AFRICA, la mia terra

Incontrare le culture: imperativo per la convivenza e urgenza pastorale

Danze, canti, poesie e conferenze in un convegno «a tutta Africa». Incontro – confronto con il mondo africano attraverso il racconto fatto dagli immigrati presenti in mezzo a noi; per iniziare a conoscee cultura, mondo spirituale e stile di vita.

Viene da sorridere con un po’ di amarezza leggendo questi versi. Dove si nasconde quest’Africa così bella? Africa, dalla natura contaminata per i troppi scempi provocati dall’uomo: ambientali, sociali, politici. Contaminatissima Africa, donna che tutti vogliono e tanti, troppi possiedono, gente che fa  di tutto, ma proprio tutto, per poterla conquistare.
Questi versi, però, li ha scritti Osmund, un nigeriano grande e grosso, immigrato in Italia come tanti suoi connazionali e con, probabilmente, una lunga storia alle spalle da raccontare; questi versi li ha scritti per un’occasione speciale: non per parlare della nuova terra che lo ospita o del viaggio fatto per raggiungerla, bensì per raccontare qualcosa del mondo da cui viene, dell’Africa che ha lasciato, dell’amore per il suo continente.
«L’Africa si racconta» è il titolo di una giornata speciale di musica, immagini e parole dedicate al continente africano, che si è tenuta a Torino il 18 novembre scorso, presso i missionari della Consolata. Promosso dall’«Ufficio di pastorale migranti» della diocesi torinese, l’incontro è stato un’occasione di ascolto e confronto su vari aspetti del mondo africano e della sua cultura vissuti nell’esperienza di immigrati presenti in mezzo a noi. Oltre a Osmund hanno partecipato Kenneth, Marie Noelle, Restituta, Peter, Jean Nöel ed Erasto, provenienti da parti diverse del continente, ciascuno con la propria esperienza di vita e la voglia di condividerla. Tutta africana è anche stata l’organizzazione dell’evento, che ha avuto come motore trainante la comunità ecumenica nigeriana (con l’accompagnamento dei missionari e delle missionarie della Consolata) e la collaborazione di altre comunità africane presenti a Torino.  L’idea di fondo è stata quella di lasciare che, per una volta, l’Africa potesse raccontarsi facendo emergere la propria storia dalle storie  personali dei suoi protagonisti, senza servirsi, come sovente accade, delle mediazioni. Il rischio che si voleva evitare era duplice: da un lato lasciare che l’Africa venisse raccontata, come spesso accade, da non africani. Dall’altro, l’appiattirsi in attività, anche pastorali, concepite senza tener conto di una diversità che reclama attenzioni particolari alle varie identità culturali. Si è voluto evitare anche l’apporto di specialisti, privilegiando la freschezza e la spontaneità dell’approccio all’approfondimento. Quattro chiacchiere tra amici o, meglio, tra gente che vuole essere amica, su temi importanti su cui si gioca la sfida del vivere insieme. Si è voluto che l’Africa raccontasse se stessa grazie alla voce di chi, nel cuore, nella mente e sulla pelle, fa leggere agli altri con chiarezza, orgoglio e semplicità il suo essere africano.
Osmund si è imbarcato in un tema difficile: la religiosità africana nel mondo del bene e del male. Ne ha parlato con entusiasmo, non da specialista, ma da persona impegnata per anni in un gruppo ecumenico che a Torino riunisce cristiani di varie confessioni, tutti di origine africana e di lingua inglese. Il suo è stato un viaggio all’interno della religiosità tradizionale, per cercare di spiegare con parole semplici il mondo dei simboli, dei riti, del mistero che influenza la visione del cosmo e l’etica dell’uomo africano. Osmund ha fatto accenno al carattere pervasivo della religiosità africana, che coinvolge la totalità della vita della persona e della comunità: nascita, matrimonio, famiglia, posterità e morte. Ha fatto accenno al difficile rapporto fra religione ed etica, con il ruolo centrale giocato dal sacerdote tradizionale, capace di influenzare la comunità attraverso il potere che gli viene attribuito dalla sua speciale relazione con il mondo degli spiriti. Un accenno importante è stato anche fatto in merito ai cambiamenti che la modeità ha apportato e continua ad apportare nel modo in cui gli africani si relazionano oggi con il trascendente.
Il carattere fortemente impregnato di religiosità della vita africana coinvolge, come si è detto, altri aspetti dell’esistenza. Kenneth, ad esempio, anch’egli nigeriano e impegnato nel gruppo cristiano-ecumenico, ha dedicato la sua riflessione al tema «famiglia e comunità». Analizzando gli stereotipi che più frequentemente deve ascoltare su questo argomento, Kenneth ha toccato temi come la famiglia tra tradizione e modeità, la poligamia, il clan, riassumendo il forte vincolo che si viene a creare fra membri della stessa famiglia con il detto africano: «Io esisto perché gli altri esistano». Il senso della comunità è così forte che la persona finisce con il non contare in quanto singolo, ma soltanto come membro della comunità. Nella sua relazione ha evidenziato come il tentativo di affermare la propria individualità venga considerato dagli altri membri della comunità come vero e proprio desiderio di prevaricazione. Ciò che si deve perseguire non è il vantaggio personale, ma l’interesse della famiglia, sia nucleare che allargata.

Il tema della famiglia ha trovato il suo sbocco naturale nella riflessione offerta da don Jean Nöel, sacerdote del Madagascar attualmente in servizio presso la diocesi di Torino. Attraverso la virtù dell’ospitalità, la forte unione familiare africana si apre verso l’esterno, verso l’accoglienza dello «straniero». L’ospitalità è rispetto, dono, dialogo. Come il relatore ha ricordato, l’ospitalità africana tradizionale trascende il confine segnato dal focolare domestico, ma si apre a tutti gli ambienti di socializzazione. La scuola, gli ospedali, gli uffici, ma soprattutto la strada, sono ambienti dove l’ospitalità viene riconosciuta come una virtù tra le più importanti, come un vero e proprio segno di accoglienza.
Suor Restituta, missionaria della Consolata tanzaniana, ha ricordato come tutti i valori in discussione (famiglia, comunità, ospitalità, religiosità) passino attraverso il ruolo della donna.  «Una donna è un fiore in un giardino – recita un proverbio del Ghana con cui suor Restituta ha voluto iniziare il suo intervento – suo marito è la recinzione intorno a lei». Vera «pietra angolare» della famiglia, la donna è l’agente propulsore della società africana: «È attraverso la sua fantasia, il suo duro lavoro, il suo elevato senso del rispetto reciproco che, ogni giorno, viene rafforzata la vita della famiglia e della comunità». Partendo dalla figura della donna, sottolineandone gli stravolgenti ritmi di lavoro quotidiano per mantenere la propria famiglia, suor Restituta si è spinta a fare delle considerazioni importanti anche sul senso stesso del lavoro e sull’uso del tempo. Due argomenti fra loro collegati e fonte di frequenti incomprensioni fra l’africano emigrante e noi, gente del Nord. Per l’africano, il senso del tempo differisce enormemente da quello frenetico al quale ci siamo abituati. Il tempo è in funzione della persona, non viceversa. Come conciliare allora la mentalità imperante del «time is money» (il tempo è denaro), con quella alternativa dell’«African time», ovvero del tempo inteso, anche e soprattutto, come occasione per incontrarsi, ascoltarsi, osservare la realtà che ci sta intorno e che rappresenta il terreno comune su cui siamo chiamati a relazionarci? Suor Restituta non ha offerto soluzioni, ma il suo appello a continuare il confronto su questo tema non deve esser lasciato cadere.
La camerunense Marie Noelle ha invece parlato di vita, morte, malattia e antenati. Lo ha fatto con grande entusiasmo e simpatia. Come non crederle, per esempio, quando ha ribadito l’amore che gli africani hanno per la musica e la danza, oppure quando ha affermato che non esiste vita senza musica, festa, stare insieme? Bastava guardarla muoversi sul palco: nel moto perpetuo delle sue gambe e nell’oscillare ritmico delle sue braccia stava la prova vivente di quanto veniva dicendo. Marie Noelle ha parlato di «vita», presente anche nella sofferenza; vita riscoperta nella malattia, nel dolore, nel lutto grazie alla forza dello stare insieme, della famiglia, della comunità.
Peter, tanzaniano e missionario dello Spirito Santo, invitato in veste di cappellano della comunità africana anglofona di Torino, ha invece messo l’accento sulla realtà delle divisioni etniche in Africa. Nel suo intervento ha ricordato che parlare di Africa vuol dire riferirsi a un universo molto complesso e variegato (alcuni relatori hanno di fatto riconosciuto che, pur parlando di tratti specificatamente africani della cultura, stavano in realtà presentando il volto nigeriano, tanzaniano o malgascio del continente) e che il forte carattere familiare e tribale, indubbio valore della società africana, può diventare causa di divisione e conflitto quando viene esageratamente esaltato.
Erasto, missionario della Consolata tanzaniano, ha fatto gli onori di casa, introducendo e cornordinando i vari interventi e aggiungendo qui e là qualche perla di saggezza e buonumore. Il resto della serata si è perso nei colori e nei suoni del continente africano. Balli, canti e una sfilata di costumi tradizionali africani hanno movimentato il pomeriggio al di là delle parole.
«Adesso viene il bello», verrebbe da dire a conclusione di questo convegno che ha riunito insieme una platea di circa 300 persone, tra cui diversi rappresentanti delle istituzioni. Il primo passo importante è stato fatto e ha coinciso con l’affermazione di un «esserci». Ora, però, rimane il tragitto più lungo, quello dell’interculturalità. Come far sì che, dall’affermazione di un’identità –  «Siamo fatti così, prendeteci come siamo» – si possa passare ad un dialogo più profondo fra le varie comunità? Questo è il nocciolo della questione e la meta alla quale questo incontro voleva puntare.
Forse si potrebbe ipotizzare un passo successivo affinché questo bellissimo ritrovarsi non si perda nell’elenco delle occasioni mancate e venga ricordato per i suoi tratti più folcloristici: quello di privilegiare una dinamica basata sul racconto delle esperienze di vita. Il migrante africano che si racconta in quanto tale, con il bagaglio della sua esperienza e della sua cultura messa questa volta a contatto con un mondo «altro» che ha incontrato. Accenni sono stati fatti, c’è buona strada per continuare il cammino e per far sì che l’incontro culturale porti frutti abbondanti in tutti i campi del nostro vivere sociale, incluso quello pastorale ed ecclesiale.  

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Haiti / Il paese «suicida»

Senza legge: come nel Far West

Storia di ingerenze straniere e falsi messia. Il paese più povero delle Americhe è tornato nell’oblio. Un
governo che tarda ad affermarsi e lo strapotere delle bande armate
rendono la vita impossibile. Riforme radicali di polizia, sistema
giudiziario e rinnovo della classe politica sono necessari. Così come
veri programmi di sviluppo. Mentre un popolo tradito da tutti continua
la sua lenta discesa nel baratro.

Haiti:
un paese «suicida». Così gli esperti di cooperazione internazionale
classificano il piccolo stato caraibico. «Quello che si può tentare,
con gli aiuti, è frenae la lenta inesorabile discesa» confida un
esperto. Uno «stato in fallimento» secondo altri osservatori stranieri,
forse perché mancano alcuni degli elementi stessi costitutivi di uno
stato. Piccolo (poco più grande del Piemonte), ma sovraffollato (quasi
300 abitanti al km quadrato) e con una storia particolarmente
stravagante.
È qui che Cristoforo Colombo approda nel suo primo viaggio verso le
Indie e vi crea l’avamposto europeo nelle Americhe. L’intera isola
diventa spagnola  e i conquistatori ne massacrano gli indigeni
nativi. Nel 1697 la parte occidentale è ceduta alla Francia, che vi
instaura il suo sistema coloniale di sfruttamento. Vi importa centinaia
di migliaia di africani, in catene. Haiti diventa il più importante
produttore di zucchero per il mondo «civilizzato» di allora.
In una notte di agosto del 1791, con una cerimonia segreta sulle
montagne, il sacerdote vudù Boukman scatena l’impressionante rivolta
degli schiavi, che sarà guidata dal capo carismatico Toussaint
Louverture. Con la vittoria sulle truppe napoleoniche del generale
Leclerc, Haiti diventa il primo stato indipendente con popolazione nera
del mondo. È il gennaio 1804.

Ricorsi storici

Duecento anni dopo il popolo haitiano non festeggia: è di nuovo in
rivolta. Questa volta con la delusione e l’amarezza. Contro l’ex
salesiano Jean-Bertrand Aristide, che le comunità di base, soprattutto
della chiesa cattolica legata alla teologia della liberazione, avevano
portato alla presidenza con le prime elezioni democratiche (fine 1990).
Cacciato Duvalier, quattro anni prima, dopo tre decadi di feroce
dittatura, il movimento della società civile è forte e organizzato.
Haiti diventa un simbolo, anche per gli altri paesi latino americani.
Troppo per gli Usa di George Bush padre, che tramite la Cia,
organizzano il colpo di stato del generale Cédras. Altro sangue, ancora
violenza. La parola d’ordine è reprimere il movimento. Oltre 3.000 sono
i morti, molti i leader popolari. A fine ‘94 gli stessi Stati Uniti,
con Clinton, riportano Aristide al potere. L’ex prete è diventato molto
ricco, ha amici influenti tra i democratici Usa, incamera senza rendere
conto ingenti somme di aiuti inteazionali. Milioni di dollari. Quello
che resta degli intellettuali legati alla società civile haitiana
prende le distanze. Il suo entourage diventa composto da ex
duvalieristi, ex putchisti e personaggi di dubbia fama. Il paese
intanto va alla deriva, i poveri sono sempre più poveri. Le bidonville
della capitale Port-au-Prince si ingrossano di disperati. La gente,
soprattutto i contadini (oltre il 70%) sono disorientati. Si dice che
gli haitiani siano un popolo «messianico»: hanno bisogno di un leader
carismatico, un «messia». Aristide, il populista, l’imbonitore, ha
sempre incarnato questo ruolo. Riesce ancora ad alimentare un certo
sostegno con i discorsi. Ma quando questi non bastano più inizia a
distribuire armi e a organizzare bande armate a lui fedeli: nascono le
chiméres (chimere). Intanto si avvicina al narcotraffico: l’isola è
diventata uno dei corridoi preferenziali per la cocaina colombiana.

la «morte» dei diritti

È un periodo oscuro di brogli elettorali, minacce e omicidi politici.
Il 3 aprile del 2000 è assassinato Jean Dominique, decano dei
giornalisti haitiani e combattente per la democrazia. Aveva nel suo
cassetto alcuni dossier scottanti sull’ex salesiano. Il principale
indagato è il senatore Dany Toussaint, del partito di Aristide, suo ex
capo della polizia e sospettato di vari crimini. Quel che resta della
società civile ha un sussulto. La classe politica è all’impasse.
L’opposizione non ha figure di rilievo, ma chiede le dimissioni di
Aristide indicandolo come il responsabile del caos in cui versa il
paese. La comunità internazionale condiziona gli aiuti allo sblocco
della questione elettorale (le elezioni del ‘97 e del 2000 furono
contestate dall’opposizione e dagli osservatori): i rubinetti restano
chiusi.
E arriva il 2004: l’anno del bicentenario dell’indipendenza. All’inizio
di febbraio il malcontento crescente prende la forma dell’insurrezione
armata. Noti personaggi del passato, ex militari, ex golpisti e
squadristi, ma anche ex sostenitori di Aristide, tutti professionisti
della violenza non tardano a prendere la guida dei rivoltosi. Esiste
anche l’opposizione non violenta, delle organizzazioni politiche e
della società civile (riuniti nel Gruppo 184) che manifesta sotto i
tiri dei fucili mitragliatori in mano alle gang di Aristide. Gli Usa di
George W. Bush e la Francia tentano una mediazione: per evitare il
bagno di sangue fanno pressioni sul controverso presidente, affinché
lasci il paese. 
Aristide fugge il 29 febbraio e si instaura un governo di transizione
che porterà alle elezioni (rinviate ben cinque volte) a febbraio 2006.
La comunità internazionale invia un contingente di caschi blu, la
Minustah (Missione per la stabilizzazione di Haiti), inizialmente di
composizione Usa, Canada e Francia e poi sostituita da sudamericani,
sotto il comando brasiliano (circa 7.500 militari e 2.000 poliziotti
del Unpol).
Oggi il presidente è l’agronomo Réné Préval, già primo ministro di Aristide nel 1991, poi presidente dal 1996 al 2001.

Difficile guardare al domani

Secondo Gotson Pierre, giornalista haitiano del sito Alterpresse,
Préval di oggi è diverso dal fantoccio pilotato da Aristide di ieri:
«lo slancio autoritario del primo mandato sembra aver lasciato il posto
a un maggiore spirito di apertura e di consenso. A livello della sua
politica economica, però non sembra ci siano troppi cambiamenti: domina
la visione neoliberale. Il presidente ha già annunciato la
privatizzazione della compagnia telefonica». E i suoi legami con
Aristide? «Durante la campagna elettorale ha mostrato una certa
autonomia, e avrebbe manifestato in privato la sua distanza. In
pubblico, avvalendosi della costituzione che non prevede l’esilio, non
si oppone al ritorno di Aristide, ma neanche a un suo processo.
Nonostante questo, la denuncia contro l’ex presidente depositata presso
il tribunale di Miami dal governo di transizione è stata ora ritirata».

Préval è stato eletto con più del 50% dei voti, il che dimostra che ha
un certo sostegno popolare, «tuttavia la situazione potrebbe degenerare
rapidamente se il governo non otterrà dei risultati concreti nel medio
periodo a livello della sicurezza e a quello socio-economico» continua
il giornalista.
«La situazione è molto complicata – racconta un intellettuale haitiano
che vuole mantenere l’anonimato – c’è innanzitutto l’insicurezza. Ci
sono ancora molte armi in circolazione, quelle che furono distribuite
da Aristide alle bande da lui finanziate. Anche ai bambini. Il paese è
in mano alle gang armate. Alcune sono di origine politica, altre di
delinquenti comuni. Gli Usa hanno rispedito ad Haiti decine di banditi
che erano nelle loro prigioni e che avevano imparato i metodi della
gang da loro». La violenza, che da sempre caratterizza la storia del
popolo haitiano, è oggi ai suoi apici, in un teatro particolarmente
confuso.
Racconta un missionario italiano, da anni nel paese: «La gente vive
nella paura, nonostante lo spiegamento delle forze dell’ordine locali
ed inteazionali (Minustah e Unpol, ndr), anche se ci sono momenti di
tregua. Le bande di ogni tipo, rivali tra loro, hanno armi sofisticate»
.

Tra realtà e leggenda

Le gang armate sono conosciute, hanno capi storici, figure quasi
mitologiche, con storie di vendette, assassini e successioni violente.
Operano in quartieri il cui nome fa tremare. Come Amaral Duclona,
potente capo di una delle bande di Cité Soleil (enorme bidonville della
capitale Port-au-Prince): molto vicino ad Aristide, ha anche supportato
la campagna di Préval. È il successore di Tupac (soprannome ispirato da
un celebre rapper statunitense), ucciso da una banda rivale. La storia
di Tupac è già diventata un film.
Amaral, teoricamente ricercato dalla polizia, guida anche le
manifestazioni di piazza che invocano il ritorno di Aristide, e la
partenza della Minisutah, come nel 9 novembre scorso.
L’«esercito del piccolo macete», della zona Martissant – Carrefour ha
partecipato a due recenti sanguinosi massacri in agosto 2005 e luglio
2006, in scontri con la polizia o altre gang. O ancora l’«esercito
cannibale» che domina la città di Gonaives.
«C’è stata una tregua solo durante le votazioni, imposta da Préval, ma
ora le cose ritornano confuse, anche se i media non ne parlano. I morti
tra le diverse fazioni, forze dell’ordine, cittadini comuni, compresi i
bambini, davvero non si contano. Disordini e blocchi stradali, scioperi
a ripetizione, magazzini chiusi, ambulanti e dettaglianti che si danno
alla fuga, la gente nel panico». Continua il missionario. «Bel Air, nei
pressi della Cattedrale, rue Pavé, Poste-Marchand, (tutte zone centrali
della capitale, ndr) sono covi di banditi, che sparano all’impazzata e
lanciano sassi contro le macchine che si avventurano nei paraggi. Senza
parlare dei cumuli di spazzatura in decomposizione, che tappezzano le
strade di Port-au-Prince, dandone un’immagine deturpata e ributtante».

Quando non sai cosa fare …

Uno dei sistemi utilizzati dalle gang di ogni tipo per finanziarsi è il
rapimento a scopo di estorsione. Fenomeno comparso a fine 2004, conta
decine di vittime tutti i mesi, soprattutto nella capitale. Da un
minimo di 14 persone rapite al mese al picco di 115 dello scorso
agosto, secondo solo alle 241 del dicembre 2005. «Sono comprensibili i
disagi di chi è obbligato a spostarsi in città per acquisti, per
consultazioni o ricoveri in ospedale», dice il missionario.
La paura dei rapimenti, in molti casi anche per motivi politici, sta
causando la fuga di cervelli e la chiusura di esercizi commerciali.
«Molti professionisti (ingegneri, medici, bancari) sono fuggiti in Usa,
Canada, ma anche a Cuba. Molte ditte, imprese hanno chiuso i battenti».
Mentre continua la triste storia dei boat people: «A migliaia i poveri
varcano le frontiere di Haiti per la Repubblica Dominicana e spesso
sono malamente rimpatriati. Mentre altri in battelli di fortuna tentano
di raggiungere la Florida, ma solo pochi sono stati fortunati… ».
Questi fatti hanno un impatto negativo anche sull’economia, come
ricorda l’intellettuale haitiano: «Le casse sono completamente vuote.
Occorrono investimenti per rimettere il paese in piedi. Gli investitori
vedono interessante la possibilità dei bassi salari, ma senza sicurezza
e senza infrastrutture è impossibile lavorare. I rapimenti scoraggiano
ulteriormente. Occorre quindi il disarmo per poter sperare di
sviluppare il paese».
Ad Haiti la maggior parte delle strade sono disastrate (l’Unione
europea ne sta riasfaltando alcune), non ci sono i ponti e manca
l’elettricità perfinonella capitale.

Primi in corruzione

La violenza è alimentata dall’impunità, che è la regola ad Haiti. E
questa è figlia della corruzione. L’Ong Transparency Inteational,
tutti gli anni pubblica la classifica dei paesi del mondo in base alla
corruzione. La classifica del 2006, resa nota a novembre, ha visto
Haiti ultimo classificato su 163 paesi valutati (l’Italia è 45sima),
subito preceduto da Guinea, Iraq e Myanmar a pari merito.
«La corruzione ha impregnato ogni settore socio, politico ed economico
del paese. Il sistema della giustizia è totalmente corrotto. Ecco
perché c’è un ritorno delle esecuzioni sommarie: se un ladro viene
scoperto, è immediatamente ucciso. In caso contrario, se arrestato se
la caverebbe pagando la polizia o il giudice e poi toerebbe a
vendicarsi su chi lo aveva fatto catturare» racconta il nostro
interlocutore.
In un recente rapporto l’Inteational Crisis Group (Icg, ottobre 2006)
esamina la situazione della sicurezza e mette in evidenza le debolezze
dello stato, come la mancanza di autorità e controllo. Raccomanda
nell’immediato una profonda riforma della polizia, con sostituzione di
ufficiali e uomini ai diversi livelli e del sistema giudiziario, per il
quale occorre formare una nuova classe di giudici. Fondamentale è lo
smantellamento delle bande armate e anche il controllo di frontiere e
porti, precisa il rapporto. «Haiti farà un passo avanti solo quando i
cittadini sentiranno una restaurazione dell’autorità dello stato e del
regno della legge nella vita quotidiana» ha dichiarato Mark Schneider,
vice presidente dell’Icg. «Questo esige un repulisti nella polizia,
l’eliminazione della percezione dello stato come sorgente
d’arricchimento personale e la creazione di prospettive per i poveri».
Il rapporto richiama, inoltre, la comunità internazionale a impegnarsi
nel medio e lungo termine ad appoggiare Haiti con investimenti su
educazione, sviluppo rurale e infrastrutture urbane. Ma anche
riforestazione e recupero ambientale sono essenziali.

Armi, rapimenti e … coca

Il tutto si intreccia con il crimine internazionale legato ai traffici.
«C’è la questione della droga. L’entourage di Aristide ne era
largamente coinvolto. Ad esempio il capo della sua guardia
presidenziale, Oriel Jean è oggi in prigione negli Usa per
narcotraffico» ricorda l’intellettuale anonimo. «Gli ingenti proventi
di questo commercio sono il veleno per Haiti. Il paese è un importante
crocevia per la cocaina proveniente dalla Colombia in direzione di Usa
e Canada». È stato stimato che un terzo della cocaina colombiana
destinata agli Usa passi da Haiti, mentre i tre quarti di quella
sequestrata negli aeroporti di Montreal tra il 2000 e il 2004 aveva la
stessa provenienza.
Il traffico divenne importante fin dai tempi del colpo di stato di
Cédras (1991) per continuare a crescere, protetto dall’instabilità
politica, e agevolato dalla «porosità» delle frontiere. I narcos usano
piccoli aerei che dalla Colombia atterrano su piste rudimentali, con la
connivenza di autorità locali e polizia. Anche nei pressi della
capitale c’è una di queste piste. La droga non è consumata in loco,
perché gli haitiani sono troppo poveri, ma il denaro del traffico
alimenta tutto il sistema della corruzione.

«Disarmare o morire»

Il governo di Préval e del primo ministro Jaques-Edouard Alexis tenta
di intervenire, con apparente fermezza, ma troppo timidamente nella
realtà. «Il governo attuale non è in fase con le attese della
popolazione – sostiene Gotson Pierre – riscontriamo piuttosto un certo
lassismo e lentezza. Il perdurare dell’insicurezza e della violenza,
soprattutto a Port-au-Prince, e la gestione esitante, non trasmettono
un segnale positivo». Un programma di disarmo, smobilitazione e
reinserzione (sul modello di quelli attuati nei paesi in guerra) per
gli uomini delle gang è stato lanciato e una commissione nazionale
recentemente istituita. Gli ennesimi piani di ristrutturazione della
polizia e del sistema giudiziario sono in elaborazione, ma devono
essere attuate riforme radicali.
«Usano il bastone e la carota: si danno un’aria di fermezza ma poi
invitano i capi gang al palazzo presidenziale» osserva l’intellettuale.
«Disarmare o morire» aveva lanciato Préval lo scorso agosto sulle onde
radio. In effetti questo è il punto su cui il presidente si è più
investito, coadiuvato da Minsutah e Unpol (polizia internazionale) ma,
finora, senza troppo successo.
E il movimento popolare che era riuscito a liberarsi di Duvalier?
«La società civile ha poca influenza in questo momento. I contadini
sono stati delusi profondamente da Aristide, e non osano dirlo. Allo
stesso tempo la miseria li costringe a impiegare le loro energie più
per sopravvivere, trovare da mangiare, piuttosto che per organizzarsi a
partire da zero. Qualche segnale positivo c’è» continua
l’intellettuale.
«Spero che la società civile possa rimettersi in piedi, adesso è in “ibeazione”».
«Esiste ancora qualche rete, ma gli interventi sociali si manifestano
oggi più sotto la forma di lobbing e non di mobilitazione popolare»
osserva Gotson Pierre.
La chiesa, soprattutto alla base, è rimasta «bruciata» da una scelta,
quella dell’ex sacerdote salesiano, che la storia ha rivelato
fallimentare. «La chiesa haitiana tace. La Conferenza episcopale è
divisa, ancora oggi, tra pro e contro Aristide. Non c’è stato un
pronunciamento a favore delle vittime di sequestri, violenze carnali
alle donne, torture» racconta il missionario. «Nessuna presa di
posizione ufficiale per denunciare le ingiustizie che si perpetrano
continuamente. Un intervento, isolato, da parte del vescovo della
capitale, Mons. Sérge Miot, dopo il sequestro del missionario italiano
Gianfranco Lovera (agosto 2005, ndr), che invitava le autorità a
operare per debellare la violenza, diventata sistema, e la polizia a
intervenire con decisione per fermare i banditi».

Il grande manovratore

La debolezza, o talvolta la connivenza, delle istituzioni statali,
hanno lasciato spazio alle bande armate e alla loro violenza. Molte di
queste sono legate all’ex presidente Aristide, e c’è chi sostiene che
questi riesca a controllarle dal suo esilio dorato in Sud Africa. Molti
temono un suo ritorno, altri, soprattutto le chimères lo 
invocano. L’intellettuale: «Aristide sta cercando di prepararsi il
terreno per tornare. Agisce di nascosto, sotto, sotto. Questo è molto
pericoloso». Gotson Pierre: «Nelle strutture politiche e nello stato ci
sono ancora uomini di Aristide. Il suo partito Fanmi Lavalas pur
minoritario, è rappresentato in parlamento. Penso che non possa avere
un futuro politico ad Haiti, almeno non ufficiale, ma potrebbe
manovrare nelle retrovie».
«Haiti non è uno stato in fallimento, ma uno stato in grande
difficoltà» ha recentemente dichiarato Préval. Potrebbe apparire tale
ai tecnocrati perché è obbligato «a smantellarsi per finire di essere
uno strumento d’esclusione e oppressione». 

Marco Bello

Il volontario racconta …

Ritoo ad Haiti

Dajabon, frontiera nord tra la Repubblica Dominicana e Haïti. Un
placido rivolo separa i due paesi, qualche bambino sgambetta nell’acqua
per riempire le taniche, alcune donne si bagnano, altre fanno il
bucato, e non diresti mai che quel rigagnolo si chiama «Rivière du
Massacre». Il ricordo delle aspre battaglie con cui nel XVII secolo
spagnoli e francesi si contendevano la colonia, è stato sostituito
dalle più recenti centinaia di morti ammazzati o annegati, nella triste
guerra tra poveri tra dominicani e haitiani, in cerca di un posto
migliore in cui vivere.
Carichiamo le valigie su un carretto, unico mezzo per attraversare il
piccolo ponte presidiato dai militari dominicani. Il colore della mia
pelle e il mio passaporto ci salvano da strattoni, schiaffi e pugni che
poliziotti in borghese dispensano a chiunque sia in transito, perché
oltre che pagare il visto bisogna pagare il pizzo o comunque lasciare
qualcosa.
È questa la nostra porta d’ingresso in Haiti, essendo chiuso l’altro
principale passo frontaliero del sud, Malpasse. Ostaggio di una gang
armata che vuole controllare i traffici di chi, doganiere,
contrabbandiere, piccolo commerciante, camionista o conducente di
autobus, con la frontiera sopravvive.

Rieccoci in Haiti, dove le poche ore previste per il viaggio si sono
già trasformate in una settimana di vana attesa alla frontiera chiusa,
e poi in tre giorni di autobus e jeep per percorrere trecento
chilometri. Questo peregrinare è reso meno faticoso dall’ospitalità
straordinaria di chi si fida di te, non perché ti conosce, ma perché
gli fai il nome di un amico comune. Allora ti dà da mangiare, ti mette
una camera a disposizione o ti procura un passaggio in auto.
Dopo colline a perdita d’occhio, finalmente il mare, con la sagoma
soiona della leggendaria isola della Tortuga: è l’inconfondibile baia
di Port-de-Paix. La lontananza anche fisica dalla capitale ha permesso
a questa città di essere un vero «porto di pace», senza i disordini e
le violenze dovuti alle varie crisi politiche. Tranquillità pagata
tuttavia con una totale dimenticanza e abbandono da parte delle
istituzioni centrali e dai vari programmi di sviluppo.
Fondata dai bucanieri, la città non ha perso la tradizionale vocazione
«piratesca» ed è sopravvissuta grazie al contrabbando, alla tratta dei
disperati in partenza verso le Bahamas come boat-people, e ora al
traffico della droga.
Capita così che dove c’erano soltanto vecchie case o baracche troviamo
ora villette. Un po’ ovunque: per costruire hanno mangiato la spiaggia,
scavato le colline. Hanno edificato perfino su uno stretto istmo di
sabbia che divide il mare da una palude, bonificata con
approssimazione. Ogni volta che piove un po’ di più, si intuisce quella
che sarà una strage annunciata.
La popolazione è cresciuta. Molti sono quelli che hanno preferito
ritornare a casa, abbandonando il lavoro o gli studi che avevano
trovato nella capitale Port-au-Prince, divenuta invivibile a causa
delle violenze.
Altri ancora arrivano da Gonaives, altra città del paese politicamente
molto calda e funestata due anni fa da un’inondazione che causò più di
4 mila vittime.

Il quartiere di Myriam sembra essere sempre lo stesso. Soffocata dalle
case, la stessa strada impossibile da percorrere si abbarbica su per la
collina. Dalla terra affiorano i tubi dell’acqua, vecchie scarpe,
rifiuti, copertoni. Sembrano gli stessi di due, quattro, quindici anni
fa.
Le traballanti bancarelle del mercatino, i banchetti per giocare al
lotto, le casette di legno dei piccoli spacci alimentari. La vecchia
carcassa del pullman di Sonson, ancora lì, parcheggiata sul ciglio nel
punto di pendenza massima, sempre ciondolante di bambini giocosi.
I cortili delle case, gli stessi consunti tavoli da domino all’ombra
delle piante, i galli da combattimento legati, i panni stesi sulle
aiuole di piante spinose. La stessa risata fragorosa di Emilién è il
benvenuto del quartiere, e anticipa l’abbraccio di parenti e amici.
Anche i nipotini mi sembrano sempre gli stessi, mi chiedo per un
attimo: non crescono mai? Poi mi rendo conto che non sono più venti, ma
ventiquattro, e quella che pensavo fosse Charlanda in realtà è la
sorellina più piccola… mi ci vuole qualche giorno, e recupero la
dignità di un buon zio che sa riconoscere tutti.

Gli stessi aquiloni ingarbugliati ai fiacchi fili della luce, spesso
inutili. Le serate a raccontarsela tra vicini, dopo l’eterno miracolo
di arrivare alla fine della giornata con poco. Perché se molto è
rimasto uguale, quello che continua a cambiare sono i prezzi,
soprattutto degli alimenti di base: riso e prodotti orticoli stanno
diventando un lusso senza alternativa, e il commercio è limitato dai
costi enormi e dalle difficoltà degli spostamenti.
Passa un funerale: la sfilata di ottoni della banda, uniformi pesanti
sotto il sole, ombrelli, vestiti a balze di organza. Anche questo non è
cambiato. Si muore, tanto, per nulla. O, meglio, non esistono diagnosi
e chi di «guaritore» ha solo il nome è ancora considerato meglio che un
medico.
Per questo molti non ci sono più. Rimane il coraggio e la forza di chi
resiste in un paese dove nulla al momento può far presagire un domani
migliore, se non il fatto di esserci, comunque.

Alessandro Demarchi*

*Volontario ad Haiti dal ‘93 al ‘96 dopo un primo viaggio nel 1991, non
ha mai cessato di seguie le vicende, anche con frequenti visite. Vive
con la moglie, originaria di Port-de-Paix, e due figli a Torino, dove
lavora per una Ong piemontese come esperto di fund raising.

Cronologia essenziale

1492 Cristoforo Colombo sbarca
nel nord ovest dell’isola, vi installa il primo insediamento europeo
del nuovo mondo. Inizia la decimazione della popolazione autoctona, i
Taino. La colonia si chiama Hispaniola.
1697 Con il trattato di Ryswick la Spagna cede alla Francia la parte occidentale dell’isola che prende il nome di Saint Domingue.
1791 Inizia la rivoluzione degli schiavi guidata da Toussaint Louverture.
1804 Proclamazione
d’indipendenza, e sconfitta dell’armata napoleonica. Durante la guerra
muoiono 100 mila ex schiavi e 20 mila francesi. Il Paese prende il nome
di Haiti. La popolazione bianca fugge all’estero.
1915-1934 Occupazione Usa.
1957-1986 Dittatura dei Duvalier: François «Papa Doc» e Jean Claude «Baby Doc» che fuggirà dal paese, a causa del sollevamento popolare.
1986-1990 Periodo di giunte militari e presidenti de facto. Tentativi, falliti, di elezioni.
1990 16 dicembre: elezioni con
osservatori Onu. Vittoria popolare del movimento Lavalas: Jean-Bertrand
Aristide presidente con il 67% dei voti.
1991 30 settembre: dopo soli 7
mesi colpo di stato militare. Il generale Cédras si autonomina
presidente. Aristide in esilio. Oltre 1.500 assassii in una settimana.
Smantellamento del movimento popolare. I militanti di Lavalas sono
costretti alla resistenza passiva e alla clandestinità.
1991-1994 Dittatura militare
capeggiata da Raul Cedras. L’Onu decreta l’embargo verso Haiti.
Aristide è riportato dai marines Usa (20 mila unità) nell’ottobre del
’94.
1995 dicembre: nuove elezioni
e vittoria del candidato del partito Lavalas, Renè Préval. Aristide non
può candidarsi  perché la costituzione non prevede due mandati
consecutivi. Préval resta in carica fino a febbraio 2002.
2001 Aristide diventa, per la seconda volta, presidente della Repubblica.
2004 29 febbraio il presidente
Aristide, a causa delle forti  pressioni intee ed inteazionali
(Francia, Usa, Canada), lascia il potere e parte in esilio, prima in
Centrafrica e poi in Sudafrica.
2004 1 marzo: il Consiglio di
Sicurezza dell’Onu approva l’invio di una forza internazionale (Usa,
Francia e Canada) che verrà rimpiazzata nei mesi successivi dai caschi
blu delle Nazioni Unite (Minustah). 
2004 17 marzo: G. Latortue (ex
ministro degli Affari esteri, 1988) diviene il Primo ministro di un
governo di transizione incaricato di organizzare le elezioni generali.
2004 30 settembre: alcuni
sostenitori dell’ex presidente Aristide reclamano il suo ritorno e
lanciano una serie d’attacchi violenti, sono più di 400 i morti fino al
gennaio 2005.
2005 31 maggio: un attacco nel
centro della capitale, attribuito a partigiani dell’ex presidente
Aristide, fa almeno 10 morti tra la popolazione civile.
2005 ottobre-dicembre: nella capitale drammatica escalation della violenza e dei rapimenti a scopo d’estorsione.
2006 7 febbraio: dopo essere
state rimandate per cinque volte, si svolge il primo tuo delle
elezioni presidenziali e parlamentari. Préval dichiarato vincitore, si
insedia il 14 maggio. A dicembre amministrative e legislative parziali.

Marco Bello




Il futuro siamo noi

Situazione giovanile: tratti distintivi di una generazione

In una società diversificata e complessa come quella europea, in un’epoca in cui trionfa il pensiero debole, senza le certezze e punti di riferimento del passato, i giovani sembrano spaesati e a disagio, senza valori né ideali forti, in balia delle mode e dell’effimero. Eppure sono molti gli esempi di giovani impegnati per un mondo di pace e giustizia per tutti. Nella costruzione dell’Europa vogliono solo essere ascoltati e incoraggiati.

Non è facile definire in modo univoco la situazione dei giovani in Europa: elementi di discontinuità e ambivalenza sembrano prevalere sui tratti comuni in molti aspetti della vita. Nonostante la varietà e contraddittorietà delle situazioni, si riscontrano tratti culturali di fondo ed elementi distintivi della generazione attuale, che rispecchiano il momento storico in cui è chiamata a vivere e la differenziano dalle generazioni e modelli del passato.
Analizzando le attese dei giovani, si può tracciare un quadro dei loro valori etici e culturali, del modo di percepirsi all’interno della società, degli orientamenti con cui mirano a realizzarsi, dei problemi che devono affrontare nella modeità avanzata o post-modeità: un tempo denso di opportunità, ma anche carico di tensioni e condizionamenti.
Il progresso della scienza e della tecnica, infatti, offre enormi vantaggi anche ai giovani, ponendoli al centro di molti stimoli e sollecitazioni, ampliando il loro livello di coscienza, costringendoli alla riflessione e al confronto con rapidi cambiamenti di situazioni. Al tempo stesso, questi aspetti positivi sono accompagnati da costi personali e sociali: sono scomparse le certezze, i punti di riferimento e il consenso comunitario del passato; la crisi delle grandi ideologie ha provocato la frammentazione del pensiero e l’affermarsi di modelli individualistici di realizzazione e il rischio di un «effetto spaesamento».
Il rapido cambio di scenari a livello economico e finanziario, lavorativo, culturale e politico, rende sempre più difficile fare previsioni realistiche in tanti aspetti della vita; precarietà, insicurezza esistenziale, incertezza del futuro accompagnano l’esistenza della maggioranza degli individui. In uno scenario poco chiaro, denso di sollecitazioni e imprevisti, non è facile orientarsi su problemi e scelte, siano esse di grande o minore importanza.

Europa diversificata e complessa

Attraversata dai fenomeni della globalizzazione, oggi l’Europa appare diversificata e complessa, sia per il retaggio delle diverse vicende storico-politiche (come quelle tra Est e Ovest), sia per la pluralità di tradizioni e culture: greco-latina, anglosassone, slava. Tali diversità, tuttavia, costituiscono anche la ricchezza del vecchio continente e ne rendono significative, in contesti diversi, espressioni e scelte, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e la fine della guerra fredda. Se nei paesi orientali si avverte il problema di come gestire la ritrovata libertà, in quelli occidentali ci si interroga su come vivere l’autentica libertà.
L’attualità socio-culturale europea mostra un’eccedenza di possibilità, occasioni, sollecitazioni, in contrasto con la carenza di focalizzazioni, propositività, progettualità; ciò aumenta il grado di complessità di questa stagione storica, con ricaduta negativa sul piano vocazionale.
L’Europa post-modea assomiglia a un «pantheon», un grande «tempio» in cui sono presenti tutte le «divinità» e ogni «valore» trova la sua nicchia. «Valori» diversi e contrastanti sono presenti e coesistenti, senza una gerarchia precisa: codici di lettura e valutazione, di orientamento e comportamento del tutto dissimili tra loro.
Quando una cultura non definisce più i valori capaci di dare senso alla vita o non riesce a creare convergenze e priorità attorno ad essi, ma pone tutto sullo stesso piano, risulta difficile avere una visione unitaria del mondo e si indebolisce la capacità progettuale della vita.

Giovani e l’Europa

Questa cultura pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, si ripercuote nella vita di tanti giovani: da un lato essi cercano appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza d’orizzonti; dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere, delusi dalle ideologie e dalle istituzioni politiche, confusi dal disorientamento etico.
Per questo, in un tempo avaro di certezze e sicurezze, essi ricercano nelle esperienze più disparate una conferma di sé stessi. I vari ambiti di vita rappresentano luoghi in cui misurare se stessi e le proprie capacità, per maturare conferme alla propria identità, comprendere chi si è e cosa si è in grado di fare. Per una condizione giovanile, che vive un processo di socializzazione molto aperto, ha continuamente bisogno di ridefinire se stessa e ottenere rassicurazioni e certezze.
Il pendolo della loro vita oscilla tra rivendicazione della soggettività e desiderio di libertà; in una cultura debole e complessa come la nostra, la soggettività spesso diventa soggettivismo, mentre la libertà degenera in arbitrio.
La capacità dei giovani di progettare il futuro è vista in un’ottica limitata alle proprie vedute, in funzione di interessi strettamente personali, di autorealizzazione, in una logica che riduce il futuro alla scelta di una professione, alla sistemazione economica o all’appagamento sentimentale-emotivo: orizzonti che di fatto riducono la voglia di libertà e le possibilità del soggetto a progetti limitati, con l’illusione di essere liberi.
Per lo più sono scelte spesso senza apertura al mistero e al trascendente, con scarsa responsabilità nei confronti della vita propria e altrui, della vita ricevuta in dono e da trasmettere ad altri. Tali sensibilità e mentalità rischiano di delineare una sorta di «cultura antivocazionale». Nell’Europa culturalmente complessa e priva di punti di riferimento, il modello antropologico prevalente sembra essere quello dell’«uomo senza vocazione».

Frammenti di un ritratto

Una cultura pluralista e complessa tende a generare nei giovani un’identità incompiuta e debole, con la conseguente indecisione cronica di fronte alla scelta vocazionale. Precarietà della vita e futuro occupazionale incerto inculcano nei giovani paura per il loro avvenire e ansia davanti a impegni definitivi.
Se da una parte cercano autonomia e indipendenza ad ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente socioculturale. Vivono una «rassegnazione contenuta», descritta come «tipologia dell’abbastanza»: si va abbastanza d’accordo con i loro genitori che concedono loro abbastanza libertà; si ha abbastanza voglia di diventare adulti, ma non troppo in fretta.
Qualcuno ha definito i giovani una «generazione mongolfiera», che galleggia nel tempo senza fretta di atterrare: si assiste a un’estensione smisurata dell’età adolescenziale, al punto che si parla di «società adolescentrica».
Altra caratteristica della condizione giovanile attuale è la frammentarietà: l’esperienza di vissuto personale è divisa in tanti frammenti isolati, come pezzi di un puzzle senza coice, scollegati da una logica «vocazionale» di senso e di valori. Così, la vita è composta di gesti che non diventano mai stili di vita, azioni che si esauriscono nei gesti, progetti che si dileguano tra i sogni, passioni di un giorno cancellate da una notte, incertezza di un corpo che si fa e si disfa a seconda delle ore del giorno.
Circolano come nomadi senza fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso; infedeli ai modelli che assumono, «tentano» di darsi contegno con trasgressioni che si rinnovano come tappe inconcluse di un eterno disordine.
Gradualmente si è imposto un modello di giovane proteiforme, che fa lo «zapping» della propria vita, passando da un’esperienza all’altra. Punto di fusione tra le varie esperienze è la gratificazione emotiva,  che deve essere immediata, da vivere nell’istante; nella successione d’istanti, un’esperienza estingue l’altra.
Rilevante tratto culturale nei giovani è l’importanza assunta dai sentimenti: ciò che si sente e si percepisce, lo stato d’animo e il piacere che si prova. Tale criterio-guida riguarda non solo la sfera privata, in particolare il campo dell’affettività e sessualità, ma anche l’orientamento della vita reale e delle scelte decisive. Le esperienze istantanee, senza durata né valore, producono appartenenze deboli e plurime nello stesso tempo a mondi vitali diversi, mai definitivi: si sceglie oggi, senza rinunciare però ad altre opzioni possibili, rinviandole solamente a tentativi futuri.
Lo sviluppo tecnologico ha invaso la nostra vita con modelli comunicativi inediti. I giovani post-modei, sommersi da una grande quantità di informazione, ma con scarsità di formazione, esistono perché «connessi», navigano in internet, parlano con gli sms, chat-lines, blogs o diari telematici: una comunicazione anonima, in tempo reale, ma «senza contatto» reale.
Essi abitano un universo simulato, invece dei luoghi tradizionali dell’incontro; anche se frequentano i luoghi ordinari, con la testa sono altrove; sono vivi e partecipi nei «non-luoghi» di evasione e trasgressione, del fascino della notte, dove è possibile sentirsi diversi; ma anche il prossimo diventa mondi virtuali, dove ci si può costruire una «seconda vita», interagendo con gli altri. Tutti espedienti  che fungono da sedativo del «vuoto» che tanti giovani sperimentano a riguardo del senso della vita e dei valori; un vuoto spesso assordato dalla musica a tutto volume.
Al vuoto lasciato dalla crisi dei sistemi di valori tradizionali è subentrato il consumismo come unico rivelatore simbolico della propria identità. In realtà a guadagnarci è solo il «mercato». Lo sanno bene i cornolhunters o trendsetters (cacciatori di tendenze, ricercatori di stili), emissari delle nuove aree di profitto, che fanno proprie le istanze stilistiche, di comportamento ed espressive dei giovani, tipiche della società dell’immagine e del mercato dell’intimità dei reality show. Pubblicità, produzione dell’abbigliamento, agenzie di viaggio, industrie del divertimento hanno decodificato la condizione di smarrimento dei giovani molto prima e molto meglio di quanto abbiano fatto le statistiche sociologiche.
Fa tenerezza incontrare giovani, pur intelligenti e dotati, in cui sembra spenta la voglia di vivere, di credere in qualcosa, di tendere verso obiettivi grandi, di sperare in un mondo che può diventare migliore grazie anche ai loro sforzi.
Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o nel dramma della vita, smarriti lungo sentirneri interrotti e appiattiti ai livelli minimi della tensione vitale, parcheggiati in quella terra di nessuno, dove la famiglia non svolge più alcuna funzione, la società alcun richiamo e le agenzie educative alcuna attrazione. Sono senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che sarà una fotocopia del presente.
I giovani sono sospettati di voler conquistare visibilità nei grandi raduni, nella violenza gratuita della guerriglia urbana, nel malcontento della estraneità culturale (squatters, autonomi dei centri sociali). Di loro si elencano i «vizi capitali»:  boom dell’esoterismo e satanismo, fede «leggera» della New age, smania del rischio, sfida con la morte, delinquenza e uso di droghe… E le condanne fioccano sugli adepti di questo popolo nascosto. Ma gli strali si concentrano sul dito anziché su quello che il dito indica.

Grida di aiuto

Eppure questi fenomeni dell’attuale disagio giovanile, apparentemente slegati tra loro, hanno una correlazione profonda e inosservata: sono grida di aiuto incomprese, che esprimono in modo disarticolato paura del futuro, delusioni di sogni infranti, desiderio di una vita autentica, voglia di solidarietà, silenzio, spiritualità, di una società diversa.
Invece di giudicare, bisognerebbe riconoscere che le loro insoddisfazioni rispecchiano le ambivalenze e contraddizioni della nostra società, di un malessere che è semplicemente sintomo della disgregazione dei legami sociali in stato avanzato.
Quando i telegiornali senza scrupolo mettono in scena i giovani protagonisti di tragedie familiari, violenze cittadine, stupri collettivi, limitandosi a sollevare una carica emotiva e di indignazione, senza indicare l’urgenza di una profonda riflessione anche su una responsabilità sociale, acconsentono la latitanza delle istituzioni e degli adulti, che rende possibile la ripetizione e l’aumento di certe tragedie.
In questo contesto, che dovrebbe suscitare qualche riflessione, nascono spontanee alcune domande: che ne è di una società che fa a meno dei suoi giovani? È solo una questione di spreco di energie o il primo sintomo della sua dissoluzione?
Che ne è dei milioni di giovani scesi in piazza per manifestare contro la guerra nel marzo 2003? O delle centinaia di migliaia di partecipanti alle radunate oceaniche delle Gioate mondiali della gioventù o ai concerti dei loro idoli? O quelli che hanno bruciato le periferie delle città francesi e sono rientrati temporaneamente nei ranghi della legalità?
Perché non guardare anche alla galassia dei piccoli gruppi e associazioni, che vivono le microstorie di volontariato sociale, trascorrono l’estate in campi di servizio ai poveri, impegnati nell’associazionismo, fanno pellegrinaggi a Santiago de Compostela o si isolano in monasteri alla ricerca di momenti di silenzio e solitudine?
Perché dubitare se questi giovani saranno capaci di assumere una responsabilità nel processo di costruzione dell’Europa, di superare vecchi odi e rancori, di costruire ponti di accoglienza e rispetto della diversità, di lottare per la pace e la giustizia?
Come raccogliere il grido disarmante dei tantissimi giovani anonimi, disorientati dai «vizi capitali», che soffocano la voglia di vivere nelle diverse forme di disagio sociale?

Ascoltare, comprendere, sostenere, incoraggiare

Al di là del disorientato e della mancanza di precisi punti di riferimento, bisogna guardare alla condizione giovanile con ottimismo: il cammino di costruzione dell’Europa potrebbe diventare un traguardo e offrire un adeguato stimolo ai giovani europei. In realtà essi hanno nostalgia di libertà e cercano verità, spiritualità, autenticità, originalità personale e trasparenza; hanno desiderio di amicizia e reciprocità; vogliono costruire una nuova società, fondata sui valori della pace, giustizia, rispetto per l’ambiente, attenzione alle diversità, solidarietà, volontariato e pari dignità tra i generi. 
Le più recenti ricerche descrivono i giovani europei come smarriti, ma non disorientati, impregnati di relativismo etico, ma anche desiderosi di vivere una «vita buona», coscienti del loro bisogno di salvezza, sia pure senza sapere dove cercarla. Ne fanno fede i tanti giovani animati da sincera ricerca di spiritualità e coraggiosamente impegnati nel sociale, fiduciosi in se stessi e negli altri e distributori di speranza e ottimismo.
Per questo hanno bisogno di essere incontrati e ascoltati, non solamente nelle occasioni ufficiali, ma personalmente, nella quotidianità, senza sentirsi giudicati. A partire dalla famiglia, primo nucleo dell’affettività, fino a tutte le agenzie educative (scuola, associazioni di vario tipo) i giovani chiedono attenzione significativa e interessata, indispensabile per sentirsi considerati e per costruire dentro di sé un’identità riconosciuta.
In tempi di omologazione, conformismo, ripetitività, la via d’uscita dal «pantheon» delle idolatrie esige uno sforzo di costruzione di una «cultura dell’interiorità», per abituare i giovani a uno spirito critico, ai tempi lunghi delle trasformazioni, a pagare il pedaggio del sacrificio per ottenere risultati duraturi.
Linguaggio e forma dei mezzi di comunicazione concorrono a trasformare tempo e spazio in contenitori da riempire e svuotare con  «immediatezza» e «simultaneità». Tale cultura del «tempo reale» impedisce di pensare e riflettere, frappone una «distanza» tra se stessi e un fatto o situazione e la sua interpretazione, necessaria per metabolizzare eventi e cambiamenti.
Senza le capacità di pensare e interpretare, vien meno la memoria, cioè quelle tracce dell’esperienza già vissuta che permettono di creare relazioni con gli eventi presenti e progettare il futuro. Diviene fondamentale aiutare i giovani a rileggere la propria vita e sentirsi parte e protagonisti di una storia personale, nazionale, europea e mondiale, per rintracciae gli insegnamenti e responsabilità.
La voglia dei giovani di diventare protagonisti nella vita pubblica non deve essere delusa. Essi devono essere coinvolti nel dibattito in corso sulla costruzione dell’Unione europea. I giovani rappresentano un enorme capitale per l’Europa d’oggi e del futuro. Su di essi si fanno notevoli investimenti, anche se non sempre le loro aspettative sono concretamente accolte dal mondo degli adulti o dei responsabili della società civile.
Al termine della Convenzione europea dei giovani, tenuta a Bruxelles il 9-12 luglio 2002, con la partecipazione di 210 rappresentanti di 28 paesi, i giovani hanno lanciato un appello in cui guardano fiduciosi al comune futuro europeo;  meritano di essere ascoltati.
«Vogliamo una riforma ambiziosa dell’Unione, che la attrezzi per rispondere alle sfide di oggi e cogliere le opportunità di domani. Un’Europa unita nella diversità è realizzabile. Noi vi chiediamo di più di quello che siamo disposti a fare e in grado di fare per noi stessi… Vogliamo un’Europa della tolleranza, dell’apertura e dell’integrazione; edificata sui valori fondamentali di pace, libertà, dialogo, uguaglianza, solidarietà e rispetto dei diritti umani e basata sul principio di uguaglianza degli stati membri. Al centro della nostra visione c’è un’Europa responsabile dei e verso i suoi cittadini. È giunto il momento di creare una vera cittadinanza europea…
La cooperazione internazionale è anche un antidoto contro il nazionalismo, conflitti etnici e dittature. L’Unione europea deve operare per la pace, democrazia, diritti dell’uomo,  disarmo e sviluppo in tutto il mondo. Perché ci sia un’Europa forte in futuro è indispensabile che la UE ponga un maggior accento sull’ascolto dei giovani, agevolando la comunicazione interculturale e transfrontaliera…
Noi, membri della Convenzione dei giovani dell’Europa, siamo pronti a forgiare il futuro della nostra generazione, del nostro continente». 

Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Il dolore degli innocenti

Nel 50° anniversario della morte di don Carlo Gnocchi

«Sogno, dopo la guerra, di dedicarmi per sempre a un’opera di carità, quale che sia, o meglio, quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una cosa sola: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”». Così scriveva nel settembre 1942, il tenente cappellano degli alpini don Carlo Gnocchi. Sul fronte russo prende corpo la sua vocazione di «apostolo del dolore innocente»
e «padre dei mutilatini».

Chi lo ha conosciuto conserva nella memoria l’immagine di un asceta medievale: viso affilato, occhi luminosi, labbra atteggiate a un sorriso triste, ma colmo di espressiva bontà; sacerdote fino in fondo e mai un bigotto, a totale servizio dell’umanità sofferente. Talvolta fu considerato un «prete scomodo», perché in quei tempi, quando tutti miravano al benessere per dimenticare gli orrori della guerra, egli scopriva il senso della vita proprio nel dolore del prossimo.

ESPERIENZA BELLICA

Terzogenito di Enrico, marmista e Clementina Pasta, sarta, Carlo Gnocchi nacque il 25 ottobre 1902 a San Colombano al Lambro, presso Lodi. Orfano del padre a cinque anni, si trasferì a Milano con la madre e i due fratelli, che di lì a poco morirono di tubercolosi.
Seminarista alla scuola del card. Andrea Ferrari, fu ordinato sacerdote nel 1925 dal card. Tosi e celebrò la prima messa a Montesiro, dove  trascorse lunghi periodi di convalescenza in casa di una zia. Nominato coadiutore della parrocchia di Ceusco sul Naviglio, l’anno seguente fu trasferito nella parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano, come assistente dell’oratorio.
Nel 1936 il card. Schuster lo nominò direttore spirituale dell’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane, assistente spirituale degli universitari della Seconda legione di Milano e insegnante religioso all’Istituto tecnico commerciale Schiapparelli. Furono anni di studi intensi, in cui scrisse brevi saggi di pedagogia.
Quando l’Italia entrò in guerra, nel 1940, molti studenti furono chiamati al fronte; per essere vicino ai suoi giovani anche nel pericolo, don Gnocchi si arruolò come cappellano volontario  nel battaglione alpino «Val Tagliamento», destinazione il fronte greco albanese.
Dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 il tenente cappellano fu inviato prima sul fronte russo con gli alpini della Tridentina. L’esperienza del conflitto, con tutti i suoi orrori, lo segnò profondamente, facendogli scoprire la sua vocazione, il suo «sogno» o «carriera» a difesa dei più deboli, come scriveva a un cugino nel settembre 1942.
Nel gennaio 1943, durante la drammatica ritirata del contingente italiano e la tragica esperienza vissuta nella sacca di Nikolajewka, don Carlo si prodigò nell’assistenza agli alpini feriti e morenti, raccogliendone le ultime parole, fotografie dei loro cari e indirizzi di casa, per poi visitare i familiari e portare loro un conforto morale e materiale.
Reduce dal fronte russo, don Gnocchi rimase colpito dal disagio in cui si trovavano tutti gli italiani, civili e militari. Il bilancio di guerra era impressionante: circa 15 mila bambini mutilati, dallo scoppio degli ordigni bellici. Attraverso contatti con la Croce Rossa, autorità militari, civili e religiose, li raccolse nell’Istituto dei grandi invalidi di Arosio (Como), di cui fu nominato direttore (1945).

IL PRIMO MUTILATINO

Una sera sull’imbrunire, mentre rientrava nella Casa di Arosio, trovò ad attenderlo una giovane donna, con in braccio un bambino di pochi anni, che gli disse tra le lacrime: «Non ho più nulla, sono sola al mondo. È da due giorni che non mangiamo. Don Carlo, lo prenda lei il mio Paolo, la scongiuro». Così dicendo, depose il bimbo a terra e si volse come per andarsene, singhiozzando.
Il bambino aveva la gamba destra amputata dall’esplosione di un ordigno bellico; non potendosi reggere, cominciò a trascinarsi penosamente, anch’egli piangendo e guardando la mamma. Don Carlo si inginocchiò accanto al piccolo e lo abbracciò fissandolo con tenerezza, senza dire una parola, fino a quando madre e figlio cessarono di piangere. Si alzò stringendo al petto il piccolo mutilato che finalmente rispose con un tenue sorriso alla carezza del sacerdote. Anche la povera madre sorrise di riconoscenza.
Quel bambino si chiamava Paolo Balducci; aveva otto anni; fu il primo mutilatino ricoverato tra gli orfani di Arosio. Per tutta la sera e parte della notte don Carlo non si allontanò da quel bambino che lo guardava e gli si stringeva come se avesse trovato un nuovo padre, tanto buono da racchiudere in sé anche la tenerezza della madre.
Cominciava così la «carriera» di don Carlo Gnocchi, dando vita a un’opera che lo portò a guadagnare sul campo il titolo di «padre dei mutilatini».

«PRO INFANZIA MUTILATA»

Occorreva, senza indugio, informare la pubblica opinione, coinvolgere le persone di ogni ceto e far vedere i tristi effetti di una guerra fratricida, dimostrare la necessità di riparare all’ingiusta sorte abbattutasi ciecamente sopra inermi e innocenti fanciulli.
Fiducioso in Dio e nella bontà degli uomini, don Gnocchi costituì associazioni di sostegno e non diede più pace a conoscenti e a quanti potevano contribuire alla raccolta di denaro, indumenti e materiale per i suoi mutilatini.
Ben presto la struttura di Arosio divenne insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti, le cui richieste di ammissione giungevano da tutta Italia. La Provvidenza gli venne incontro, nel 1947, con la concessione in affitto, per una cifra simbolica, di una grande casa a Cassano Magnago (Varese).
Tra le innumerevoli difficoltà organizzative e gestionali che tale iniziativa comportava, don Carlo provò anche l’amarezza del rifiuto, l’incomprensione e la critica importuna di qualche sedicente amico. Tuttavia, tali tribolazioni furono compensate dal riconoscimento delle autorità governative: i ministeri degli Intei e della Pubblica Istruzione gli assicurarono appoggio e fondi.
Per meglio cornordinare gli interventi assistenziali verso le piccole vittime della guerra, don Gnocchi fondò la «Federazione pro infanzia mutilata», giuridicamente riconosciuta dal presidente della repubblica Luigi Einaudi, con decreto del 26 marzo 1949. Lo stesso anno, il capo del Goveo, Alcide De Gasperi, promosse don Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio per i problemi dei mutilati di guerra.
Grazie alle sue insistenti richieste al governo e a donazioni spontanee, don Gnocchi ottenne l’assegnazione dei vari edifici pubblici e privati in cui aprì nuovi collegi: nel 1949 a Parma e Pessano (Milano); nel 1950 a Torino, Roma, Saleo e Inverigo (Como); nel 1951 a Pozzolatico (Firenze) e Passo dei Giovi (Genova).
I collegi di Pessano e Passo dei Giovi furono riservati alle ragazze mutilate; mentre quello di Inverigo ospitò anche bambini mulatti, nati in Italia da donne bianche e soldati alleati di colore. E poiché per questi «figli del sole» lo stato non riconosceva rette di ricovero (non avendo una figura giuridica dal punto di vista burocratico, per la loro situazione anagrafica spesso confusa), don Gnocchi lanciò il «madrinato dei mulattini»: le adesioni arrivarono da tutta l’Italia, con concreti risultati educativi, pedagogici e professionali.
Per attirare l’attenzione dell’Italia e del mondo intero sull’opera umanitaria da lui fondata, don Gnocchi lanciò una iniziativa clamorosa: la traversata dell’Atlantico di un piccolo aereo da turismo, battezzato «L’angelo dei bimbi». Il 19 gennaio 1949, dopo 15.800 chilometri e 76 ore di viaggio, il monomotore atterrò a Buenos Aires, tra il tripudio della gente. La risonanza dell’impresa fu tale che, dagli Usa al Sudafrica, tramite le nostre rappresentanze diplomatiche  vennero sottoscritte oblazioni tra i connazionali residenti all’estero: i 15 mila mutilatini potevano contare sull’affettuoso appoggio di tutti gli italiani nel mondo.
Lo stato assisteva allora, con una modesta retta giornaliera, solamente ragazzi le cui mutilazioni erano causate da incidenti bellici. Ma don Gnocchi, fin dall’inizio, accolse anche i mutilati civili e, quando aveva posto e mezzi, accettava anche i poliomielitici. «Lo stato dà in buona parte e naturalmente gli chiederemo di più – soleva dire -, ma non dobbiamo cessare di invitare la gente a offrire spontaneamente e a scomodare i ricchi affinché aiutino i nostri poveri bisognosi».
Il suo amore verso «il dolore innocente» non aveva confini: don Gnocchi riuscì a interessare i governanti dei vari stati, che inviarono loro esperti in Italia a visitare i collegi della Pro Juventute: nasceva così la «Federazione europea della giovinezza mutilata di guerra», costituita dalla presenza di 200 mila mutilatini che, per l’occasione, si riunirono a Roma ricevuti da papa Pio XII.
Durante le vacanze estive del 1953, il collegio di Santa Maria ai Colli di Torino ospitò gruppi di mutilatini provenienti dal Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Inghilterra e Olanda. Don Carlo passava giornate intere a organizzare gare sportive, passeggiate, visite alla città e momenti di scambio culturale, creando un clima di frateità tra questi giovani, i cui genitori si erano trovati di fronte come nemici sui campi di battaglia.

«PRO JUVENTUTE»

Con l’aumentare di oblazioni e lasciti, si rendeva necessario una diversa organizzazione dell’opera per facilitare le pratiche inerenti al movimento burocratico e amministrativo. Inoltre, prevedendo che con il passare degli anni si sarebbe esaurito l’afflusso dei mutilatini, nel 1951 don Gnocchi sciolse la Federazione Pro Infanzia Mutilata e creò la Fondazione Pro Juventute, ente morale assistenziale, con personalità giuridica, riconosciuto con Decreto presidenziale l’11 febbraio 1952. In questo modo la sua opera poteva perpetuarsi, con l’assistenza ai bambini colpiti da altre disabilità motorie.
Di fatto, vinta ormai la battaglia per i piccoli mutilati di guerra, il complesso assistenziale della Pro Juventute si orientava verso il problema più pesante che affliggeva l’infanzia sofferente dell’Italia di quegli anni: la poliomielite. «La vocazione imperiosa dei poliomielitici è diventata ossessione – scriveva don Gnocchi -. Ho sentito che assolutamente, urgentemente, il Signore vuole questa opera; ebbi in taluni momenti l’impressione di un comando, di una pressione quasi fisica».

RIABILITAZIONE INTEGRALE

Fra tutti gli istituti fondati da don Gnocchi, quello di Parma divenne un centro-pilota, prima per la riabilitazione dei mutilatini, poi per i poliomielitici. Da qui passavano tutti gli aspiranti al ricovero nei vari collegi della Pro Juventute: qui i minori venivano esaminati dai medici, che ne giudicavano le condizioni e ne consigliavano il trattamento da effettuare. In caso di necessità di intervento operatorio essi venivano trattenuti, operati e foiti di presìdi ortopedici e destinati ai collegi di provenienza e indirizzati ai tipi di scuola o attività professionali più idonee.
Nei casi in cui si presentava la necessità di ripetuti interventi chirurgici e una continua assistenza protesico-sanitaria, gli assistiti venivano trattenuti nel collegio dello stesso centro, garantendo loro l’assistenza scolastica e professionale.
Dal momento che per molti dei ricoverati, gravemente colpiti da poliomielite, era impossibile recarsi alle scuole pubbliche, furono inserite all’interno dell’istituto alcune sezioni delle scuole statali (elementari, corsi di ragioneria, avviamento tecnico e commerciale), affidate ad insegnanti governativi di ruolo.
Anche negli altri centri, sotto la poderosa organizzazione professionale Pro Juventute sorgevano e si ingrandivano scuole, officine e laboratori da cui uscivano impiegati, meccanici, falegnami, tecnici ortopedici, radiotecnici, tipografi, tecnici agricoli, ceramisti, sarti e calzolai.
Il concetto di riabilitazione, infatti, era al centro del pensiero di don Carlo e dell’organizzazione dei collegi della Pro Juventute. «Se bisogna ricostruire – diceva – la prima e più importante di tutte le ricostruzioni è quella dell’uomo. Bisogna ridare agli uomini una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità.
Bisogna rifare l’uomo. Senza questo è fatica inutile ed effimera quella di ricostruirgli una casa. Né basterà ridare all’uomo la elementare possibilità di pensare e di volere, senza la quale non c’è vita veramente umana, ma bisognerà restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del vivere, voglio dire quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare completamente il potenziale della propria ricchezza personale».
Il suo progetto di rieducazione integrale dell’individuo, in un percorso che armonizza prevenzione e riabilitazione, ponendo al centro del processo terapeutico la persona umana, con le sue potenzialità e  peculiarità, costituiva la novità esclusiva e la straordinaria modeità della Pro Juventute, tanto più se si considera che si collocava in anni in cui le discipline riabilitative stavano muovendo i loro primi e timidi passi.
Nel 1955 don Carlo lanciò la sua ultima grande sfida: costruire un moderno centro che costituisse la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del presidente Giovanni Gronchi, fu posata la prima pietra della nuova struttura, nei pressi dello stadio San Siro a Milano.

ULTIMO DONO… PROFETICO

Purtroppo don Carlo non riuscì a vedere la realizzazione di quell’opera. All’inizio del 1956 fu ricoverato alla clinica Columbus di Milano, dove si spense il 28 febbraio, all’età di 54 anni.
Nei momenti di ripresa, che si alternavano a crisi di agonia, don Carlo continuò a raccomandare ai suoi eredi di prendersi cura della sua «baracca»: così definiva la sua opera.
Poco prima di morire, don Carlo chiamò al suo capezzale il prof. Cesare Galeazzi, noto oculista e suo amico, e gli disse: «Forse mi restano poche ore. Sono povero: nel mio caso un testamento farebbe sorridere, ma mi restano gli occhi da donare. Tu devi promettermi che farai tutto il possibile perché le mie pupille rimangano in eredità a qualcuno dei miei mutilatini che non vedono».
Fu il suo ultimo gesto profetico, che sfidava la legge dello stato, che allora non consentiva simili interventi, e il magistero della chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla questione della donazione degli organi.
Tale richiesta provocò profonda angoscia nell’animo del prof. Galeazzi; ma ci pensò don Carlo a fugare ogni esitazione e il duplice trapianto delle coee su Silvio Colagrande e Amabile Battistello riuscì perfettamente. La generosità di don Gnocchi e il successo dell’operazione ebbero un enorme impatto sull’opinione pubblica e impressero un’accelerazione del dibattito: nel giro di poche settimane il governo varò una legge ad hoc.

L’ESTREMO SALUTO

L’estremo saluto di Milano a don Gnocchi si trasformò in un’apoteosi grandiosa per partecipazione e commozione: una moltitudine dei suoi mutilatini, venuti dagli 8 collegi della Pro Juventute, quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime; poi la commozione degli amici e conoscenti; 100 mila persone a gremire il Duomo e la piazza; l’intera città di Milano listata a lutto. Così il 1° marzo 1956 l’arcivescovo Montini, poi papa Paolo vi, celebrava i funerali di don Carlo.
Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: «Era un santo; è morto un santo». Durante il rito, fu portato al microfono un bambino. Disse: «Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo». Ci fu un’ovazione.
Nel 1986, 30 anni dopo la morte di don Gnocchi, il card. Carlo Maria Martini istituì il processo di beatificazione. La fase diocesana, avviata nel 1987, si è conclusa nel 1991. Ora è tutto in mano alla congregazione delle Cause dei Santi, a Roma. Il 20 dicembre 2002 il papa lo ha dichiarato venerabile.

DON CARLO VIVE

Oggi il carisma di don Gnocchi vive nei 28 centri attivi in 9 regioni d’Italia e in centinaia di poliambulatori e centri minori disseminati in tutta la penisola, dove si continua ad operare con estrema competenza nel recupero fisico e psicofisico di quanti vi accedono.
I rimedi sperimentali per lenire la sofferenza sono nel contempo causa ed effetto della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, inducendo una sorta di circuito virtuoso di azione e pensiero. Inoltre, la Fondazione don Gnocchi, diventata onlus dal 1998, ha dilatato le sue attività per rispondere a tutte le patologie invalidanti che colpiscono persone di ogni età, compresi anziani, malati oncologici terminali e persone in stato vegetativo persistente.
In questi ultimi anni la Fondazione, dal 2001 riconosciuta Organizzazione non governativa, ha assunto dimensioni inteazionali, partecipando a programmi di ricerca in collaborazione con organismi, e promuovendo progetti nei paesi in via di sviluppo. 

Eesto Bodini

Eesto Bodini




TRA SPAZI INFINITI

Visita dei nostri missionari in Corea ai confratelli e consorelle in Mongolia

Da quando i missionari della Consolata sono presenti in Mongolia (2003), i confratelli in Corea del Sud non si sentono più tanto sperduti nell’immenso Est Asiatico: hanno iniziato
a scambiarsi le visite per crescere nella frateità
e condividere le esperienze. Quest’anno è toccato
ai «coreani» fare visita ai confratelli della Mongolia. Padre Pacheco racconta le sue impressioni,
con qualche confronto con la realtà coreana.

Come missionari della Consolata siamo presenti in due paesi dell’Asia Orientale: in Corea del Sud dal 1988 e in Mongolia dal 2003. Essendo questo un continente immenso, per noi che lavoriamo in Corea l’Istituto è rimasto, per vari anni, una realtà geograficamente «lontana». Ora che siamo presenti anche in Mongolia, è naturale sentire i nostri confratelli e consorelle che vi lavorano come «vicini di casa».
Per rafforzare i vincoli familiari, da due anni abbiamo cominciato a fare insieme gli esercizi e le vacanze comunitarie. Dalla Mongolia sono già venuti a trovarci per due volte; ora che il loro gruppo è aumentato notevolmente, dalla Corea siamo andati in 7 per vivere insieme a loro alcuni giorni di ritiro spirituale; ma anche per conoscere la realtà della missione in Mongolia. È stata un’esperienza veramente favolosa, grazie anche alla fratea e impeccabile ospitalità di cui abbiamo goduto.
Ecco il diario del nostro viaggio.

9 agosto 2006

Partiamo dall’aeroporto di Incheon alle 8 di sera. Viaggia con noi padre Gianni Colzani, professore di Antropologia teologica e missiologia all’università Urbaniana di Roma, appositamente invitato per guidare gli esercizi spirituali.
Dopo tre ore di volo, arriviamo all’aeroporto internazionale «Chinggis Khaan», dove ci aspettano i padri Giorgio Marengo e Charles Gachingiri, più una giovane mongola, Maya, amica dei nostri «mongoli».
Arrivati a destinazione, nell’appartamento dei padri, troviamo due buonissime torte preparate dalle nostre sorelle. Dopo una bella chiacchierata, andiamo a riposare.

10 agosto

Prima visita alla città di Ulaanbaatar. Cominciamo dal monastero buddista di Gandan, uno dei pochi sopravvissuti alle distruzioni staliniste. Confrontiamo il buddismo mongolo col nostro coreano: quello mongolo è più di ispirazione tibetana tantrica, con molti elementi sciamanisti; la statua del Budda, nel tempio centrale, è alta 25 metri; rimaniamo stupiti nel sentire che alcuni monaci sono sposati e non vivono nel tempio.
Dopo un pranzo tipicamente mongolo (la carne non può mai mancare!), visitiamo il Museo di storia nazionale, poi la statua di Chenggis Khaan, nella piazza centrale della città, e il Parlamento.
La sera celebriamo la messa  a Niseh in una piccola cappella vicino all’aeroporto. Questa fa parte di una delle tre parrocchie della capitale, affidata a un sacerdote coreano, che ha chiesto ai nostri missionari di dargli una mano nelle attività pastorali in questo quartiere povero.
Per cena le nostre consorelle ci coccolano con una deliziosa pizza. A tarda sera arriva da Hong Kong padre Eesto Viscardi, superiore del gruppo in Mongolia, il quale aveva accompagnato un gruppo di giovani mongoli per partecipare all’incontro dei «giovani dell’Asia 2006».

11-16 agosto

Partenza per gli esercizi. Raggiungiamo un campo di gher, tipiche tende mongole. La sera siamo introdotti al tema del ritiro: la «Missione»; tema che nei giorni seguenti viene approfondito nei suoi vari aspetti biblici e teologici. Anche se il ritiro sembra quasi un corso di rinnovamento e aggioamento sulla missione, troviamo molti spunti spirituali per approfondire il nostro incontro con Dio e per riaffermare il nostro «sì» a Lui e alla missione.
In questo ci aiuta molto anche la contemplazione della meravigliosa natura circostante, tipica del paesaggio mongolo: grandi spazi vuoti di steppe erbose, animali in libertà (cavalli, pecore, mucche e i famosi yak), montagne, cielo azzurrissimo, tramonti dorati e notti stellate: tutte meraviglie che in Corea non siamo abituati a vedere.
Alla fine del ritiro, giochiamo una partita di calcio, Mongolia contro Corea: vince la Mongolia per 3 a 2; ci consoliamo con una cavalcata per la prateria circostante.

17 agosto

Ritorniamo nella capitale e visitiamo il vescovo filippino mons. Wenceslao Padilla, che ci accoglie molto familiarmente. Ci racconta la sua esperienza missionaria e quella della giovane chiesa mongola: 345 cattolici, più di 100 catecumeni, 3 parrocchie, 5 cappelle e tante attività di carattere sociale e caritativo.
Nella visita al Museo di storia naturale, possiamo ammirare molti scheletri di dinosauri, provenienti dal deserto del Gobi, dove tali fossili sono ancora abbondanti e a cielo aperto. La sera assistiamo a uno spettacolo di musica e danze tradizionali, che sono molto più «vivaci» delle danze coreane. Un’altra sorpresa: nel teatro incontriamo tre bergamaschi, arrivati in Mongolia con la Transiberiana.

18 agosto

Al mattino partiamo in direzione sudovest, per raggiungere Arvaikheer,  una località dove i nostri padri e suore, verso la fine di settembre, apriranno la loro missione. Purtroppo le nostre consorelle non possono prendere parte a questo viaggio.
Appena usciti dalla capitale, ci troviamo immersi nelle grandi steppe disabitate. Pochissimi i centri abitati; quelli usati dai soldati russi ora sono totalmente abbandonati. Qua e là una gher, cavalli,  pecore e capre a migliaia. Ci fermiamo a contemplare una zona dove l’aridità del clima ha creato una fascia di dune sabbiose.
Proseguiamo. La nostra prima tappa è la città di Kharkhorim (Kharakhorum), antica capitale dell’impero mongolo per circa 40 anni, poi abbandonata e quindi distrutta dai soldati mancesi.
Dell’antica capitale rimangono solo il grande complesso di muraglie e tre templi del monastero Erdene Zuu (cento tesori), la cui costruzione ebbe inizio nel 1586 e fu completata solo 300 anni più tardi. La storia racconta che anche questo monastero subì la stessa sorte della capitale: fu più volte saccheggiato, finché fu distrutto dagli stalinisti, uccidendo un numero imprecisato di monaci e risparmiando solo tre templi.
La sera ci fermiamo a dormire in un campo turistico di gher vicino l’antica capitale.

19 agosto

Al mattino, visita al monumento dedicato a Chenggis Khaan. Quindi ripartiamo per visitare un famoso tempio, che fu rifugio di Zana Bazar (1635-1723), il maggiore ed eminente artista religioso e uomo di cultura, che consolidò l’affermazione del buddismo tibetano in Mongolia diventandone il primo capo spirituale.
Il tempio è meta di frequenti pellegrinaggi, specialmente da parte degli anziani. Per raggiungerlo bisogna camminare; ma alcuni di noi, non ancora tanto anziani, preferiscono salirvi a cavallo.

20 agosto

Trascorsa la notte in un altro campo turistico di gher,  visitiamo la cascata di Orkhon, che si erge maestosa di fianco all’accampamento; quindi riprendiamo il viaggio sulla nostra 4×4. Per visitare la Mongolia occorre un fuoristrada, poiché le strade asfaltate sono poche e piene di buche e, se si vuole raggiungere certe località, bisogna viaggiare su piste, guadare fiumi e, soprattutto, affidarsi sempre a un’autista mongolo, che abbia uno spiccato senso dell’orientamento.
Per raggiungere la nostra destinazione finale, dobbiamo scalare una montagna, passare il valico e scendiamo verso una grande vallata. All’improvviso vediamo migliaia di persone: sono cercatori d’oro! Intere famiglie, uomini, donne e bambini scavano, trasportano e setacciano la terra in cerca di polvere d’oro. Alcuni sono lì da due anni. Le condizioni di vita e di lavoro sono veramente disumane. I locali li chiamano «ninja», perché vanno in giro con una bacinella di plastica sulla schiena e assomigliano alle popolari tartarughe dei cartoni animati.
La sera arriviamo, finalmente, alla città di Arvaikheer, capitale di regione con 22 mila abitanti. È in questa piccola città che i nostri confratelli e consorelle apriranno la nuova missione. La casa in affitto dove abiteranno è quasi pronta, ma non abbastanza per passarci la notte.

21 agosto

Visita alla città e al museo. Nel mercato, che fornisce tutta la regione, troviamo prodotti provenienti dalla Cina, Corea, Russia. Con grande sorpresa constatiamo che, addirittura, alcuni cantanti e attori coreani sono popolari in queste remote zone.
La nostra sarà in assoluto la prima presenza cattolica in questa regione. Auguriamo ai nostri confratelli tanta fortuna e fede nei piani di Dio.
Riprendiamo la strada verso Ulaanbaatar, facendo qualche sosta per pranzare e per sgranchirci le gambe. Dopo varie ore di viaggio, su piste e tratti di asfalto, raggiungiamo la capitale tutti impolverati.

22 agosto

Ultimo giorno in Mongolia. Stanchi del viaggio, decidiamo di prendercela con calma. Al mattino facciamo una visita a padre Kim, coreano e parroco della parrocchia in cui risiedono i nostri. La chiesa è ancora in costruzione, per cui la messa si celebra in un grande gher.
Facciamo poi qualche acquisto e nel tardo pomeriggio celebriamo la messa con i pochi fedeli e catecumeni della parrocchia. Restiamo meravigliati del fervore e attenzione con cui tutti i fedeli della giovane comunità partecipano alla liturgia e ai canti. Anche padre Giorgio ci stupisce per la scioltezza con cui maneggia la lingua mongola.
Arriva il momento di ripartire per la Corea: dalle fresche e secche notti mongole ci rituffiamo nel caldo umido dell’estate coreana.
Mentre ci salutiamo, pensiamo a come continuare in futuro questi incontri. Per ora ci rimane nella mente e nel cuore le cose che non ho raccontato: i gesti di simpatia, accoglienza fratea e tutte le altre belle cose che i nostri confratelli hanno fatto perché il viaggio fosse quello che è stato: sentire la Mongolia come parte di noi stessi! La Consolata è anche in Asia e ci vuole tanto bene. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Le mille frontiere senza vergogna

Posti di blocco ed estorsioni: una denuncia

Nel paese del cacao, un tempo il più ricco dell’Africa Occidentale, ma oggi spaccato in due dalla guerra civile scoppiata alla fine del 2002,
il taglieggio lungo le strade è diventato
una consuetudine, un mestiere redditizio.
E tutto questo arricchisce chi esercita il potere dell’uniforme lungo le vie di comunicazione. Sempre a scapito della povera gente.

«Da questo affare statevene fuori, lasciate fare a noi…» rassicura l’autorità ecclesiastica competente. Ma, da missionario cattolico, voglio fare una denuncia. Anche se non foisco informazioni in quantità, ci tengo a far capire la rabbia che, in molti, trangugiano in Costa d’Avorio. Soprattutto nel territorio sotto il controllo delle forze governative, in tutto il sud, da est a ovest.
Si dice che il paese è diviso in due dal 2002, dato che il nord è in mano agli avversari del controverso presidente Laurent Gbagbo, i cosiddetti ribelli. Ma non è affatto così. Ascolto e vedo che in Costa d’Avorio le divisioni sono centinaia. Le nuove frontiere, infatti, non si possono più contare.
Le strade principali del sud sono continuamente interrotte da posti di blocco dove pullulano uniformi di tutti i tipi: militari, gendarmi, agenti della dogana, polizia del traffico e municipale… e persino quelli che da noi sono le guardie forestali. Qui si chiamano «i corpi in uniforme». Ebbene, ognuno di questi gruppi si dà da fare per estorcere – ormai anche ad alta voce si dice rackettage – con qualsiasi scusa e con le brutte maniere il denaro della povera gente che lavora.

Il sistema dei posti di blocco era una prassi conosciuta, ma non era diventata una fonte di guadagno sfacciato. Con la guerra tra governativi e ribelli la faccenda ha cominciato a diventare seria. Ufficialmente i barrages (barriere) dovevano diventare un filtro necessario – argomento credibile – per bloccare il trasporto di armi, gli spostamenti di nemici o cose del genere. Con il tempo sono diventati un’attività di lucro illecito e vergognoso.
Può sembrare una barzelletta, ma i «corpi in uniforme» hanno cominciato il loro servizio spostandosi con i mezzi che avevano; poi ognuno ha iniziato a diventare autonomo, perché il rackettage rende. Ai diversi posti di blocco, con i frutti dell’indefesso «lavoro» ci si può comprare dapprima un motorino o una moto usata, poi una più grossa; dopo un po’ arriva la piccola automobile e infine si viaggia nella macchina di grossa cilindrata.
Inoltre, bisogna tener conto che da quello che si preleva alla gente c’è spesso anche la parte da scremare per i «capi» dei vari corpi. Il servizio al paese bisogna farlo bene e fino in… cima.
Un posto di blocco è un insieme più o meno ordinato di tronchi, vecchi pneumatici e sbarre di ferro chiodate e scorrevoli. Il tutto è sistemato in modo da essere ben visibile agli automezzi in arrivo. Ai lati dell’asfalto si possono notare tettornie sgangherate, con massicce sedie di legno, dove i «gradi maggiori» osservano e sonnecchiano, mentre gli inferiori ispezionano i veicoli, i passeggeri e le merci.
Più che a una ispezione, sembra di assistere a uno sciagurato gioco: si cerca di leggere nel volto dei malcapitati se hanno indosso denaro o altri beni, da scroccare senza pietà e in nome di nessuna legge o regola infranta. Ai «gradi maggiori» si ricorre per i casi più ostinati o «delicati».
Può darsi che, agli inizi, buona parte degli avoriani fosse, non dico entusiasta, ma almeno d’accordo con questo meticoloso sistema di sicurezza intea. In effetti, i destinatari di questa accurata struttura di controllo erano e rimangono anzitutto i lavoratori stranieri (beninesi, burkinabé, togolesi, liberiani, ghanesi, maliani, ecc.).
Perché? Perché molti arrivano in Costa d’Avorio senza visti (da loro, in fondo, si esige che lavorino sodo e in silenzio); altri non riusciranno mai a infrangere la barriera dell’inefficienza e della corruzione della burocrazia locale per aggioare i loro permessi di soggiorno; altri ancora, sentendosi vinti dalla loro stessa paura o ignoranza, resistono nell’umiliante anonimato, che la legge battezza col nome di clandestinità.
La demagogia del sistema non ha avuto difficoltà a «dimostrare» che i primi nemici del paese e alleati dei ribelli sono proprio loro, gli stranieri che faticano per gli avoriani.

Dunque, il denaro si estorce anzitutto agli stranieri. Certo non si toccano i grossi commercianti, i vip, i missionari delle diverse denominazioni cristiane o altre autorità religiose. Ma, dato che ce n’è di strada da fare per partire dal motorino e arrivare alla grossa auto, la lista delle possibili vittime si è allungata.
Anche «l’infrastruttura» di questo latrocinio permanente e istituzionalizzato si è estesa oltre ogni limite di sopportazione. E dire che «i corpi in uniforme» percepiscono un ottimo stipendio, come del resto tutti gli impiegati dello stato. Eppure…
La lista delle vittime si è allungata e le aree da depredare si sono allargate a macchia d’olio. Per esempio, se vai alla capitale o nelle principali città della zona costiera, ti verrà detto dai tassisti che non ne possono più di dover pagare, anche più volte al giorno, un «piccolo dazio» agli uomini in uniforme, che li bloccano senza altra ragione che quella di estorcere denaro.
Se vai verso l’interno, dove l’asfalto finisce e inizia la foresta con le sue piantagioni di cacao, palme da olio, caffè,  a qualsiasi ora e in qualunque giorno della settimana ti imbatti con uniformi di ogni specie, pronti alle loro arbitrarietà e vessazioni per arricchirsi.

Ti stai spostando con una bicicletta sgangherata su una strada sterrata dell’interno per rientrare a casa o per andare a lavorare nei campi? Se ti imbatti in un «controllo» dovrai sganciare 5 mila franchi Cfa di multa. (Un euro vale poco più di 655 franchi Cfa; la paga giornaliera di un lavoratore, bracciante, manovale, oscilla tra i mille e i due mila franchi).
Perché? Non fare domande o la bici è requisita e dovrai, alla fine, pagare quattro o cinque volte tanto per riscattarla. Sei uno straniero o un avoriano originario di un’altra zona? Se ti chiedono i documenti d’identità, rispondi che non li hai e te la caverai con una multa di 2 mila franchi. Non azzardarti a mostrarli: primo te li requisiscono, perché il tuo sbaglio è di non essere stato sorpreso in flagrante; secondo, anche se tutto è in regola, la multa sarà almeno raddoppiata.
È il tempo del raccolto in foresta e sei un piccolo trasportatore di cacao o di noci da olio? Anche se percorri la pista più recondita, ti beccano comunque, e devi pagare almeno 2 mila franchi al giorno. Perché? Perché la legge dei fuorilegge ha deciso che per una settimana o due sarà così: punto e basta!
Sei un commerciante di «mezzo calibro», che carica su un grosso camion i raccolti agricoli di una piccola fetta di foresta per trasportarli in città? Sappi che il tuo viaggio di nemmeno 100 km dovrà fruttare almeno 100 mila franchi ai difensori della legge.
Sei straniero e devi rientrare in patria per motivi familiari o per le vacanze? Sappi che sanno che hai guadagnato qualcosa e non ti molleranno se non dopo un buon salasso. Soluzione? Ti umilierai il più possibile a ogni posto di blocco fino alla capitale e inventerai storie pietose, così ti estorceranno qualcosa di meno.
E per i prossimi barrages, prima di arrivare alla frontiera? Niente paura. Affidati a un’impresa seria di viaggi inteazionali. Al prezzo del biglietto ti chiederanno di aggiungere un altro bel po’ di denaro in modo che tra tutti i passeggeri dello stesso bus si raggiunga la cifra di un milione, un milione e mezzo di franchi (1.500-2.000 euro). Ci penserà l’esperto autista a distribuire il malloppo a seconda del posto di blocco e per te finiranno umiliazioni,  perquisizioni, vessazioni.
Vivi in un villaggio sperduto e sei regolarmente «visitato» dalla sicurezza statale? Mettiti d’accordo con gli altri del posto e, alla scadenza che sai, fatti trovare preparato: un lauto pasto, un po’ di sacchi pieni di beni in natura (si sa, in città tutto costa più caro) e la somma di denaro necessaria per calmare lo zelo dei servitori dello stato. Tutto andrà bene e vi diranno con soddisfazione di non temere, ormai ci si conosce e si è amici, si è di casa. E così via…
Anche al nord, nel territorio controllato dai ribelli, ci sono posti di blocco, sulle strade principali e, mi dicono, si chiedono 100-200 franchi.

Il sistema funziona così e la spirale di prepotenza innescata cresce, nonostante le altisonanti e fumose campagne promosse dagli «alti gradi» per fare pulizia, eliminare corruzioni e soprusi.
Si è ormai instaurata quella macabra convivenza in cui, secondo gli psicologi, il boia acuisce e rende più crudele la propria violenza, mentre la vittima sceglie di arrendersi, di umiliarsi sempre di più, accettando supinamente nuove sofferenze. La situazione si è incancrenita e ognuno, alla fin fine, si sente nel ruolo che gli compete.
Potrei riportare altri piccoli flash o far notare che altri barrages sono sorti in altri settori cosiddetti pubblici; quelli riportati sono sufficienti per fare capire ciò che ho detto all’inizio: la frontiera in Costa d’Avorio non è segnata dagli aggettivi «governativo» o «antigovernativo».
Se l’inconcludente processo di riunificazione dovesse superare lo stagno chiamato censimento e disarmo (tutti coloro che hanno una coscienza sperano e pregano per la pace), si potranno superare le altre mille frontiere che nel frattempo si sono diffuse nel sud del paese? Chi sarà alla guida dello stato, potrà controllare i suoi fedeli guardiani, ormai abituati a ingrossare il loro non indifferente stipendio con scaltrezza e prepotenza? 

J.A.B.

J.A.B.




CUSTODI DEL CREATO

L’interesse per l’ambiente come parte dell’impegno cristiano quotidiano

Dalla celebrazione della prima «Giornata per la salvaguardia e la difesa del creato», istituita dalla Conferenza episcopale italiana, giungono segnali importanti di un rinnovato interesse del mondo cattolico ai temi della difesa dell’ambiente. Una materia che può essere affrontata efficacemente
se inserita nell’ambito più generale della giustizia
e della pace.

Il 1° settembre scorso, per iniziativa della Conferenza episcopale italiana (Cei), si è celebrata la prima «Giornata per la salvaguardia e difesa del creato». Il 27 ottobre è ricorso il 20° anniversario dello storico incontro interreligioso per la pace, convocato ad Assisi da Giovanni Paolo ii. Due eventi recenti e importanti che stimolano alcune riflessioni: quanto interesse reale suscitano nell’opinione pubblica e fra i credenti i temi della pace e della tutela dell’ambiente? E quali legami uniscono questi due temi fra di loro?
Stando al risalto che vi riservano i mezzi di comunicazione di massa, gli argomenti che coinvolgono maggiormente l’opinione pubblica sono: politica, economia, sicurezza, calcio e… «gossip». Altri temi salgono alla ribalta soltanto se strumentalizzabili ai fini di un’informazione spettacolarizzata ed emotiva. La promozione della pace e la tutela dell’ambiente rientrano in questa categoria. La prima si riduce a mera cronaca di tragiche vicende belliche (ma solo quelle che coinvolgono gli interessi geopolitici ed economici del mondo ricco) o di manifestazioni pacifiste, specialmente per stigmatizzae il carattere contraddittorio ogni qual volta queste assumano tratti tutt’altro che pacifici.
Della tutela dell’ambiente ci si occupa solo in caso di disastri naturali di grande portata, ma senza spiegare a sufficienza come e quanto essi siano conseguenze di scelte e attività umane.
Fortunatamente esistono anche minoranze di cittadini che, per specifica attività professionale o per sensibilità individuale, si dedicano con passione ai temi della difesa della pace e dell’ambiente. Questo fattore, di per sé positivo, potrebbe però indurre la collettività a intendere le due questioni esclusivamente rivolte agli «addetti ai lavori».
E che dire riguardo all’atteggiamento dei cattolici in merito a questo problema?
Nella quotidianità delle nostre parrocchie – oltre alla cura della propria vita spirituale, auspicabile e non derogabile presupposto di ogni cammino di fede – gli impegni più concreti sono rappresentati da catechesi, carità e accoglienza. Molto più sporadica è invece l’attenzione rivolta a un impegno costante e non estemporaneo sui temi ambientali e della convivenza pacifica.
Premesso che chi è credente sarebbe sempre tenuto a preoccuparsi anche per le sorti e le sofferenze degli altri popoli e nazioni che abitano la terra, è pur vero che la lontananza «fisica» da persone ed eventi contribuisce a creare anche una certa lontananza «spirituale».
Limitandoci alle problematiche ambientali, queste considerazioni sono da tempo all’attenzione della chiesa cattolica nei suoi vari livelli: di gerarchia, di singoli esponenti, di piccole comunità e associazionismo; e sono già stati molteplici gli interventi sull’argomento.
Sorprenderebbe fosse vero il contrario. La terra è oggi l’unico pianeta conosciuto sul quale vi sono condizioni favorevoli per la vita umana, ma non solo! Conoscenze e capacità tecnologiche attuali pongono in mano all’umanità la scelta di continuare a mantenere ospitale la propria «casa» o di ridurla ad un’arida distesa rocciosa, avvolta da gas velenosi. I termini della questione, dalla quale dipendono la qualità della vita delle generazioni presenti e la possibilità di sopravvivenza per quelle future, evidenziano che la tutela dell’ambiente naturale debba obbligatoriamente diventare un tema di ordine etico e antropologico di interesse generale.

L’istituzione formale di una giornata dedicata alla salvaguardia del creato è perciò molto significativa; così pure l’invio della «Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace» a «dare adeguato risalto alla “giornata” nella vita delle diocesi e delle comunità». È una presa di posizione di rilievo, perché qualifica l’impegno dei credenti sensibili a questi temi, dando la stessa dignità riservata a chi si dedica ad altri servizi.
Il titolo della giornata «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15), invita l’umanità ad assumere un atteggiamento ben diverso da quello dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e dell’incuria del creato. È, anzi, uno stimolo a farci co-responsabili della creazione, prendendolo in custodia e impegnandosi affinché i nostri sforzi nei confronti dell’ambiente si orientino verso il bene comune.
Ma in qual modo l’invito ad attivarsi nella collaborazione alla creazione divina si lega all’impegno per la pace? La risposta è suggerita dal messaggio di Giovanni Paolo ii per la «Giornata mondiale della Pace» del 1° gennaio 1990:  «Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato».
Nel  documento è riaffermata l’importanza della «questione ecologica», con le sue implicanze etiche e sociali; è evidenziata la necessità di un impegno dei cristiani a promuovere atteggiamenti più maturi e responsabili nel rapporto con il creato, collegando strettamente l’«ecologia dell’ambiente» a quella che lo stesso papa definiva «ecologia umana».
In tale messaggio viene spiegato lo stretto legame esistente tra difesa dell’ambiente, pace e giustizia, umana e divina. Papa Wojtyla avvertiva la crescente consapevolezza che la pace mondiale è minacciata, oltre che dalla corsa agli armamenti, conflitti regionali e  ingiustizie planetarie, anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura, dal disordinato sfruttamento delle risorse e dal progressivo deterioramento della qualità della vita. Situazione che genera precarietà, insicurezza, egoismo collettivo, accaparramento e prevaricazione. Secondo il papa, non si può continuare a usare i beni della terra come nel passato, ma si deve lavorare per la maturazione di una coscienza ecologica che trovi adeguata espressione in programmi e iniziative concrete. Molti valori etici sono direttamente connessi con la questione ambientale e l’interdipendenza delle molte sfide del mondo odierno conferma l’esigenza di soluzioni cornordinate, basate su una coerente visione morale del mondo.
Per il cristiano questa visione poggia sulle convinzioni religiose attinte alla rivelazione. All’uomo e alla donna Dio affidò tutto il resto della creazione, poi poté riposare «da ogni suo lavoro» (Genesi 2, 3). Quando si discosta dal disegno di Dio creatore, l’uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace:  «Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno» (Osea 4, 3).
L’esperienza di tale «sofferenza» della terra è comune anche a coloro che non condividono la fede in Dio. Infatti, sono evidenti le crescenti devastazioni causate nel mondo della natura dal comportamento degli uomini indifferenti alle esigenze  dell’ordine e dell’armonia che lo reggono.
Che la crisi ecologica sia un problema morale lo rivela, in primo luogo, l’applicazione indiscriminata dei progressi scientifici e tecnologici. Si è già constatato che talune scoperte in ambito industriale e agricolo producono, a lungo termine, effetti negativi, evidenziando come ogni intervento in un’area dell’ecosistema si ripercuote in altre aree e sul benessere delle future generazioni.
Ma il segno più profondo e grave delle implicazioni morali insite nella questione ecologica è la mancanza di rispetto per la vita. La si avverte in molti comportamenti inquinanti: quando le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici precedono il bene delle singole persone, se non addirittura quello di intere popolazioni.
Infine destano profonda inquietudine le formidabili possibilità della ricerca biologica. In un settore così delicato, l’indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portano l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione. È il rispetto per la vita e la dignità della persona umana la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.
Nonostante la complessità del problema, vi sono alcuni principi basilari che possono indirizzare la ricerca verso idonee e durature soluzioni. Sono principi essenziali per costruire una società pacifica, in cui non è possibile ignorare il rispetto per la vita e l’integrità del creato.
Ma non si otterrà il giusto equilibrio ecologico, se non saranno affrontate direttamente le forme strutturali di povertà esistenti nel mondo e l’altra pericolosa minaccia che ci sovrasta: la guerra.
La scienza modea è già capace di modificare l’ambiente con intenti ostili; tale manomissione può avere nel tempo effetti imprevedibili e ancora più gravi. Nonostante accordi inteazionali lo proibiscano, nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi per la guerra chimica, batteriologica e biologica.
Ogni forma di guerra su scala mondiale causa di per se stessa incalcolabili danni ecologici; ma anche le guerre locali o regionali, oltre a distruggere vite umane e strutture delle società, danneggiano la vegetazione e avvelenano i terreni e le acque. I sopravvissuti alla guerra si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni naturali molto difficili, che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale.
Oggi, quindi, la questione ecologica ha assunto dimensioni tali da coinvolgere la responsabilità di tutti, cornordinando gli sforzi per stabilire doveri e impegni dei singoli e dell’intera comunità internazionale. Tutto questo, non solo si affianca ai tentativi di costruire la vera pace, ma li conferma e li rafforza.
Inserendo la questione ecologica nel più vasto contesto della ricerca della pace nella società umana, ci si rende meglio conto di quanto sia importante prestare attenzione a ciò che la terra e l’atmosfera ci rivelano: nell’universo esiste un ordine che deve essere rispettato; la persona umana, dotata della possibilità di libera scelta, ha una grave responsabilità per la conservazione di questo ordine, anche in vista del benessere delle generazioni future. La crisi ecologica è un problema morale.
Anche gli uomini e le donne senza particolari convinzioni religiose, per il senso delle proprie responsabilità nei confronti del bene comune, riconoscono il dovere di contribuire a risanare l’ambiente. A maggior ragione, coloro che credono in Dio creatore, e quindi sono convinti che nel mondo esiste un ordine ben definito e finalizzato, devono sentirsi chiamati a occuparsi del problema.
I cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del creatore sono parte della loro fede. 

Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




Delitto senza castigo


E’ stato il peggor disastro industriale della storia. La notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, a Bhopal, in India, 40 tonnellate di gas letali fuoriusciti dalla fabbrica di pesticidi Union Carbide, hanno causato, fino ad oggi, la morte di olre 16 mila persone. Dopo 22 anni, i sopravvissuti non hanno ricevuto un risarcimento adeguato; il sito non è stato bonificato e la gente continua a bere acqua contaminata. La Dow Chemical, che ha comperato la Union Carbide, dice di operare in maniera diversa, ma declina ogni responsabilità.

Zamira mi accompagna per le stradine sporche e melmose del quartiere di Qazi Camp, a Bhopal. A prima vista sembra un’area come molte altre in India: bambini che si rincorrono per la strada, vecchi cenciosi che chiedono l’elemosina, casupole buie, sbilenche, stipate l’una addosso all’altra. L’afa rende l’aria pesante e gravida di odori posticci. A un tratto Zamira si ferma di fronte a una capanna di compensato e lamiera, mi guarda e poi con voce emozionata dice: “Ecco, è qui”.
È qui che la notte del 3 dicembre di 22 anni fa, Zamira e la sua famiglia si erano addormentate dopo aver recitato le rituali preghiere ad Allah. Il padre, la madre e una delle sue tre sorelle non si sarebbero mai più svegliate, uccise da un gas di cui neppure sapevano l’esistenza, l’isocianato di metile (Mic), rilasciato dai serbatorni di stoccaggio della vicina fabbrica dell’Union Carbide. Zamira si è salvata grazie alla sua giovane età e dall’essere stata raccolta da Rahman, un vicino di casa, attirato dal pianto della bambina.

I RICORDI DI RAHMAN

“È stata una notte terribile – racconta l’ormai ottantenne Rahman -. Era tutto tranquillo e silenzioso. La temperatura di notte scendeva di parecchi gradi e chi aveva il fisico debilitato veniva colto facilmente da tubercolosi o da bronchiti. Perciò non mi allarmai più di tanto quando cominciai a sentire colpi di tosse più forti del solito. Poi, a un tratto, udii delle urla, dei rantoli, gente che si lamentava; anche io ebbi i primi spasmi di vomito e bruciore agli occhi. Fu allora che capii. Qualcosa era accaduto. Non sapevo cosa, ma qualcosa di inaudito doveva essere accaduto. L’istinto mi suggerì di scappare e così feci”.
Ma prima di fuggire, Rahman ebbe il coraggio e il tempo di passare dalla casa di Zamira per constatare, con orrore, l’ecatombe che stava accadendo. Raccolse il corpicino della bambina e corse disperatamente. Non sapeva nemmeno lui dove. Corse, corse solamente fino a che le sue gambe glielo permisero. Poi si accasciò. Si risvegliò in una corsia di ospedale. Gli occhi bendati, i polmoni bruciati dal cianuro. Non si rimise mai più.
Le immagini di decine di corpi allineati lungo le strade di Bhopal sono ancora vivide nella memoria di chi, come Rahman, è sopravvissuto alla più grande catastrofe industriale della storia, il 3 dicembre 1984.
Quella notte, dalla vicina fabbrica dell’Union Carbide (Ucar), 27 tonnellate di isocianato di metile (Mic), a cui si aggiunsero altre 13 tonnellate di composti intermedi usati per la produzione di un fertilizzante, il Sevin, fuoriuscirono dai serbatorni di stoccaggio, disperdendosi tra gli slums che circondavano la fabbrica.
Circa 2 mila persone morirono prima del sorgere del sole, ma altre migliaia continuarono ad aggiungersene nel corso degli anni. Nell’ottobre del 1995, anno dell’ultimo dato ufficiale emesso dal governo indiano erano 7.575; oggi, dopo più accurate ricerche sul campo, si stima che almeno 16 mila persone siano state vittime del Mic.

DISASTRO ANNUNCIATO

“Sedici mila morti che in Occidente contano assai poco – mi dice la scrittrice indiana Arundathi Roy -, perché l’India è vista come un enorme serbatornio di manodopera e 16 mila persone sono solo un’infima, trascurabile percentuale, per di più senza alcun diritto e voce”. È vero, Bhopal è stato “solo” un “deprecabile incidente” dello sviluppo tecnologico portato dalle multinazionali.
“Cosa sarebbe accaduto se il Mic avesse ucciso a Detroit, Manchester, Colonia o a Torino?” si chiede Thara Gandhi, nipote del Mahatma, che si batte affinché alle vittime di Bhopal sia riconosciuto il diritto di avere giustizia.
La domanda di Gandhi apre un altro spazio di discussione: sarebbe stato possibile per una Union Carbide aprire una fabbrica, la cui gestione poco attenta alla sicurezza era stata più volte denunciata, in un paese dell’Europa occidentale o negli Stati Uniti? Sicuramente no. Non sarebbe stato possibile, ad esempio, stoccare 40 tonnellate di Mic, prodotto altamente tossico e il cui trattamento esigeva particolari precauzioni; non sarebbe stato possibile lasciare che attorno alla fabbrica sorgessero cittadelle di sottoproletari; non sarebbe stato possibile far funzionare una fabbrica tanto complessa con manovalanza poco istruita e deficitaria in numero. Eppure, paradossalmente, nessuno è stato ritenuto responsabile di queste e altre mancanze.

CRIMINE IMPUNITO

Arjung Singh, il primo ministro del Madhya Pradesh che, in cambio di voti per la sua rielezione aveva permesso l’occupazione del terreno attorno alla Ucar, non è mai stato accusato. Gli speculatori di borsa, che si sono allegramente precipitati a comprare le azioni dell’Ucar, crollate subito dopo l’incidente per poi rivenderle appena sono risalite, hanno incassato parole di elogio per la loro sagacia e prontezza.
Warren Anderson, il presidente dell’Ucar al tempo del disastro, ha avuto tutto il tempo di raggiungere felicemente la pensione, ritirarsi in Florida e scomparire nel nulla, fino all’estate del 2002, quando Greenpeace è riuscita a rintracciarlo nella sua nuova tenuta di Hamptons, a Long Island.
Ora il governo indiano non ha più scuse per non richiedee l’estradizione; ma Dominique Lapierre, autore del libro Mezzanotte e cinque a Bhopal, afferma sconsolato di essere “sfortunatamente convinto che Anderson potrà godersi la sua ricca pensione, anche se i muri di Bhopal sono coperti di scritte che dicono: “Impiccate Anderson!””.
L’India ha bisogno del sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente per fronteggiare i suoi nemici pakistani e cinesi e per garantirsi l’entrata nel mercato libero; non può rischiare di creare tensioni per dei derelitti ed emarginati. Recentemente si è riusciti a evitare per un soffio che l’accusa di omicidio colposo diretta verso Anderson, fosse tramutata in innocua negligenza.
Infine la maggioranza della stampa specializzata in industria chimica (e quella italiana si è particolarmente distinta in questo) ha fatto quadrato attorno alla Ucar, scagliandosi contro gli ambientalisti e arrivando a dipingere Anderson come un eroe.

L’ETICA PRIMA DEL PROFITTO

In tutto questo quadro sembrano stonare le parole del Premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, che mi dice: “Senza etica il progresso non ha futuro. Purtroppo in un mondo sempre più globalizzato, per i poveri è arduo entrare nel processo di sviluppo. È difficile per chi non sa scrivere o leggere, per chi è malato o per chi non sa nulla del mondo esterno, sentirsi parte di un meccanismo economico che vada al di là dei limiti del proprio villaggio. Occorrono basi che non tutti gli stati possono o vogliono garantire: l’istruzione in primo luogo, ma anche la sanità, il cibo, un’informazione esauriente e corretta, la possibilità di viaggiare, non dico all’estero, ma nella città più vicina”.
Tutto questo può convivere con un’economia rivolta verso il consumo sfrenato e il profitto? John Musser, capo Ufficio stampa della Dow Chemical, la compagnia che nel 1999 ha assorbito ciò che rimaneva dell’Ucar, risponde affermativamente: “Il motto della Dow è chiaro: prima l’etica, poi il profitto”.
Eppure sembra contraddirsi quando afferma che, “anche se la Dow Chemical ha acquisito la totalità delle azioni dell’Union Carbide, non intendiamo assimilare alcuna loro vertenza legale”.
Bhopal fa paura all’industria? Certamente non se ne parla volentieri. Nella filiale italiana della Praxair, la costola fuoriuscita dalla Ucar nel 1992 nel tentativo di evitare ogni coinvolgimento con Bhopal, non è mai esistita alcuna forma di informazione su ciò che è accaduto in India. La conseguenza è che ben pochi dipendenti delle consociate, la Rivoira di Torino e la Siad di Bergamo, sono a conoscenza di ciò che è successo quella tragica notte di 22 anni fa.
Del resto, a differenza dell’incidente di Seveso, da cui è scaturita una legge che si riconduce al fatto specifico, non è mai stata emessa una Legge Bhopal. 

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Come evitare altre Bhopal

Giovanni Natile è una figura di spicco nel panorama della chimica italiana ed europea. Fino al 2005 ha occupato la presidenza della Società chimica italiana e oggi è presidente dell’Associazione europea delle sostanze chimiche e molecolari (EuChems). Ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande sull’incidente di Bhopal.

Prof. Natile, cosa pensa personalmente dell’incidente occorso a Bhopal?
Prima di tutto è opportuno fare delle considerazioni di carattere generale. Quando succede un incidente in un impianto chimico si sente da parte dell’opinione pubblica, con la mediazione o sotto la spinta dei mezzi di comunicazione di massa, un’ostilità profonda verso l’industria chimica in generale e ancor più per la chimica come scienza. La chimica è sentita come sinonimo d’inquinamento, di degrado della qualità della vita e così via.
Ogni incidente, diciamo pure ogni catastrofe, è una miscela di colpe e di fatalità: la componente casuale è spesso aggravata da leggerezza e superficialità; però, mentre nel caso di un disastro aereo o ferroviario a nessuno verrebbe in mente di abolire il trasporto aereo o su rotaia, davanti a un incidente di tipo chimico si avverte un sentimento di rifiuto della chimica in toto.
Sarebbe possibile un mondo senza chimica? La risposta può essere affermativa a patto che siamo disposti a fae veramente senza: un mondo senza chimica sarebbe un mondo senza mezzi di trasporto (eccetto il trasporto animale), senza farmaci, senza indagini cliniche, ecc., visto che tutto o quasi tutto ha alla base un processo chimico. Detto questo penso di poter rispondere alle sue domande.

La tragedia di Bhopal era evitabile?
Davanti a una tragedia che ha avuto costi enormi in termini di vite umane distrutte o danneggiate è doveroso porsi delle domande affinché quanto accaduto non debba ripetersi. Si impone quindi un’accurata anamnesi dell’accaduto per valutare al meglio origini e cause possibili dell’incidente; cause che possono dipendere da colpevoli disattenzioni, dall’aver agito secondo modalità ad alto rischio, o anche da altri fattori sino a quel momento non documentabili come fattori di rischio. Da ogni tragedia dovremmo poter imparare qualche cosa, e di sicuro possiamo imparare.
Faccio un esempio attuale: il triste episodio dell’11 settembre 2001. A parte tutte le considerazioni che si possono fare, ha sicuramente posto in discussione la costruzione, per insediamenti umani, di megastrutture metalliche difficilmente governabili. È vero che la costruzione di edifici molto sviluppati in altezza può stimolare la ricerca e la messa a punto di materiali non convenzionali, contribuendo così al progresso scientifico, ma alla fine qual è la necessità di levarsi così in alto? Anche la sfida della torre di Babele non ebbe molto successo.
Una risposta onesta e chiara a quanto lei mi chiede è comunque difficile. Spero che l’incidente di Bhopal sia stato oggetto di uno studio accurato e abbia contribuito alla messa in atto di adeguati provvedimenti di sicurezza degli impianti che escludano negli anni a venire incidenti simili.

Si parla tanto di etica, ma nessuno mette in dubbio che l’etica della sicurezza nelle fabbriche nel Terzo Mondo è meno seguita che da noi. Numerose multinazionali vi esportano capitali perché, oltre a essere il costo del lavoro inferiore, anche le misure di sicurezza e ambientali possono essere oggetto di compromessi.
Il conflitto tra cultura dell’essere e quella dell’avere è vecchio quanto il mondo; vincere la corsa a profitti sempre maggiori, opponendo esclusivamente ragioni etiche, credo sia pura utopia. Non penso di essere un cinico e non voglio togliere valore a chi s’impegna su basi etiche per un mondo migliore; tento di essere pratico e di suggerire, forse, una via possibile per mitigare la spregiudicatezza del nostro sistema economico. Sarebbe opportuno che tutte le parti in causa facessero uno sforzo comune per far comprendere che i risparmi in certi settori (sicurezza, ambiente, salute) sono nel medio termine penalizzanti anche in termini economici.
Il timore di forti penalizzazioni economiche, derivanti da dover risarcire i danni prodotti, potrebbe essere l’unico deterrente in grado di convincere le imprese a produrre in termini di maggior sicurezza.

I responsabili del disastro di Bhopal sono rimasti impuniti. Non crede che questa impunità porti nell’opinione pubblica una sorta di sfiducia nei confronti delle multinazionali, specie quelle operanti in settori delicati come quello chimico?
Non so se l’assenza di una punizione per eventuali responsabili, o la mancata individuazione dei responsabili, sia la causa prima della paura e dello scetticismo dell’opinione pubblica. Dal mio punto di vista la paura può derivare sia da mancanza di conoscenza come pure dalla consapevolezza che qualche cosa stia avvenendo senza il rispetto delle regole, e quindi con rischi gravi.
Per quanto riguarda la mancanza di conoscenza posso affermare, con rammarico, che la cultura chimica è scarsa anche tra persone con grado di istruzione medio alto. Basta scorrere gli articoli a tema scientifico dei più diffusi quotidiani, per rendersi conto che sono infestati di autentiche sciocchezze, che non aiutano a migliorare le cose. Bisognerebbe cominciare dalla scuola; ma come si fa se nei nostri licei, dove pure è previsto l’insegnamento di chimica, i laureati in chimica non vi hanno accesso come docenti?
Questa, però, è solo una parte del problema. Veniamo a quello del produrre entro limiti più che ragionevoli di rischio. Nel campo della sicurezza si  assiste all’intreccio perverso con la necessità di mercato di abbattere i costi di produzione quanto più possibile. Anche qui le risposte e gli interventi sono complessi e di non facile attuazione. Il miglioramento dei processi parte dalla ricerca, finanziamenti per ricerche di base sono limitati; da noi sono costituzionalmente bassi, ma anche altrove la situazione non è così facile.
Investire nello studio di nuovi processi per produzioni, per le quali è già presente una via a costi bassi, non rappresenta un investimento remunerativo, a meno di non prendere in seria considerazione gli aspetti della sicurezza e dell’impatto ambientale, ma queste cose vanno incoraggiate dai governi.
A livello europeo c’è sicuramente una sensibilità maggiore rispetto agli stati ricchi dell’America, ma manca ancora una seria politica della ricerca. Infine i controlli: piuttosto scarsi e talvolta con un livello di competenza piuttosto limitato.
Chi esce dalle nostre università con una buona laurea in discipline scientifiche, conseguita nel tempo legale di studio, ha di sicuro una preparazione eccellente, ma si scontra con una realtà lavorativa precaria e poco retribuita. Ne segue una forte demotivazione, con conseguente emorragia verso altri percorsi di studio meno impegnativi e più remunerativi.  In altri termini, il controllo reale necessita anche di un substrato culturale, i cui presupposti vengono da lontano, con responsabilità molto diffuse.

Ma cosa può fare l’opinione pubblica di fronte alle lobby che governano l’industria chimica mondiale?
Se le lobby esistono, non sono esclusivo appannaggio dell’industria chimica. Anche in questo senso un’opinione pubblica, non solo attenta ma anche preparata, può, attraverso quesiti precisi e non con condanne generiche, chiedere ragione di comportamenti e pretendere risposte. Istituzioni ed enti locali devono essere in grado di interloquire in modo utile con il mondo industriale, settore chimico compreso.

Thara Gandhi, nipote del mahatma, si chiede cosa sarebbe accaduto se anziché a Bhopal l’incidente fosse accaduto in un paese dell’Europa o dell’America. Greenpeace afferma che l’ex fabbrica Ucar continua a inquinare le falde acquifere e la nuova proprietaria, la Dow Chemical, rifiuta di porvi rimedio. Le organizzazioni che si occupano dei malati cronici di Bhopal denunciano il disinteresse delle autorità. Come si può avere fiducia in un settore così poco attento alle problematiche umane?
Il lavoro delle associazioni che lei ha nominato penso sia non solo utile, ma anche prezioso per diffondere cultura e sensibilità. Forse alcune necessitano di essere più propositive per poter essere più incisive. 

Piergiorgio Pescali




I nuovi padroni… si lavano le mani

Intervista esclusiva

Non è facile avvicinare un portavoce di una industria chimica, quando questa rappresenta il legame diretto che esiste con un disastro umano e ambientale come quello di Bhopal. John Musser, capo dell’ufficio stampa della Dow Chemical, la compagnia che ha assorbito la Union Carbide, ha invece accettato la sfida. Ecco, quindi, una rarissima intervista rilasciata ufficialmente da un dirigente della ditta statunitense, in esclusiva per Missioni Consolata.

La Dow Chemical ha acquisito la Union Carbide Company (Ucc), sapendo che sia il governo indiano sia le vittime di Bhopal chiedono un compenso più elevato e l’estradizione di Warren Anderson, presidente dell’Ucar all’epoca del disastro. Non pensa che con tale acquisizione la Dow Chemical abbia anche ereditato tutti i debiti morali, etici e materiali lasciati irrisolti dall’Ucar a Bhopal?
Come sa, immediatamente dopo la tragedia di Bhopal, la Union Carbide ha accettato tutte le responsabilità morali per il rilascio del gas. Nel 1989 è stato raggiunto un accordo con il governo dell’India, in base al quale l’Ucar si impegnava a pagare al governo 470 milioni di dollari come risarcimento per tutte le richieste associate al disastro. L’accordo venne ratificato dalla Suprema corte indiana, che lo trovò “giusto, equo e ragionevole”, dichiarando chiusa la questione. L’Union Carbide, quindi, pagò i 470 milioni di dollari al governo indiano, contribuendo tra l’altro con altri 90 milioni di dollari, ricavati dalla vendita delle sue proprietà a Bhopal, alla costruzione e operatività di un ospedale per il trattamento delle vittime del disastro.
Infine la prego di prendere nota che l’Union Carbide Corporation non è da identificarsi con la Dow Chemical Company. La Union Carbide è un’entità legale separata. Con tutto il rispetto della tragedia di Bhopal, noi crediamo che la Union Carbide ha assolto a tutte le proprie responsabilità. Anche se la Dow Chemical ha acquisito tutte le azioni dell’Union Carbide, noi non abbiamo comunque ereditato tutte le pendenze, ammesso che ce ne siano ancora. La Dow Chemical, quindi, non accetta alcuna responsabilità del disastro e dei suoi effetti. Questo a prescindere dal fatto che siamo assolutamente d’accordo col fatto che nessuno dovrà mai scordare la terribile tragedia umana di Bhopal.

Quando una multinazionale o una compagnia localizzata in poche aree ristrette deve produrre profitto per sopravvivere nell’economia di mercato, la protezione dell’ambiente, i diritti dei lavoratori e la sicurezza degli stessi e delle persone che vivono attorno alle fabbriche non vengono mai visti come priorità assoluta. Se ciò è vero in paesi avanzati, in quelli del Terzo Mondo la situazione è tragica: qui le compagnie occidentali possono produrre prodotti pericolosi a costi contenuti. Tutti questi fattori, mischiati assieme, possono reagire tra loro trasformando ogni fabbrica in un’altra potenziale Bhopal. Cosa si sta facendo per fermare questa spirale?
La nostra filosofia afferma che noi dobbiamo prima di tutto lavorare in modo etico e, certamente, guadagnare profitto al tempo stesso, altrimenti nessuna fabbrica potrebbe sopravvivere. Questa è la nostra filosofia, a prescindere dal luogo dove le nostre fabbriche sono situate. Inoltre la nostra politica ambientalista, della sicurezza e della salute, è identica in qualsiasi parte del mondo.

La direzione della Dow Chemical sarebbe pronta a parlare con le organizzazioni che rappresentano le vittime di Bhopal per risolvere i problemi ancora aperti?
Ci sono già stati numerosi colloqui con le organizzazioni da lei citate, ma non hanno portato a nessun cambiamento nelle posizioni delle due parti. Non ci sono altri motivi, quindi, per allungare altre discussioni, se l’oggetto della contesa è la richiesta delle organizzazioni delle vittime di una nostra responsabilità per la tragedia di Bhopal.

L’ex fabbrica della Ucar a Bhopal è ancora fonte d’inquinamento, specie acquifero, che colpisce migliaia di persone. Sareste disposti a ripulire o almeno a contribuire alle operazioni di risanamento del sito?
Il terreno dove sorgeva la fabbrica dell’Union Carbide India Ltd. è sempre stato di proprietà del governo del Madhya Pradesh. Questo è un fatto importante da tenere a mente per continuare la nostra discussione. Nel 1988 l’Ufficio per il controllo dell’inquinamento del Madhya Pradesh ha rilasciato un comunicato stampa, indicando di aver prelevato e analizzato campioni di acqua sia dalle tubature che dalle fonti potabili nelle aree attorno allo stabilimento. Le analisi non hanno dato alcuna traccia di composti chimici nocivi, che dovrebbero in qualche modo essere stati rilasciati dalle operazioni in corso nella fabbrica della Union Carbide India Ltd. L’Ufficio per il controllo, inoltre, aggiungeva nel comunicato che l’inquinamento delle fonti d’acqua potabile è causato da un improprio drenaggio dell’acqua e da altri fattori d’inquinamento che nulla hanno a che fare con le attività dello stabilimento.
Nel 1997, il National Environmental Engineering Research Institute (Neeri), un’organizzazione parzialmente governativa di esperti ambientalisti indiani, ha analizzato 14 pozzi situati entro 500 metri dal sito della fabbrica. La conclusione è stata che i pozzi non sono stati inquinati a causa delle passate attività del sito.

I lavoratori della Dow Chemical in Usa e in Europa, come hanno visto l’acquisizione dell’Union Carbide?
Non c’è stato alcun sondaggio ufficiale per verificare le reazioni degli impiegati sull’acquisizione. Al tempo stesso non ci sono state manifestazioni contro l’acquisizione.

L’Union Carbide ha sempre sostenuto la teoria del sabotaggio per spiegare l’incidente di Bhopal. Anche la Dow appoggia tale tesi?
La Dow non ha mai condotto proprie investigazioni. Sappiamo che le squadre della Union Carbide, così pure studi specialistici come la Arthur D. Little & Co., hanno speso anni per risalire alle cause del rilascio del gas. Tutti, comunque, in modo indipendente, ma univoco, hanno concluso che il disastro è stato causato da un’aggiunta deliberata e intenzionale di acqua al serbatornio di stoccaggio del metilisocianato. Quando tutta la verità è stata appurata, la maggior parte di quello che era stato detto fino ad allora si è dimostrato essere sbagliato. È un tema molto complicato quello di Bhopal, ma la Union Carbide è convinta che la causa del disastro sia stato il sabotaggio da parte di un impiegato della stessa fabbrica e non un’errata valutazione progettuale o un’operazione sbagliata. E noi non abbiamo alcuna ragione per dubitarlo.