pochissime mani è tuttora vigente? 
«Il tema della giustizia sociale è una questione pendente che il Messico non sa come risolvere. La storia del signor Carlos Slim è molto emblematica per capire anche gli altri grandi ricchi del paese: Slim “compera” dal suo amico, il presidente Carlos Salinas, l’impresa telefonica di stato (Teléfonos de México, cfr. Glossario) per pochi milioni, un investimento che recupera a tempo di record in alcuni mesi, aumentando le tariffe del servizio telefonico senza alcun controllo del governo, senza che la gente possa reclamare per le alte spese delle sue bollette telefoniche. Il signor Slim cresce come panna montata nel mondo della finanza, comprando a destra e a sinistra imprese ed aumentando i poveri del paese. Questo caso illumina un po’ quello che è successo a molti altri milionari del paese. Ad esempio, il signor Ricardo Salinas Pliego, che ha comprato la televisione di stato (Imevision) per una cifra irrisoria e ora è tra i cinque uomini più ricchi del Messico».

Padre Gabriel, secondo lei esiste un’economia che si possa definire etica?
«Siamo davanti ad una economia senza Dio o  meglio l’unico dio riconosciuto è il denaro. No, l’economia manca completamente di etica. Ma la cosa più drammatica è il silenzio dei nostri pastori davanti alla situazione e la loro amicizia complice con molti di quegli impresari (la maggioranza dei quali si dice cattolica), che pagano salari ingiusti e miserabili ai loro dipendenti».

La condizione femminile
e il caso di Ciudad Juárez

In Messico, il machismo è ancora molto diffuso? L’uomo medio messicano come si comporta con la moglie, i figli, ecc.?
«Per fortuna le cose sono cambiate per il meglio in questo aspetto. L’accesso all’istruzione ha agevolato molto questo cambio.  I mezzi di comunicazione inoltre hanno fatto conoscere i diritti fondamentali della persona umana. La stessa chiesa ha mutato la sua predicazione  in cui si evidenziavano la sottomissione della donna all’uomo, l’uomo come unico capo della famiglia e cose di questo genere.  Ha favorito il cambio il fatto che la donna abbia più opportunità sia nel campo dell’istruzione che in quello del  lavoro.  Da ultimo, il cambio è venuto dai figli i quali, come sappiamo, hanno oggi molti altri “educatori” e questo significa che i loro genitori non hanno più l’ultima parola, cosicché occorre negoziare su molte cose». 

Dunque, la condizione delle donne è migliorata rispetto al passato?
«Oggi per loro ci sono più opportunità. I genitori sono più coscienti che debbono mandare a scuola tanto il maschio come la femmina. C’è una competizione aperta nel campo lavorativo. Oserei dire che nelle grandi città sono più le donne che concludono i corsi universitari rispetto agli uomini.
Oggi la donna sposata non ha tanti figli come anteriormente. In media, ha dai 2 ai 3 figli, mentre dobbiamo ricordarci che, fino a 20 o 30 anni fa, per una famiglia la normalità erano 8 o 10 figli.  Infine, non va dimenticato il numero sempre maggiore di donne non sposate».

Se la condizione femminile è migliorata, allora come spiegare il caso di Ciudad Juárez (cfr. Glossario)?
«Il caso delle donne assassinate a Ciudad Juárez è un caso unico e tuttora non risolto, anche perché si vede poca volontà di risolverlo da parte dei vari governi. Ci sono varie ipotesi al riguardo:  alcuni correlano il fenomeno al narcotraffico, altri ad alcuni gruppi di assassini seriali provenienti dagli Stati Uniti, altri ancora alla normale violenza contro le donne in questa città. Non va dimenticato che la grande maggioranza delle donne uccise provenivano da altri stati ed erano arrivate in questo posto di frontiera in cerca di lavoro». 

Agli indios del Chiapas
non basta Marcos

In Messico, ci sono 56 gruppi indigeni, che rappresentano circa il 25-30 per cento della popolazione totale. Gli indios del Chiapas sono i più noti perché si sono ribellati alla loro condizione. Che ne pensa, padre?
«I governi di tuo hanno fatto poco per la popolazione indigena. Questa rappresenta quella parte della popolazione messicana che manca anche dell’indispensabile. Il Chiapas è uno degli stati messicani più dimenticati.  Il governo di Fox non ha fatto niente per superare questa dimenticanza, anzi ha mostrato una notevole indifferenza. Gli stessi mezzi di comunicazione si sono alleati al governo per parlare poco di questa situazione di povertà estrema, secondo  la regola per cui ciò che non apporta voti non è di interesse per il governo.  Per tutte queste ragioni sono più che giustificate le proteste che sono state fatte in Chiapas.  In tutta sincerità io credo che c’è più interesse ed informazione all’esterno del Messico che all’interno e ciò dovrebbe far vergognare i messicani.  Credo inoltre che con la partenza di mons. Samuel Ruiz dal Chiapas siano venute meno molte delle voci a favore degli indigeni di questa zona del Messico».

È rimasto il subcomandante Marcos, che in Italia è sempre molto famoso…
«Marcos ha compiuto alcuni gravi errori in questo sestennio e ciò ha prodotto molta indifferenza da parte di un buon numero di simpatizzanti.  Fox lo annullava con la sua mancanza di dialogo e la sua indifferenza.  Quando egli affermava che in 15 minuti avrebbe potuto risolvere il caso del Chiapas, non voleva dire altra cosa se non che la migliore arma per annullare Marcos era di non prestare attenzione ai suoi reclami. Tutto questo va letto assieme a certe dichiarazioni di Marcos, per esempio a favore dell’Eta spagnola o contro lo stesso Obrador… Ci sono, infine, i malpensanti i quali affermano che Marcos si è venduto al governo di Fox come dimostrerebbe il silenzio che egli ha tenuto durante questi ultimi sei anni. Un silenzio che gli è valso la totale dimenticanza di gran parte della popolazione».

La chiesa, le sètte,
i legionari di Cristo

Qual è l’importanza della religione in Messico?
«Continua ad essere motivo di unità nel paese. Senza dubbio però non c’è una profonda evangelizzazione nella nostra gente. La rottura tra fede e vita fa sì che tutta questa serie di ingiustizie che caratterizzano il Messico vengano giustificate. Ci sono narcotrafficanti cattolicissimi che da un lato ammazzano, dall’altro presenziano alla messa domenicale e sono i principali benefattori della chiesa. D’altra parte, sempre a causa di questa evangelizzazione rachitica, la gente umile si sposta facilmente verso altre religioni oppure frequenta altri  riti o ancora sviluppa riti sincretici o combina la sua fede cattolica con esoterismi senza alcun problema di coscienza.
Adesso, qui in Messico, è di moda il culto della “santa morte” (cfr. Glossa-
rio), devozione nata tra i narcotrafficanti e i ladroni che sta causando grossi problemi alla chiesa cattolica. Non di meno la maggioranza dei suoi seguaci si dice cattolica».  

In Messico, ci sono molti istituti missionari. Come operano? Sono in accordo con la gerarchia cattolica del paese?
«Generalmente in Messico gli istituti missionari lavorano nelle situazioni di frontiera, tra gli indigeni soprattutto. In molte diocesi noi siamo semplicemente tollerati, quasi mai valorizzati dai vescovi che sempre ci vedono come un pericolo a livello vocazionale (cioè temono che possiamo sottrargli candidati) e a livello economico. Attualmente c’è un fiorire di vocazioni diocesane ma non di vocazioni missionarie perché, come spiegato anteriormente, noi non godiamo di un appoggio aperto e cosciente dei nostri prelati. Il Messico è stato l’iniziatore dei famosi congressi missionari, che ora si tengono ovunque. Senza dubbio, essi hanno suscitato euforia, ma come chiesa messicana non ci hanno portato ad assumere impegni. Abbiamo vocazioni sufficienti, ma – come suggerisce Puebla (DP 368) – non osiamo dare “dalla nostra povertà”».  

Come in tutti i paesi latinoamericani, le sètte evangeliche hanno guadagnato molti adepti. Come si spiega questo fatto?
«Come ho spiegato in precedenza, l’evangelizzazione non  è profonda, non ha messo radici, manca di testimonianze da parte di noi del clero. A ciò va aggiunta la penalizzazione della “teologia della liberazione” e delle “comunità di base”, che stavano rispondendo alle necessità dell’umile e del povero. Pertanto la gente cerca un luogo dove sia ascoltata, dove sia valorizzata come persona, dove si trovino risposte alle sue necessità come appunto facevano le comunità di base. Oggi non ci sono questi spazi all’interno della chiesa cattolica, mentre ci sono all’interno delle sètte evangeliche. Inoltre le sètte rispondono immediatamente, senza pretendere di arrivare alla coscienza dei suoi adepti. Fanno molta leva sul sentimentalismo, sulla guarigione rapida, sul miracolo. È chiaro che la gente preferisce vivere nell’inganno piuttosto che vedere la cruda realtà che caratterizza gran parte del nostro paese».

Il Messico è la patria dei «Legionari di Cristo» (cfr. Glossario) di padre Marcial Maciel Degollado. Può spiegarci qualcosa su di loro?
«Sono nati per influire sul potere, nello stile dell’Opus Dei durante la Spagna franchista. Hanno metodi similari. Però noi sappiamo bene che il potere è una “croce dalla quale nessuno vuole scendere”. Credo che i Legionari, invece di influenzare le classi politiche evangelizzandole, abbiano preso gusto al potere e si siano accomodati lì, secondo lo stile dei potenti, con i benefici che essi possono ottenere.
Stanno aprendo collegi e università per le élite del paese, rafforzando quella coscienza di classe secondo la quale i loro figli sono migliori di tutti gli altri e di conseguenza meritano una istruzione a parte, senza coinvolgimenti con le altre classi sociali.
In sintesi, i Legionari hanno saputo adattare il vangelo al ricco e in cambio hanno ottenuto grandi benefici economici e di status nella società messicana». 

Paolo Moiola

Glossario messicano
Parole e personaggi per orientarsi nel paese latino

Calderón, Felipe: è il contestato successore di Vicente Fox alla guida del Messico. Come Fox appartiene al Pan. Nelle elezioni del 2 luglio 2006, ha vinto con il 35,9 per cento dei voti.

Ciudad Juárez: città nello stato di Chihuahua, al confine con gli Usa. Divenuta famosa perché, in pochi anni, circa 400 giovani donne vi sono state rapite, stuprate, torturate ed uccise. Le indagini non hanno mai portato ad una soluzione, anche a causa dello scarso impegno delle autorità locali e del governo messicano.

Emigrazione: le rimesse degli emigrati costituiscono la seconda voce nel Pil messicano, dopo il petrolio.

Fox Quesada, Vicente: è stato responsabile della Coca-Cola Company per il Messico e l’America Latina. Nel 2000 è divenuto il primo presidente messicano non appartenente al Pri.

Helu, Carlos Slim: nel 1990 il presidente Carlos Salinas de Gortari decise la privatizzazione della compagnia statale Teléfonos de México. Slim la acquistò per una cifra eccezionalmente bassa (suscitando molte polemiche). Oggi, secondo la classifica stilata annualmente dalla rivista statunitense Forbes (www.forbes.com), il magnate messicano della telefonia (Telmex) è al terzo posto tra gli uomini più ricchi del pianeta (23,8 miliardi di dollari nel 2005).

Legión de Cristo: congregazione religiosa fondata nel 1941 dal sacerdote messicano Marcial Maciel Degollado. Conta più di 650 sacerdoti e 2.500 seminaristi. Ha proprie sedi in 18 paesi. Il fondatore, padre Degollado, accusato di svariati abusi sessuali, nel maggio 2006 è stato invitato dalla Santa Sede a lasciare gli incarichi pubblici e a svolgere una vita di preghiera e penitenza.

Marcos, subcomandante: leader dell’«Esercito zapatista di liberazione nazionale» (Ezln), che dal 1994 combatte per la dignità del Chiapas, stato meridionale a maggioranza maya, molto povero, ma ricco di riserve di petrolio e gas.

Maquilas: fabbriche che lavorano, con contratti di subappalto, per gruppi industriali stranieri. Il termine «maquila» viene dal verbo spagnolo maquilar; significa, per il mugnaio, prendere per sé una parte della farina macinata in cambio dell’utilizzo del mulino concesso al contadino.

Muro: si estende per 120 chilometri sulla frontiera con la Califoia; ad ottobre 2006, il presidente Bush ha firmato la legge che finanzia un nuovo tratto di muro per 1.125 chilometri. Ogni anno circa 450 mila messicani attraversano illegalmente il confine tra Messico e Stati Uniti, una frontiera di 3.200 chilometri.

Nafta: è il «Trattato nordamericano di libero scambio» tra Stati Uniti, Canada e Messico entrato in vigore il 1.º gennaio 1994.

Obrador, Andrés Manuel López: detto Amlo (dalle lettere iniziali del suo nome), è stato governatore del distretto federale di Città del Messico dal 2000 al 2005, quando si è dimesso per concorrere alle presidenziali. Secondo i dati ufficiali (sempre contestati), avrebbe perso le elezioni avendo ottenuto il 35,3 per cento contro il 35,9 di Calderón.

Pemex: compagnia petrolifera di stato. Attraverso il sindacato degli impiegati della compagnia ha spesso finanziato illegalmente con milioni di dollari il Pri.

Pan, Partito d’azione nazionale: è il partito conservatore, che ha rotto l’egemonia del Pri.

Prd, Partito della rivoluzione democratica: è il principale partito della sinistra.

Pri, Partito rivoluzionario istituzionale: al potere ininterrottamente dal 1929 al 2000, quando è stato sconfitto da Vicente Fox, candidato del Pan.

Santa Muerte: figura santa messicana, non riconosciuta dalla chiesa cattolica. È venerata soprattutto da criminali, narcotrafficanti, truffatori, poliziotti.

Televisa: è una delle più grandi e potenti reti televisive di lingua spagnola; si autodefinisce «el Canal de las Estrellas» (www.televisa.com.mx).

Tv Azteca: la seconda televisione privata del paese. È nata nel 1993 in seguito alla (controversa) privatizzazione di Imevisión, la televisione pubblica messicana. Il suo principale azionista è il miliardario Ricardo Salinas Pliego.                                                

  Paolo Moiola

Paolo Moiola




Ripensare… l’Africa

Paese tra i più piccoli dell’Africa, disastrato da 38 anni di dittatura di Gnassimgbé Eyadéma, nazione composta di 37 etnie, società dominata da feticci e fattucchieri… Il Togo rimane un enigma, anche dopo aver visto e ascoltato le testimonianze di alcuni missionari, impegnati nel dare speranza a una popolazione stremata, e delle suore di San Gaetano, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri.

Ritoo dall’Africa occidentale. Una terra rossa, nera, cupa, un cuore di tenebra. La gente è fiera e scontrosa, chiusa in un mondo arcaico e lontano, impenetrabile.
Ho visitato Togo e Benin, due paesi che si affacciano sull’Atlantico, sul litorale conosciuto come "costa degli schiavi". L’oceano che la bagna fa paura, non si può avvicinare: le onde sono enormi, le risacche e le correnti impietose. Altri pericoli sono gli insetti, serpenti, malaria.
Si nasce e si muore molto in Africa. I funerali sono belli, grandiosi: si balla e si canta, con gli abiti della festa, ma solo se a morire è un anziano. Il giovane colpito dal male è ritenuto vittima di una maledizione. Tutti temono l’incidente, che sarebbe prova di disgrazia presso il divino. Gli spiriti sono potenti, onnipresenti, e fanno da tramite tra umani e creatore, innominato e invisibile.
Qui, più che nel resto del continente, si viene presi dall’inquietudine. I feticci sono agli incroci dei sentirneri, dentro gli alberi giganteschi, davanti alle capanne di fango.
Il mito si succhia col sangue della madre, dicono, e le madri africane sono forti, fiere. Devono esserlo, perché tutto dipende da loro: lavorano, trasportano pesi sul capo, vendono nei mercati, sempre col piccolo legato sul dorso, col capo penzoloni.
Le bambine di pochi mesi hanno già gli orecchini e minuscoli bracciali. Ti guardano con uno sguardo profondo, maturo. Pare sappiano già tutto sul loro destino e appena possono cercano la tetta matea per consolarsi.
Bambini con la zappa sulla spalla, che partono all’alba per i campi e ritornano la sera. Non ci sono macchine agricole in Togo. Ci sono loro, cui è negata la scuola e l’assistenza sanitaria. Ridono, se li fotografo.
Il viaggio
Dopo lo scalo ad Abidjan, ci ritroviamo in pochi sul volo da Parigi. Sono iniziate le vacanze, ma evidentemente a nessuno interessa venire in Togo. Katia è una signora di Padova che vive in Africa da 20 anni. "A febbraio è morto il presidente Eyadéma e per tre mesi abbiamo avuto gravi disordini – mi spiega -. Giovani scatenati sotto l’effetto di droghe terrorizzavano, uccidevano e saccheggiavano le case. Il console era partito per l’Italia senza avvertire la nostra piccola comunità. Un amico mi ha chiamato per dirmi di correre a casa con quante più provviste possibili e non muovermi".
Katia ama l’Africa e ha deciso di impiantarvi un’azienda che importa dall’Italia vecchi macchinari industriali, buoni per avviare attività in questi paesi ancora molto arretrati. "Abbiamo fatto arrivare le macchine per far mattoni; qui li fanno ancora a mano" mi spiega e pare orgogliosa del fatto che anche il figlio lavora con lei e ha allargato l’attività a molti altri paesi africani.
Lomé
La mattina sono svegliata dal grido sinistro di migliaia di pipistrelli. Apro la finestra e il paesaggio che vedo è sconfortante: tristi edifici in cemento emergono dal verde dei parchi; il cielo grigio è oscurato dagli sgradevoli animali.
A colazione incontro solo militari francesi in divisa mimetica, tra i quali noto anche una donna robusta, in calzoni corti come i compagni. "Siamo qui per i problemi in Costa d’Avorio" mi dice per rassicurarmi.
Gli unici senza divisa sono due grassi cinesi, che fumano e si riempiono il piatto di salsicce. La guardia all’ingresso mi sconsiglia di uscire verso la spiaggia, può essere pericoloso. Cerco allora un autista, che in un’ora mi porterà ad Anfoin, dalle suore di San Gaetano.
Lasciamo la capitale attraversando un vasto mercato; poi superiamo il porto, con lunghe file di containers. Lo hanno venduto a stranieri; di stranieri sono i capannoni industriali che stanno sorgendo lungo la strada costiera.
Olandesi, francesi, anche italiani, ma i più ricchi sono i libanesi, da sempre presenti in Africa occidentale. Pare siano anche molto arroganti; ma da sempre sono loro a provvedere agli approvvigionamenti in questi paesi disastrati.
La missione è immersa in un giardino bellissimo di fiori e frutta. Vengo accolta dalla superiora della piccola comunità, suor Natalina, che è infermiera e responsabile del dispensario. Con lei farò le prime visite e ascolterò i consigli utili per il viaggio che da qui mi porterà nel nord.
VENTO
L’harmattan è un vento carico di polvere, che sfuma i contorni delle cose e rende il sole pallido. Dopo tre mesi di siccità, questo vento sta prosciugando la terra. Solo la manioca resiste. Le folate dovrebbero portare sollievo dall’afa, ma mi rendo conto che il sudore continua a bagnare la camicia, anche se resto immobile. Il viaggio è duro, su strade polverose, attraverso villaggi dove la vita degli abitanti è rimasta a livelli primordiali.
Prima di partire sapevo che avrei visitato l’Africa dell’animismo e che la popolazione, pur aderendo ormai al cristianesimo o all’islam, non ha abbandonato il credo degli antenati. L’idea del sacro insito in ogni cosa, albero, roccia, fiume, mi affascina. Così percorro queste strade cercando di cogliee gli aspetti.
Quassù nel nord non riesco a dormire; qualcosa di profondo mi turba: il paesaggio è arido, punteggiato da grandi alberi e denuncia uno sfruttamento antico delle foreste. La pastorizia è ancora praticata dai peul, gente fiera e bella, venuta da lontano, che vive spostandosi continuamente alla ricerca di nuovi pascoli. Poi i tatasumba, con i loro castelli d’argilla, che cercano di uscire dalla loro arretratezza.
Ovunque sono presenti i feticci e i feticheurs, uomini dai poteri magici, che sovrintendono la vita delle comunità. Incontro anche alcuni giovani che vanno a scuola e, specialmente le ragazze, che desiderano un’altra vita.
Missione
Ritoo nella missione di Anfoin e comincio a capire. "Noi suore abbiamo imparato molto da un’anziana donna, ora defunta – mi dice suor Natalina -. I suoi insegnamenti saggi, di grande rispetto per la vita, hanno influenzato e segnato la vita della famiglia e della comunità. Era animista, ma era una santa donna".
Questi sono paesi di grandi, antiche civiltà, che a contatto con gli europei hanno subito lo scardinamento sociale. C’era una forma di governo che si fondava sulla scelta della persona più idonea, fatta dal consiglio dei saggi. Gli inglesi hanno imposto un loro uomo di fiducia, che facesse i loro interessi, inviso alla popolazione, ma scelto tra gli abitanti. I francesi, invece, hanno governato direttamente i territori, sfruttandoli senza scrupoli. Anche oggi lo fanno, tramite i corrotti capi di stato che sostengono, anche con le armi.
La mattina padre Coelio celebra la messa. Alto, pelle scurissima, le sue poche parole di commento al vangelo mi commuovono. Poi incomincia la giornata di lavoro.
Suor Luciana è una marchigiana energica e positiva, arrivata in Benin tanti anni fa, dopo una lunga esperienza missionaria in Brasile. Suor Luciana trova molta soddisfazione nella cura dell’orto e del giardino. "Non posso più fare a meno di questo paese – mi confida – il caldo, il senso di libertà… Quando mi chiamarono a Torino, per due anni in casa madre con le sorelle cieche, mi pareva di essere in prigione".
Quando deve uscire dalla missione suor Luciana indossa un pareo sopra la veste bianca e si fa sempre accompagnare da un africano. Ciò risolve molti problemi, nei mercati così caotici, dove il francese non è molto conosciuto. Innocent è uno degli uomini di fiducia della missione e in questo periodo ha grandi preoccupazioni. La moglie, incinta del terzo figlio, è stata messa in un convento di feticheuses dalla sua mamma. Ora vorrebbe ritornare, ma Innocent non potrà più accoglierla in casa.
La più anziana del gruppo è suor Adolfa, una vera roccia, che sa gestire le proprie forze in questo paese dal clima impietoso. "In Brasile, dove ho lavorato per 19 anni prima di arrivare in Africa, le cose erano più semplici, per via della lingua comune a tutti". Adolfa mi spiega che qui a volte non ci si capisce da un villaggio all’altro.
Suor Anna è un tesoro di cuoca. Sa che dipende anche da lei la salute della comunità. Qui ci si ammala e si muore improvvisamente, come è capitato la scorsa estate, quando una consorella cadde ammalata e morì in poco tempo, pare per un blocco renale. Nell’orto si coltivano manioca, melanzane, banane, mais e frutta. Poi ci sono le galline, per le uova fresche. Alle palme da olio mature è stata praticata un’incisione, da cui fuoriesce un succo che beviamo a tavola, come vino. Fermentando, produce la soda B, una specie di acquavite, amata dai locali.
A tavola si conversa e vengo a sapere tante cose. In questa natura forte, primordiale, noi non potremmo sopravvivere, con tutte le nostre conoscenze e la nostra supponenza. La gente è molto abile nel catturare i serpenti velenosi, mentre rispetta i pitoni sacri, che non uccidono. I serpenti si possono nascondere nelle case o sugli alberi e sono sottili, invisibili. Prima di avvicinarsi a un albero e salire sui rami, l’africano getta un pugno di terra. Per farsi la casa scava una buca e ne lavora la terra, con cui costruirà i muri; poi la buca si riempirà, durante le piogge, evitando che il terreno dilavato danneggi i muri.
Corale
L’Africa può cambiare una vita. Non sarò più la stessa dopo aver mangiato questa polvere, aver udito queste voci.
Si sono seduti in circolo, ora. Stanno solo accordando le voci e stonano anche. La notte è fuori e ci avvolge. Siamo nel gazebo della corale e ho accanto i due piccoli al tamburo. Questa sera mi pare si canti meglio del solito. I ragazzi erano venuti a dirmelo nel pomeriggio, che ci sarebbero state le prove.
Oggi si è presentata in missione una giovane in carrozzella. Era in lacrime. Pare sia stata scacciata dalla sorella, che l’accudisce da quando, bambina, è stata colpita dalla polio: non la vuole più e le ha anche preso i soldi ricevuti per pagare il corso da parrucchiera.
Suor Luciana controlla, la ragazza è nell’elenco degli handicappati seguiti dalla missione. Prima di tutto carichiamo la giovane sul mototaxi per riportarla a casa, e le diamo 2.000 franchi (Cfa) per il vicino, che la assisterà nei prossimi giorni. Poi suor Luciana decide di portare la carrozzella dal meccanico: è tutta rotta e arrugginita, la faremo riveiciare. Emergenze ce ne sono sempre e le suore si organizzano; con calma cercano una soluzione a tanti problemi.
Padre Roberto
Padre Elio è un personaggio vulcanico, pieno di iniziative e col piglio deciso dei comboniani. Dopo aver diretto per qualche anno la rivista Nigrizia, ha fondato Radio Speranza, che trasmette dalla sua parrocchia, a 30 km da Anfoin. Sono ospiti in questi giorni un missionario spagnolo molto simpatico e un veronese dall’aspetto triste e sofferente. Quest’ultimo mi pare critico nei confronti di un confratello molto conosciuto nel paese e stimato per la sua profonda conoscenza del Togo e della sua gente.
È Roberto Pazzi, un missionario che ha fatto una scelta radicale: vivere da eremita nell’arida brousse, in una capanna di paglia come un africano, contando solo sulle proprie forze e su ciò che produce la terra.
Suor Luciana me lo farà conoscere, perché è a lui che le suore di Anfoin si confidano.
Il terreno per il romitaggio è stato concesso dalla diocesi, che ne è proprietaria. Si arriva percorrendo una pista tra palme da olio e campi di manioca. Superata la fontana artesiana, ora a secco, proseguiamo a piedi lungo uno stretto sentirnero e sostiamo davanti alla cappella di fango secco col tetto di paglia. Il crocefisso è fatto con due bastoni di legno incrociati e legati.
Siamo accolti da un’anziana suora, Marie Jeanne. Capo rasato, i piedi scalzi, vestita con un abito-grembiule a fiorellini, mi indica il lusso della sua capanna: il pavimento di cemento. Poi con un sorriso invita suor Luciana, sua cara amica, a visite più frequenti dicendo: "Jamais trop loine la maison d’une amie" (mai troppo lontana la casa di un’amica), uno dei tanti proverbi di questa gente d’Africa, che ha una saggezza antica, impermeabile alle nostre critiche e giudizi affrettati.
Suor Marie Jeanne ha lavorato per anni come infermiera in Togo; ma quando la sua congregazione ha lasciato il paese, ha scelto di restare, per condividere la scelta di padre Roberto.
Non ha certo l’aspetto macilento e sofferente dell’eremita questo comboniano: il fisico robusto, non dimostra i suoi 70 anni; lo sguardo è vivo e sorridente. Mi riceve tra i libri e le carte del suo rifugio: una povera capanna di paglia, meta da anni di tanti visitatori. Lo lascio parlare, dopo 40 anni di vita africana, di cose da dire ne ha molte. Quando suor Luciana mi chiama, mi rendo conto che sono già passate due ore.
Cosa mi ha detto? Forse quello che volevo sentirgli dire. Il rispetto per il paese e la sua gente; la forza della terra e di antiche credenze; Dio creatore e le forze che interagiscono con gli uomini; il vudù come mezzo per avvicinare il divino; la lotta tra il bene e il male; l’intervento dell’uomo bianco con i suoi pregiudizi; gli errori degli aiuti, che si inviano a fin di bene. Come si può adottare a distanza un bambino, che avrà scuola e libri, vestiti e sussidi? E gli altri del villaggio o della sua stessa famiglia? Bisogna ripensare i nostri interventi in Africa e mi sembra che lo si stia già facendo.
Padre Roberto arrivò in Africa 40 anni fa. Durante la Seconda guerra mondiale, da Milano la sua famiglia era sfollata nella campagna di Como, dove Roberto conobbe un padre comboniano e incominciò a sognare l’Africa. Dopo la consacrazione fu inviato missionario in Togo, allora paese modello che, dopo la fine del protettorato tedesco si era ridotto di dimensioni, mantenendo però una solida struttura.
"Anche oggi, gli aiuti che arrivano dalla Germania sono i più intelligenti, mirati allo sviluppo e alla crescita del paese" spiega padre Roberto, che ha occhi che brillano e un sorriso giovane, aperto, con l’unico incisivo rimastogli in bocca. Scalzo, ha un piede bendato alla belle meglio, il segno violaceo di una contusione sotto il ginocchio.
"Noi non possiamo capire l’africano, che non si aprirà mai a un occidentale" mi ripete padre Roberto. Rimane l’enigma e mi torna in mente una frase emblematica, letta su un recente numero di National Geographic: "Qualsiasi cosa tu abbia pensato dell’Africa, pensaci ancora".

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Sabbie mobili nel nord Mali

Armi leggere, droga e transito di immigrati. Questi i traffici della regione desertica di Kidal. Ma soprattutto milioni di dollari d’investimento per cercare il petrolio. Un tenente colonnello tuareg diserta e si dà alla macchia. Poi attacca l’esercito regolare e si ritira tra le dune. Ecco come 100 uomini riescono a intavolare negoziati inteazionali con il governo. In un paese tra i più poveri del mondo.

Bamako. Un’unica strada collega il sud con il nord del Mali. Una striscia di asfalto, molle gran parte dell’anno a causa del caldo infeale, così dritta che pare tracciata con il righello. Lascia il fiume Niger a Bamako, la capitale, per ritrovarlo a Gao, 1200 km dopo. Ma il contesto è cambiato: dal clima saheliano parzialmente umido, passando dal semi arido si è arrivati al deserto; dai popoli neri bambarà, dogon e altri ancora, siamo arrivati nella terra dei tamasheq, meglio noti in Occidente come tuareg, e i loro schiavi bellà.
Questo asfalto ha visto intensificarsi il traffico dopo il 23 maggio scorso. E non di mezzi qualsiasi, ma di blindati e camion militari carichi di truppe. Vanno nelle regioni del nord: Gao, Kidal, Menaka. Da quel giorno, infatti, sembra si sia risvegliata la ribellione tuareg, che aveva insanguinato l’area (estendendosi anche in Niger) agli inizi degli anni ’90.
Il capo tradizionale tuareg, e tenente colonnello Hassan Fagaga, si era già lamentato a fine 2005 con il presidente della repubblica, Amadou Toumani Touré (chiamato popolarmente Att). Secondo lui, gli accordi del ’92 non erano stati rispettati. Le promesse di Att non gli bastano e così a febbraio Fagaga diserta con alcune decine di uomini e si rifugia nelle dune a nord di Kidal. È il suo gruppo che all’alba del 23 maggio attacca due campi militari a Kidal, facendo 6 morti e numerosi feriti e prendendo la città in ostaggio. Nelle stesse ore, il capitano Moussa Bah, comandante di una base a Menaka (località 300 km ad est di Gao), attacca la sua stessa caserma e svuota l’arsenale. Sono passate due settimane da un approvvigionamento dei magazzini dell’esercito in armi leggere e 12 giorni dalla visita del capo di stato a Timbuctù (Tombouctou), dove ha lanciato il gigantesco "Programma d’investimento per lo sviluppo delle regioni del nord" (Pidrin): quasi 26 milioni di euro.
Il Mali è uno dei paesi più poveri del mondo, con il Pil pro capite medio di 370 dollari, la speranza di vita ferma a 41 anni e il tasso di scolarizzazione al 32%. Non si muove dagli ultimi posti (174 su 177) della classifica di sviluppo umano dell’Onu. I maggiori prodotti di esportazione sono l’oro, (che comunque vede una diminuzione della produzione) e il cotone. Quest’ultimo sebbene in aumento come quantità (il Mali è il primo produttore africano) è penalizzato dal corso dei prezzi sul mercato mondiale, in particolare dalle sovvenzioni all’esportazione dei paesi industrializzati.

Senza fissa dimora

Le popolazioni tamasheq, di origine berbera, non hanno mai accettato i confini degli stati. Sono presenti in diversi paesi sahariani (oltre al Mali, Mauritania, Niger, Algeria, Libia), ma quelle che contano sono le grandi famiglie e i loro capi tradizionali. Sono popoli nomadi, che ieri si spostavano con i cammelli e oggi vogliono continuare a farlo con le 4×4 e il telefono satellitare. Abituati a un ambiente estremo, spesso sono armati, e il loro stile di vita è molto diverso da quello dei neri, che utilizzano anche come servi. Nel nord del Mali le famiglie dell’Azawad iniziarono nel 1990 la ribellione armata che vide una tregua negoziata nel 1992, con la mediazione dell’Algeria. La vera fine della guerra fu sancita a Timbuctù, mitica città nel deserto, nel marzo 1996, dalla cerimonia della "fiamma della pace", quando l’arsenale ribelle fu bruciato. Integrazione delle milizie nell’esercito regolare, maggiore autonomia per le regioni del nord e, soprattutto, investimenti per lo sviluppo sono i principali contenuti dell’accordo. Ma nel 2000 il capo tuareg Ibrahim Ag Bahanga non è soddisfatto. Secondo lui gli impegni dello stato non sono stati onorati, diserta e si dà alla macchia. Attacca una postazione dell’esercito e fa ostaggi. L’ambasciatore d’Algeria media e ottiene soddisfazioni delle rivendicazioni del capo, anche molto personalistiche (come lo statuto di comune per il suo villaggio natale).

Militare e democratico

Amadou Toumani Touré, è presidente della repubblica dal maggio 2002, quando fu eletto democraticamente. Da allora, il suo governo non ha una vera opposizione, in quanto tutti i maggiori partiti lo hanno sostenuto. Att aveva già preso il potere con un colpo di stato militare nel 1991, per mettere fine alla dittatura di Moussa Traoré, durata, sotto forme diverse, dal 1968. Si apprestò a preparare una transizione civile, e un anno dopo fu eletto Alpha Oumar Konaré (attuale presidente della commissione dell’Unione africana), che ottenne poi un secondo mandato. Alpha appoggiò la candidatura di Att nel 2002. Un tale panorama politico vedrà una facile rielezione di Att a maggio 2007, anche se questi non si è ancora candidato ufficialmente.
Il presidente, conosce bene la "questione" tuareg: nel ’90 comandava proprio le truppe nel nord.
Ora Fagaga accusa il governo di non aver rispettato i patti. Soprattutto quelli sull’investimento allo sviluppo. "Di fatto il nord è considerato la zona più depressa del paese – ci racconta Marco Alban, rappresentante di una Ong italiana che da anni è presente in Mali – e il governo invita tutti i grandi finanziatori a intervenirvi. Le più grosse Ong, come Oxfam, Medici senza frontiere, e agenzie dell’Onu, come il Programma alimentare mondiale, hanno progetti in queste regioni". Ma, continua, "resta comunque difficile avere un buon impatto sulle condizioni di vita a causa della vastità del territorio e della dispersione della popolazione, e ancora più complicato è misurarlo se si volesse fare una valutazione. Sono, inoltre, in corso di elaborazione studi che probabilmente ridisegneranno la mappa della povertà nazionale e indicheranno altre zone come prioritarie per i progetti di lotta contro la povertà".

Rivendicazioni che ritornano

I nuovi (ma vecchi) ribelli chiedono di essere reintegrati nell’esercito, ma senza carichi penali e, soprattutto, lo statuto speciale per la regione di Kidal, che già gode di una certa autonomia (è l’unica delle otto regioni del Mali ad avere un governatore eletto e non nominato dal governo). Questo vorrebbe dire una gestione fiscale autonoma e un miglioramento dell’accesso al voto (cosa non semplice, visto che qui si vive in poche famiglie disperse tra le dune). Att sa che se Kidal ottenesse l’autonomia la reclamerebbero anche le altre due regioni del nord: Gao e Timbuctù. E questo è un forte rischio per l’integrità nazionale. "In effetti se dividessimo il Mali all’altezza di Mopti dove c’è una specie di strozzatura sulla carta geografica – confida un osservatore internazionale – otterremmo due paesi molto diversi. Uno sahariano, desertico e l’altro saheliano – sudanese".
Capita, di questi tempi, di incontrare sul volo Bamako – Parigi energumeni un po’ grezzi, con i volti bruciati dal sole e i calzoncini corti. Parlano solo inglese, con un forte accento australiano. Non è un caso: da quando si è scoperto il petrolio in Mauritania (il primo grosso giacimento nel 2001), una mezza dozzina di compagnie petrolifere (canadesi, malesi, sud africane e soprattutto australiane) stanno investendo milioni di dollari per setacciare 800.000 chilometri quadrati di deserto maliano, prontamente diviso in lotti e dato in concessione dal governo. Con il prezzo attuale del barile di greggio le ricerche sono economicamente giustificate. Le analisi preliminari danno indici positivi, dicono gli esperti, ma al momento non ci sono certezze. Ecco perché Att, durante la sua visita a Timbuctù ha detto: "Se il petrolio sarà trovato apparterrà alla nazione intera". Di dividersi quindi, non se ne parla.

La risposta di Att

Lenta, ma solida, la risposta agli attacchi di maggio. In tre giorni blindati e truppe dell’esercito regolare sono arrivate a Gao, Kidal, Menaka. "Intoo a Gao c’è un cordone di blindati, mentre è sconsigliato, dallo stesso governatore, muoversi al di fuori della città" ci conferma una fonte sul posto. I ribelli sono fuggiti, portandosi via molte 4×4 rubate a servizi statali e a privati, e una buona quantità di armi leggere. "Il forte rischio è la militarizzazione del nord – continua – già in atto che ha come conseguenza certa il dilagare del banditismo". La gente del nord ha lasciato le città all’arrivo dell’esercito regolare (in questo caso composto prevalentemente da etnie del sud) per il timore di ritorsioni come quelle della precedente guerra, quando si era scatenata una vera caccia al tamasheq. Le popolazioni sono poi rientrate, vista la situazione calma ma permane la tensione. Il rischio di frizioni etniche è comunque reale. Anche in seno all’esercito, composto da neri e da "pelle rossa" (come sono chiamati i tuareg, dalle popolazioni del sud, a causa della loro caagione più chiara), che non si possono sopportare.
Nel resto del paese la gente vede l’ennesima ribellione come un continuo chiedere senza in realtà alcun desiderio di integrarsi nella società maliana, di far parte della nazione.
Ma la maggior parte dei tamasheq del nord hanno capito che la guerra non è la via giusta. Molti ex capi della ribellione di dieci anni fa preferiscono oggi la politica, che grazie al decentramento ha visto eleggere sindaci e consiglieri comunali tra le grandi famiglie della zona.
La società civile di Gao e Timbuctù si sta impegnando a fondo per far capire ai loro "fratelli" come questa scelta delle armi sia sbagliata. "Si sono fatte riunioni e delegazioni di associazioni vanno a Kidal dalle altre due regioni, per spiegare che in questo modo si rischia di annullare tutto quello che è stato ottenuto con le precedenti lotte" ricorda Alban. "È chiaro, d’altro lato, che se Kidal avesse lo statuto speciale, anche loro lo rivendicherebbero".

Tra Libia e Usa

Alla ricorrenza del Mouloud (nascita di Maometto) quest’anno, a Timbuctù un’imponente celebrazione è stata finanziata da Gheddafi. Con gran dispendio di risorse, mezzi e persone, la Guida (come è chiamato il leader Libico) era presente lo scorso aprile nella città detta dei 333 santi dell’Islam. Anche Att c’era, e con lui capi di stato di Senegal, Mauritania, Niger e Sierra Leone. Ma il padrone di casa ebbe un ruolo di secondo piano. Gheddafi organizzò un incontro con i capi tradizionali e chiese "l’unione sacra dei popoli del Sahara, per difendere questa terra benedetta contro gli invasori stranieri". Rilanciò l’idea di una nuova entità geopolitica: "Dobbiamo creare una Carta di Timbuctù per fare del Sahara una grande famiglia". Una sorta di stato dei popoli del deserto, di cui lui sarebbe a capo.
"Già nel 2005 si erano tenuti incontri dei leader tradizionali del Sahara in Libia". Ci racconta la nostra fonte: "Gheddafi ha anche incontrato Fagaga a Timbuctù e questo senza invitare il governo maliano". Molti vedono dunque un ruolo destabilizzante della Libia nella zona. A marzo è stato aperto un consolato libico proprio a Kidal, con l’obiettivo di seguire un investimento in sviluppo di 50 milioni di dollari. Ufficio che ha chiuso pochi giorni prima dell’attacco.
Capita, sempre in questi giorni, di vedere la notte decollare dall’aeroporto di Bamako un grosso cargo quadrimotore grigio con la scritta "Us Air Force". Nulla di strano, vista la presenza di basi Usa nel nord del Mali, nell’ambito del programma Pan-Sahel, che prevede un appoggio americano, soprattutto con istruttori, ma non solo (si parla di alcune centinaia di soldati solo in Mali), agli eserciti dei poveri paesi saheliani. Uno dei programmi di sicurezza finanziati dal Pentagono dopo gli attacchi del 2001.

Rischio inteazionalizzazione

Nella stessa zona sono in effetti presenti e organizzati Gruppi salafisti per la predicazione e il combattimento, terroristi molto attivi anche in Algeria. Furono loro a rapire 14 turisti europei nel deserto algerino nel 2003 e nasconderli in Mali.
Il rischio e la paura di molti di un’inteazionalizzazione della guerra con implicazioni Usa e paesi sahariani è remoto ma reale.
"Kidal è oggi anche l’incrocio di traffici molto redditizi: armi leggere, droga e immigrati fanno scalo nella cittadina tra le dune. E queste sono altre componenti di rischio". Racconta un osservatore.
In Niger, intanto, il presidente Mamadou Tanja, è preoccupato degli avvenimenti del vicino. Nel suo paese la presenza tamasheq è importante e la storia recente simile. A giugno invita a colloquio un ex capo della ribellione e rappresentanti degli ex combattenti. Rinnova le promesse su indennizzi e reintegrazione e vara un programma di maggior contatto tra le autorità ed ex ribelli.

Alla ricerca di una soluzione

Att vorrebbe risolvere il conflitto in casa, come una questione intea all’esercito maliano, con una mediazione diretta governo-ribelli. Ma si accorge ben presto che non è possibile, gli stessi capi tuareg chiedono un mediatore esterno. L’Algeria, già forte dell’esperienza degli anni ’90 e della risoluzione dell’incidente Ibrahim Ag Bahanga del 2000, accetta la difficile missione. Alcuni osservatori paventano l’opzione militare: "Il governo maliano ha già concesso larga autonomia, e con la decentralizzazione amministrativa il potere locale è in mano ai tamasheq. Altra cosa sarebbe lo statuto speciale che il presidente non concederà. Per questo se le posizioni dei ribelli si induriranno, il conflitto potrebbe protrarsi".
Ma è dei primi di luglio la notizia che le delegazioni governativa e ribelle, incontratesi ad Algeri, hanno firmato un accordo di massima. I tuareg rinuncierebbero allo statuto speciale, mentre il presidente Att si impegna ad aumentare ulteriormente gli investimenti allo sviluppo nelle tre regioni nel nord, (in prevalenza a Kidal), con un pacchetto di 70 milioni di euro. Impunità garantita ai disertori, che potranno reintegrare l’esercito.
Su questa strada, ai 40 gradi all’ombra che caratterizzano l’inizio della stagione delle piogge, leggiamo una scritta a grossi caratteri sulle case della cittadina di San, a 400 km dalla capitale: "L’uomo propone, Dio dispone". Una certezza questa per la gente del Mali, come certo è che la "questione tuareg" non finisce qui.

Marco Bello

Una radio da … 1.200 euro

Siamo nella città vecchia di Mopti, nei pressi del porto fluviale sul Bani, affluente del Niger. Da qui partono piroghe e barconi variopinti, carichi di gente e mercanzie per la mitica Timbuctù, più a nord, nel Sahara. Poco lontano un’antenna svetta su una casa fatiscente. Al primo piano in due stanze dall’intonaco scrostato c’è gran fermento. Ci troviamo a Radio Jamana Mopti, una delle voci più ascoltate in zona, anche dal mondo rurale.
Questa Radio fa parte della cornoperativa editoriale Jamana, che conta una decina di emittenti in tutto il paese. Jamana pubblica anche uno dei rari quotidiani del Mali, Les Echos, un mensile in lingua bambarà e libri. È il più grosso gruppo editoriale del paese e, guarda caso, fu diretto da Alpha Oumar Konaré, che divenne poi presidente della repubblica per due mandati consecutivi dal ’92 al 2002.
Radio Jamana Mopti fu creata a fine 1997, ci racconta Aliou Djim che ne è stato direttore dalla fondazione ai giorni nostri. Ora lui andrà a dirigere Radio Benkan, sempre di Jamana, a Bamako.

Promozione culturale

Aliou racconta che "la missione principale delle radio Jamana, sparse soprattutto all’interno del paese, è la promozione delle lingue e della cultura locali". Per questo, ad esempio, a Mopti Radio Jamana trasmette in sette lingue, di cui sei locali (bozo, fulfuldé, dogon, sonrahi, bambarà, tamasheq) e il francese. "Inoltre, si investe molto ad accompagnare la massa rurale in tutto quello che è lo sviluppo". Questo vuol dire, di fatto, veicolare i messaggi delle Ong e delle organizzazioni di base, che siano esse locali, nazionali o inteazionali. "Se ad esempio una Ong vuole far pervenire un messaggio in tutto il cercle (provincia, ndr) di Mopti al più gran numero di beneficiari, nello stesso momento noi realizziamo una trasmissione in più lingue". La radio si propone come supporto in comunicazione tra Ong e contadini. E vendendo questi servizi trae anche il suo sostentamento.
"La maggiore sfida attuale è assicurare la nostra perennità. Ci autofinanziamo con le prestazioni al 100%, mentre l’apporto della cornoperativa Jamana si limita all’installazione della radio e alla foitura di materiale di lavoro. Il funzionamento, come i salari, affitto, elettricità deve arrivare da qui". Un posto dove i ricavi non sono così facili, ricorda Aliou.
"Mopti ha 100 mila abitanti e 8 radio. È bene che ci sia pluralità, ma questo vuol dire che il prezzo del servizio diminuisce, quando invece i costi restano gli stessi".
Alla radio lavorano 6 persone fisse, mentre altre 20 collaborano stabilmente. Il costo mensile per farla funzionare è di circa 1.200 euro, tutto compreso.
Che obblighi avete con la cornoperativa Jamana? "Siamo autonomi in gestione ma non siamo indipendenti, apparteniamo alla cornoperativa. I nostri obblighi principali sono che la radio sopravviva. Poi c’è l’accompagnamento della popolazione, la promozione delle lingue e cultura, ecc. Lo facciamo senza problema, siamo qualificati, ma la sopravvivenza della radio ci distrae, occorre trovare i soldi necessari".

Informazione

"Diamo informazione quotidiana. Abbiamo un comitato di redazione che ricerca notizie in città, tutta l’attualità che può interessare alla popolazione. Le trattiamo e le diffondiamo in francese e in tutte le lingue locali. Siamo considerati come la radio di informazione della zona perché diamo più attualità locale. Guardiamo anche su internet quali sono le informazioni nazionali e inteazionali che possono avere incidenza sulla vita dei cittadini di Mopti e della regione. E cerchiamo di adattarle e riproporle. Ad esempio se troviamo informazioni sul pesce che è molto importante qui le trasmettiamo, per preparare i pescatori a problemi che potrebbero presentarsi".
Il direttore traccia un bilancio positivo: "Radio Jamana ha aperto un campo fertile: abbiamo lavorato in modo da dare voglia a molti di imitarci. Quando iniziammo a Mopti c’era solo la radio di stato e un’altra privata, la nostra fu la terza. Abbiamo promosso uno spazio radiofonico plurale. Abbiamo, inoltre, lavorato molto sulla pratica delle lingue che adesso si è più diffusa. Si è creato un dialogo tra la radio e la popolazione per rinforzare lingue e cultura. Trasmettiamo racconti e musica che un tempo si ascoltavano solo tra poche persone, riuscendo così a ridiffonderli.

M.B.

Marco Bello




Radio Americhe

José Carlos, Sania, Maria Helena, Alvaro: ognuno di loro con un percorso esistenziale diverso, ma con in comune la provenienza latinoamericana. Ogni domenica mattina si ritrovano in uno studio radiofonico di Torino, dove assieme conducono una (bella) trasmissione di informazione e cultura latinoamericana.
Il titolo del programma è intrigante: "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces". "Trópico" fa riferimento alla collocazione geografica di gran parte dell’America Latina, mentre l’aggettivo "utópico" vuole ricordare la voglia di sognare di molti popoli latinoamericani, quel "realismo magico" di cui si sono fatti interpreti grandi scrittori come Gabriel García Márquez, Isabel Allende, Laura Esquivel e molti altri. "Voz de tantas raíces" nasce invece da una poesia diffusa durante le ricorrenze per i 500 anni (1492-1992) dalla conquista dell’America: "En un amanecer de luchas milenarias, despierta America, canta voz de tantas raíces", "In un’alba di lotte millenarie, alzati America, sii voce di tante radici".
Anche per questo ci sarebbe piaciuto titolare questo servizio "Radio America", ma non abbiamo voluto rischiare fraintendimenti: nel mondo, "America" è quasi sempre sinonimo di "Stati Uniti". Con grande (e comprensibile) disappunto di coloro che vivono a sud degli Usa.
Nelle pagine seguenti abbiamo dato spazio alle storie autobiografiche di José Carlos, Sania, Maria Helena ed Alvaro (stranieri, anzi "extracomunitari"…!) perché – una volta tanto – c’è un lieto fine. E questo è un bel segnale di speranza, ancorché piccolo, per un’Italia che, oltre le sue leggi punitive (in primis, la Bossi-Fini), fatica a trovare una sintonia con gli immigrati.

Paolo Moiola

Radio Flash, storica radio di Torino, ogni domenica ospita una trasmissione dedicata all’America Latina. Nulla di particolare, se non fosse che
i quattro conduttori sono latinoamericani. Così, un programma radiofonico – "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces" – diventa ben più di un esempio
di integrazione. È la dimostrazione che, in un’Italia dove la convivenza tra immigrati e italiani è ancora irta di ostacoli, l’arricchimento reciproco
è auspicabile, ma soprattutto possibile.

José Carlos, dal Nicaragua

PER SUPERARE L’INDIFFERENZA

Ricordo la vecchia entrata dell’unico Mc Donald’s che c’era a Managua: un via vai di uomini con mitra semiautomatici alle spalle e bambini in braccio… Sono arrivato in Nicaragua nel 1986, proveniente da Cusco in Perù, dove sono nato, e ho trovato un paese in rivoluzione per tante cose e in guerra per molte altre… Il Nicaragua è stata la mia seconda casa, una casa sempre minacciata dalla controrivoluzione, che dal nord, dall’Honduras, dalle montagne, bombardava e bruciava i raccolti alla frontiera. Mentre in città arrivavano notizie di possibili interventi militari nordamericani, l’embargo alimentava la carestia e nei supermercati gli scaffali restavano immobili, ma sempre vuoti.
Per strada la gente si guardava negli occhi con rispetto: erano tutti complici di una sfida collettiva al padrone del cortile di casa… La guerra esalta il peggio di noi, ma allo stesso tempo può riscattare l’invisibile che abbiamo dentro: forse per questo sono diventato inevitabilmente nicaraguense.
Ho assistito alla fine della rivoluzione sandinista in concerto con la caduta del muro di Berlino. Per 10 anni il Nicaragua è rimasto sospeso nel tempo e si è ritrovato all’inizio degli anni Novanta – dopo 10 anni d’embargo -, vestito come alla fine degli anni Settanta, quando era cominciata la rivoluzione. Le macchine, le radio, gli abiti, tutto era passato di moda da un decennio quando questo piccolo paese dell’America Centrale si svegliò da un sogno di cui aveva deciso soltanto l’inizio.

Nel 2000 sono partito per l’Italia con un sacco di idee e progetti, una sindrome condivisa da tutti gli emigrati. A Torino ho fatto lo studente operaio, imballando ricambi di tutti i tipi. Per un anno, ho lavorato in un capannone della periferia torinese per una cornoperativa gestita da alcuni mafiosi, che ci pagavano una miseria mentre, soddisfatti della loro perfetta abbronzatura, si guardavano allo specchio della nuova Jaguar. Questa fabbrica assomigliava più a una maquila centroamericana, che ad una fabbrica della ricca Italia. In inverno entravo alle 5:30 "prima del sole" e a volte ci obbligavano a fare degli straordinari fino alle 16:00 quando il sole ormai se ne stava andando… In quei giorni l’unica luce che vedevo era quella che ogni tanto si rifletteva sulle scatole.
Oggi, dopo quasi 6 anni e tanti lavori diversi, sono alle prese con gli ultimi esami universitari della laurea in studi inteazionali.

Mi sono avvicinato alla radio per caso. Alvaro Duque, colombiano, mi invitò a Visión latina, la trasmissione radiofonica da lui condotta all’epoca, per presentare una mostra fotografica sulla povertà estrema che avevo visto nella discarica di Managua, la capitale nicaraguense dove ero tornato dopo anni d’assenza, insieme alle note da cui è uscito il mio primo articolo, pubblicato proprio su questa rivista nell’aprile 2005. A quella prima volta in radio, seguirono altri miei interventi in trasmissione: per parlare del Salvador e poi degli indigeni del Guatemala. E siccome non c’è 3 senza 4, un giorno Alvaro mi chiamò per offrirmi un microfono in una nuova trasmissione. Io accettai senza pensare molto ai perché: semplicemente mi sembrava fosse un’opportunità da non rifiutare. Era, allo stesso tempo, una gran responsabilità, giacché non si trattava più di cucinare pizze, bensì qualcosa di più malleabile ma anche delicato, necessario per vivere e per riflettere: l’informazione, servita con quella trasparenza che viene abitualmente calpestata dai grandi comunicatori da… "centro commerciale".
Io credo che la radio, come la carta stampata, dovrebbe essere sinonimo di comunità educativa, di educazione popolare che inviti all’autocoscienza critica e non all’indifferenza collettiva. Così, sulla base di queste convinzioni, il 26 di marzo ho iniziato a fare lo speaker nella prima puntata di "Trópico Utópico. Voz de tantas raíces".

Nello studio di Radio Flash tutte le domeniche, verso le dieci e quindici – a volte un po’ assonnati – si corre, si rilegge e si corregge quello che partirà per le onde radio: voci, parole, denuncie, improvvisazioni e molte volte agitazione, in un tutto che arriva fino alle persone che ci ascoltano.
Quando sta per finire il notiziario di radio popolare verso le 10:40 e suona la canzone dell’inizio del programma, la sensazione della prima volta entra in studio e invisibile, si siede in una vecchia poltrona che è di fronte a noi, quasi fino alla fine del programma, ma ad ogni domenica decide di andarsene prima, so che un giorno non verrà più… quando parlare in radio per me sarà diventato leggero come ascoltarla.
Durante il programma, da dietro la consolle, Alvaro ci mostra dei cartelli di colori diversi – simili a quelli dell’arbitro in una partita di calcio – con cui ci suggerisce o ci dà i tempi: invita a domandare se siamo nel corso di un’intervista e il personaggio dall’altra parte del telefono passa tutti i semafori in rosso o – come si dice in Nicaragua – "va como carreta en bajada" (va come un carretto in discesa), oppure a cercare di chiudere il discorso o il tema che stiamo trattando, se ci si avvicina "Conexão Brasil", il segmento in lingua portoghese tenuto da Sania, l’amica brasiliana nostra compagna d’avventura.
Abbiamo trovato una sorta d’equilibrio all’interno del collettivo di Trópico Utópico. Ognuno di noi quattro concepisce la comunicazione in modo diverso, ma le basi del programma si confanno bene alle nostre idee e al nostro sentire.

José Carlos Bonino

Sania, dal Brasile

PER SFATARE I LUOGHI COMUNI

Sono nata e vissuta fino a 17 anni nella piccola e tranquilla città di Laguna, nel sud del Brasile. Dei miei ricordi di quel periodo posso dire che convivevo con la tranquillità del luogo e le disparità regionali presenti nel paese, senza molte possibilità di crescita personale attraverso qualche esperienza. Solamente quando partii per Florianopolis, la capitale dello stato, per entrare all’Università (facoltà di ingegneria ambientale), uscii dal blocco mentale nel quale prima vivevo e cominciai una vita di scoperte ed esperienze positive e negative, che contribuirono alla mia formazione personale e professionale.

Nel 2005 sono venuta in Italia con l’obiettivo di conoscere una nuova cultura e fare nuove esperienze per un tempo determinato, più o meno 3 anni. Nella condizione di immigrata non ho avuto molti problemi, a parte quelli che all’inizio penso abbiano tutti: difficoltà per la lingua, trovare un lavoro d’accordo con la formazione ottenuta nel paese di origine, burocrazia nelle pratiche civili, ecc. Comunque, poiché sono facilmente adattabile alla diversità, posso dire che mi trovo bene in Italia, paese eccezionale per natura, cultura e persone.
La mia venuta in questo paese ha anche cambiato il mio rapporto personale con il Brasile. Da lontano guardo il mio paese in un modo diverso da prima, trovandolo ancora più bello e ancora più da amare.
Il Brasile, paese in via di sviluppo, vasto quanto un continente e con circa 180 milioni di abitanti, è descritto a livello internazionale come il paese del carnevale, del calcio, dell’Amazzonia e della criminalità. Però, chi lo conosce veramente, sa bene che è un paese fantastico in tanti sensi, ben oltre quelli codificati nei luoghi comuni. È certo che, a causa della sua condizione socio-economica, ci sono tanti problemi e molte cose da fare per svilupparlo in modo equanime e sostenibile. Tuttavia, dopo 500 anni dall’occupazione europea, pian piano il paese sta trovando una propria autonomia per consolidare la sua identità nel mondo.

L’opportunità di partecipare al progetto di comunicazione radiofonico di "Trópico Utópico" mi ha dato la possibilità di avvicinare Torino alla cultura brasiliana. Con la rubrica Conexão Brasil io cerco di trasmettere, pur in uno spazio temporale ristretto, notizie interessanti dal Brasile, informazioni di utilità generale, divulgazione della lingua portoghese e musica brasiliana di qualità. Insieme a Carlos, Maria Helena ed Alvaro, gli amici che in un’atmosfera multiculturale conducono il programma, molto umilmente tento di legare il Brasile al contesto latinoamericano e nel contempo di inserirlo in una scala globale.

Sania Fortunato

Maria Helena, dalla Colombia

UNA FOTO IN TASCA, UN SOGNO NEL CUORE

Per poter raccontare la mia vita ho dovuto fare ricorso alla cassetta dei ricordi (una vecchia scatola da scarpe in cui conservo amori, defunti, amici e sogni) dove ho dunque trovato lo spunto per scrivere: una di quelle foto che si conservano con diffidenza nei sacri album della famiglia; una di quelle foto perfette in cui tutti sono belli ed ordinati, pronti per la messa; una di quelle foto che, quando arriva il momento di partire, ti prende il desiderio di rubarla, di prenderla dal reliquiario del passato senza chiedere il permesso ad alcuno.
Io lo feci, poco prima di prendere la mia valigia per partire in direzione dell’ Italia. "La foto in blu" è stata per me per molti anni l’amuleto, la connessione con la mia verità, il mio conforto e la mia tristezza. In essa sta tutta la mia famiglia vestita di blu. Colore che non ha niente di che spartire con il colore del partito conservatore colombiano. Non siamo una prole "de godos" (nomignolo dato ai conservatori, ndr). Fu soltanto una casualità.
La nonna Emelina sta nell’angolo sinistro, appare in piedi e dà la sensazione di sostenere gli altri, di tenerli, quasi che fossimo sul punto di cadere da qualche parte. Cercando come sempre di raddrizzare il quadro storto della mia famiglia, compito a cui si dedicò fino alla sua morte. A lato di Emelina, seduto in poltrona, sta il nonno Pedro Nel, un vecchio rigido ed impenetrabile; un uomo di verità, grande, brutto e formale, direbbero a casa mia. In ordine decrescente di grandezza stiamo noi, i bambini: mio fratello Juan Carlos, tanto magro da sembrare morto di fame; il cugino Wardo, piccolino, carino fin dalla sua venuta al mondo; per ultima, ci sono io, progredendo pian piano nell’arte sottile degli sguardi civettuoli. La foto non è completa, mancando Beatriz, mia madre, che stava facendo la foto con la vecchia macchina fotografica ereditata da mio padre Silvio, unico avere che ci lasciò prima di andarsene.
Io sono Maria Helena, nata 36 anni fa a Cali, Colombia, la città che molti di noi chiamiamo "la succursale del cielo". Per quanto mi riguarda, debbo confessare che del cielo ha ben poco, anzi ha più dell’inferno con l’umidità, le zanzare e i mafiosi di tuo. Sono cresciuta in un quartiere popolare, con il nome di un eroe della patria, Atanasio Girardot. Un luogo povero, di strade sterrate, di bambini e cani randagi. Ricordo che trascorrevo molte ore a giocare per la strada, dopo i compiti della scuola. Credo che giocai finché arrivò la modeità anche là, attorno agli anni Ottanta: strade asfaltate, bordelli agli angoli, la prima televisione, la scuola superiore in un collegio di monache. Con il passare degli anni, vidi come i miei amici d’infanzia, con sogni differenti dai miei, si trasformarono in ladroni, sicari, trafficanti, e addirittura mafiosi di grido. Hoy todos estan bajo tierra: oggi tutti stanno sotto terra. Di quella generazione siamo rimasti in pochi, quelli di noi che si sono salvati dalla polveriera nella quale si era convertito il barrio Atanasio Girardot.
A 16 anni avevo terminato la scuola superiore e a 17 stavo seguendo il mio primo anno nella facoltà di sociologia dell’Università pubblica della mia città. Partecipai a tutte le assemblee studentesche che ci furono, a tutte le rivolte, fino alla protesta per la sparizione del mio compagno di banco. Tuttavia, Marco non ricomparve più ed io scoprii, con dolore, che la soluzione non stava nel lanciare pietre o nell’insultare la polizia o di trasformare in carne da cannone i miei compagni di lotta.
Mi dedicai quindi a studiare, a lavorare con la gente del mio quartiere, a viaggiare in autostop per il mio paese. Così scoprii un’altra Colombia: quella dei neri del Pacifico con la loro musica, la magia e il "biche" (una specie di grappa locale fatta dalla canna da zucchero, ndr); quella degli indios con il loro odore, il silenzio e lo sguardo perso; quella dei contadini con la loro generosità; quella della selva e delle grandi città.
Distinguere tra i miei doveri professionali e il mio impegno politico è il tallone d’Achille della mia esistenza. All’epoca, mi ritrovai così compromessa in situazioni che posero in pericolo la mia tranquillità. Questo perché la Colombia è un paese dove regna l’impunità, dove è meglio tacere che denunciare. A causa dei miei problemi e alcuni momenti di orrore e morte che non potevo cancellare dalla mia mente, decisi di andarmene da lì, di lasciarmi tutto alle spalle e ricominciare in una nuova terra. Così, grazie all’aiuto di amici di Florencia che facevano ricerche per la tesi in scienze politiche in collaborazione con l’Università del Valle dove io lavoravo, iniziai la mia avventura in senso opposto a quella di Cristoforo Colombo.
Arrivai in Italia nel 1998. Nei miei primi anni da emigrata provai quella sensazione leggera e strana che ti offre l’essere niente e nessuno. È come essere morto pur essendo in vita. Per sopravvivere, a Firenze ho pulito case, servito ai tavoli, venduto articoli di cuoio e souvenir al mercato di San Lorenzo a nordamericani e giapponesi. Fino a quando l’anonimato e la voglia di tornare a "giocare alla sociologa" mi fecero impazzire, come – è così che si dice in Colombia – "si la tierra bajo los pies me picarà", se la terra sotto i piedi mi pungesse. Nel 2001 ripresi dunque in mano la valigia per andare nel nord Italia per seguire un corso di mediazione interculturale, l’unica porta che mi sembrava fattibile da attraversare. Toai a lavare piatti e a pulire case però questa volta con un sogno: lavorare in quel laboratorio sociale che è Torino.
Da 4 anni lavoro come educatrice nel mondo della cooperazione. Ho lavorato con gli adulti in difficoltà, con le donne vittime della tratta, con i drogati, con ex carcerati, con adolescenti e con stranieri come me.
In tutto questo andare e venire di progetti e belle esperienze sono arrivata alla radio e mi sono fermata. Credo che l’importanza di questo progetto risieda nella sua stessa natura, nella sua caratteristica di relazione immediata con coloro che ci ascoltano, indipendentemente dal fatto di parlare in spagnolo, in portoghese o in italiano.
Il nostro programma radiofonico è fatto di amore, di sacrifici, di ore di lavoro e di tanta voglia di continuare. Trópico Utópico è per me parte del sogno che non ho potuto sognare nella mia terra.

Maria Helena Granado

Alvaro, dalla Colombia

STACCARE LE ETICHETTE CHE DEFORMANO IL MONDO

Quando mi sono chiesto che cosa avrei potuto scrivere in poche righe su un´esperienza di migrazione come la mia, forse poco significativa e, ad ogni modo, atipica, mi è venuto in mente il fatto che in questo processo di viaggi e scoperte che è in definitiva la migrazione, ho infranto, non sempre con successo, alcuni degli stereotipi che si hanno in mente come conseguenza dell´habitat in cui uno si è formato e come risultato dell´informazione che ognuno di noi, volontariamente o senza volerlo, ha acquisito.
La prima cosa quindi che potrei raccontare o, per meglio dire, confessare è che quando mi capitò l´occasione di venire in Italia (in quell´epoca stavo conoscendo quella che è ora mia moglie, un´italiana del Piemonte), io preferii viaggiare in Francia. A Parigi, precisamente, dove mi fermai un paio di mesi. Nella mia testa si annidava l´idea semplice e banale di un’Italia piena di "bulletti spocchiosi", di persone interessate esclusivamente al calcio o alle auto di ultima generazione, di gente poco affidabile e con modi di fare in stile mafioso. Insomma, uno stereotipo, una caricatura.
In fondo, lo stesso che causò in me disillusione nella "ville lumière": il mondo pieno di pensatori con la pipa che io avevo immaginato riempire le strade del quartiere latino, in realtà era costituito in maggioranza da tronfi i quali, anziché intonare i bei testi della Chanson, cantavano rap e altri ritmi in inglese. Oh, la là!

Quando arrivai in Italia, alcuni anni più tardi, finalmente scoprii, diciamo, un´altra Italia. Anzi, per essere più precisi, altre Italie: l’Italia della solidarietà, l´Italia che si preoccupa per quanto succede in Africa o in America Latina (a proposito, quante cose ho imparato della parte del mondo da dove provengo, a partire dalle varie visioni italiane sul tema!).
Quando mi trasferii definitivamente in Italia, quattro anni fa, lo feci dopo aver deciso di vivere con Franca. Ed ecco qui un altro stereotipo infranto: si emigra fondamentalmente per ragioni economiche o politiche e le altre migrazioni si dice che siano meno dolorose. In realtà sono semplicemente diverse, però non per questo meno traumatiche. La migrazione comporta sempre un abbandono e soprattutto un confronto permanente con l´altro e pertanto un processo di apprendimento per cercare di convivere con la diversità. Uno scenario nel quale, per vivere e non solo sopravvivere, è necessario lottare contro queste semplificazioni mentali che frequentemente ci creiamo noi esseri umani per (mal) intendere certe situazioni.
In questo gioco di incasellare tutto in comode etichette deformanti e di andare per le strade della vita con una specie di spada con la quale si tagliano strette definizioni (che non tengono in considerazione altri aspetti, che si dovrebbero invece considerare), ci troviamo imprigionati quasi tutti noi emigrati. E che dire di chi, senza neanche essere stato costretto a sperimentare la vita in un altro posto, considera il suo piccolo mondo come l´unico territorio possibile dell´universo?

E così, come una goccia in quell’oceano che è l’abbattere stereotipi, nasce Trópico Utópico. Poiché l´America Latina è sì musica, balli e festa, però è anche una realtà straziante che vogliamo mostrare. Per parte sua,l’Europa non è sempre l´Eden e non per tutti la vita qui è facile. I latinoamericani (e altri stranieri venuti dalle periferie del mondo) devono abbandonare i propri figli e i propri compagni di vita per lavorare spesso in case di anziani che, a loro volta, vivono in solitudine a causa del frequente abbandono affettivo da parte delle proprie famiglie. L’America Latina non è una sola, bensì sono tante e spesso sconosciute. E forse solo all´estero iniziamo a conoscere le sue molteplici facce.
Concludendo, Trópico Utópico vuole dare visibilità a questa e ad altre Americhe, che trascendono lo stereotipo dei bei fianchi in movimento, dei "caudillos" redentori, tanto idolatrati qui, ma che secondo me a volte ci fanno più male che bene. Il nostro programma vuole combattere questa battaglia contro gli stereotipi, poiché credo che, se la storia deve servirci per apprendere, non per questo deve segnarci in modo tanto definitivo.

Alvaro Duque

Bonino, Fortunato, Grananda, Duque




La carità anima della missione

22 ottobre: Giornata missionaria mondiale
Messaggio del santo padre Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle!

1. La Giornata Missionaria Mondiale, che celebreremo domenica 22 ottobre p.v., offre l’opportunità di riflettere quest’anno sul tema: "La carità, anima della missione". La missione se non è orientata dalla carità, se non scaturisce cioè da un profondo atto di amore divino, rischia di ridursi a mera attività filantropica e sociale.
L’amore che Dio nutre per ogni persona costituisce, infatti, il cuore dell’esperienza e dell’annunzio del vangelo, e quanti l’accolgono ne diventano a loro volta testimoni. L’amore di Dio che dà vita al mondo è l’amore che ci è stato donato in Gesù, parola di salvezza, icona perfetta della misericordia del Padre celeste.
Il messaggio salvifico si potrebbe ben sintetizzare allora nelle parole dell’evangelista Giovanni: "In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui" (1 Gv 4,9).
Il mandato di diffondere l’annunzio di questo amore fu affidato da Gesù agli apostoli dopo la sua risurrezione, e gli apostoli, interiormente trasformati il giorno della pentecoste dalla potenza dello Spirito Santo, iniziarono a rendere testimonianza al Signore morto e risorto. Da allora, la Chiesa continua questa stessa missione, che costituisce per tutti i credenti un impegno irrinunciabile e permanente.

2. Ogni comunità cristiana è chiamata, dunque, a far conoscere Dio che è Amore. Su questo mistero fondamentale della nostra fede ho voluto soffermarmi a riflettere nell’enciclica Deus caritas est. Del suo amore Dio permea l’intera creazione e la storia umana.
All’origine l’uomo uscì dalle mani del Creatore come frutto di un’iniziativa d’amore. Il peccato offuscò poi in lui l’impronta divina. Ingannati dal maligno, i progenitori Adamo ed Eva vennero meno al rapporto di fiducia con il loro Signore, cedendo alla tentazione del maligno che instillò in loro il sospetto che egli fosse un rivale e volesse limitae la libertà.
Così all’amore gratuito divino essi preferirono se stessi, persuasi di affermare in tal modo il loro libero arbitrio. La conseguenza fu che finirono per perdere l’originale felicità e assaporarono l’amarezza della tristezza del peccato e della morte.
Iddio però non li abbandonò e promise ad essi e ai loro discendenti la salvezza, preannunciando l’invio del suo Figlio unigenito, Gesù, che avrebbe rivelato, nella pienezza dei tempi, il suo amore di Padre, un amore capace di riscattare ogni umana creatura dalla schiavitù del male e della morte.
In Cristo, pertanto, ci è stata comunicata la vita immortale, la stessa vita della Trinità. Grazie a Cristo, buon Pastore che non abbandona la pecorella smarrita, è data la possibilità agli uomini di ogni tempo di entrare nella comunione con Dio, Padre misericordioso, pronto a riaccogliere in casa il figliol prodigo.
Segno sorprendente di questo amore è la croce. Nella morte in croce di Cristo, ho scritto nell’enciclica Deus caritas est, "si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo: amore, questo, nella sua forma più radicale. È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore.
A partire da questo sguardo, il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare" (n. 12).

3. Alla vigilia della sua passione Gesù lasciò come testamento ai discepoli, raccolti nel cenacolo per celebrare la pasqua, il "comandamento nuovo dell’amore mandatum novum": "Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri" (Gv 15,17).
L’amore fraterno che il Signore chiede ai suoi "amici" ha la sua sorgente nell’amore paterno di Dio. Osserva l’apostolo Giovanni: "Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (1 Gv 4,7). Dunque, per amare secondo Dio occorre vivere in lui e di lui: è Dio la prima "casa" dell’uomo e solo chi in lui dimora arde di un fuoco di divina carità in grado di "incendiare" il mondo. Non è forse questa la missione della chiesa in ogni tempo?
Non è allora difficile comprendere che l’autentica sollecitudine missionaria, primario impegno della comunità ecclesiale, è legata alla fedeltà all’amore divino, e questo vale per ogni singolo cristiano, per ogni comunità locale, per le chiese particolari e per l’intero popolo di Dio.
Proprio dalla consapevolezza di questa comune missione prende vigore la generosa disponibilità dei discepoli di Cristo a realizzare opere di promozione umana e spirituale che testimoniano, come scriveva l’amato Giovanni Paolo ii nell’enciclica Redemptoris missio, "l’anima di tutta l’attività missionaria: l’amore che è e resta il movente della missione, ed è anche l’unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono" (n. 60).
Essere missionari significa allora amare Dio con tutto se stessi sino a dare, se necessario, anche la vita per lui. Quanti sacerdoti, religiosi, religiose e laici, pure in questi nostri tempi, gli hanno reso la suprema testimonianza di amore con il martirio!
Essere missionari è chinarsi, come il buon Samaritano, sulle necessità di tutti, specialmente dei più poveri e bisognosi, perché chi ama con il cuore di Cristo non cerca il proprio interesse, ma unicamente la gloria del Padre e il bene del prossimo.
Sta qui il segreto della fecondità apostolica dell’azione missionaria, che travalica le frontiere e le culture, raggiunge i popoli e si diffonde fino agli estremi confini del mondo.

4. Cari fratelli e sorelle, la Giornata Missionaria Mondiale sia utile occasione per comprendere sempre meglio che la testimonianza dell’amore, anima della missione, concee tutti.
Servire il vangelo non va infatti considerata un’avventura solitaria, ma impegno condiviso di ogni comunità. Accanto a coloro che sono in prima linea sulle frontiere dell’evangelizzazione – e penso qui con riconoscenza ai missionari e alle missionarie – molti altri, bambini, giovani e adulti con la preghiera e la loro cooperazione in diversi modi contribuiscono alla diffusione del regno di Dio sulla terra.
L’auspicio è che questa compartecipazione cresca sempre più grazie all’apporto di tutti.
Colgo volentieri questa circostanza per manifestare la mia gratitudine alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e alle Pontificie opere missionarie, che con dedizione cornordinano gli sforzi dispiegati in ogni parte del mondo a sostegno dell’azione di quanti sono in prima linea alle frontiere missionarie.
La Vergine Maria, che con la sua presenza presso la croce e la sua preghiera nel cenacolo ha collaborato attivamente agli inizi della missione ecclesiale, sostenga la loro azione e aiuti i credenti in Cristo ad essere sempre più capaci di vero amore, perché in un mondo spiritualmente assetato diventino sorgente di acqua viva.
Questo auspicio formulo di cuore, mentre invio a tutti la mia benedizione.

BENEDICTUS PP. XVI

Benedictus PP. XVI




Testimoni del risorto, speranza del mondo

Il convegno ecclesiale di Verona (16-20 ottobre 2006) sul tema «Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo» interpella gli istituti missionari in quanto ne tocca la propria identità di annunciatori di Cristo «nostra speranza». Nata nell’ambito della rivista «Ad Gentes», la seguente riflessione vuole essere uno stimolo offerto da missionari che lavorano per mantenere viva, all’interno della chiesa italiana, una sincera ed effettiva apertura alla missione universale.

Gli istituti missionari che hanno sedi in Italia, pur dipendendo giuridicamente dalla Santa Sede e rimanendo legati a tante chiese locali sparse nel mondo, riaffermano la loro appartenenza alla chiesa italiana nella quale molti di essi hanno avuto origine. Si sentono espressione di questa chiesa fra i popoli per l’annuncio del vangelo. Si rallegrano per il riconoscimento del loro carisma specifico di consacrazione a vita per la missio ad gentes e sono lieti di collaborare in questa missione con tante altre forze della chiesa italiana, che servono l’ad gentes con modalità e carismi loro propri (Cf. Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, n. 10).
Si rallegrano anche per tutto quello che la chiesa che è in Italia fa per la missio ad gentes e si impegnano a collaborare sempre meglio all’animazione missionaria della chiesa italiana, portando il contributo della loro lunga esperienza, della testimonianza di tanti confratelli e consorelle sparsi fra i popoli, della più diretta conoscenza delle giovani chiese con le loro ricchezze di fede e le loro necessità materiali e spirituali.
Prendono giorniosamente atto che è incominciata in Italia, fin dal Convegno di Palermo (1996), la cosiddetta conversione pastorale alla missione, diretta più immediatamente alla «nuova evangelizzazione» nel territorio, ma che non trascura la missio ad gentes e anzi trova in essa – come dicono gli stessi vescovi italiani (Cf. Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, n. 32) – il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. La missione è unica e universale e, pur avendo in diversi contesti modalità e urgenze diverse, si avvantaggia dell’unica passione per la testimonianza della fede e per l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini.

Bisogno di conversione e di riforma

Nel prendere parte al «convenire» della chiesa italiana, gli istituti missionari sono consapevoli che devono essi stessi «partire» con una profonda revisione della loro vita personale e istituzionale. A livello personale si parlerà di «conversione» e a livello istituzionale di «riforma». Già dal 1999 si incontrano nei cosiddetti «Forum di Ariccia» per mettere a punto, unitariamente, lo spirito, il senso e le modalità della loro presenza nella chiesa italiana. Nel primo Forum (3-6 febbraio 1999) proposero a se stessi uno stile di presenza qualificato, che rispecchiasse anche in Italia quanto da essi vissuto nei territori lontani:
– missione nella debolezza: sì alla parola di Dio, allo Spirito, alle frontiere, alle periferie, alla precarietà; no a sicurezze, potere, prestigio, strutture pesanti, ecc.;
– missione nella povertà: riesame di opere e strutture; ridistribuzione delle comunità sul territorio nazionale; vicinanza, attenzione e preferenza per i poveri;
– missione nel martirio: serietà, radicalità, carità, dono della vita, continuità di donazione.
Nel secondo Forum (4-8 febbraio 2002) l’attenzione si appuntò sulla capacità di collaborazione degli istituti missionari fra loro e con gli altri soggetti della missione, nonché sulla loro «integrazione» nella chiesa locale in Italia. Si ribadì la fedeltà al carisma specifico («non negoziabile», si disse) dell’ad gentes, ad extra e ad vitam, ma sottolineando nello stesso tempo che i missionari non sono in Italia «di passaggio» o solo per compiti interni agli istituti, ma per una testimonianza e un’azione specificamente loro di «animazione missionaria delle chiese locali». Si disse fra l’altro: «Forse non lo sappiamo, ma abbiamo sulle spalle una grossa responsabilità. Siamo considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la chiesa locale. Con tanta disinvoltura lo abbiamo fatto e lo facciamo in terre geograficamente considerate di missione. Con altrettanta timidezza, paura e ritrosia ci ritroviamo a farlo con la nostra gente». Essere profetici non significa fare i supplenti.
Oggi in Italia si stanno creando situazioni di missione… La nostra tentazione – e la tentazione della stessa chiesa locale – è di affidare agli «addetti del mestiere» quelle zone e situazioni. Da parte nostra è doveroso privilegiare tali servizi, ma è compito della chiesa locale far fronte a queste realtà, trovare risposte concrete: può certamente attingere dal «libro della missione» (e in questo dobbiamo certamente aiutarla), ma non può delegare ad altri i compiti che spettano ad essa.
Il terzo Forum (31 gennaio-4 febbraio 2005) ha voluto essere anzitutto un momento di «ascolto»: della chiesa locale italiana, della cultura che circola nella società che ci circonda, dei «movimenti» che prendono piede in ordine a un mondo nuovo e diverso. L’ascolto è necessaria premessa alla profezia. Il primo ascolto, infatti, rimane sempre quello del vangelo, che però dobbiamo far risuonare nell’oggi che Dio ci propone in Italia all’inizio di questo terzo millennio.
«Ci siamo sentiti piccoli di fronte a sfide che paiono a prima vista insormontabili, ma questo non ci ha tolto il coraggio di riaffermare la nostra missione di essere lievito, luce e sale, attraverso l’ascolto e la testimonianza profetica: due atteggiamenti nuovi per una società malata di solitudine esistenziale».

Convenire ascoltando

La prima «lezione» che i missionari ricevono dalle giovani chiese è che ogni programmazione ecclesiale, per essere veramente missionaria, deve partire dall’ascolto. Un convegno ecclesiale ha bisogno di un lungo tempo di ascolto per disceere l’oggi di Dio nella storia e udire quello che lo Spirito dice alla chiesa che è in Italia. Per essere un vero convenire della chiesa è necessario che tutte le sue componenti abbiano voce e che le loro attese, le loro esigenze, i loro propositi e le loro speranze costituiscano la trama su cui il convegno si costruisce. Anzi, la chiesa non deve ascoltare solo le proprie componenti, ma nella misura del possibile tutte le componenti della società, anche i cristiani non cattolici, i credenti di altre religioni, i non credenti. Ci pare che nell’Italia di oggi l’urgenza dell’ascolto sia soprattutto rivolta verso coloro – e sono grande maggioranza – che si dicono cristiani ma conservano con la chiesa solo rari momenti di contatto e non pongono più il vangelo a fondamento delle loro scelte.
Possono essere preziosi gli apporti degli esperti delle varie discipline teologiche e delle scienze umane, ma non devono chiudere la strada ai giudizi e ai sentimenti della «base». Lo Spirito si manifesta anzitutto nella voce dei piccoli e dei semplici. Non è cosa nuova, ma è certamente pertinente dire che il metodo del convegno – della sua preparazione, del suo svolgimento, della sua ricezione – ne definisce già gli orientamenti, ne condiziona i contenuti, ne pregiudica in senso positivo o negativo l’efficacia pastorale.
Seguendo l’itinerario di preparazione del convegno, ci poniamo alcune domande: è stato ascoltato a sufficienza il popolo di Dio? È stata ascoltata «la gente», anche quella che si ferma alle porte della chiesa? Sono stati interpellati «gli altri»? Non è necessaria l’unanimità che scende dall’alto, quanto la sinfonia di voci che la Parola illumina e raccoglie efficacemente in unità.

Il tema «speranza»

Si può ben capire come il tema del convegno di Verona sia «congeniale» ai nostri istituti. «Gesù risorto, speranza del mondo» è quanto siamo mandati ad annunciare. Ne siamo «testimoni» anzitutto fra le genti. Riverberiamo quindi sulle nostre chiese di origine – quelle da cui siamo inviati – la forza che i convertiti al vangelo trovano in Gesù Signore per superare difficoltà di vario genere, legate spesso alle situazioni di miseria, di oppressione, di sfruttamento, di emarginazione, di esilio, di persecuzione in cui si trovano i loro gruppi umani e/o le loro chiese.
È ammirevole la fiducia in Dio che i cristiani delle giovani chiese mantengono anche nelle circostanze più dolorose. Una grande fiducia, anche se non illuminata dalla fede nel Risorto, si incontra spesso anche in tanti fedeli di altre religioni e, in genere, nel mondo dei poveri.
In queste situazioni la speranza non può essere annunciata solo nell’orizzonte escatologico. Il Regno futuro è dono che i cristiani attendono con gioia e riconoscenza. Ma c’è una loro precisa responsabilità nel riconoscere il germe del Regno già in questo mondo e nel partecipare al suo dinamismo lottando per la giustizia, per il rispetto dei diritti dell’uomo, per la dignità di ogni persona, per la difesa di ogni forma di vita e per la salvaguardia del creato, in unità di intenti con quanti tendono verso gli stessi obiettivi, insiti nella stessa natura umana e sostenuti anche dal messaggio di molte religioni.
Ci pare che questo «impegno per il Regno che viene» non sia al centro della predicazione della chiesa italiana, così come lo era nella predicazione di Gesù. Se è ammirevole in Italia l’attività del volontariato, specialmente per il concorso dei cristiani, se è diffuso e concreto l’operare della Caritas, ci pare però che si collochino più sul versante dell’assistenza che non su quello di una solidarietà anche politica con i poveri, i disoccupati, gli immigrati, le famiglie numerose, gli sfruttati. Constatando il crescere dei settori deboli della popolazione, ci si aspetterebbe una più convinta mobilitazione della gerarchia cattolica al loro fianco.
Se ci sono dei magnifici esempi di «suscitatori di speranza» – talvolta anche martiri della speranza, come don Pino Puglisi, don Tonino Bello, Annalena Tonelli, e tanti altri – essi sembrano piuttosto marginali rispetto alla chiesa «ufficiale» e sono tardivamente riconosciuti come suoi rappresentanti. Perché la gerarchia ecclesiastica è così reticente rispetto a figure come don Oreste Benzi, Eesto Olivero, don Luigi Ciotti, Francuccio Gesualdi e tanti altri suoi figli fedeli, che raccolgono gli aneliti della popolazione italiana?

L’orizzonte globale

Proprio perché presenti con i loro membri in tante parti del mondo, a contatto con tanti popoli, tante culture, tante religioni, tante travagliate storie, gli istituti missionari sentono l’urgenza che ogni chiesa locale si collochi in quell’orizzonte globale che è il segno più proprio di questo nuovo secolo. Ogni chiesa locale, pur radicata nel territorio e impegnata a testimoniare la fede e annunciare il vangelo al popolo nel quale è inserita, deve avere il mondo negli occhi e nel cuore, perché è mandata «a tutte le genti». In Italia si ha l’impressione di una cultura, di una politica e di un’informazione assai «provinciali».
Vengono ingigantiti i fatti locali e non si presta sufficiente attenzione a eventi globali, quali l’immensa moltitudine e la quotidiana sofferenza dei poveri, la fame, le guerre, le schiavitù, il progressivo degrado del pianeta, gli ingiusti rapporti Nord-Sud, lo sfruttamento dei lavoratori, il livellamento e l’omologazione progressiva delle culture, ecc. Solo quando questi eventi vengono a toccare le abitudini e il benessere del proprio gruppo – come nel caso dell’immigrazione o delle risorse energetiche (petrolio, gas, ecc.) – si prende coscienza di ciò che avviene, ma restando sempre confinati nel proprio «particolare». Sembra che a volte anche la chiesa italiana resti chiusa dentro queste mura. La connotazione di «cattolica» è più un riferimento alla tradizione che non un’assunzione del mandato che il Risorto le ha dato per tutte le genti. Gli istituti missionari sentono la loro responsabilità in questo campo, ma per quanto si sforzino, con la stampa e altri media (Fesmi, Emi, Misna), di aprire gli orizzonti, i loro sforzi non risultano abbastanza efficaci; soprattutto non trovano ascolto proprio in quel mondo «cattolico» (delle parrocchie, delle associazioni) che più dovrebbe essere pervaso dall’ansia dell’universalità.
Occorrerà sviluppare le collaborazioni e trovare le sinergie per sviluppare, sia nella società che nella chiesa, quello spirito di mondialità che da più di 50 anni gli istituti missionari coltivano in Italia e che rappresenta l’antidoto ideale alla globalizzazione di marca neoliberista.

«Il grido dei poveri»

La prima conseguenza di una visione globale a partire dal locale è la presa di coscienza della crescente povertà nel mondo, con 3 miliardi di poveri su 6 miliardi di abitanti del pianeta e con un miliardo e 200 milioni di «poveri assoluti» o schiavi della sopravvivenza (ultimi dati Onu). La vicinanza ai poveri è una necessità per la chiesa, perché solo a partire da essi si ha la percezione autentica del vangelo: «Ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt 11, 5). Una chiesa che non ha coscienza della povertà nel mondo e che non sta concretamente dalla parte dei poveri, non è più la chiesa delle beatitudini, la chiesa che segue le orme di Gesù Cristo, così come recita il noto n. 8 della Lumen gentium: «… come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Cristo Gesù“ pur essendo di natura divina… spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 6-7) e per noi“ da ricco che era si è fatto povero” (2 Cor 8, 9): così la chiesa, quantunque abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempio l’umiltà e l’abnegazione».
Il rischio per la chiesa italiana è duplice: che lasci i poveri del suo territorio «fuori dalla porta», perché composta in prevalenza da una classe media volenterosa, ma più che mai pervasa di consumismo e preoccupata del suo fragile benessere; e che dimentichi del tutto – salvo periodiche collette – i tre miliardi di poveri nel mondo. Al grido di tanti bisognosi sul territorio nazionale e nel Sud del mondo si risponde con gesti di una generosità che acquieta le coscienze, ma con poca attenzione al dovere di giustizia. Pare che negli ultimi documenti dell’episcopato italiano la parola «giustizia» risuoni con minore forza. Missione e nuova evangelizzazione passano, anche per la chiesa italiana, attraverso la scelta preferenziale dei poveri, chiamati nelle scelte pastorali a essere soggetti attivi nella società e, se cristiani, nella chiesa.

Missionari di ritorno

La maggior parte dei membri degli istituti missionari che si trovano attualmente in Italia è reduce dalle missioni. Il loro rientro è spesso traumatico. Partiti per «portare la fede della loro terra» ad altre terre, trovano che nel paese «cristiano» da cui sono partiti c’è meno fede, meno speranza e meno amore che nei paesi da cui rientrano. Si trovano immersi in una cultura del consumismo che troppo contrasta con le visioni di miseria e di sofferenza che hanno negli occhi. Meno profonda è l’intensità delle relazioni umane, diversi i ritmi del tempo, poco praticata l’ospitalità; superficiali, rapide e prevalentemente emotive le reazioni ai fatti anche più gravi… Diventa allora difficile per loro riprendere i contatti con «questa» realtà.
Pensano di farsi voce delle giovani chiese nella loro «antica chiesa», ma qui incontrano forse la più forte delusione. Perché di quelle esperienze di grazia sentono che si fa poco conto. Parlano di celebrazioni lunghe e festose, di piccole comunità cristiane o comunità di base, di una ricca manifestazione di carismi, di tanti ministeri esercitati con fervore e responsabilità, di impegno a fianco dei poveri, di lotte per la giustizia e i diritti umani, di fatica e bellezza dell’inculturazione, di severi catecumenati, di sofferenze e martìri di cristiani coerenti… e non trovano eco, come se quella non fosse vita, chiesa e patrimonio di tutta la famiglia dei credenti. «Qui è tutto diverso – si sentono dire -. Tutto questo non serve».

Nuovo modello di chiesa

I «missionari di ritorno» raccontano un nuovo modello di chiesa, che certo non può essere trasportato di peso nel nostro mondo – dove una chiesa dalle antiche radici ha il suo ricco patrimonio di tradizione, di teologia, di pratica pastorale – e tuttavia può offrire molti stimoli al rinnovamento in senso missionario della pastorale. Proviamo a enumerae alcuni.
1. La centralità del primo annuncio. Nelle giovani chiese si ha coscienza che Cristo, crocifisso e risorto, deve essere proclamato «agli altri» come principio di speranza. Si vive la gioia di quanti lo incontrano per la prima volta e trovano in lui la conoscenza del padre e la possibilità di una vita nuova.
2. La ricchezza dei carismi e dei ministeri, che rende sacerdoti, religiosi e laici corresponsabili della vita e della missione della chiesa. Si pensi ai catechisti, agli animatori delle piccole comunità cristiane, alle guide della preghiera. Le chiese dell’Estremo Oriente asiatico enumerano, per esempio, nei loro documenti ben 70 ministeri riconosciuti!
3. La bellezza e vitalità delle «Comunità ecclesiali di base» (America Latina) o «Piccole comunità cristiane» (Africa e Asia), dove il vangelo si coniuga con la vita e si fa esperienza di chiesa come frateità, condivisione, collaborazione, corresponsabilità… Sempre fragili, piccole e disperse, queste comunità rendono più solida la fede di quanti ne fanno parte e proclamano concretamente la risurrezione del Signore.
4. Il distacco dal potere e dalle sicurezze mondane. Non ci sono privilegi da difendere, non c’è ricchezza da mantenere, non c’è (e per fortuna spesso non è possibile!) nessun compromesso antievangelico con i potenti. Chiese deboli e povere, qualche volta anche perseguitate, ripongono la loro unica fiducia nella forza della Parola e dello Spirito. La chiesa istituzione evita intrusioni nel dibattito politico e lascia le scelte concrete al libero confronto delle opinioni e delle valutazioni dei cittadini, conservando così la sua libertà profetica, che diventa quando è necessario – e spesso è purtroppo necessario – ferma denuncia della corruzione, degli sfruttamenti, delle ingiustizie commesse dai pochi potenti contro i tanti deboli. Proprio per questo acquista autorevolezza fra la gente e viene allora chiamata, ma in «seconda istanza», a opera di pacificazione e/o di mediazione politica.
5. La «prossimità» con i poveri e i sofferenti, che sono spesso, come avveniva nella prima chiesa, la maggioranza dei credenti. La chiesa sta di più «tra la gente» e ne condivide spesso la povertà, i disagi, le debolezze.
6. Lo sforzo dell’inculturazione, che obbliga a ripensare l’immutabile messaggio per incarnarlo nella vita e nella cultura propria di un popolo o di un gruppo umano. Cultura che spesso va purificata, ma che pure rappresenta una ricchezza per la fede.
7. La lunga pratica del catecumenato, che prepara gli adulti ad assumere consapevolmente il battesimo e la vita nuova che da esso scaturisce.
8. Il dialogo ecumenico e quello con le altre religioni, che diventa spesso una necessità, in quanto si vive e si opera nello stesso ambito territoriale, ma che proprio per questo è anche uno stimolo a definire la propria identità sulla base originaria della Parola di Dio e non di tradizioni umane.
Affrontando oggi la chiesa di Dio che è in Italia, il passaggio dalla pastorale di conservazione alla pastorale di missione dovrebbe confrontarsi con queste dinamiche delle giovani chiese. Non significa che esse siano modelli da imitare, né che non abbiano in sé debolezze e umane miserie (di cui sono anche loro ricchissime: «Ecclesia semper reformanda»). Significa solo che in esse si sperimenta meglio la freschezza del vangelo, novità di vita e orizzonte di speranza per tutti.

Conclusione

Gli istituti missionari presenti in Italia e parte della chiesa italiana vivono con questa tutte le difficoltà del momento presente:
a) le difficoltà del popolo italiano in un’ora di grande «crisi» (sociale, politica, istituzionale), che è passaggio (pasquale) ad un nuovo modo di vivere la sua appartenenza all’Europa e al mondo, ad una società non più monolitica, ma multietnica, multiculturale, multireligiosa, nel quadro di una globalizzazione che resta inquinata da presupposti ideologici di individualismo, agnosticismo, relativismo e liberismo;
b) le difficoltà della chiesa, che deve conservare la ricchezza della tradizione religiosa del popolo italiano in un quadro completamente mutato. «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia» è per questa chiesa un compito inedito. La missione in Italia (ed anche in Europa e in tutto il mondo post-cristiano) è tutta da inventare.
«Esperti di missione fra i popoli non cristiani», i missionari non sono né modelli, né maestri. Possono solo mettere a disposizione la radicalità del loro impegno per il vangelo e quello che apprendono sulle strade del mondo. Lo fanno come umili figli di quella chiesa di Dio che è chiamata a essere testimone del Cristo Risorto in Italia, in Europa e fino ai confini della terra.

Cimi, Suam, Ad Gentes




Il sorriso di Geltrude

I missionari della Consolata si sono stabiliti in Uganda nel 1985, quando presero in consegna la parrocchia di Bweyogerere, alla periferia di Kampala e aprirono un centro di animazione missionaria e vocazionale. Dopo 20 anni, per diversificare questi servizi, hanno dato vita a una nuova missione a Kapeeka, in una regione rurale, teatro di guerra e violenza nei primi anni ‘80, le cui ferite sono ancora aperte nel cuore della gente.

Prima ancora che i missionari della Consolata si stabilissero in Uganda, alcuni giovani ugandesi avevano fatto richiesta di entrare nell’Istituto e furono accolti nel seminario di Langata, a Nairobi (Kenya). Da tali richieste i missionari operanti in Kenya ebbero l’ispirazione di estendere la loro presenza all’Uganda, coniugando l’attività di prima evangelizzazione con quella di animazione missionaria e vocazionale.
Dall’idea si passò ai fatti: nel 1985 i padri Luigi Barbanti e Antonio Rovelli arrivarono a Bweyogerere, una scuola-cappella della famosa parrocchia di Namugongo, la località dove un centinaio di cristiani, cattolici e anglicani, subirono il martirio.
Venti anni fa, Bweyogerere era un villaggio in aperta campagna; oggi è diventata una zona urbana, alla periferia orientale di Kampala, la capitale dell’Uganda.
Organizzata la nuova missione, si passò subito alla costruzione del centro di animazione vocazionale a Kiwanga, a tre chilometri dalla sede parrocchiale. Si tratta di un centro di accoglienza per giovani che sentono la chiamata alla vocazione religiosa come missionari della Consolata. Qui i giovani ugandesi trascorrono un anno per conoscere meglio l’Istituto e la loro vocazione, prima di passare al seminario di Nairobi per gli studi di filosofia.

ALTRO PASSO… AD GENTES

Nel 1996, quando l’immensa diocesi di Kampala fu suddivisa in 4 circoscrizioni ecclesiastiche: Bweyogerere rimase inclusa nella diocesi della capitale; Kiwanga si trovò dentro i confini di quella di Lugazi.
Fu proprio in seguito a tale divisione che mons. Cyprien Kizito Lwanga, bisognoso di preti per la sua nuova diocesi di Kasana-Luweero, scrisse al superiore regionale dei missionari della Consolata in Kenya, suggerendo di prendere in consegna la missione di Kapeeka.
La proposta venne accolta con favore dalla comunità dei missionari in Kenya. Ben presto fu firmato un contratto, in cui il vescovo s’impegnava a costruire una casa per i missionari e il superiore promise di inviare almeno due missionari.
L’offerta di questo nuovo campo di lavoro, infatti, rispondeva agli impegni presi dal loro capitolo generale del 1999: estendere la missione sempre più lontano, verso luoghi più missionari, dove poter vivere in modo più radicale il proprio carisma missionario e il servizio di consolazione. Pur continuando la missione nella periferia della capitale, ma avanzando verso un territorio rurale, totalmente differente, i missionari della Consolata sentivano di procedere nella direzione migliore.
Soprattutto, si tratta di una zona, chiamata «Luweero», che ha particolarmente sofferto per i conflitti e le violenze che si sono susseguite dopo il famigerato regime di Idi Amin. Da qui cominciò la guerra di liberazione, guidata dall’attuale presidente contro i suoi principali oppositori. Gli effetti si vedono ancora oggi: tanta gente è stata uccisa e tutte le infrastrutture sono state distrutte.
Un anno fa, per commemorare il 25° anniversario dell’inizio di tale rivoluzione, il presidente Museveni ha voluto ripercorrere quella regione e vi ha inaugurato varie costruzioni, tra le quali anche una cappella dedicata a Santa Teresa, contribuendo con una generosa offerta.
La costruzione dell’abitazione per i missionari a Kapeeka è iniziata nel 2002, ma non senza difficoltà. I mezzi finanziari del vescovo erano limitati. Nel maggio 2004, due padri, l’ugandese Leo Bagenda e il tanzaniano Edward Ololi, poterono stabilirsi in un’ala quasi terminata della casa; scavarono un pozzo e portarono l’elettricità. Con l’acqua e la corrente si poteva cominciare a lavorare.
La nuova missione si trova a un centinaio di chilometri a nord ovest della capitale. Il suo territorio si estende per un raggio di 60 km e conta circa 26 mila persone, che vivono di agricoltura e pastorizia. Le famiglie sono numerose, con tanti bambini e giovani.
Dopo la scuola elementare la maggioranza dei giovani non possono proseguire gli studi per mancanza di mezzi economici. C’è tanta povertà e ignoranza. La donna in genere vive in uno stato di sottomissione all’uomo, del tutto ignara dei propri diritti. Numerose sono le ragazze madri. I due missionari hanno subito accolto le sfide e urgenze, soprattutto nel campo economico e sanitario.

PEDALARE…

Quasi metà della popolazione della nuova missione è cattolica; un quarto appartiene ad altre chiese cristiane, in particolare anglicana e aventista. Pochi sono i musulmani.
A Kapeeka non c’è una chiesa parrocchiale, essendo stata distaccata dalla parrocchia madre di Kijaguzo; i missionari vi hanno trovato una semplice cappella; altre 20 sono disseminate su quasi tutte le colline della zona.
Padre Leo mi porta a visitae alcune e mi spiega che ognuna di esse è affidata a un laico, con l’aiuto di un catechista. Inoltre, in ogni cappella c’è una trentina di laici che fanno funzionare diversi comitati e commissioni: per la pastorale, per i giovani, per le costruzioni, per la gestione e funzionamento della vita della comunità… La maggior parte del loro lavoro missionario, quindi, si svolge nelle cappelle.
Mentre percorriamo la strada principale, costeggiata da alcune botteghe e magazzini, ci fermiamo presso il rivenditore di biciclette. «È qui che, grazie agli aiuti inviatici da una Ong d’Italia, ho comperato 26 biciclette per i catechisti della parrocchia – racconta il missionario -. Abbiamo frequenti riunioni con loro, perché la nostra evangelizzazione si fonda in gran parte sul loro servizio. Per venire alle riunioni, essi dovevano fare decine di chilometri a piedi. Le biciclette hanno facilitato molto il loro lavoro. Ne sono felicissimi».
Il padre vuole presentarmi il catechista del villaggio di Kyanya, ma non è nel suo appezzamento di terra. Ritorniamo sulla strada principale e lo incrociamo: con un amico ha cominciato a disboscare un terreno, perché gli abitanti del villaggio si lamentano che la chiesa è lontana. Hanno deciso, quindi, di sistemare una nuova cappella su quel terreno tra la strada principale e il villaggio.
Proseguendo il nostro viaggio, ci fermiamo al dispensario di Santa Teresa, gestito da tre infermiere. Una, però, è partita per partecipare a un seminario formativo; la seconda è a casa per un lutto in famiglia; c’è rimasta Patricia Namutebe, che mi fa visitare il dispensario. Non ci sono né acqua né elettricità.

E MI CHIAMARONO…
«PADRE LETTO»

Il dispensario di Santa Teresa può essere uno specchio della precarietà in cui versano la sanità e gli ospedali in molte zone dell’Uganda. Significativo al riguardo è un fatto capitato a padre Peter Ssewezi, che attualmente lavora con padre Leo, anche lui ugandese, già missionario per tre anni in Sudafrica e quattro in Kenya.
«Un giorno – racconta – mi presentai all’ospedale della città più vicina con una donna gravemente ammalata. Ricevute le prime cure, la paziente doveva essere messa a letto; ma l’unico letto di cui disponeva l’ospedale era già occupato da un anziano. Allora alcune infermiere stesero un materasso sul pavimento, vi adagiarono l’anziano e posero la donna sul letto liberato.
Ne fui indignato! Non è possibile, dissi dentro di me. Uscii dall’ospedale e mi recai in un magazzino, dove sapevo che si vendevano i letti. Nel giro di un’ora ritornai con un letto nuovo di zecca. Da quel giorno sono diventato “il padre del letto” per medici e infermieri».
In una parrocchia appena avviata, come Kapeeka, le costruzioni non mancano mai. Padre Leo mi fa visitare il cantiere dell’asilo. A Kapeeka esistono già due scuole elementari e una media statali, ma il livello d’insegnamento è molto basso. Con la scuola matea, la parrocchia spera di portare un contributo significativo all’educazione dei più piccoli.
Dopo la scuola matea, sarà la volta del dispensario e in fine si aprirà il cantiere per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale. I missionari non si aspettano di completarla prima di quattro o cinque anni: costruire la chiesa-comunità è per loro più importante che costruire la chiesa di mattoni.
Da notare, poi, che la costruzione di Kapeeka, forse per la prima volta nella regione del Kenya, è affidata totalmente a missionari africani.

ANZIANI: SITUAZIONE
IN EVOLUZIONE

Quando, 25 anni fa, spiegavo ad alcuni africani la situazione degli anziani in Canada, come alcuni di essi venissero affidati a posti specializzati per la loro cura, immancabilmente reagivano affermando che non sarebbe mai stato possibile vedere fatti del genere in Africa, dove i legami familiari sono fortissimi. Ora, visitando l’Uganda, mi rendo conto che tale situazione si sta evolvendo in maniera rapida e inquietante.
La sorpresa inizia quando padre Leo mi sottopone un progetto per l’acquisto e l’equipaggiamento di un’ambulanza, destinata a trasportare gli ammalati, soprattutto gli anziani, nei due ospedali più vicini, distanti 30-40 km da Kapeeka.
Più della richiesta, mi stupisce ciò che vedo con i miei occhi, quando padre Leo mi accompagna in una breve visita a quattro o cinque anziani, praticamente soli e abbandonati. «Come è possibile? Dove è andata la famiglia?» gli domando. Sono curioso.
Ci fermiamo dapprima davanti a una misera capanna: tutta la parte posteriore è crollata; le travi sono divorate dalle termiti. Nel minuscolo spazio rimasto in piedi, abita un vegliardo che deve avere almeno 80 anni e si vede che è molto malato: tenta di sollevarsi per stringermi la mano, ma non ci riesce.
Arriva di corsa alle mie spalle un ragazzo di 13 anni, di ritorno da scuola: è suo nipote; è tutto ciò che restava a questo vecchio. È lui a occuparsi del nonno e a sbrigare, alla sua età, tutte le faccende domestiche. Lo vedo uscire e, a destra della capanna attizzare il fuoco, dove bolle una pentola malandata. Non oso sollevare il coperchio!
Ma dov’è il resto della famiglia? Padre Leo mi spiega che il vecchio aveva avuto alcuni figli e figlie, ma sono stati tutti uccisi durante la guerra e le violenze scoppiate dopo la caduta del regime di Idi Amin.
Mentre ci rechiamo a visitare un’altra famiglia, ci fermiamo a salutare uno dei più anziani catechisti della parrocchia, immigrato in questa zona dai tempi dei missionari d’Africa (Padri bianchi). Nonostante la sua evidente età avanzata, cammina e si avvicina alla jeep insieme alla sua sposa, tutta felice di poter salutare dei preti.

CIRCA 16 FIGLI

Il prossimo anziano si chiama Joseph Makuya; ha passato la vita nella polizia, fin dai tempi del colonialismo britannico; parla un eccellente inglese. Posso quindi fargli qualche domanda: il suo cervello è definitivamente in eccellente forma, malgrado i 78 anni suonati. Sua moglie (la seconda o la terza, non oso domandarglielo), molto più giovane di lui, si avvicina con due sedie e s’inginocchia davanti a noi, secondo il costume di queste regioni: le donne accolgono i visitatori inginocchiandosi davanti a loro.
La accompagnano tre figli, il più giovane ha 12 anni. «È vostro figlio?» domando al vecchi. «Sì, il più giovane» risponde. Di fronte alla vigoria di quest’uomo mi azzardo un’altra domanda: «A quando il prossimo?».
«Paolo è l’ultimo – risponde sorridente -. Lo abbiamo battezzato col nome di Paolo perché è nato durante l’ultima venuta in Uganda di Giovanni Paolo ii». «Quanti figli avete?». «Circa 16» risponde con un sorriso ancora più largo. «Dove sono ora?».
Joseph Makuya mi spiega che i giovani non vogliono più restare in campagna. Una volta in questa regione i colonizzatori britannici possedevano immense piantagioni di caffè, che davano impiego a centinaia di lavoratori. Poi il suo prezzo sempre più in ribasso, la concorrenza internazionale, con l’aggiunta di una malattia che divora e uccide le piante di caffè, hanno avuto per effetto di porre termine a quell’età dell’oro.
Ora, finita la scuola secondaria e anche prima, i giovani vanno nelle città del paese in cerca di lavoro. Aggiunge che una o due volte all’anno riusciva ad andare a visitarli; ma ormai, a causa di forti dolori alla schiena, gli è sempre più doloroso affrontare un viaggio di tre ore. Le persone anziane restano qui, sole.

GELTRUDE, LA VICINATA

Dall’altro lato della strada abita Geltrude. Tulle le mattine Joseph va a visitarla per avere sue notizie. Lo stesso fa al tramonto. Anch’essa è totalmente sola, ma per un’altra ragione. Era emigrata in questa zona insieme a suo marito in cerca di lavoro. La sua famiglia è a 300 km più a ovest. Dopo la morte del marito, è remasta tutta sola e il suo vicino Joseph ha cominciato a occuparsi di lei. Dovrebbe avere un paio d’anni più di lui; ma, come capita spesso in Africa, nessuno sa dire con precisione la propria data di nascita.
L’anno scorso, a causa di un uragano particolarmente violento, un grosso albero è caduto sulla capanne di Geltrude. È Joseph a raccontare l’accaduto: «Dopo quel rumore simile a un colpo di fulmine, sono uscito precipitosamente e che vedo? Il grande albero che era sul bordo della strada non c’era più. Mi faccio avanti e mi accorgo che è caduto sulla casa di Geltrude. Tutto spaventato, m’infilo tra i rami e arrivo fino alla sua capanna e vedo la donna uscire lentamente dalle rovine della sua casa, indenne, senza neppure un graffio. È un miracolo».
Mi volto e vedo che ora Geltrude abita in una modesta casa; allora Joseph mi spiega che tutti i vicini si sono messi insieme per salvare ciò che si poteva ancora salvare dalle rovine della casa schiacciata e hanno ricostruito in tutta fretta un riparo, per colei che è considerata la più anziana del villaggio.
Padre Leo cerca di comunicare con Geltrude; ma essa è diventata talmente sorda da rendere impossibile una conversazione. La salutiamo, ammirando il bel sorriso che addolcisce quel viso profondamente segnato da una storia così lunga e tanto drammatica.

di Jean Paré

Jean Paré




Angeli con un’ala rotta

Giovane dentista, cresciuto nello spirito missionario frequentando i nostri gruppi giovanili, Daniele ha deciso di spendere alcuni mesi come volontario in un ospedale del Cottolengo in Kenya, per mettere
a servizio dei più poveri la sua specializzazione professionale. Le riflessioni sulla sua esperienza insegnano che occorre poco per essere felici: basta fare felici gli altri. Provare per credere.

«Ed è subito sera». Credo sia una poesia di Quasimodo. È diventata un po’ il motivo portante di questa mia vita qui, a Chaaria. Mi accorgo di quanto sia vero proprio in questo posto, proprio adesso in cui rubo qualche minuto alla routine in ospedale per scrivere.
Non me ne sono accorto, ma quasi due mesi sono passati. Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere fermo.
Sembra incredibile, il giorno scorre come un torrente, a volte placido, a volte come imbizzarrito. E veloce. Cavoli com’è veloce!
Dalla mia camera vedo l’alba. Ogni mattina spengo la sveglia (maledico la sveglia) e, ancora sdraiato, 6 e 20, apro le tende. Apro anche la finestra: mi piace il fresco del mattino, mi aiuta a svegliarmi. È tutto tranquillamente in ombra, le vacche dormono, il bananeto non si muove. E di colpo esce fra le foglie di banana un disco arancione.
Sembra che quella palla rossa, enorme, sia lì apposta per me, a guardarmi in faccia per dirmi che sono vivo, e se mi sbrigo a saltare fuori dalle lenzuola è meglio. Non capisco cosa ci sia di diverso nel cielo; è come se fosse pronto a piombarti sulla testa, è come se fosse piegato ad abbracciarti. Probabilmente sarà per la diversa curvatura della terra all’equatore. Non mi interessa. Mi piace pensare che sia Dio che stringe al petto con amore i suoi figli prediletti: i miserabili, i sofferenti che abitano qui. E che sono quelli che ama di più, non perché sono più buoni, ma perché sono poveri.
Così comincia un’altra giornata. La messa come prima cosa. Per dare energia, per trovare un motivo per tutto quello che ci circonda. O almeno dovrebbe essere. In realtà ho talmente sonno, che tante volte riprendo conoscenza quando qualcuno seduto vicino a me mi scrolla per darmi il segno della pace.
Di lì in poi si comincia a correre. Perché, ha detto Madre Teresa, «non sia mai che qualcuno venga da voi e non se ne vada migliore di com’era quando è venuto, più felice». Questo cerco di propormi ogni mattina. Spesso non ci riesco.

È difficile spiegare Chaaria. Perché è difficile spiegare i sentimenti a parole. E i sentimenti sono forti; e sono in contrasto fra di loro. Sono occhi, grida, sorrisi, lacrime. Sono volti, nomi, odori.
Chaaria è Glory: non sa perché, ma a 12 anni ha un tumore. Troppi soldi per operarsi. Maledetti soldi. Sempre loro. Troppo tardi per cercare una soluzione. C’è un angelo in più, adesso, in cielo. Un angelo troppo piccolo per capire, troppo lontano adesso dal suo papà che piange.
Chaaria è Susan: non ha fatto niente di male. Ha l’Aids. Senza colpa. Semplicemente, è nata dove non doveva. Susan sorrideva, sempre, mi salutava con la mano sinistra. Mi ha anche ringraziato perché le ho tolto un dente che le faceva male.
Non è una bambina, è un fiore, dolce come un bacio. Mi sorrideva anche la sera se passavo a toccarle una mano. Ma è fragile, Susan. Troppo il peso della sofferenza sulle sue ossa leggere.
Susan è una fiammella che si allontana sempre più. Susan è un angelo con un’ala rotta, è scesa per farci capire quale preziosa meraviglia sia la vita.

Stasera, proprio mentre scappavo dall’ospedale per venire a scrivere, si sentiva da una radio quella canzone, di non so più chi, che dice «… but if God was one of us…». Già, se Dio fosse uno di noi, cosa gli direi…
Lo ringrazierei per l’alba, i fiori del frangipane, gli alberi di banana, i mango. Per la risata di Makena, le gambe di Kanana, il sorriso di Beppe, la voce di Lorenzo. Perché respiro. Forse ci litigherei. Gli urlerei in faccia. Come Vecchioni che canta: «Ora facciamo due conti io e te, Signore!». Perché non fai qualcosa?
In questa mia fede traballante mi convinco sempre più che, se Dio c’è, è qui, con i poveri, con quelli che soffrono. Non fa quello che vorrei io. Non è un Dio prestigiatore, che fa i miracolini per far vedere che può. È un Dio che sta con gli ultimi. Anzi, sta proprio in fondo alla fila. Lui era lì. Con Glory. A tenerle la mano, in silenzio. Lo so.

Certo, la rabbia a volte è tanta. Non so se la notizia sia arrivata in Italia, ma qui la scarsa stagione delle piogge ha portato la carestia. Giustamente, persone di buon cuore si sono attivate per portare sollievo a una popolazione sofferente. Così una dolce vecchietta neozelandese, amministratore delegato di una multinazionale che produce alimenti per animali, ha offerto in dono diversi quintali di mangime per cani, «per alleviare la fame dei bambini del nord del Kenya». Complimenti! È grazie a iniziative costruttive come questa che Beppe Grillo può mantenere attivo il suo blog.
L’Undp (United Nations Development Programme) ha calcolato che basterebbero 40 miliardi di dollari, lo 0,1% del prodotto interno lordo mondiale, per garantire a tutti, in tutto il mondo, i servizi sociali di base. Ogni anno spendiamo circa 1.000 miliardi di dollari in armi, quasi 500 in pubblicità, 50 in sigarette, 11 in gelati. E circa 20 in cibo per animali. Guardando tutto da quaggiù, non mi sento per niente fiero di essere un abitante di questo pianeta.
Ma non vorrei che con tutto questo mi pensaste triste o scoraggiato. L’unica cosa è che ho tanto sonno. Ma sento verissimo quello che dice Frei Betto: «Nella vita per essere felici serve solo un po’ di pane, del buon vino e un grande amore». La vita semplice, come dice Gesù: beati, sì, beati i cuori semplici. È la semplicità che fa scoprire una libertà interiore.
È di questa libertà del cuore che, credo, tutti abbiamo sete. Una mia grande amica mi ha detto una volta che i poveri sono una straordinaria ricchezza. Credo sia vero.
E poi non ci sono solo Glory e Susan. Solo che spesso spendo più tempo a pensare alle ombre che alle luci. Capita anche a voi?
Vorrei raccontarvi di William, che lavorando si è distrutto una mano. Con Gian l’abbiamo ricostruita, e ho visto ieri che riesce di nuovo a muovere il pollice.
Potrei raccontarvi di Kangai, che ha partorito, dopo un bruttissimo intervento, una bimba che sarà una fotomodella o almeno un premio Nobel. La settimana scorsa è andata a casa, mi ha salutato con quel suo orrendo sorriso sdentato, bellissimo.
O di Isidoro, uno dei nostri «buoni figli», un dolce vecchietto di 5 anni che non dimostra per niente i suoi 60; che salta di gioia quando lo portiamo in macchina a bere una cocacola in «città»; che mi ferma per mostrarmi orgoglioso la sua tartaruga che ha chiamato Brother Moris.
Ma non c’è più tempo, vi parlerò ancora di loro. Adesso è tardi, devo tornare in ospedale. Poi bere una birra e poi andare a dormire. Magari dopo avee cantate un paio con Andrea. Canzonacce da osteria o canzoni d’amore, con la chitarra. Come se fossimo da sempre in vacanza.

Ho sentito in un film una frase dura, che mi ha colpito. Diceva circa così: faranno vedere tutte queste cose al telegiornale, la gente dirà «che vergogna». Poi prenderà in mano la forchetta e ricomincerà a mangiare cena. Forse è proprio così.
Ma non dobbiamo rassegnarci. Non dobbiamo abituarci. Si può cambiare. «Il sole nasce anche d’inverno. La notte non esiste: guarda la luna» diceva una canzone qualche anno fa. Il mondo può cambiare.
Siamo noi che possiamo cambiarlo. Noi, tutti insieme. Un pezzo alla volta. Non so se il Signore mi ha voluto qui per cambiare il mio pezzettino. Credo che ci proverò. Di sicuro sono felice.

Di Daniele Pecorari

Daniele Pecorari




Ebrei del borgo rosso

Inviati dagli imperatori persiani, fin dal secolo vi,
a popolare le regioni orientali del Caucaso, gli ebrei si erano integrati negli usi e costumi degli altri abitanti, che i russi, arrivati all’inizio del xix secolo, chiamarono «ebrei della montagna». La fine del regime sovietico e libero mercato hanno rinfocolato la loro intraprendenza. Ma rimangono soggetti a paure e diffidenze, soprattutto da parte degli azeri musulmani, rimasti economicamente al palo.

Un tempo dovevano avere lo stesso aspetto dimesso i due insediamenti sulla riva destra e su quella sinistra del fiume. Il primo si chiama Quba, ed è abitato da azeri, l’altro Krasnaja Sloboda, ed è abitato da ebrei.
Sono arrivata a Quba in un sonnolento pomeriggio di sabato. Per strada pochi passanti e ancora meno macchine. Ho cercato invano un luogo di ritrovo, una piazza centrale dove ci fosse un po’ d’animazione. Non ho visto che case basse, a un piano, massimo due, per lo più in cattivo stato, e vie silenziose. Tanto valeva andare subito dall’altra parte del fiume, a Krasnaja Sloboda: quella era la meta, il vero motivo per cui ero giunta fin lì, a quattro ore di autobus da Baku.
La cittadina azera, difatti, non presenta particolari motivi di attrazione, ma un paese abitato esclusivamente da ebrei in un territorio musulmano e turco, ebbene, quella è cosa più unica che rara. Così ho attraversato il piccolo parco cittadino e sono scesa per l’ampia scalinata, costeggiata da statue argentee di atleti e atlete palestrati – un commovente kitsch sovietico – che porta al ponte pedonale di collegamento tra le due sponde del fiume.
Prima ancora che mi si spalancasse alla vista, tuttavia, ho avuto del luogo dove ero diretta una percezione sonora. Da dietro gli alberi del parco ho sentito a un certo punto un diffuso picchiar di martelli provenire proprio da quella parte. Lo sguardo, invece, è stato subito attratto dalla mole squadrata di un edificio che, primo ad accogliere il pedone al di là del ponte, con le sue sgraziate dimensioni nasconde alla vista un bel pezzo di paese.
Una volta lasciatolo alle spalle, mi sono trovata all’imbocco della strada principale del paese e ho finalmente scoperto perché i martelli non cessavano di picchiare. L’intera via era costellata di cantieri; ad una ad una le modeste case a un piano vengono sostituite da palazzine di due, tre piani, dall’aspetto solido e pretenzioso, tutte coicioni, architravi, colonnine e torrette. Ne ho subito riconosciuto lo stile: quello dei nuovi palazzi di Mosca, che l’occhio vede crescere in grandezza e numero senza mai abituarsi; uno stile che pare voler dire: «Guardatemi, quanto sono potente e quanto valgo».
Ma qui perché questa ostentazione d’arte architettonica?

Qui vive la più grande comunità di «ebrei di montagna»: così furono chiamati dai russi questi ebrei, che parlano un dialetto persiano e che nelle abitudini e nell’aspetto non si distinguono in nulla dagli altri abitatori del Caucaso. Sulla loro origine circolano le ipotesi più disparate, alcune decisamente leggendarie, come quella che vi vedrebbe le perdute tribù d’Israele, o l’altra che li farebbe un resto del popolo turco dei khazari, che occuparono il Daghestan nei secoli vi-x e che avevano il giudaismo come religione di stato.
Secondo un’altra tradizione sarebbero un ramo degli ebrei di Babilonia. Tuttavia, l’ipotesi più accreditata è che siano i discendenti degli ebrei persiani, mandati dai Sasanidi nel vi secolo a popolare il Caucaso orientale, estrema periferia del loro impero e regione di grande importanza strategica. Quel primo nucleo avrebbe poi raccolto nel corso dei secoli flussi migratori di ebrei provenienti sempre dalla Persia, soprattutto dalla regione caspica del Gilan, e da altre parti del Caucaso.
Non si sa quante migliaia di «ebrei di montagna» vivessero nel territorio degli attuali Azerbaigian e Daghestan, quando i russi vi arrivarono all’inizio del xix secolo. Un volonteroso ricercatore ne contò circa 21 mila nel 1888, di cui 6 mila solo a Evrejskaja Sloboda, il Borgo Ebraico, diventato Rosso, Krasnaja, dopo la rivoluzione del 1917.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso erano, secondo stime approssimative, 50-52 mila. Con la perestrojka, però, molti cominciarono a trasferirsi in Israele, in America, o in Germania. Ve ne sono tuttora dei nuclei a Mosca e in altre città della Russia e c’è anche una grossa comunità a Baku.
Con la fine dell’Urss e l’introduzione del libero mercato, hanno avuto modo di manifestare appieno il proprio spirito imprenditoriale, si sono dati al commercio su larga scala; e le cose devono andare abbastanza bene, a giudicare dalle palazzine che stanno sorgendo nel «Borgo Rosso».

Nonostante l’alacre attività che si sospettava nei cantieri, sebbene fosse sabato, giorno del riposo (che fossero muratori azeri?), per strada di passanti ce n’erano pochi; così per scambiare due parole ho pensato di andare alla chaikhane, dove gli uomini si trovano a bere il tè, chai, a fumare, o a giocare a nardi, una sorta di dama mediorientale.
Gli avventori erano per lo più signori anziani; uno di loro, che nel frattempo aveva fatto arrivare al mio tavolo una teiera bollente, mi ha spiegato che tanti giovani del paese sono in giro per il mondo; i suoi figli, ad esempio, vivono a New York, lui, però, non ha nessuna voglia di lasciare la sua casa per raggiungerli.
Eravamo ormai al tramonto, ma nessuno degli avventori pareva intenzionato ad andare alla funzione del sabato sera; io, invece, avrei voluto assistervi, così ho chiesto al mio ospite di indicarmi la strada per la sinagoga.
L’ho visto imbarazzato. «Nel Borgo ce ne sono sette, mi ha spiegato, ma solo una è aperta e non la più interessante». Ci potevo andare, naturalmente, ma poi mi consigliava di fare un salto a una delle due feste di matrimonio che si preparavano per la serata. Come straniera avrei dovuto considerarmi invitata. Sarebbero state feste ricche, con molti invitati provenienti da ogni parte e cantanti azeri fatti venire apposta da Baku. Era chiaro che, a suo avviso, quella parte della serata sarebbe stata per me di maggiore interesse.
Mentre seguivo le indicazioni per l’unica sinagoga aperta, sono riuscita a individuae altre due, alquanto decrepite. Un tempo a Krasnaja Sloboda le sinagoghe erano 11 – ogni quartiere ne aveva almeno una – tanto da meritare al paese l’appellativo di «Gerusalemme del Caucaso». Poi erano venuti gli anni dell’ateismo di stato: qualche sinagoga fu abbattuta, le altre andarono in rovina o furono adibite ad altri usi. Ora, con la libertà di culto e la nuova prosperità economica della comunità, le cose sono migliorate e si è provveduto a restaurae qualcuna. Gli ebrei del Borgo, tuttavia, non sembrano brillare per zelo religioso.

Davanti alla sinagoga ho trovato solo un gruppetto di uomini in attesa della funzione. Io ero l’unica donna. Siccome alle donne non è consentito pregare assieme agli uomini, per farle in qualche modo partecipare alla funzione la fantasia degli architetti locali ha escogitato un sistema ingegnoso: la stanza loro riservata ha una finestra che dà su un corridoio di separazione, proprio in corrispondenza di un’altra finestra che dà sul locale principale. Grazie a questo gioco di finestre le donne possono seguire la preghiera.
Mi è stato detto che mi sarei potuta fermare nel corridoio, così da vedere meglio. Ne ho approfittato per guardare alcune fotografie lì appese, che documentavano i buoni rapporti della comunità con le autorità azerbaigiane: visite ufficiali di alti funzionari di Baku alla sinagoga e, viceversa, di notabili ebrei ai funzionari di Baku.
Al calar del sole i fedeli sono entrati, togliendosi le scarpe come in una moschea, e la funzione ha avuto inizio. Dal mio punto d’osservazione ho visto gli uomini muoversi al canto della preghiera, passarsi il Libro per leggerlo a tuo, e inchinarsi ai rotoli della Torah, esposti a occidente.
È per questo motivo, oltre che per le differenze nel rito e nelle parole delle preghiere, che quando gli ebrei europei cominciarono ad arrivare nel Caucaso, a seguito della conquista russa, non si mischiarono ai loro fratelli «di montagna», ma si costruirono sinagoghe separate.
Nel quartiere ebraico di Baku i templi delle due comunità si trovano in due vie adiacenti, orientati rigorosamente in direzioni opposte. Il diverso orientamento fa memoria delle diverse direzioni prese dalla diaspora ebraica. Coloro che andarono a occidente rivolsero le loro sinagoghe a est, dove avevano lasciato Gerusalemme, e il contrario fecero coloro che andarono a oriente.
Tra le due comunità non c’era molta simpatia. Gli «europei» snobbavano i «montanari», che quasi non si distinguevano tra la massa degli «incolti asiatici»; questi ricambiavano la diffidenza dei correligionari europei e sembravano trovarsi più a loro agio con i vicini musulmani, con i quali, fuorché la fede, condividevano tutto, perfino l’architettura dei loro luoghi di culto.
Me ne sarei resa conto il giorno dopo andando a spasso per Quba. Per un attimo, nel passare accanto a una moschea di quartiere, ho creduto di aver trovato un’altra sinagoga: la stessa forma a casetta bassa, la stessa torretta sul cucuzzolo. Solo che, a ben guardare, al posto della stella di David, appariva una discreta mezzaluna.

Quando sono uscita dalla sinagoga già imbruniva. Ora in strada c’era animazione. Il martellare era cessato, in compenso si sentivano le note di un’orchestra.
Mi sono ricordata dei due ricchi matrimoni e anche, chissà perché, che non avevo pranzato. Avevo una gran voglia di mettere qualcosa sotto i denti, ma, con i due banchetti di nozze in pieno svolgimento nei due unici ristoranti del paese, non sarebbe stata cosa facile.
Sono tornata un po’ delusa verso il ponte e mi si è nuovamente parato davanti lo sgraziato edificio che avevo notato all’inizio. Era uno dei ristoranti. Al primo piano, dietro il parapetto dell’enorme terrazza coperta, si vedeva un pullulare di teste, in un angolo s’intuiva la presenza dei musicisti, davanti a loro emergevano i mezzibusti dei cantanti.
Non mi aveva un signore per strada appena confermato che avrei dovuto considerarmi invitata alla festa? Così ho fatto un timido tentativo di avvicinarmi alle scale, ma l’ingresso era guardato da due solidi ragazzotti in giacca e cravatta, che non avevano un’aria incoraggiante.
Lì, sul ponte, tra gli sfaccendati venuti a guardare da lontano la festa, ho riconosciuto alcuni ragazzi che avevo visto in sinagoga. Sono stati loro a ridarmi speranza. Esattamente dall’altro capo del ponte, nascosto tra il verde della riva c’era un ristorantino. Si sono offerti di accompagnarmi, perché conoscevano bene il padrone, un azero piccolo e mite, e gli avrebbero detto di trattarmi bene. Nell’attesa che arrivasse la mia cena si sono trattenuti a chiacchierare con me, poi si sono dileguati, nonostante il mio invito a restare. Non volevano disturbarmi mentre mangiavo.

Rimasta sola, mi sono messa a riflettere sul caso singolare di quelle due comunità che da secoli si guardano da una sponda all’altra del fiume. Come in tutto il mondo islamico, anche nel Caucaso gli ebrei non avevano gli stessi diritti dei musulmani, erano soggetti a maggiori obblighi e tasse.
Tuttavia, la loro posizione era qui migliore che altrove. Veniva loro perfino riconosciuto il diritto di portare il pugnale, accessorio indispensabile dell’abbigliamento di un montanaro. Il pugnale nel Caucaso non era solo un’arma, aveva anche un valore simbolico, perché era lo strumento con cui si stipulava un patto di sangue tra due membri di clan diversi; in questo modo si diventava fratelli per elezione, pur non essendolo per nascita, e ci si impegnava a comportarsi in tutto e per tutto come i figli di un’unica madre. Ci furono casi in cui un simile patto unì musulmani ed ebrei. Ma ciò avvenivano soprattutto nei villaggi sparsi tra i monti.
A Evrejskaja Sloboda, ai piedi delle montagne, il rapporto con i vicini turchi era, invece, piuttosto freddo. Gli ebrei avevano potuto insediarsi in quel luogo solo per volere del Khan di Quba, che intorno al 1730 aveva loro concesso un lembo di terra su cui costruirvi il villaggio. Non avevano diritto di occupare i terreni circostanti, motivo per cui, con l’arrivo di nuove famiglie e il crescere della comunità, le case si erano sempre più infittite.
Raramente gli ebrei si arrischiavano ad andare sulla riva opposta, per paura di essere aggrediti o derubati. È significativo che il ponte sia stato costruito solo nell’Ottocento e che, anche in seguito, il traffico tra le due sponde fosse minimo.
Ora, però, i destini delle due comunità sembravano invertirsi: grazie alle doti nel commercio dimostrate dai suoi abitanti, Krasnaja Sloboda prosperava, le case crescevano in altezza, la via principale era appena stata riasfaltata, e le numerose auto vi correvano senza fare la gimcana tra le buche, o sobbalzare sui grossolani rattoppi del fondo stradale.
Speriamo, mi dicevo, che tutta quella mostra di ricchezza non susciti cattivi sentimenti nei vicini azeri, evidentemente non così abili nell’adattarsi ai nuovi tempi.
In Azerbaigian la ricchezza che viene dal petrolio si vede solo in centro a Baku, non arriva neanche alla periferia della capitale, figuriamoci a Quba. Qui, non diversamente che in tante altre parti dell’ex Urss, bisogna conoscere l’arte di arrangiarsi, oppure avere parenti all’estero che mandano di tanto in tanto un po’ di valuta pregiata. Se non si hanno né l’uno, né gli altri, la vita è grama. Speriamo, dunque, che la miseria non sia cattiva consigliera.
Questo pensavo, mentre le note delle canzoni azere mi giungevano da oltre il fiume, così come qualche ora prima il picchiettio dei martelli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




«Il matrimonio? Meglio combinato!»

Pensi di trovare il fatidico «velo». Invece la maggioranza delle ragazze sono truccate e vestono all’occidentale. I fidanzati girano mano nella mano, cosa impensabile in altri paesi arabi. I problemi poi sono gli stessi dei giovani occidentali, innanzitutto il lavoro che non c’è. Dipinto di un Marocco che non t’aspetti.

Da Marrakech a Rabat, da Rabat a Tangeri. Sana’a viaggia con il padre, un imprenditore, sul treno che da Marrakech la sta portando a Rabat, dove abita. Ha diciassette anni e frequenterà l’ultima classe del liceo (che dura soltanto 3 anni, dopo i 9 della scuola dell’obbligo): è bellissima nel suo viso ovale dal profilo regolare e dai grandi occhi neri. Vestita con pantaloni aderenti, camicetta sbracciata, scollata e stretta, capelli sciolti, sandali da spiaggia con infradito, chiacchiera allegra con l’amica che li ha accompagnati nella settimana di vacanze nel caos della più famosa delle città marocchine. «Dopo le superiori farò l’università, la facoltà di lingue forse. In famiglia abbiamo studiato tutti».
«E il matrimonio?», domandiamo. Arrossisce, a dimostrazione che, nonostante la moda e i veloci cambiamenti, certi argomenti rimangono nella sfera del privato e del pudore: «Più in là». «Ma esistono ancora quelli combinati?», insistiamo. A questo punto interviene il padre, simpatico, cordiale, ma protettivo: «Certo, e sono una grande istituzione. Solo le madri conoscono bene i propri figli e possono capire quale partner è più indicato per il successo della vita comune. Mia figlia maggiore si è sposata con un matrimonio combinato: le due mamme si sono accordate nel presentare i due ragazzi, che si sono piaciuti e che, dopo qualche settimana, hanno deciso di sposarsi. È una bella coppia, felice».

Tangeri. Alcuni ragazzi sorseggiano bibite e tè alla menta seduti ai tavolini di un bar, in Avenue d’Espagne, a ridosso delle mura della caotica e affascinante medina. Sedie allineate una a fianco all’altra verso la strada, come è d’uso in Marocco, chiacchierano e ridono. Ciò che colpisce subito è l’abbigliamento: sono vestiti alla moda, in jeans e magliette firmate (Nike, Calvin Klein, Versace, Diesel, ecc.). Indossano cappellini da baseball e occhiali scuri molto fashion. Non appartengono a famiglie facoltose – frequenterebbero altre zone della città meno popolari di questa – ma, come molti della loro età, sono attenti alla moda, soprattutto occidentale, e investono i soldi di qualche lavoretto o dei regali in abiti o oggetti del consumismo made in Usa o in Europe. Non sembrano affatto diversi dai ragazzi delle nostre città italiane: oltre ai commenti divertiti o curiosi sui turisti che sfilano davanti a loro, i discorsi ruotano intorno a scuola, lavoro, divertimenti. Questo, almeno, per i più fortunati, coloro che non sono stati costretti a svolgere umili mansioni subito dopo o, in certe aree più arretrate, al posto delle scuole primarie.
Le ragazze, in giro, non sono da meno: magliette attillate che si fermano all’ombelico, jeans o gonnelloni a vita bassa, scarpe a punta e con tacchi alti, piercing, capelli colorati o con la piega appena uscita dal coiffeur, trucco marcato su occhi e labbra, aria sicura e provocante. Decollété, miniabiti e così via: nel bene e nel male, un altro mondo rispetto alle comunità islamiche d’Europa, che si dibattono su «velo sì, velo no» e sulla sua lunghezza. Non che da noi manchino le ragazze musulmane dall’abbigliamento moderno e sportivo. È solo che qui in Marocco sono la maggioranza!
Anche le abitudini musicali e il divertimento sono simili: dalla techno al rap, dal rock arabo alle «contaminazioni» musicali, dal raï ai cantanti più in voga negli Stati Uniti o in Europa e alla musica latino-americana, i maghrebini amano ballare e cantare, dai più piccoli ai più grandi, dalle città al deserto. I grandi centri urbani offrono discoteche e divertimenti d’ogni sorta destinati ai turisti e alla popolazione che può permetterseli. L’hashish è una presenza costante e diffusissima in quasi tutto il Marocco, ma anche le colle, che vengono sniffate quasi pubblicamente da bambini e adulti nei quartieri più poveri e degradati delle metropoli.
Per molti teenagers (e oltre) marocchini, certe tradizioni sono una noia da cui liberarsi al più presto. Anche nei rapporti di coppia sono un po’ più «disinibiti» di qualche tempo fa: vanno in giro a braccetto o mano nella mano, si guardano negli occhi con tenerezza, si abbracciano. Un gran bel balzo in avanti se paragonato a paesi come l’Egitto, dove i fidanzatini non s’azzardano neanche a sfiorarsi e camminano ben separati, e dove una coccola in pubblico può costare cara.
Nonostante il perdurare dei matrimoni combinati – sia all’interno del clan familiare sia nella cerchia di amici e conoscenti dei genitori -, i giovani stanno cercando con sempre più determinazione di acquisire libertà ormai garantite ai loro coetanei occidentali. Sono tante, infatti, le coppiette formatesi tra i banchi di scuola o all’università, o in discoteca o nelle compagnie di amici. E anche nelle chat-line, usatissime dai quindici-trentenni.

Ouarzazate. La città, a ridosso delle montagne dell’Alto Atlante e alle porte delle spettacolari valli del Drâa e di Dadès, è chiamata la «Hollywood del Deserto»: è infatti diventata un importante centro di produzione cinematografica. Nei suoi studios hanno girato molti colossal, tra cui il recente Alexander.
Hakim, 24 anni e una laurea in legge conseguita un paio di anni fa, lavora con il padre negli «Atlas corporation studios» come aiuto scenografo.
Look sportivo e aria simpatica, racconta delle difficoltà che un giovane marocchino, con un ottimo curriculum scolastico, incontra nell’inserimento professionale:
«I posti pubblici, molto ambiti, sono saturi. Siamo tantissimi, ormai, a possedere titoli di studio elevati, e il mercato del lavoro non offre grandi possibilità. Come in altri paesi del Mediterraneo, qui vale la regola delle amicizie influenti. Chi non trova l’occupazione giusta, quella per cui ha investito anni di studio, e soldi, si deprime. Tanti miei coetanei si trovano in questa situazione e sognano di andare lontano, in America o in Europa. Ma io non lo ritengo giusto: si deve lottare e vincere là dove si vive. Eppoi, lo stile di vita frenetico, stressato dell’Occidente non mi interessa. Comunque, mi ritengo fortunato: non esercito la professione di giurista, ma faccio un bellissimo mestiere, creativo e a contatto con registi, attori, persone di tutto il mondo. Guadagno bene e ho molto tempo libero a disposizione per gli amici, le letture e per girare il paese».

Hakim è fortunato. La vita dei ragazzi marocchini può cambiare radicalmente a seconda delle zone e, ovviamente, del livello economico e sociale di appartenenza: nei monti dell’Alto Atlante, nelle meravigliose oasi che si dischiudono dopo centinaia di chilometri di paesaggi aridi o desertici, i ragazzi sono più vincolati ad abbigliamenti e tradizioni locali e la povertà impone loro un ingresso precoce nel mondo del lavoro.
Tuttavia, se non ci si ferma all’apparente spensieratezza e cordialità che caratterizza il Paese, si scoprirà che la situazione sociale è complessa e dura. La disoccupazione imperversa su diplomati, laureati e incolti. Su tutti coloro che non abbiano risorse familiari o amicizie da spendere per trovare un buon posto di lavoro, magari governativo, o per aprire attività autonome. Sono tantissimi i giovani con ottimo curriculum scolastico o universitario che brancolano nel buio di un futuro senza prospettive che li relega in mestieri umili, manuali, mal pagati. Molti cadono nella depressione e nell’uso delle droghe o dell’alcornol (acquistato clandestinamente). Prostituzione, spaccio e tratta degli esseri umani attraverso il mercato dei clandestini, costituiscono l’unica risorsa per gli strati più disperati, soprattutto lungo la costa mediterranea, e una grande ricchezza per i racket mafiosi, locali e inteazionali.
Le riforme sociali stanno attraversando il paese, mutando realtà che sembravano etee.
I giovani marocchini aspettano il loro tuo.

Di angela Lano


LIBRI, FILM, SITI INTERNET

Libri:
«Il pane nudo», Mohammed Choukri, edizioni Theoria, Milano 1993
«Soco Chico», Mohammed Choukri, edizioni Jouvence, Roma 1997
«Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta», Ross E. Dunn, Garzanti, Roma 1993
«La terrazza proibita. Vita nell’harem», Fatima Meissi, Giunti editore, Firenze 1996
«I ragazzi dei vicoli», Abdelhak Serhane, edizioni Theoria, Roma 1992
«Favole del deserto», a cura di Ettore Fasolini, Emi editrice, Bologna 1995
«Onze histornires marocaines», a cura di Mohammed Saad Eddine El Yamani, Institut du Monde Arabe, Paris 1999
«Il tè nel deserto», Paul Bowles, Garzanti, Milano 2003

Film:

«Hideous Kinky – Un treno per Marrakech», di Gillies Mackinnon (1998)
«Door to the sky», di Farida Ben Lyzaid (1989)
«Le coiffeur du quartier des pauvres», di Mohammed Reggab (1985)
«Casablanca», di Michael Curtiz (1942)

Siti:

· www.al-bab.com/maroc
Sito che offre collegamenti dove trovare notizie di varia utilità.
· www.maghrebarts.ma
Si trovano informazioni su cinema, musica, teatro, spettacoli, feste, ecc.
· www.mincom.gov.ma
Sito governativo dove trovare informazioni su molti aspetti della vita sociale, politica e culturale del Marocco.
www.cia.gov/cia/publications/factbook/geos/mo.html Sito della Cia e contiene una dettagliata descrizione del Marocco.

Angela Lano