Che sia la volta buona?

Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi

Burundi, ottobre 1993. Poi Rwanda e ancora le guerre del Congo. Conflitti che hanno coinvolto decine di stati e fatto milioni di vittime. Crocevia di interessi minerari, traffico di armi e milizie mercenarie. Area di frizione tra influenze (straniere) linguistiche. L’instabilità nella regione era diventata endemica. Oggi con un patto a 360° i capi di stato africani cercano di voltare pagina.

Un importante patto sulla sicurezza, stabilità e sviluppo della regione dei Grandi laghi, firmato da otto capi di stato e di governo. È il risultato del secondo summit della Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi, svoltasi a Nairobi dal 13 al 16 di dicembre scorso.  Anche l’Unione Africana ha partecipato con il presidente della Commissione, Alpha Omar Konaré, mentre era presente il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la regione dei Grandi laghi, Ibrahima Fall e quello dell’Unione europea.
È il secondo vertice ai massimi livelli organizzato per questo scopo. I responsabili sono finalmente giunti ad un accordo che, se messo in pratica, può portare ad una convivenza politica, sociale, economica e un completo accordo sul come raggiungere la meta prefissa. 

Un po’ di storia

Con due risoluzioni nel 2000 le Nazioni Unite avevano chiesto una Conferenza internazionale su pace, sicurezza, democrazia e sviluppo nei Grandi laghi. Regione, dal 1993, devastata dai conflitti (Burundi, Rwanda e infine Congo). I paesi chiamati a partecipare furono undici, a causa delle implicazioni inteazionali che avevano assunto le guerre in questa regione: oltre a Burundi, Rwanda, Congo, Uganda, Kenya e Tanzania, anche Angola, Sudan, Repubblica del Congo e Repubblica Centroafricana e Zambia. Altri sette i paesi «co-optati»: Botswana, Egitto, Etiopia, Malawi, Mozambico, Namibia e Zimbabwe. I primi incontri si erano svolti nel 2003 e il primo summit a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, nel novembre 2004, dopo 4 anni di lavoro diplomatico.

Incidenti collaterali

Purtroppo il giorno prima della firma dei capi di governo per l’approvazione del documento finale, in Kenya si è verificata nel distretto dei Turkana un’ invasione di banditi provenienti dal distretto West Pokot, sul confine con l’ Uganda, in cui sono state massacrate 19 persone, oltre 6.500 capi di bestiame rubati, case e capanne distrutte. I banditi si sono divisi in due gruppi: uno per rubare il bestiame e condurlo nel distretto West Pokot, e l’altro difendeva i ladri a colpi di Kalashnikov. Più di venti abitanti del villaggio di Lorengipi sono in cura in diversi ospedali del distretto dei Turkana, alcuni in serie condizioni. Per un momento è sembrato che tutto dovesse crollare, che questo attentato brutale dovesse porre termine alla Conferenza, senza plausibili conclusioni, ma il presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ha detto che se i banditi credono di fermare il progresso della Conferenza con le loro razzie e uccisioni, hanno fatto i conti sbagliati. «Nulla  – ha affermato Kibaki – fermerà questo processo di sicurezza, di pace, di progresso».
Oltre al presidente del Kenya gli altri capi di stato presenti erano: Jakaya Mrisko Kilwestern della Tanzania, Levy Mwanawasa dello Zambia, Yoweri Museveni dell’Uganda, Pierre Nkurunzia del Burundi, Joseph Kabila della Repubblica democratica del Congo, Beard Makuza,  primo Ministro del Rwanda. Il rappresentante delle Nazioni Unite, a nome del Segretario Generale  uscente Kofi Annan, ha aperto la conferenza dicendo che «la Regione dei Grandi laghi è stata vittima delle più brutali guerre civili del continente», e si è augurato che «tutti gli stati sentano questo problema come il proprio problema. Voi avete definito le priorità di questo impegno, e voi dovete trovare vie e mezzi per lavorare assieme e risolverlo». Nel messaggio Kofi Annan ha detto: «Questo accordo non è solo una visione, è un programma. Milioni di persone – donne, giovani, rifugiati, sfollati – stanno guardandovi e guardandoci e aspettano benefici concreti. Richiamo i paesi della regione a continuare a mostrare padronanza del processo».

Di cosa si è parlato

L’interesse dei capi di stato era rivolto a quattro aree di vita dei loro paesi e delle relazioni con i paesi confinanti. Si è discusso di pace e sicurezza, democrazia e buongoverno, sviluppo economico e integrazione regionale, questioni umanitarie e sociali. Nella discussione su queste quattro aree c’è stata molta correttezza e anche molta onestà. Nonostante qualche momento critico come quando i presidenti Museveni e Kabila si sono scambiati forti accuse e condanne per il loro operato nel Congo. Museveni ha accusato alcuni governi,  soprattutto quello di Kabila, di dare ospitalità e di difendere «gruppi ribelli». «Il problema di nazioni che danno ospitalità e si schierano con le milizie, deve essere discusso ora nel modo più categorico». Ha proposto un emendamento al testo del decreto finale, in cui si dichiara che «qualsiasi stato che dà ospitalità a ribelli, sia trattato come tale».

Servono soldi

Un altro punto di divergenza è stato il sostegno finanziario necessario per tutto ciò che si approva. Alcuni hanno chiesto che gli stati stessi siano totalmente obbligati a finanziare tutte le iniziative approvate, altri invece sostengono che questo sarebbe impossibile senza aiuti estei. Il presidente della Tanzania è riuscito ad armonizzare le due parti dicendo: «Il fondo monetario richiede una enorme quantità di capitali. Nutro la speranza che noi saremo i primi a contribuire sostanzialmente al fondo, anche come segno di determinazione politica. Ma, riconoscendo i nostri limiti finanziari, dobbiamo anche chiedere aiuti alle nazioni e agenzie che considerano importante questo passo, determinante per la pace e il progresso nella nostra regione».
Gli stati dei Grandi laghi s’impegnano a dar vita a un centro che promuova la democrazia nella regione e ristori la legge dell’ordine. Dovrà pure controllare che il patto approvato dai capi di stato, sia eseguito da tutti gli stati e in tutti i suoi particolari. Dovrà preparare programmi di educazione alla democrazia e alla partecipazione alla vita democratica dei loro paesi. Un’altra responsabilità del centro è quella di aiutare i governi a risolvere pacificamente le loro divergenze.
Un fondo monetario di 225 milioni di dollari è stato approvato. Lo scopo è di promuovere lo sviluppo, l’integrazione economica e ricostruire le istituzioni distrutte da anni di guerre, specialmente nel Burundi, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo.
Tutti gli stati presenti s’impegnano a disarmare e ad espellere i gruppi di ribelli che ancora si nascondono in certe zone, e operano contro altri stati limitrofi. Il testo è molto forte e impegnativo. Dice: «Gli stati membri sono d’accordo che qualsiasi attacco contro uno o più di loro dovrebbe essere considerato come un attacco contro tutti loro. Se questo succede, ogni membro, nell’ambito della difesa individuale e collettiva, assisterà gli stati attaccati».
Gli stati del Kenya, Uganda e Sudan s’impegnano a disarmare i gruppi di pastori e nomadi delle loro aree semi-deserte.
Altri temi considerati anche se brevemente, sono stati la situazione delle donne e delle ingiustizie generalizzate e l’epidemia di Aids.
I capi di stato sono determinati a rispondere in modo responsabile per proteggere le popolazioni da genocidi, crimini di guerra, la decimazione di etnie, crimini contro l’umanità e severe violazioni dei diritti umani commessi da, o entro uno degli stati che hanno approvato l’accordo.
«La regione dei Grandi laghi ha problemi di sfollati, violenza sessuale, aids, e altre malattie sociali» ha ricordato il presidente Kibaki. Un protocollo del patto rende obbligatorio agli stati di proteggere, aiutare e cercare soluzione per gli sfollati, stimati a 9,5 milioni nella regione.
I rappresentanti della chiesa cattolica, presenti alla Conferenza, sono stati molto soddisfatti del patto approvato per la sicurezza, stabilità e sviluppo nella regione dei Grandi laghi. Secondo i vescovi presenti, l’iniziativa presa dai capi di Stato «offre una possibilità di iniziare un processo di riconciliazione che la chiesa pienamente approva». I vescovi hanno anche fatto appello alle popolazioni che nel passato hanno sperimentato guerre, ingiustizie, razzie, a  «perdonare e riconciliarsi gli uni con gli altri, nell’interesse di una pacifica convivenza».

Dopo la firma la parte più difficile

Al termine del summit, tutti i capi di stato si sono ritrovati unanimi nell’ammettere che il patto è stato un passo decisivo per la pace, il benessere e la cooperazione nella regione dei Grandi laghi. Tutto vero sulla carta ma le sfide restano enormi. Quella della messa in opera del patto, il Kenya lo sta già violando, negando l’entrata dei rifugiati somali; la sfida del contributo delle nazioni ricche al fondo per le realizzazioni; la sfida della «moralità» nella gestione di quei fondi.
«Penso sia possibile chiudere questo triste capitolo della storia della nostra regione – ha dichiarato il presidente Kikwestern – un capitolo caratterizzato da conflitti, insicurezza, instabilità politica e perdita di opportunità economiche».

di Antonio Bellagamba

Antonio Bellagamba




«Mettete pane nei vostri cannoni»

Da Vicenza a Cameri, uno scandalo che non può essere taciuto

PERCHÉ?

Perché si aumentano le spese belliche?
Perché si perpetuano le servitù militari?
Perché non si utilizzano i soldi (pubblici) in favore di uno sviluppo «virtuoso»?

«Mi rivolgo alla vostra rivista di cui sono assidua lettrice per richiamare la vostra attenzione su quanto sta avvenendo a Vicenza in questi giorni. Vi prego di fare un articolo su questo argomento per aiutarci a vincere questa battaglia a favore della pace ma contro potenze fortissime. Se volete ulteriori informazioni vi segnalo il sito www.altravicenza.it.
Grazie per l’attenzione e continuate così.

Emanuela Lievore, Vicenza


Abbiamo pensato che fosse giusto accontentare la nostra lettrice, pur sapendo – per esperienza maturata sulla nostra pelle (dal Kosovo all’Iraq, dalla Palestina all’Iran) – che quando si affrontano questi argomenti si rischiano sempre le critiche e, a volte, gli insulti. Proprio per auto-tutelarci (senza, però, auto-censurarci) abbiamo chiesto di esprimere un parere su questi argomenti a 4 nostri collaboratori di prestigio, tutti preti (per questa volta). Prima di lasciarvi alle loro considerazioni, ricordiamo qualche dato.
Nel mondo, gli Stati Uniti sono di gran lunga il paese con la maggior spesa militare, pari al 48% del totale mondiale (dati Sipri). In Italia, le forze degli Stati Uniti si sono piazzate bene e comodamente, da Nord a Sud del paese. I casi più clamorosi sono quelli de La Maddalena (Sassari), una base navale che ospita sottomarini nucleari e che dovrebbe (finalmente) essere smantellata nel 2008; Aviano (Pordenone), da dove partirono i cacciabombardieri durante la guerra del Kosovo (1999) e Camp Darby (in provincia di Pisa, nonostante il nome inglese), dove esercito ed aviazione statunitensi custodiscono un ricco arsenale. Da anni l’Italia è tra i primi 10 paesi del mondo sia come spesa militare che come esportatore di armi.
Dimenticando totalmente le questioni etiche, parliamo di soldi. La Confindustria, la maggioranza dei politici, gli economisti e i giornalisti «schierati» (diciamo così) affermano che «basi militari e spese militari sostengono lo sviluppo economico perché incentivano gli investimenti e producono posti di lavoro». Provate soltanto ad immaginare che volano economico produrrebbe un dirottamento dei soldi pubblici spesi per la difesa (e per la costruzione di mezzi da guerra: ad esempio, gli aerei da combattimento Eurofighter e Joint Strike Fighter o le navi da guerra della classe Fremm) per progetti diversi come, ad esempio, investimenti nel settore delle fonti energetiche rinnovabili e contributi per l’edilizia bioecologica. Si incentiverebbe non soltanto lo sviluppo economico, ma anche e soprattutto uno sviluppo di tipo virtuoso. Quanto al (presunto) ritorno economico delle basi Usa, sarebbe meglio dare un’occhiata ai rapporti del «Dipartimento della difesa» degli Stati Uniti, alla voce Allied Contributions to the Common Defense. Nel 2004, ad esempio, l’Italia ha pagato agli Stati Uniti, per le cosiddette «spese di stazionamento», 366 milioni di dollari: soltanto Giappone e Germania pagano più del nostro paese. Washington prende i soldi, ma se i suoi soldati combinano qualche «marachella» (come la strage del Cermis, in Trentino, che nel 1998 provocò 20 morti) non possono essere processati in Italia. Di questo si è lamentato addirittura il Corriere della sera (pur favorevole, come tutti i grandi giornali, alla presenza delle basi Usa), che parla della necessità di «aggioare le condizioni dell’ospitalità» (17 gennaio 2007).
Come tutti sanno, mancano sempre i soldi per le Università, la ricerca, gli ospedali, le scuole, la salvaguardia dell’ambiente, il risparmio energetico, le pensioni, le politiche migratorie, la cooperazione internazionale, ma non mancano mai per le spese militari. Sembra che, in ogni parte del mondo, dagli Usa all’Italia, la lobby politico-militare-finanziaria esca sempre vincente. Una ragione in più per alzare la voce. Noi lo facciamo.

Paolo Moiola

A Vicenza si vuole ampliare la base degli Stati Uniti, a Cameri (Novara) si vogliono assemblare i nuovi caccia militari F-35. Si adducono motivi diplomatici («i patti sono patti»), economici («si porta lavoro
e ricchezza»), di opportunità («altrimenti se ne vanno da un’altra parte»), ma in verità nulla di tutto ciò può essere giustificato, se si considerano le spese militari un attentato alla pace e uno spreco assurdo di risorse. Da Vicenza a Cameri, dagli eserciti alla finanziaria: troppe scelte di guerra, troppa ipocrisia. E troppi interessi.

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Essere per sempre spettatori passivi (o impotenti) davanti alla morte del diritto e dell’etica?

Solo un occhio superficiale o, almeno, sprovveduto, può vedere nell’attuale dibattito sulla nuova base dell’Us Army a Vicenza una semplice questione riguardante i rapporti Italia-Usa (con il collaterale e strumentale dibattito sull’antiamericanismo) o un problema correlato alla nostra «politica estera» (con il consequenziale e ugualmente strumentale riferimento alla «fedeltà» circa gli impegni precedentemente assunti dall’Italia).
Il problema non è questo. Il problema è l’intero contesto nel quale questa scelta viene a porsi; e preoccupante è il panorama che ne emerge.
Ora noi sappiamo bene che nel mondo della comunicazione una parola, un’espressione ed anche un’intera affermazione prendono senso dal contesto del discorso: il luogo in cui si parla, il pubblico cui ci si riferisce, l’oggetto del parlare ed il parlare stesso. In contesti diversi le stesse parole assumono valori diversi, a volte anche contraddittori. La parola «padre», per portare un esempio, in contesti diversi può significare il padre che ha generato, ma può significare anche Dio, il padrino e perfino il padrone e il mafioso. Quindi, onde evitare incomprensioni e fraintendimenti si rende necessaria un’opera di contestualizzazione del «parlato» e di «sintonizzazione» con il parlante: tutto ciò al fine di una corretta comprensione e di una positiva comunicazione.
Questo lavoro «ermeneutico» in filosofia viene chiamato «sitz in leben». Ed è un lavoro non facile, eppur necessario. Una volta, a Raimon Panikkar, fu chiesto di indicare gli equivalenti sanscriti di 25 parole chiave latine ritenute emblematiche della cultura occidentale. Egli declinò l’invito, perché ciò che sta alla base di una cultura non sta necessariamente alla base di un’altra. È un campo in cui i significati non sono trasferibili. «Le operazioni di traduzione sono più delicate dei trapianti cardiaci» ebbe a dire in quella occasione.
Ora qui, non si tratta di «tradurre», ma di «leggere» dei fatti e onestà e correttezza vogliono che si faccia opera di contestualizzazione, «sitz in leben», appunto.
Proviamo allora a porre questa scelta del governo Prodi a favore dell’installazione di una nuova base americana presso l’aeroporto Dal Molin di Vicenza.
In sintesi, rileviamo che:
1. il Pentagono, unilateralmente e senza consultare gli «alleati», ha deciso di rischierare dalla Germania in Italia la sua brigata aerotrasportata;
2. la scelta americana è parte integrante del programma di Bush e della sua politica guerrafondaia che pretende di combattere il terrorismo con la guerra e di imporsi come unico gendarme mondiale, accantonando anche e depotenziando perfino la stessa Onu;
3. l’impegno con Bush è una eredità che ci viene dalla servile politica estera del precedente governo; una politica che in Europa non ha trovato nessun seguito, oltre l’infelice eccezione anglo-italiana.
Questo, in breve, il panorama circostanziato e a breve raggio.
E se proviamo ad allargare, come di dovere, l’orizzonte all’economia e alle politiche che caratterizzano il mondo nella sua attuale distretta?
Notiamo, allora, che la politica è stata asservita all’economia e che questa, a sua volta, trova la sua floridità nell’industria militare. Così l’Impero e la Guerra sono diventati fratelli siamesi, le banche sono i migliori azionisti delle lobby militari e l’euro-
dollaro e le armi sodomizzano sotto lo stesso tetto.
In questo contesto sia la querelle di Vicenza, come quella di Cameri, ma anche la questione dell’Afghanistan sono tutti tasselli che concorrono a rinforzare la morsa micidiale degli osceni connubi di cui sopra. Da lamentare, in aggravio al bilancio negativo delle ultime scelte governative, lo scandalo di una finanziaria che, dopo aver tagliato fondi su scuola, sanità e servizi, in nome del rigore e dell’austerità, per la guerra riserva privilegi ed extra: nella sola Tabella di bilancio della difesa il precedente importo totale di 17,782 miliardi di euro è stato portato a 18,134 miliardi, con un incremento di 352 milioni.
Si pone, allora, bruciante, la domanda su che cosa vada lavorando una politica di pace che invece di scalfire, almeno in parte, questi abbracci mortiferi li consolida e li perpetua.
Bisogna purtroppo lamentare che, nonostante affermazioni in contrario, la «politica» considera le obiezioni all’attuale deriva militarista come variabili irrilevanti, sterili trastulli di chi si attarda a parlare di «valori».
Si deve ancora lamentare, con Danilo Zolo, docente di filosofia del diritto internazionale all’Università di Firenze, che  «le ragioni morali hanno scarsissimo rilievo nei rapporti inteazionali. Oggi prevalgono i rapporti di forza. Il sangue di innocenti è un banale “effetto collaterale”. Il diritto internazionale, di fatto, è una razionalizzazione ex post della volontà delle grandi potenze. E se il diritto è scarsamente efficace, l’etica è addirittura incommensurabile con gli obiettivi politici, economici e militari che legittimano anche agli occhi delle maggioranze democratiche dei paesi occidentali l’uso dei mezzi di distruzione di massa. La logica delle grandi potenze non ha nulla a che fare con i “valori” cui pure si fa retorico riferimento: è una logica spietata i cui emblemi sono i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono Guan-tanamo e Abu Ghraib o, su altro versante, è l’11 settembre 2001» e, aggiungiamo noi, Sigonella, Vicenza, Cameri e, ancora, la finanziaria.

Aldo Antonelli

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Il primato della forza sulla ragione non deve uccidere la voglia e il dovere di sognare.

Sono due i nodi «bellici» dell’attuale realtà italiana: l’allargamento della base militare Usa in località Dal Molin a Vicenza e l’accordo per l’acquisto di nuovi aerei da combattimento denominati F35 con la prospettiva di un loro assemblaggio finale presso l’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara.
Il tema è uno di quelli spinosi e sui quali bisogna procedere con molta attenzione.
La Commissione diocesana Giustizia e Pace di Novara, da tempo allertata su questo tema, ha cercato di farsi interprete e di dare risonanza al magistero della chiesa su un tema così importante, ripercorrendo passo dopo passo gli interventi più incisivi e qualificanti elaborati a partire dal Concilio Vaticano II ad oggi sulla corsa agli armamenti. Ed è proprio ripercorrendo questi testi che si resta allibiti di fronte alla protervia della lobby delle armi. Quando la chiesa ricorda che ogni volta che capitali astronomici vengono destinati alla fabbricazione di strumenti di morte, sottraendo così ingenti risorse che potrebbero essere destinate allo sviluppo dei popoli e alla risoluzione di emergenze drammatiche (Aids, malattie, fame), gli si risponde obiettando che un polo tecnologico così d’avanguardia sarebbe una promozione non solo per tutta la realtà novarese ma addirittura per l’intero Piemonte, notoriamente in una fase di crisi per ciò che riguarda i posti di lavoro.
Ci sono molti modi da cui partire per affrontare un tema così spinoso come quello degli F35, noi preferiamo farlo stando dalla parte dei più poveri a cui non vorremo mai dire: «resta con la tua fame, le tue malattie, le tue emergenze, perché le risorse che potrei destinare a te e ai tuoi bambini, le utilizzeremo per costruire armi sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate che magari terremo in magazzino ma che ci aiuteranno a sentirci più sicuri di fronte alle paure che attanagliano i nostri stomaci». La scelta di stare accanto ai poveri ci sembra più aderente ai criteri evangelici che non a quelli dettati dalla «real politique».

La corsa agli armamenti è sempre stata una iattura per i popoli della terra ed in particolare per i paesi del cosiddetto Terzo Mondo: essa disperde enormi risorse che potrebbero essere destinate a risolvere i principali problemi dei paesi poveri.  È urgente più che mai passare da una strategia di guerra ad una strategia di pace. La corsa agli armamenti in quanto contraria all’uomo è contraria a Dio. Da un punto di vista pastorale bisogna lavorare e impegnarsi per bandire questa corsa folle per due ragioni principali:
1) non c’è nessuna proporzione tra i danni causati e i valori che si vorrebbero salvaguardare;
2) armarsi per difendersi, quando le armi di difesa hanno un potenziale distruttivo enorme, come l’atomica, perde ogni sua ragione d’essere, giustificazione, e legittimità.
Potremmo aggiungere che l’accumulo spropositato di armi nelle mani di pochi paesi, potrebbe spingere questi ad una politica di ricatto verso altre nazioni, mettendo a rischio il già precario equilibrio dei diversi paesi della comunità internazionale.
In più la corsa agli armamenti costituisce una profonda ingiustizia perché afferma il primato della forza sulla ragione (questo è un leit-motiv  che accomuna tutti i pontefici del secolo scorso fino a Benedetto XVI, nei loro incessanti appelli per la pace).
La corsa agli armamenti è inoltre una vera pazzia perché spinge i rapporti umani individuali e quelli politici inteazionali a basarsi sulla paura dell’altro creando attraverso il controllo dei mass media, una specie di isterismo collettivo. La corsa agli armamenti diventa un mezzo per imporre alle nazioni più deboli la propria visione del mondo. Tutto questo non è accettabile dalla coscienza cristiana.
La pace non è solo superamento del criterio di non belligeranza, è la riacquisizione di valori spirituali e ideali che promanano dal vangelo, come la difesa della vita, la valorizzazione della persona nella sua dignità e la costruzione di rapporti di giustizia tra individui e popoli. Se vogliamo che la pace non resti un sogno, dobbiamo avere il coraggio di sognare insieme.

Mario Bandera

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La guerra come sostegno di una pace che non c’è. Perché la pace ha bisogno di giustizia.

La logica del mondo è opposta alla logica cristiana evangelica:  l’una e l’altra sono incompatibili nel fine e nei mezzi. Il mondo del potere è finalizzato alla guerra come struttura di sostegno al dominio, il vangelo è finalizzato alla pace come struttura della coscienza individuale, fondamento della coscienza dei popoli. Il mondo vuole dominare, il vangelo esige di servire. Il mondo usa strumenti di distruzione anche quando potrebbe ricorrere a mezzi pacifici, il vangelo impone l’amore per i nemici come condizione essenziale della propria identità di figli di Dio. Il potere ha bisogno della guerra perché il suo obiettivo è l’annientamento dell’altro come ostacolo alla propria dittatura, la pace ha bisogno di giustizia perché il suo obiettivo è la convivenza. La guerra è serva del potere, il dialogo è trampolino per la pace. Due mondi e due strategie che non possono mai coincidere o soltanto venire a compromesso.

Opposti contraddittori. Bisogna scegliere: o Dio o mammona.  O il Dio dell’esodo o il vitello della schiavitù. O la pace o la guerra. Lev Nikolaevic Tolstoj  ci avverte che non è più tempo di «Guerra e pace» nel senso ineluttabile del destino, ma è tempo della responsabilità personale, sorgente del diritto pubblico e del destino dell’umanità.  Non c’è una via di mezzo. Non licet! Si deve scegliere. Il mondo guerrafondaio ha fatto proprio l’aforisma romano «se vuoi la pace prepara la guerra», sostenendo così il principio della moralità della guerra come sostegno della pace o per lo meno come deterrente dello stato di pace. Questa pseudo e lugubre filosofia è servita e serve a giustificare la guerra dovunque e comunque perché la pace deve essere difesa dappertutto e sempre e quindi necessita di armi che diventano così il fondamento primario dell’economia senza distinzioni di tempi e di qualità. L’aberrazione raggiunge livelli parossistici quando un’azione di guerra preventiva, un intervento armato o una spedizione di militari in assetto di guerra vengono spudoratamente definiti «azioni umanitarie». Le centinaia di migliaia di morti innocenti in Iraq o i torturati di Abu Graib e di Guantanamo avrebbero fatto a meno di questi aiuti umanitari che li hanno seppelliti sotto le bombe e al di fuori di ogni garanzia civile di diritto come prescrivono le convenzioni inteazionali.

Conseguenze logiche. Come cristiani siamo incastrati: o Dio c’è o Dio non c’è. Se Dio c’è, le conseguenze logiche sono inevitabili come lo sono quelle nell’ipotesi che Dio non ci sia. È finito il tempo e l’aberrazione del «giusto mezzo» che è la logica che tutto giustifica e nulla risolve come spesso hanno motivato la loro politica i partiti cosiddetti ispirati al cristianesimo. Non esistono né possono esistere partiti cristiani o cattolici come non può esistere un governo cattolico o cristiano, aspirazione truce di chi vorrebbe imporre la religiosità con la forza della spada o con l’obbligatorietà di leggi civili. La parola di Cristo è drastica e tagliente: non potete servire due padroni. L’uno (il mondo) si serve, l’altro (Dio) si cerca. I cattolici che sono nelle istituzioni elettive, i giovani che si arruolano volontari nell’esercito, uomini e donne che hanno ricevuto il battesimo nel Nome di Gesù Cristo crocifisso e risorto, non possono accettare qualsiasi compromesso con il militarismo comunque si camuffi e si manifesti. Nessun giovane oggi è obbligato a fare il militare in un esercito dove conta non più la difesa del proprio popolo, ma il grado di scientificità per ammazzare sempre meglio. Un giovane che sceglie di fare il militare si mette contro la logica del vangelo e si pone in una condizione di forte rischio per la sua sopravvivenza sia fisica che spirituale. Nessun credente può vestire una divisa militare che resta incompatibile con la veste bianca del battesimo. Anche dove il servizio militare fosse obbligatorio, il credente è obbligato a diventare obiettore di quella coscienza che è creata ad «immagine e somiglianza» di Dio. Il vangelo non è un codice di galateo o un manuale di realismo. Il vangelo è semplicemente la prospettiva del Regno di Dio che esige la non-violenza come pratica quotidiana di vita e di relazione:  a chi ti percuote sulla guancia destra porgi anche la sinistra; a chi ti chiede il mantello, offri anche la tunica. Una via di mezzo non esiste né può esistere.

Democrazia a sovranità limitata. I cosiddetti cattolici impegnati in politica a qualunque mangiatornia appartengano, sono indissolubilmente fedeli agli Usa. Divorziano cattolicamente dalle mogli, ma restano indissolubilmente fedeli nei secoli al matrimonio con gli Stati Uniti o meglio con il governo degli Usa che garantisce loro una masochistica sottomissione. Una parte di essi parla di pace, fa genuflessioni doppie davanti al papa, si appella ai «valori», ma sceglie sempre la guerra a favore della guerra. Berlusconi, drogato di americanismo e condizionato dal suo bisogno di essere fotografato accanto al texano Bush, ha dato carta bianca ai servizi segreti Usa e alle basi militari in Italia che come Paese cessa di essere una nazione autonoma e sovrana e diventa un pied-à-terre del governo degli Stati Uniti, come ha dimostrato il caso di Abù Omar. Non è da meno il governo Prodi, condizionato dal suo complesso di inferiorità (dimostrare di non essere anti-americano) che ha concesso il raddoppio della militarizzazione di Vicenza sulla testa e sulla vita degli abitanti, coprendosi con la foglia di fico della delibera comunale, relegando così la politica estera agli umori di un consiglio comunale di periferia. La smentita è venuta il 1o febbraio 2007 dal senato della Repubblica che ha votato un ordine del giorno dell’opposizione giustificato dal sen.  Renato Schifani, capo dei senatori proprietà di Berlusconi, con queste parole: «La scelta di ampliare la base è di rango politico ed è coerente con la politica estera del governo, in continuità con quella del governo precedente». L’Italia cagnolino di compagnia del governo statunitense e democrazia a tempo e limitata.
La voglia di guerra e il dovere della disobbedienza. Nel mondo cresce una voglia di armi e di guerra, una voglia così efferata e impudente che passa sopra i diritti naturali delle popolazioni chiamate a pagae il prezzo salato in termini di salute, di ambiente e di dignità. La concessione agli Stati Uniti del raddoppio della base militare già esistente a Vicenza è solo un sintomo tragico di una situazione senza ritorno.
Come se non bastasse a Cameri in provincia di Novara c’è il progetto di assemblaggio di caccia bombardieri da guerra aerea, trasportatori di bombe e/o testate nucleari. In 15 anni l’Italia dovrebbe acquistae 131 al costo previsto di 150 milioni l’uno (ma altri parlano di 200 milioni). Facciamo allora un po’ di conti: 8 F-35 all’anno costerebbero al nostro paese  1.200 milioni di euro, cioè circa il 4 % della finanziaria 2007. «Se non li faremo a Cameri, tante famiglie di lavoratori resteranno senza stipendio», è stato detto. Ma con tutti quei soldi (pubblici) quanti posti di lavoro «virtuosi» si potrebbero creare? Un fiume di denaro pubblico buttato nelle spese militari, mentre nel mondo la povertà avanza inesorabilmente e in Italia circa 3 milioni di famiglie non arrivano alla fine del mese.
A Vicenza e a Cameri bisognava dire un doppio «no», pretendendo una ridiscussione generale della politica estera e coinvolgendo l’intera Europa in una ricerca che analizzasse i fallimenti degli Stati Uniti, impedendo che continuassero a fare strage di democrazia e di integrità territoriale di paesi sovrani e liberi. Avremmo voluto assistere ad un governo compatto e univoco, mentre ancora una volta assistiamo allo scempio di una  non-maggioranza che sta dilapidando il patrimonio che le italiane e gli italiani gli hanno conferito sull’orlo del precipizio istituzionale berlusconiano.

Nemmeno un temperino. L’Italia terra strategica nel cuore del Mediterraneo per essere porta  tra Occidente e  Oriente, partecipa e condivide la politica suicida della rincorsa agli armamenti, diventando complice e causa di ingiustizie che si perpetrano in quel mondo che dice di volere aiutare con progetti di pace. I progetti di pace escludono le armi, anche il temperino degli scout perché la pace, ove fosse necessario, come è necessario, si arma dello scudo della non-violenza che consiste nel principio aureo: quando la violenza è inevitabile, è meglio subirla che darla. Nessuna deroga può esserci al principio evangelico: «Chi di spada ferisce di spada perisce». Il frutto maturo della nostra «civiltà» consiste nel fatto che oggi in ogni guerra in atto la percentuale dei militari morti è pari al 5% mentre i civili muoiono nella misura del 95%. I militari si divertono, gli innocenti muoiono. In caso di guerra nucleare, gli unici a salvarsi sarebbero i militari rinchiusi in qualche sommergibile. L’umanità corre a ritmo serrato verso la militarizzazione senza aggettivi perché oggi i governi sono condizionati da una politica militarista che determina l’economia, le alleanze e le scelte sociali.
Militarismo in clergyman.  Da questa prospettiva evangelica le cappellanie e gli ordinariati militari sono un controsenso evangelico e il segno grave di un’alleanza tra due poteri che si autoreferenziano e si alimentano reciprocamente. In nome del realismo. Il segno di questa aberrazione sono i vescovi e i preti militari che diventano parte integrante dell’esercito con titoli, stellette e relativo stipendio fornito dal ministero della difesa. Ministri dell’altare embedded  in tuta mimetica a servizio di una struttura di peccato perché strutturalmente finalizzata all’uccisione e alla morte. Nei primi tre secoli i militari non potevano accedere al sacerdozio come i figli dei macellai perché gli uni e gli altri erano familiari al sangue. Dopo ogni guerra i preti che vi hanno preso parte ricevono la dispensa nell’eventualità che avessero compiuto atti contrari allo status sacerdotale che propriamente non si addice al servizio militare (Codice Diritto Canonico 289 §1). In ogni guerra i cappellani delle diverse religioni pregano Dio perché protegga i propri soldati e ciò è una bestemmia perché esige da Dio un comportamento contraddittorio visto che in guerra qualcuno deve pur morire. Chi deve scegliere Dio? Con quale metodo? La guerra degli uomini diventa guerra tra gli «dèi» e ci riporta indietro all’Olimpo, quando le divinità parteggiavano per l’uno o per l’altro esercito. Oggi la presenza di preti e frati e vescovi inquadrati militarmente è una delle concause che giustificano e alimentano le guerre di religione e il dissesto etico delle nostre generazioni. Se anche la chiesa con proprio personale è dentro al processo militarista finalizzato alla guerra e alla violenza degli stati e dei loro eserciti, è impossibile annunciare il vangelo delle Beatitudini o del Magnificat o del Servo di Yhwh o pensare che il mondo possa cambiare e lasciare che la pace da sola possa farcela: davanti agli occhi del mondo la stessa guerra è giustificata e legittimata.

Esportare idiozia. Gli Usa hanno ammesso ufficialmente che la guerra in Iraq (ma anche quella in Afghanistan) è stata un fallimento completo (non potendolo dire così, parlano di «errori»). Gli unici risultati di quelle scellerate guerre, volute da un incapace e scellerato capo di governo a cui si accodarono altri scellerati capi di governo, pigmei illiberali e schiavi di servilismo, sono stati la destabilizzazione delle zone di guerre e del mondo intero che oggi è più fragile e più esposto al terrorismo che quelle guerre alimentano e ingrassano. L’idiozia di esportare la democrazia in armi ha prodotto l’accorciamento della democrazia negli stessi paesi produttori di guerra.  Quando, come Missioni Consolata, dicemmo (confortati anche da un papa) che la guerra è una pazzia fatta da pazzi contro pazzi e che nulla avrebbe risolto, ma tutto avrebbe aggravato, fummo tacciati di antiamericanismo, di disfattismo, di antipatriottismo e finanche di connivenza con i terroristi islamici. Fummo solo prevedibili e noiosi profeti impotenti. In una società civile democratica,  di fronte a questo sfacelo, uomini insignificanti come Bush, Blair, Berlusconi, Aznar che hanno voluto le guerre per ideologia avrebbero dovuto non solo dimettersi da ogni carica istituzionale, ma anche scomparire dalla scena politica perché hanno ingannato i loro popoli, li hanno defraudati della dignità, li hanno mandati allo sbaraglio e li hanno uccisi con falsità. Licenziati per incapacità di governo o peggio ancora per incapacità di valutazione previsionale. Un capo di stato che non sa prevedere le conseguenze delle proprie scelte è una iattura per il suo popolo.

Scenari mondiali: che succederà ora in Iran, Siria e Palestina?  Tony Blair ha di fatto affossato la (meritoria) proposta italiana all’Onu di moratoria sulla pena di morte. L’Europa, infatti, non parlerà una sola lingua perché Blair in Europa fa gli interessi degli Usa da cui non si discosta più di una museruola da cane. Una grande occasione perduta politicamente e moralmente. Il suo degno compare di guerre Bush, persa la guerra in Iraq, cerca di imbastie un’altra contro l’Iran con l’intento di scatenare una deflagrazione nel Medio Oriente e forse permettere ad Israele di usare armi atomiche per la soluzione finale di Iran, Siria e Palestina. Si è capovolto l’aforisma latino che diventa: parla di pace, ma prepara la guerra. Questa escalation verso la guerra sistematica cammina di pari passo con il degrado ambientale, la desertificazione del sud e dell’Africa  e la prospettiva della distruzione del pianeta per implosione della stupidità dei governi cosiddetti democratici. Per essere una civiltà occidentale ce n’è di che vergognarsi. In tutto questo frangente, siamo in attesa di sentire la voce della gerarchia ecclesiastica che in nome del vangelo e dell’etica che sgorga dalla sua dottrina sociale, sicuramente avrà una parola illuminante. Una parola di salvezza per i loro popoli e il loro ambiente geografico e sociale.

«Alienum a ratione». Semplicemente folle. «Quelli che vuol perdere, Dio rende pazzi», dice un proverbio latino  attualissimo oggi: la maggior parte dei governi sono in mano a uomini folli: il mondo è già collocato sulla bocca di un vulcano in eruzione perché con le riserve atomiche la terra può essere distrutta sette volte ed essi continuano ad armarsi sempre più modeamente, occupando sempre più territori, popoli e persone e perseguendo la sola logica che il demone della guerra concepisce e partorisce: la distruzione degli innocenti, la strage dei civili, la miseria e la povertà strutturale di due terzi dell’umanità. Con un cambio di strategia: nei prossimi mesi e anni sentiremo parlare di necessità di armarsi per la salvaguardia della stabilità ambientale. Il prologo è cantato dagli industriali che hanno fomentato abbondantemente il dissesto ambientale ad ogni livello (è drammatico il rapporto su clima e ambiente redatto dai maggiori esperti mondiali e reso pubblico lo scorso 2 febbraio), ma sono pronti a convertirsi all’ecologismo e all’economia ambientale perché vi hanno intravisto un modo «altro» per fare soldi e sottomettere sempre più popoli e territori ai loro guadagni. Non è lontano il tempo in cui vedremo i militari e gli eserciti convertiti alla difesa dell’ambiente per poterlo distruggere meglio, guadagnandoci anche il prezzo e sopraprezzo, mentre i loro popoli muoiono di fame o si avviano inesorabilmente verso la catastrofe ambientale annunciata. Pazzo o folle vuol dire senza ragione/illogico ed è così che Giovanni XXIII definisce la guerra nella enciclica Pacem in terris:  «alienum a ratione», semplicemente «folle».

La voglia di guerra è la soluzione finale dell’istinto di aggressività che regge la morale di questa nostra epoca: molti soldati, pur volontari, non vanno in guerra solo per guadagnare qualche centesimo in più, molti vanno perché spinti dall’odore del sangue a cui si sono allenati per anni senza mai avere la possibilità o di menare le mani o di mettere a frutto tutta la violenza che hanno incamerato nel tempo della preparazione professionale. I politici si divertono a garantire che i «nostri» soldati sono professionalmente preparati. Traduzione: i nostri soldati sono preparati ad uccidere professionalmente, cioè  a colpire per primi, cioè ancora ad agire «preventivamente» se vogliono salvarsi la pelle. I torturatori di Abu Graib torturavano «per diversivo o per noia». Allo stesso modo nelle strade delle nostre città persone fragili, ma che hanno sete di guerra senza poterla realizzare mettono in atto l’unica guerra possibile per bulli annoiati: aggredire persone ancora più deboli e fare ecatombe di stupri, di sesso, di violenza gratuita. Il futuro è già cominciato: la voglia militarista ha già intaccato il nostro vivere civile; la mentalità guerrafondaia dilaga e domina le nostre città e le nostre relazioni. Dio ci salvi da questo buco nero senza ritorno, se ancora è in grado di farlo. A noi cittadini inermi e credenti nel Dio di Pace, il dovere di resistere senza ambiguità.

Paolo Farinella

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Le armi non si devono nè vendere né costruire: «in piedi, costruttori di pace!»

«In piedi, allora, costruttori di pace. Anzi, come dicono i francesi, en marche!». Queste parole di don Tonino Bello (Arena di Verona, 1989) ci devono scuotere ancora oggi. Se ci guardiamo intorno e vediamo il crescere di una cultura militare e di guerra. Se apriamo gli occhi per vedere cosa davvero succede dietro alle scelte di ampliamento della base Usa a Vicenza, dietro alla notizia che il quotidiano Libero (non certo antiamericano…) riportava a fine gennaio 2007, in merito alla conferma della presenza nella base di Aviano di testate nucleari, dietro al folle progetto di assemblaggio a Cameri (Novara) degli aerei da guerra F35, i cui costi sono astronomici, davvero urge far risuonare le parole profetiche di don Tonino: «In piedi, costruttori di pace». Guai a chi mette velocemente nel cassetto le proprie motivazioni, magari anche cristiane, per buttarsi negli affari, nei vantaggi di un’economia armata, che pare essere davvero il motore di tutta l’economia e la finanza. Le armi sono un businnes pazzesco! Proprio pazzesco, sì! Perché la guerra, come dice la Pacem in terris di Giovanni XXIII, è «roba da matti» (alienum est a ratione).
Un segno profetico di fronte a questi progetti di morte ci viene dal documento, firmato da mons. Ferdinando Charrier, vescovo di Alessandria e presidente della Commissione Problemi sociali, Giustizia e Pace del Piemonte insieme a mons. Tommaso Valentinetti, vescovo di Pescara-Penne e presidente di Pax Christi Italia, del 25 gennaio scorso.
Scrivono i due monsignori: «Sulla scia dei pronunciamenti del magistero della chiesa desideriamo riaffermare, come comunità cristiana, la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione di strumenti concepiti per la guerra. Ci riferiamo, in particolare, alla problematica sorta recentemente sul nostro territorio piemontese relativa all’avvio dell’assemblaggio finale di velivoli da combattimento da effettuarsi nel sito aeronautico di Cameri (Novara). Riteniamo – continua il testo – che la produzione di armamenti non sia da considerare alla stregua di quella di beni economici qualsiasi».

Contro questa posizione si sono subito levate voci autorevoli, anche cattoliche (ahimè!), con questi toni  «pur dichiarandomi, in termini ideali, vicino ai vescovi, ritengo che non si possa prescindere, in una fase delicata per la nostra economia, da una valutazione pragmatica…  Dobbiamo fare tutto il possibile per far sviluppare il nostro territorio e non possiamo permetterci di perdere nessuna opportunità che vada in queste direzioni».
Come a dire: il vangelo va bene, ma a livello intimistico o per le suore di clausura. Nella vita poi bisogna essere realistici, e al vangelo subentrano altri criteri! Su alcuni valori non si transige (Pacs, aborto, famiglia, fecondazione artificiale…), su altri come l’economia, i soldi, la guerra… bisogna vedere, valutare…! 
Un altro messaggio profetico arriva dalla insanguinata terra dell’Iraq, dove ho molti amici. Ci sono stato più volte, anche nello scorso mese di dicembre. Avendo parlato del progetto degli aerei F35  al vescovo di Kirkuk, mons. Luis Sako, ecco cosa mi ha risposto:
«Che vergogna! Se un  beduino nel deserto si fabbrica  una spada per proteggersi,  si può capire. Ma gente del Primo Mondo, gente istruita e saggia, gente nobile che costruisce armi, aerei e altri strumenti di morte: questa è una cosa  vergognosa! Una cosa inammissibile. Basta armi! Basta distruzioni e gente che muore ogni giorno!  La vita è bella.  A causa delle armi fabbricate da voi e con i vostri soldi, in Iraq ogni giorno ci sono circa 100 morti, molti feriti e profughi. Lo stesso accade adesso in Somalia, Palestina, Libano e in  altri  paesi.  Il nostro paese è diviso e la popolazione che è rimasta vive nella paura».
«Queste armi sono solo fuoco e sono brutte come i loro fabbricatori. Con questi soldi potete costruire terre nuove  e formare gente nuova e aiutare positivamente alla crescita della vita!. Così sarete beati costruttori della pace e di una società migliore, invece di fare con queste armi una offesa a Dio e all’umanità intera. Questa è una colpa capitale», conclude Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, Iraq (31 gennaio 2007).

Brutti segnali di guerra e profetici richiami alla pace. Siamo in Quaresima, tempo di conversione. Ci aiutano ancora le parole di don Tonino all’Arena di Verona:  «Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire… che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena…  se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali».

Renato Sacco

Antonelli, Bandera, Farinella, Sacco




La missione nello spirito di Cristo

16 febbraio: festa del beato Allamano, fondatore dei missionri e missionarie della Consolata

Una lettura del pensiero spirituale del fondatore dei
missionari e delle missionarie della Consolata alla luce della teologia
di San Paolo. Anche oggi l’inviato alla missione è colui capace di
lasciarsi «rivestire» da Cristo e orientare le proprie scelte
di vita apostolica sull’esempio del Maestro.

Chi gode di una certa familiarità con l’insegnamento spirituale di
Giuseppe Allamano sa quanto questi insista sull’importanza della
santità nella vita missionaria. Non tutti, però, si rendono conto di
quanta importanza egli attribuisca alla centralità della persona di
Cristo in questo cammino di santità.
Un altro fattore che balza agli occhi quando ci si avvicina allo studio
della spiritualità che l’Allamano desidera comunicare ai suoi
missionari e missionarie è il fatto che egli non trasmette altra cosa
se non quanto lo spirito ha concesso a lui stesso di sperimentare; in
altre parole, l’insegnamento che l’Allamano offre nasce dalla propria
esperienza spirituale.
Come Gottardo Pasqualetti ebbe modo di rilevare nel breve studio
dedicato alla persona di Gesù Cristo nella vita dell’Allamano, uno
degli elementi fondamentali nel cammino spirituale del fondatore fu,
fin dalla sua gioventù, il costante sforzo di «rivestirsi» di Cristo.
Nella teologia paolina il «rivestirsi» di Cristo si presenta in una
duplice prospettiva. Da un lato, nel battesimo noi siamo rivestiti di
Cristo, cioè, siamo uniti in tal modo alla persona di Cristo che,
usando un linguaggio figurato, potremmo dire che la sua vita invade
tutto il nostro essere: questo lo riceviamo come dono gratuito di Dio.
D’altro lato, chi fu rivestito di Cristo nel battesimo è chiamato
costantemente a rinnovare continuamente questa «vestizione» nella sua
vita, realizzando ciò che per grazia ricevette nel battesimo. Il dono
si fa pertanto impegno esistenziale; l’azione di Dio esige la
cooperazione dell’uomo. Esiste, pertanto, qualcosa che è dato, nel
senso che è già una realtà presente, realtà che però, nello stesso
tempo, è anche aperta al suo divenire.
Davanti alla nuova realtà ontologica, data dalla nuova unione con Dio
in Cristo, diventa quindi pressante l’invito che Paolo fa a
«rivestitirsi» del Signore Gesù. È un caldo invito a impegnarsi
costantemente a imparare da Cristo, ad assimilare il suo modo di
essere, di pensare e di fare, perché ciò che il battesimo realizzò
nella nostra vita possa trasformarsi in una scelta esistenziale. Questa
coscienza appare nitidamente negli insegnamenti dell’Allamano: essere
cristiano significa soprattutto rivestirsi di Cristo. Ogni cristiano
vive una chiamata alla santità, che consiste essenzialmente nel farsi
simile a Lui.
Il 6 di gennaio del 1917, festa dell’Epifania, l’Allamano commenta ai
suoi missionari l’omelia del cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino,
tenuta per l’occasione in cattedrale. Le parole del cardinale lasciano
trasparire preoccupazione di fronte all’indifferenza religiosa la quale
fa sì che molti cristiani vivano la loro fede al minimo, senza
dimostrare entusiasmo e convinzione. L’Allamano completa la riflessione
dell’arcivescovo sostenendo che non basta essere battezzati e
frequentare le celebrazioni domenicali per essere realmente cristiani.
La vita di fede è un’altra cosa. Per potersi dire cristiano è
necessario che l’«uomo intero» sia trasformato a immagine di Cristo.

Questo aspetto della vita di fede, comune a tutti i cristiani, egli lo
applica, con alcune sfumature particolari ai suoi missionari. Il 28
settembre 1920, nella riflessione fatta in occasione della vestizione
clericale di un gruppo dei suoi seminaristi, prende come punto di
partenza un elemento concreto della vita dei missionari della
Consolata. L’istituto da lui fondato ha ormai quasi 20 anni di
esistenza e conosce già una certa espansione: oltre alle missioni del
Kenya, la congregazione di Propaganda Fide ha conferito anche la
missione del Kaffa (in Etiopia) e di Iringa (in Tanzania). I missionari
devono ora confrontarsi con un immenso campo di lavoro e, mossi da zelo
apostolico, sentono la necessità di aumentare significativamente il
personale per rispondere alle rinnovate esigenze della missione. Nello
stesso tempo, le urgenze della missione non devono far rinunziare ad
uno dei principi fondamentali del fondatore: quello della qualità. Non
è tanto il numero che conta, ma l’essere santi, sacerdoti e missionari.

Prendendo come spunto il significato della vestizione clericale, spiega
come questa indichi una certa separazione dal mondo, ma, soprattutto,
l’esigenza di «rivestirsi» dello spirito di Cristo.
In altre occasioni, l’Allamano applica le stesse riflessioni alla vita
missionaria: «Non mi basta essere cristiano, ma missionario; e devo
avere questa intenzione, e non basta volerlo, ma devo avee lo spirito
– e aggiunge – se non abbiamo questo spirito di farci santi a questo
modo, hic non est eius. Saremo ombre, ma non veri missionari» (CS
II,16).
A varie riprese, l’Allamano riprende questa insistenza sopra
l’importanza di conformarsi a Cristo per essere missionario secondo il
modello che lui vuole per i suoi: «Così pure voi, non solo dovete avere
lo spirito di nostro Signore; ma dovete avere i pensieri, le parole, le
azioni di nostro Signore. Voi dovete essere missionari nella testa,
nella bocca e nel cuore». (CS III, 16). E ancora, motivando i giovani a
prepararsi bene per la vita sacerdotale e missionaria, dice: «È questo,
d’ora in poi, tutto il vostro dovere: rivestirsi del Signore Gesù
Cristo» (CS I, 443).
Certamente, l’Allamano vede in Paolo quello che gli piacerebbe vedere
in ciascuno dei suoi missionari. Perciò ricorda loro una frase
dell’apostolo particolarmente significativa in questo contesto: «Siate
miei imitatori, come io stesso lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1 in CS
III, 31).

Negli insegnamenti dei maestri di spiritualità di tutti i tempi
incontriamo un uso abbondante del linguaggio simbolico o allegorico. Lo
stesso succede con l’Allamano. Nella conferenza tenuta alle missionarie
il 21 febbraio 1920, traccia una bozza del suo cammino formativo.
L’ideale che propone è la santità, attraverso l’assimilazione dello
spirito di Cristo; che questo spirito: «Subito s’impossessi di tutta
l’anima nostra. Pervada: vuol dire che entri nelle nostre vene; faccia
come il pane, che si mangia, si digerisce, poi passa nel sangue e
questo va nelle vene (…). In modo che siamo noi, ma non siamo più noi,
come disse S. Paolo: “Vivo io, non più io, vive in me Gesù Cristo”»
(CSS III, 39). L’Allamano legge questa frase di S. Paolo ai Galati (Gl
2, 20) come espressione di un’unione esistenziale con Cristo tale che
l’apostolo sente la sua vita permeata dal Signore. Grazie alla sua
presenza nella vita di Paolo, Cristo è per l’apostolo un nuovo
principio di azione, parte intrinseca della sua identità e parte
costitutiva del dinamismo della sua personalità. Realtà, questa, che
l’Allamano esprime con la frase: «Farsi una sola cosa – con Cristo»
(CSS II, 304).

Altra frase di particolare interesse fu pronunciata dall’Allamano nella
conferenza alle suore del 1 dicembre 1918: «Affetti. È lì il punto…
Il nostro cuore se vive di fede fa le cose diversamente. S. Paolo era
tutto di Gesù, viveva di Gesù… Vivo, ma non sono io che vivo, è
Cristo che vive in me… Io vivo solamente nel Signore» (CSS II, 432).
In primo luogo, la frase ci mostra che per il fondatore gli affetti
hanno una dimensione particolarmente importante nella vita spirituale.
L’espressione: «Ecco il punto» richiama l’attenzione su un elemento
centrale, di particolare importanza. In secondo luogo, ed è quello che
più ci interessa, con questa frase l’Allamano continua a spiegare la
relazione di Paolo con Cristo. Dato che l’apostolo è visto per Allamano
come un modello speciale che egli invita i suoi discepoli a imitare,
possiamo dire che, in verità, egli si serva di Paolo per parlare della
relazione di ogni cristiano con il Signore. A livello di contenuto, la
frase fa riferimento a una relazione molto intima al punto da poter far
dire a Paolo: «Il Signore vive in me». Così come il cristiano partecipa
di tal forma della vita di Cristo, al punto da poter dire: «Io vivo nel
Signore».

Considerando entrambi questi elementi, così come li cogliamo nei testi
dell’Allamano, potremmo dire che l’esperienza di fede coinvolge la
persona nella sua totalità.  «La nostra fede se non si dimostra
nelle opere è fede morta (…) La fede dev’essere il principio e la
regola dei nostri sentimenti, delle azioni e di tutta la nostra vita»
(CS III, 264). Il che consiste, in primo luogo, in una esperienza di
amore alla persona di Cristo e nell’unione esistenziale con lui; questo
è l’elemento fondamentale dal quale nascono gli altri. Tale elemento
appare di forma particolarmente chiara nella sua conferenza alle suore
del 29 giugno 1917. Punto di riferimento è nuovamente Paolo, l’apostolo
delle nazioni, nel quale individua particolarmente accentuate due
virtù: «Insomma tutte le virtù le aveva, ma le due principali furono:
l’amore verso Gesù Cristo e le anime. Tutti i momenti nelle epistole
nomina Nostro Signore. Lo nominava con gusto, si vedeva che per lui era
tutto… Diceva: “Non sono mica io che vivo, io sono un fantasma, è
Gesù Cristo che vive in me”» (CSS II, 104).
L’Allamano, pertanto, riconosce in Paolo un cuore che vibra per il suo
Signore e questo amore costituisce un motivo fondamentale della sua
adesione a lui. Il suo è un amore totale e viscerale, per Cristo e per
l’umanità (CS III, 115). L’Allamano coglie la centralità di Cristo
nella vita di Paolo, il fondamento, a partire dal quale l’apostolo
organizza tutta la sua esistenza. Da questa relazione, come normale
conseguenza, nascono le opere. Quando Cristo vive in noi in forma
permanente, la sua presenza viene automaticamente resa esplicita dal
nostro agire (CSS II, 105). Ciò significa che, vivendo in noi, Cristo
agisce in noi e attraverso di noi (CSS I, 420).
Dentro questa prospettiva del «rivestirsi di Cristo», ci sono alcuni
elementi verso i quali Allamano orienta in modo particolare
l’attenzione dei suoi missionari.
Innanzitutto, nota come Cristo viveva in forma armoniosa un’intensa
attività apostolica e un’intensa intimità con il Padre, manifestata in
modo particolare nel silenzio e nella orazione (CSS I, 265).
In secondo luogo ricorda che lo stesso Gesù chiese di essere imitato
nell’umiltà e nella mansuetudine: «Imparate da me che sono mite e umile
di cuore». Sottolinea come  la mansuetudine abbia caratterizzato
costantemente tutto il ministero apostolico di Cristo e vuole che
diventi un’attitudine che marchi vita e attività dei suoi missionari:
sa, l’Allamano, che qualsiasi tipo di violenza costituisce un ostacolo
per l’evangelizzazione.
Terzo, il fondatore si associa alla meraviglia delle tante persone che
presenziando quanto Gesù realizzava nelle sue opere, pieni di
ammirazione esclamavano: «Ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37).
Nell’esegesi attuale si identifica questa frase dell’evangelista Marco
come un’allusione al libro della Genesi (Gen 1,31), attraverso la quale
l’autore vuole presentare l’opera di Gesù come una nuova creazione. Le
parole dell’Allamano non puntano verso questa interpretazione. Al
contrario, mettono in evidenza il fatto che, dall’incarnazione al
Calvario, Gesù vede tutta la sua vita in perfetta sintonia con la
volontà del Padre. Per questa ragione, il fondatore insiste che «non
basta fare il bene, ma farlo bene; cioè che ogni nostra cosa anche
buona sia fatta nel retto fine e con tutte le circostanze volute da
Dio» (CS II, 669).
Questa frase fa riferimento a due elementi fondamentali: la retta
intenzione e la sintonia con la volontà di Dio. Fare il bene ben fatto
implica un’attitudine spirituale eucaristica: tutte le nostre azioni se
vogliamo farle bene dobbiamo farle per lui, con lui e in lui (CSS II,
305).
«Far bene il bene» si riferisce anche alla dimensione materiale delle
opere. Un accumulo eccessivo di lavoro, per esempio, può impedire di
fare questo lavoro bene. A questo riguardo, l’Allamano si mostra
contrario ad assumere territori di missione sproporzionatamente estesi.
Vuole, invece, che i suoi si limitino a prendersi cura di territori a
cui possano poi offrire adeguata assistenza. Non gli importa che siano
fatte molte cose, ma che quello che si fa sia fatto bene.
Quando l’Allamano parla di «imitazione di Cristo», non intende una
copia materiale del suo comportamento o una mera ripetizione delle sue
azioni. Questa espressione indica, al contrario, un’intima
partecipazione del cristiano alla vita di Cristo e, nello stesso tempo,
di Cristo nella vita del cristiano.
Molte volte, suggerisce ai suoi che si chiedano: «Che cosa farebbe
Cristo se si trovasse al mio posto?». Questa domanda, nella sua estrema
semplicità, riconosce che la vita cristiana esige un costante
discernimento. Spinge a conoscere il cuore di Cristo, il suo modo di
sentire e di relazionarsi con la vita, con gli altri e con il Padre,
facendo proprie le sue attitudini fondamentali. Saranno poi esse a
determinare il nostro comportamento nel contesto in cui viviamo,
inevitabilmente diverso da quello in cui visse Gesù e, quindi,
bisognoso di un approccio differente.
In altre parole potremmo dire che vivere di forma adeguata
all’esperienza di rivestirsi di Cristo comporta, in primo luogo,
l’assumere pienamente la dimensione storica della propria esistenza.
Ciò vuol dire che il cristiano vive inserito nel suo tempo, nel suo
mondo ma, nello stesso tempo, in costante riferimento alla persona di
Gesù. Questo lo porta a vivere come lui, ma nel proprio contesto
socio-culturale e storico. Un continuo discernimento diventa, quindi,
condizione essenziale per la realizzazione di una vita cristiana.
Questa infatti, per potersi considerare tale, deve essere vissuta non
al margine, ma inserita nelle tensioni e difficoltà caratteristiche
della storia: «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo» (Mt
5,13).
Gesù, Dio e uomo, non rifiutò nulla di quello che è pienamente umano.
L’incarnazione mostra che non esiste opposizione fra il mondo di Dio e
il mondo degli uomini e qualsiasi tipo di dualismo che tenda ad opporsi
a queste due realtà non è autenticamente cristiano. Senza perdere di
vista che il tempo ancora deve raggiungere la sua pienezza e solo
allora la configurazione con Cristo risuscitato sarà pienamente
raggiunta. 

Luiz Balsan

Luiz Balsan è un missionario della Consolata brasiliano; dottore
in teologia, professore di spiritualità, attualmente è rettore del
seminario filosofico della Consolata di Curitiba. Collabora alla
rivista Missoes.

Abbreviazioni:
CS: Conferenze Spirituali
CSS: Conferenze Spirituali alle Suore

Luiz Balsan




Sfratto agli «spiriti»

Religione tradizionale africana e cristianesimo

Mons. Buti Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg,
esamina l’impatto del vangelo nella religione tradizionale nell’Africa
Australe. Egli spiega come la conversione al cristianesimo produce un
cambiamento di mentalità: Dio è la sorgente ultima della forza vitale e
non gli antenati. Ma stregoni e indovini hanno ancora un ruolo guida
nella società, per cui poco è cambiato nella vita quotidiana della
gente. La trasformazione portata dal cristianesimo non è ancora
completa e deve essere portata avanti nel rispetto della cultura della
popolazione.

Nel mondo il cristianesimo è proclamato da quasi 2 mila anni; ma in
Africa conta poco più di 150 anni. Benché l’incontro tra la popolazione
indigena e i missionari sia stato difficile, anche gli africani hanno
recepito il vangelo come messaggio destinato a «tutto il mondo e a ogni
creatura» (Mc 16,15);  hanno partecipato all’effusione dello
Spirito e sperimentato il fuoco della pentecoste. I loro cuori sono
stati infiammati dalla parola di Dio, inculcata loro «in tempo e fuori
tempo» (1 Tim 4,2); Gesù Cristo è stato proclamato «via, verità e
vita», la «vera luce che illumina ogni persona» (Gv 1,9), compreso il
popolo africano.

VERITÀ LIBERANTE

L’annuncio cristiano ha prodotto negli africani un impatto
«sovversivo»: ha sconvolto le nozioni tradizionali riguardanti
l’origine e il destino umano; soprattutto, ha inciso profondamente sul
ruolo che gli antenati esercitano nella vita della gente.
Il messaggio evangelico, infatti, risponde alle aspirazioni più
profonde del cuore umano, che coincidono con il progetto di Dio,
origine e meta finale degli esseri umani. «Conoscerai la verità e la
verità ti farà libero» dice il vangelo (Gv 8,32). Nella rivelazione
cristiana Dio è padre dei vivi e dei morti, per cui gli antenati e gli
esseri umani sono tutte sue creature. Di conseguenza Dio solo diventa
il definitivo punto di riferimento, lui solo deve essere l’oggetto di
fedeltà e adorazione, non più gli antenati.
Tale verità libera la mente superstiziosa dalle paure o dalle
suggestioni provocate dagli «spiriti vagabondi». Nel contesto della
fede cristiana, i vivi non aspirano più a essere puramente incorporati,
dopo la morte, nella comunità degli antenati, ma vivono fin d’ora nella
speranza di essere riuniti con Dio, dal quale hanno ricevuto lo spirito
di vita. Inoltre, nasce una nuova consapevolezza: cioè, che gli
antenati non sono imprigionati in un mondo vagamente definito degli
spiriti, ma che anche essi sono in attesa di essere definitivamente
redenti.
La verità su Dio ha la forza di rifondare le relazioni di potere tra i
viventi e gli antenati. Questi ultimi sono inevitabilmente declassati
dallo stato di «quasi idoli». Ai viventi viene offerta la libertà dei
figli di Dio: liberi dalla paura del mondo degli antenati e degli
spiriti maligni, che vagabondano per città e villaggi.
Tutte queste verità vengono accettate in teoria. La conversione a
Cristo produce un cambiamento di mentalità e di percezione della natura
degli antenati: la loro collocazione nell’ordine delle cose non può più
essere la stessa. Nella pratica, però, l’accettazione di tali verità
sembra aver scalfito superficialmente il ruolo, l’influenza e l’impatto
degli antenati nella vita della gente. Il cambiamento non è stato così
radicale come ci si sarebbe aspettato.
Nonostante la chiarezza del messaggio cristiano e l’impegno dei
missionari, gli «spiriti vagabondi» non sono stati «sfrattati» dal loro
piedistallo di «semi-dei» e continuano ad essere consultati, invocati,
temuti.

ANTENATI E IZANGOMA

Nella religione tradizionale africana, il ruolo degli antenati è legato
in generale all’esperienza umana del bene e del male, del benessere e
della disgrazia, della salute e della malattia, della vita e della
morte. In particolare, tale ruolo riguarda il destino dei membri di
ciascun gruppo clanico.
Gli spiriti ancestrali sono descritti come esseri generalmente ben
disposti verso i membri del proprio clan; al tempo stesso, però, sono
ritenuti capaci di infliggere sofferenze ai vivi: o per puro capriccio,
o per punire determinate colpe, o per vendicarsi di essere stati
dimenticati, essi mandano sui loro discendenti ogni specie di male.
Nella visione cosmica africana gli antenati sono la sorgente ultima
delle forze primordiali: un potere misterioso che dà la vita o la
possono distruggere. Per liberarsi da eventuali disgrazie e malattie è
necessario entrare in contatto con le forze primordiali che le
causano. 
Il contatto con gli spiriti ancestrali avviene attraverso il guaritore
o divinatore che nell’Africa australe si chiama isangoma (plurale
izangoma), funzione esercitata in maggioranza da donne, ma non di raro
anche da uomini.
Si dice che l’isangoma è chiamata dagli antenati del proprio gruppo
clanico e sperimenta tale vocazione attraverso la malattia, autentico
segno che essa è posseduta (thwasa) dallo spirito ancestrale e ne
diventa il ricettacolo.
Riconosciuta e accettata tale chiamata, l’isangoma deve sottoporsi a un
lungo tirocinio presso un’altra isangoma, per apprendere l’arte della
divinazione e della guarigione. Al tempo stesso, tale iniziazione
introduce la nuova isangoma a una conoscenza esoterica, ne fa una
persona separata e le conferisce uno stato di «sacralità» che incute
timore e rispetto.
In quanto unico interprete dei desideri degli antenati, l’isangoma ha
il potere di fare scaturire da essi la forza vitale che guarisce. Una
volta diagnosticata la causa della malattia (quasi sempre attribuita
allo scontento degli stessi spiriti ancestrali), procede alla
prescrizione o cura medica, anch’essa suggerita dagli antenati. Tali
cure includono offerte di sacrifici riparatori o propiziatori, rituali
di «fortificazione» contro stregonerie e sortilegi, riti di
purificazione (esposizione a fumi e vapori, bagni in acque lustrali,
assunzione di sostante che provocano vomito, incensature, lavaggi
intestinali…) e assunzione di medicine vere e proprie.

MALATTIA,  MEDICINA E GUARIGIONE

L’indovino è uno specialista nelle malattie africane (ukufa kwabantu),
che fanno parte della visione africana del mondo. La malattia è
percepita come uno spirito, che può essere incarnato in una sostanza
(come il sejeso/idliso, veleno africano) o rimanere nella forma di
spirito; può essere diretto contro altre persone.
Sono tanti i mezzi con cui può essere causata una malattia:
direttamente dagli spiriti, da fattucchieri (gettando il malocchio su
un oggetto della vittima), da stregoni mediante le medicine, da odio e
gelosia. In questo caso la persona gelosa può richiedere i servizi del
fattucchiere per causare un malanno.
La malattia quindi è nel cuore di un sistema di credenze che comprende
da una parte antenati, maghe e stregoni, e dall’altra sentimenti di
odio e gelosia, emanati dal cuore umano. La malattia si dipana nel
tessuto di relazioni frantumate tra gli stessi viventi o tra i vivi e
gli antenati. La malattia africana non è un avvenimento accidentale, ma
è sempre causata da agenti malvagi, da qualche persona, viva o morta.
In una società come quella africana, dove le relazioni umane sono
fortemente sentite e ricercate, quando capitano eventi sfortunati e
inesplicabili, fioriscono i sospetti. Tale percezione della malattia è
caratteristica e profondamente impressa nella psiche africana. Di
fronte alla malaria, per esempio, l’africano non si accontenta di
sapere che essa è causata dalla zanzara; egli si chiede: chi ha mandato
la zanzara per pungermi?
Anche la medicina, al pari della malattia, è intesa come un «potere
misterioso». Per questo sono offerti sacrifici per placare l’ira degli
spiriti ancestrali; si esorcizzano gli spiriti maligni picchiando le
loro vittime, oppure vengono scacciati dal corpo con il vomito, bevendo
acqua mescolata al sale o cenere; si inseriscono medicine sotto la
pelle (ukugcoba) per proteggere la vittima dal male; si indossano
amuleti protettivi per contrastare il potere degli spiriti maligni. La
medicina per rinvigorire la forza vitale è ricavata da parti del corpo
umano, peli di animali selvatici, pelle di serpenti.
 Anche se malattia e cura riguardano il corpo umano, esse
appartengono al regno spirituale. Corpo e spirito costituiscono una
sola realtà. Per questo le izangoma, non si limitano a individuare le
cause delle malattie e l’eventuale mandante, a prescrivere rimedi e
medicine, ma cercano di far  scaturire dagli antenati un
contro-potere che si oppone alle forze distruttive o previene quelle
dei demoni vagabondi che spargono malanni.
Scopo dell’isangoma è sempre quello di ristabilire pacifiche relazioni
tra gli esseri viventi, tra i vivi e il regno degli spiriti. Il
processo per tale pacificazione e i riti usati denotano in lei una
discreta esperienza psicologica e sociale. Essa conosce odi e amori
interpersonali, conflitti e alleanze tra i gruppi familiari. È stato
più volte provato che proprio l’attenzione e interesse dell’isangoma
verso i suoi pazienti, la sua capacità di dipanare la matassa delle
relazioni familiari e comunitarie sono alla base di certe sorprendenti
guarigioni.
Il coinvolgimento fisico e mentale del paziente e dei familiari è
un’altra chiave di volta della guarigione, in vista dello
ristabilimento della pace e dell’armonia che devono esistere nel
paziente stesso, tra individuo, gruppo, ambiente, mondo degli antenati
e degli spiriti.
I riti stessi hanno una forte componente di suggestione simbolica e
psicologica: l’isangoma danza e canta, fa danzare e cantare; va in
trance per entrare in comunione con gli spiriti; pazienti e familiari
vedono con i loro occhi la malattia che viene «vomitata» per la
somministrazione di emetici; fumigazioni e bagni nell’acqua lustrale li
proteggono dall’assalto delle forze ostili; il capro espiatorio, a cui
viene addossato il castigo per il male, li libera dalla paura.

DISAGIO DEI CRISTIANI

Il culto degli antenati è più di una semplice «ritualizzazione di pietà
filiale»; è la «via africana» di affrontare e vivere il mistero del
male e della sofferenza; il modo con cui gli africani celebrano e
comunicano con il mistero del sacro in cui sono immersi. Si tratta di
un rituale diretto a rivitalizzare le forze naturali e celebrare la
nuova vita o assorbire il dolore della dissoluzione della vita.
Inoltre, è il riconoscimento rituale dell’esistenza di una realtà
spirituale, una intensità di potere al di là della vita e delle cose
naturali.
I cristiani sudafricani non solo capiscono perfettamente questa visione
del mondo, ma la condividono: ne fanno parte. Essi appartengono a due
mondi, quello tradizionale e quello cristiano, che non si sono ancora
armonizzati.
E questo crea non poco disagio tra i cristiani: alcuni giungono perfino
a stigmatizzare il mondo tradizionale e i suoi metodi di guarigione, ma
poi sono felici di farvi ricorso, quando sperimentano disgrazie e
sofferenze. È ormai di dominio comune l’osservazione di G. C.
Oosthuizen, professore di Scienza delle religioni all’Università di
Durban: «Durante il giorno e nelle conversazioni molti fedeli delle
chiese storiche si dissociano dalle chiese indigene, ma sono presenti
nei raduni nottui di guarigione» (Oosthuizen 1992). E durante tali
riunioni non si fa altro di diverso da ciò che fanno le izangoma nelle
cerimonie di guarigione.
Tale disagio deriva dal fatto che i cristiani continuano a far parte
della visione cosmica africana e credono nella presenza degli spiriti
ancestrali, ma sono incerti su come conciliare la credenza nella
mediazione degli spiriti con il nuovo contesto cristiano. Tale
inquietudine è sentita soprattutto in molti cattolici, quando vedono
che alcune izangoma frequentano la chiesa e desiderano ricevere
l’eucaristia. «Possono le izangoma ricevere la comunione?» si
domandano, dal momento che esse pretendono di ricevere conoscenza
esoterica, chiaroveggenza e poteri di guarigione dagli antenati e non
da Gesù Cristo. Anzi, tale potere è percepito in opposizione o in
competizione con quello di Cristo. Cristo e gli antenati sono visti
come due autorità spirituali differenti. Per questo alcuni cattolici
sostengono che non si può essere fedeli a tutti e due.

CHIESE INDIPENDENTI

Se alla luce della fede cristiana gli antenati non hanno quel potere
straordinario accordato loro dalla tradizione africana, ne dovrebbe
derivare una riduzione radicale del loro ruolo tra gli esseri viventi.
Invece l’abbondante presenza di indovini e izangoma, quali interpreti e
mediatori degli spiriti ancestrali, dimostra che è ancora molto forte
la credenza nel potere sovrumano degli antenati e l’esistenza di demoni
e spiriti maligni in giro per il mondo.
Tale sistema di credenze tradizionali è stato adottato da varie chiese
indipendenti africane, nelle quali vengono miscelate le credenze
tradizionali africane e alcuni elementi provenienti dal cristianesimo.
Esempio significativo di tale sincretismo è rappresentato dalla chiesa
zionista, i cui «profeti» sono la versione modea degli indovini
tradizionali: si dicono chiamati da un antenato e dallo Spirito Santo;
in alcuni casi lo Spirito Santo rimpiazza lo spirito ancestrale.
Le due tradizioni non stanno comodamente assieme: è un caso di vino
vecchio in otri nuovi. I riti di guarigione celebrati nelle chiese
indipendenti sono gli stessi compiuti dalle izangoma. Se da una parte
il contesto sociale offerto da tali chiese sembrerebbe liberare i
cristiani dallo stigma legato alle credenze africane nella stregoneria
e negli spiriti maligni, dall’altra sono considerate come un «movimento
moderno fabbricatore di streghe».
Eppure alle chiese indipendenti bisogna riconoscere alcuni meriti.
Innanzitutto, a differenza delle chiese cristiane storiche (cattoliche
e riformate), esse hanno preso sul serio la visione cosmica
tradizionale africana e hanno tentato il dialogo con la religione
cristiana. In secondo luogo, sembrano sapere affrontare meglio dei
cristiani le condizioni di sofferenza della gente, offrendo loro il
senso di appartenenza alla famiglia e comunità. Infine le chiese
indipendenti permettono alle donne di giocare un ruolo significativo
nella vita sociale.
Nonostante ciò, non viene cancellato il loro grande limite:  esse
stanno perpetuando credenze superstiziose, invece di sfidarle alla luce
della nuova esperienza di fede.
Guarigione nella
tradizione cristiana
Nella tradizione della chiesa primitiva, il rituale di guarigione
consisteva nell’unzione con olio e acqua da bere. A questi elementi era
attribuito, nel nome di Gesù Cristo, il potere di guarire, «così che
ogni febbre, ogni demone e ogni malattia possa sparire con questa
bevanda e questa unzione» (Empereur 1986).
Nella tradizione cristiana, quindi, la guarigione è fatta non in nome
degli antenati, ma nel nome e con il potere di Gesù Cristo, trasmesso
dagli apostoli: «C’è tra voi un ammalato? Chiamate gli anziani della
comunità ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del
Signore» (Gc 5,13-15).
Inoltre, nella tradizione cristiana la guarigione implica la fede da
parte del malato e il perdono dei peccati. È la fede che dà al paziente
la capacità di conoscere e partecipare al potere redentivo di Cristo,
che porta la riconciliazione, non solo con la comunità e gli antenati,
ma anche con Dio e con la chiesa.
Posti questi principi si impongono alcune domande: i cristiani che
lasciano le loro chiese per attendere alle sessioni di guarigione nelle
chiese indigene o per consultare le izangoma lo fanno perché dubitano
del potere di guarigione di Cristo, oppure perché non trovano nelle
chiese storiche quel supporto sociale, psicologico, comunitario che
hanno saputo creare le chiese indipendenti?
Soprattutto, per superare il disagio dei cristiani delle chiese
storiche, non basta rispondere alla questione se questa o quella
isangoma può ricevere la comunione. Il vero problema riguarda gli
aspetti di compatibilità o incompatibilità tra il sistema di credenze
africano e il cristianesimo. È una questione di quanta strada abbia
fatto il processo di evangelizzazione e se sia stato sviluppato o meno
un atteggiamento critico nei confronti della cultura tradizionale alla
luce del messaggio cristiano.
In tale processo critico, il potere di guarigione degli antenati e le
izangoma possono essere viste in una luce differente: la guarigione
viene mediante la fede in Cristo, invocato nel contesto del rituale di
guarigione tradizionale; gli antenati possono anche essere invocati,
non però come sorgenti ultime di potere in sé stessi, ma piuttosto come
mediatori, poiché ora è Cristo la sorgente basilare del potere di
guarigione.
Una cosa sta diventando sempre più chiara: la conversazione non avviene
in un giorno e l’annuncio del vangelo non può più essere un monologo.
Il sistema di credenze o la cosmovisione in cui è predicato il vangelo
devono essere presi seriamente in considerazione, fino a instaurare un
dialogo aperto.
Non si può pretendere di cancellare (o anche ridurre) la credenza nel
potente influsso degli antenati, semplicemente retrocedendoli a un
rango inferiore nella gerarchia delle forze. Stregoneria e divinazione
non spariranno dichiarandoli semplicemente una finzione
dell’immaginazione delle società tradizionali. La presenza degli
spiriti maligni resisterà contro ogni tentativo di bandirla
sommariamente dal cosmo africani.
È in questione la maniera tradizionale africana di affrontare i poteri
soprannaturali e la realtà del male. Queste forze costituiscono il
tessuto delle relazioni umane, sono una parte integrale dell’esperienza
religiosa africana e perciò la base di una spiritualità africana. Per
cui bisogna fare attenzione quando si è troppo preoccupati del potere
degli antenati, del male della stregoneria e della dittatura dei
demoni: cercando di eliminare il mitico e il superstizioso si rischia
di gettare via il bambino con l’acqua sporca.
Non è possibile giustapporre semplicemente una nuova serie di dogmi
accanto a «verità antiche», ritenendole ormai ridondanti o inadeguate
all’incontro con la fede cristiana. Il nuovo deve coinvolgere il
vecchio con tutta la sua limitatezza, altrimenti l’anima africana sarà
lacerata e strappata dal suo centro vitale e non riuscirà ad accettare
un altro centro su cui strutturarsi.
La novità evangelica deve essere articolata in tal maniera che
l’esperienza umana non venga privata del proprio modo culturale di
esprimersi e, al tempo stesso, deve permettere la trasfigurazione e
purificazione della vecchia verità, operate dal potere vivificante del
vangelo. 

Buti Tlhagale

Buti Tlhagale




Piccoli miracoli

I camilliani in lotta contro l’Aids nella capitale peruviana

Il Perù è il primo paese dell’America Latina raggiunto dai camilliani all’inizio del 1700,
per offrire la loro assistenza ai malati più poveri.
Un bel numero di giovani stanno rispondendo all’appello del carisma camilliano.
Nel 1995, a Lima, hanno dato vita all’Hogar San Camilo, dove si prendono cura dei sieropositivi
e malati di aids e organizzano vari programmi
di prevenzione a favore di famiglie, madri sole, bambini dei rioni più disastrati e abbandonati.

Vedi Lima solo dopo aver visto la niebla (nebbia). Non la nebbia
del Nord Italia, fitta, carica di pioggia, che va e viene a seconda del
peso dell’atmosfera. Quella di Lima è qualcosa che non se ne va via
mai: rimane lassù, sospesa sulla città a 30 metri d’altezza, si
traveste da cielo plumbeo, immobile e persino un po’ triste. È chiamata
«garúa».
A Lima non piove quasi mai. Gli abitanti, soprattutto, quelli più
anziani si ricordano la data precisa delle ultime gocce d’acqua cadute
sulla città. Sembra che la niebla abbia la funzione di tappo al
rovescio: non permettendo al cielo di arrivare alla terra, alle
precipitazioni sulle case. E che case: tolte quelle solide dei
quartieri residenziali e i palazzi storici sopravvissuti all’incuria,
la gran parte sono baracche, sorte come funghi qualche decennio or sono
e tuttora onnipresenti. Dalle pareti al tetto sono fatte di fango,
paglia e qualche legnetto; visti dall’alto appaiono come dei piccoli
quadrati marroni, sembrano una miriade di dadi gettati nel vuoto.
Qui vivono decine di migliaia di persone, di cui un buon numero fuori
Lima, in quei pueblos jovenes nati dal nulla e destinati allo stesso
nulla, poiché carenti delle strutture base: acqua, luce, fogne, gas.
Lima è una metropoli di 7 milioni di abitanti, di cui quasi il 50% vive
sotto la soglia della povertà e le baracche sono l’unico bene materiale
che possiede. Ma anche questo è un bene a rischio. Circola, infatti, un
timore nelle conversazioni dei limeños, i cittadini della capitale
peruviana: se arriva un potente nubifragio, chi può negare che tutte
quelle dimore possano non reggere l’urto e sciogliersi in un fiume
marrone devastante? Per ora, nei rarissimi giorni di pioggia, la realtà
parla di qualche disagio in più, insignificante nella vita di stenti di
questa gente ridotta in miseria.

Come altrove, anche nelle baracche di Lima povertà e malattia vanno di
pari passo. Sporcizia e malnutrizione rendono la vita difficile. Ma da
qualche tempo c’è ben altro che si insinua da queste parti: si chiama
aids, e sta proliferando, soprattutto fra i giovani.
All’inizio la diffusione della malattia era rimasta un segreto che
doveva rimanere «custodito» nella baracca. Solo negli ultimi anni le
cose sono cambiate. Più assistenza e prevenzione hanno portato più
controllo e qualche piccolo miracolo.
Uno dei più significativi di questi miracoli lo si trova immergendosi
nel centro storico di Lima, in un quartiere popolare dal nome
ingannevole di Barrios Altos (quartieri alti). Qui di turisti ne
passano, ma è un mordi e fuggi; vedono le cose importanti: la chiesa di
San Francesco, con le sue enormi catacombe, Plaza Mayor, la piazza
principale in cui si trova il Parlamento.
Proprio a due passi da Plaza Mayor, dal 1995 esiste un luogo conosciuto
come Hogar San Camilo, centro di accoglienza per le persone
sieropositive.  Qui pochi uomini, con il loro intenso lavoro,
ridanno speranza a decine di famiglie che con il «sida» (versione
spagnola di aids) combattono una dura battaglia quotidiana.
Questi uomini sono preti dell’ordine di San Camillo de Lellis. La loro
prima presenza nel cuore di Lima data metà secolo xviii, quando
aprirono una casa di formazione vocazionale nella parte nord del
Convento de la buena muerte, ancora oggi attiguo all’Hogar San Camilo.
Nell’Hogar, camilliani italiani, peruviani e di altre nazioni accolgono
in particolare le madri che hanno contratto la malattia con l’obiettivo
che i loro figli nascano sani. Un miracolo? Di certo un grande
traguardo raggiunto, a livello scientifico e, quindi, umano.
Un’innovazione che permette di salvare migliaia di vite.
Lo sa bene padre Zeffirino Montin, l’anima fondatrice dell’Hogar, che,
proprio per la sua attività missionaria, è stato nominato un paio di
anni fa Cavaliere della Repubblica italiana. «Siamo partiti con pochi
mezzi, ma tanta speranza, unita alla voglia di fare – dice padre
Zeffirino -. Oggi contiamo sempre di più; lo si capisce dal crescente
numero di persone che arrivano fin qui da tutte le zone disagiate di
Lima».
I numeri la dicono tutta sull’autorevolezza che il Centro ha acquisito
negli 11 anni di attività: 400 persone ospitate, almeno 6 mila
beneficiari diretti delle cure contro la malattia e 20 mila beneficiari
indiretti. Alle medicine, i gestori dell’Hogar alternano il latte
mateizzato, il vero antidoto che salva migliaia di bambini
dall’infezione sicura. «Oltre a distribuirlo all’Hogar, con due gruppi
di medici, operatori e volontari, andiamo a portarlo direttamente nelle
case dei malati, soprattutto quelli più poveri» continua padre
Zeffirino.
E ccoci di ritorno nelle baracche, quindi. Qui, nascosti tra i vicoli e
le strutture fatiscenti di quartieri come Callao, Ventanilla e tanti
altri, si addentrano i camilliani e i loro aiutanti. Le visite sono
sempre organizzate prima. Alla gente del posto il camioncino bianco è
sempre più familiare e, dove prima c’era diffidenza, ora c’è un
sorriso, anche se malato. Come quello a tre denti di Ana, 31 anni, ma
che ne dimostra almeno il doppio per lo stato avanzato della malattia,
e i sorrisi dei suoi figli Nina e Andres, 3 e 6 anni, che giocano con
alcune scatolette nella piccola aia di terriccio.
«Io so di non avere molta vita davanti, ma ai miei figli vorrei dare
qualcosa di più – dice Ana -; ma mi ritengo già fortunata: loro non
hanno preso la malattia grazie alle cure, già questo è un piccolo
miracolo».
Come Ana, tante altre donne hanno ripreso la speranza dopo aver
conosciuto l’Hogar. Oggi anche lo stato peruviano, dopo anni di totale
assenza, riconosce il lavoro dei camilliani e collabora ai loro
progetti, soprattutto dal punto di vista economico. Dall’inizio del
2006 molti bambini del Centro hanno anche una famiglia (italiana) in
più, grazie all’adozione a distanza, sostenuta dall’organizzazione non
governativa Coopi (Cooperazione internazionale), che ha sede a Milano e
una storia di 40 anni nella cooperazione.
M a la presenza dei padri ispirati a san Camillo, patrono dei malati e
dei dottori, vive anche di altre splendide realtà. Una di queste è il
seminario, sorto nel 1980 dopo l’arrivo di padre Giuseppe Villa
dall’Italia. Dagli 8 seminaristi peruviani con i quali è iniziata la
scuola vocazionale, oggi si arriva quasi a 40, molti dei quali
provengono dalle terre amazzoniche, nel nord del paese.
Oggi a dirigere la scuola del seminario è padre Camillo Scapin,
sacerdote veneto, da più di  20 anni a Lima. «Ogni anno accogliamo
nuovi studenti, mentre altri finiscono gli studi e sono a un passo
dall’ordinazione – dice padre Camillo -. Anche qui le vocazioni sono
diminuite, ma quelli che arrivano sono convinti, raramente lasciano gli
studi durante il cammino di formazione».
Gli alunni del seminario, oltre agli studi teorici, seguono la
vocazione camilliana fin da subito, entrando come volontari nelle
strutture ospedaliere della città per portare assistenza e spiritualità
ai malati. Alcuni di loro, terminati gli anni da seminaristi, ricevono
la chiamata per lavorare in altre nazioni. Oggi i camilliani sono uno
degli ordini più presenti nel mondo: offrono il loro servizio in ben 35
paesi.
Padre Camillo, oltre all’insegnamento, passa molto tempo negli ospedali
della capitale e nelle strade. Con lui può capitarti di fare un giro
nella Lima «quotidiana»: i mercati vivacissimi e pieni di frutta
esotica mai vista in Europa, le scuole blu costruite qualche anno fa
nei quartieri poveri dal presidente-ladròn Fujimori a caccia di voti;
oppure, nella Lima storica: le catacombe, la casa di Santa Rosa da
Lima, prima santa del continente americano di cui i peruviani sono
devotissimi, il monte San Cristobal, che domina tutta la città e,
quando la niebla lo consente, permette di vedere il mare, posto alla
fine dei quartieri ricchi.
«Ma anche qui da noi c’è qualcosa di particolare» svela padre Camillo,
che apre le porte della Iglesia de la Buena Muerte, chiesa del convento
spesso chiusa al pubblico per salvaguardae i tesori storici, tra cui
una serie di quadri inediti del Veneziano. «La chiesa è comunque aperta
a chiunque voglia pregare – continua il padre -. Lasciarla sempre
aperta in questa zona della città è pericoloso».
Fuori dal convento, infatti, un vociare continuo e macchine che passano
da tutte le parti fanno capire che Barrios Altos è un quartiere molto
frenetico, dove ognuno vende quel poco che ha, e chi non ce l’ha vive
di espedienti.

I problemi sono gli stessi di altre grandi metropoli, ma qui a Lima la
forbice economica è in continuo aumento ed è sottolineato
«geograficamente»: l’indigente non incontra quasi mai il ricco e
viceversa, poiché questi vive nei quartieri lussureggianti che
finiscono sul mare come Miraflores o quelli delle grandi ville come Los
Olivos, dove le strade sono perfette e i marciapiedi sono puliti. Unico
punto di contatto, le entrate delle tangenziali. Ma è un attimo, basta
un rombo e una chiusura di finestrino, e via.
Dall’altra parte, sulla strada, la vita è ardua. Nonostante il clima
temperato, polvere e smog fanno ammalare migliaia di persone ogni
giorno. Il peruviano in condizioni di povertà, come del resto molte
altre popolazioni sudamericane, è tenace e sorride sempre alla vita,
anche quando le cose non vanno granché bene. Spesso nasconde i
problemi, ancor più spesso (e qui si parla degli uomini) si attacca
alla bottiglia, primo passo per la rovina di sé e della famiglia.
Non che manchino le istituzioni, a Lima e in Perù: dal 2001 a questa
parte, ovvero dopo gli scandali di corruzione legati al dittatore
Alberto Fujimori e al suo braccio destro Vladimiro Montesinos, la
situazione politica nel paese sembra aver cambiato rotta. Il presidente
Alejandro Toledo, seppur mai troppo indipendente dal governo degli
Stati Uniti, ha avviato nuove riforme e cercato di farsi ricordare come
una figura «pulita». Ha aperto relazioni con altri paesi sudamericani e
asiatici, pur manifestando qualche rancore, soprattutto verso i vicini
cileni, con i quali, dalla fine della guerra del Pacifico (1884), il
Perù non ha mai avuto un rapporto veramente  amichevole.
Un’altra svolta è avvenuta con le elezioni di aprile-maggio 2006, nelle
quali, a scapito di una nuova figura politica, rappresentata dal
militare nazionalista e indigeno Ollanta Humala, ha preso il potere il
socialdemocratico Alan Garcia, che dice di essere al governo per
portare il Perù ad avere più peso internazionale e ridurre
drasticamente le differenze intee.

Ma ce la farà davvero? «I detrattori sono tanti, ma un po’ di speranza
non guasta» dice padre Camillo, profondo conoscitore della politica
peruviana.
Di certo una sorta di redistribuzione delle ricchezze non farebbe male,
soprattutto considerando un altro fattore importante di sviluppo: il
turismo. Il Perù è la culla degli Inca; a Macchu Picchu e alla città
sacra di Cuzco arrivano centinaia di migliaia di visitatori ogni anno.
Al sud ci sono splendidi scenari naturali, il canyon del Colca, le
misteriose linee di Nazca, la splendida città bianca di Arequipa, la
penisola desertica di Paracas. Al nord, l’immensa foresta amazzonica.
Il potenziare questo settore e il dividere equamente gli introiti senza
affidarli a società private, che «depredano» il mercato, come accade
per il monopolio ferroviario che PeruRail ha per Macchu Picchu,
porterebbe nuova linfa vitale ai peruviani. Un turismo, naturalmente,
che si attui nel rispetto dei luoghi e delle tradizioni e alla ricerca
del Perù nascosto, non solo quello degli abbaglianti depliant delle
agenzie di viaggio.
Si potrebbe cominciare proprio dalla «brutta» Lima, che poi, sotto la
sua niebla, così brutta non è. E perché no, passare da Barrios Altos,
nei pressi del Convento de la Buena Muerte, a visitare le opere dei
camilliani. Magari fermandosi qualche settimana, qualche mese, per dare
una mano. «Abbiamo sempre bisogno di persone con tanta buona volontà»,
suggerisce con un sorriso padre Zeffirino. 

Daniele Biella

Daniele Biella




Mosaico «esplosivo»

Potere, petrolio e milizie: dove sta andando il gigante africano

La grande diversità è la sua ricchezza. Ma, gestita
male, diventa la sua rovina. Così il paese più popoloso dell’Africa, e
attuale sesto produttore di petrolio al mondo, è attraversato da
movimenti identitari. La scadenza elettorale di aprile scatena voraci
appetiti nella classe politica, e stimola la galassia di milizie
armate. Tutti in cerca di una fetta di torta.

Il clima politico e sociale si sta surriscaldando in Nigeria ed è
destinato a peggiorare con l’avvicinarsi delle elezioni politiche di
aprile. Il presidente Olusegun Obasanjo, eletto nel 1999 e rieletto nel
2003, ha rappresentato una svolta democratica per il paese, che dei
suoi 46 anni d’indipendenza ne ha vissuti 28 di dittatura militare.
Obasanjo ha tentato di lottare contro la corruzione con pochi risultati
tangibili. Il suo maggior successo è stato invece rilanciare il paese a
livello internazionale, facendolo uscire dall’isolamento causato dai
governi militari. Non è riuscito tuttavia sul piano interno dove ha
continuato a svilupparsi il fenomeno delle milizie etniche e si sono
inaspriti gli scontri tra gruppi di interesse economici e politici.
Lo scorso maggio, Obasanjo ha tentato, senza successo, di far
modificare la costituzione, che impone il limite di due mandati
consecutivi, per poter prolungare la sua opera al vertice dello stato.
La vera questione è che la gestione del potere nel gigante africano fa
gola a molti.

Una potenza africana

Sesto produttore di petrolio a livello mondiale e primo in Africa con
2,5 milioni di barili al giorno (35.255 milioni di barili di riserve),
la Nigeria si contende la leadership continentale solo con il
Sudafrica.
Repubblica federale di 36 stati, 130 milioni di abitanti e oltre 250
popoli, il paese definito «mosaico» per le sue grandi diversità
etniche, culturali, religiose e linguistiche ha una certa difficoltà a
mantenersi unito. Divisioni tra gli stati musulmani del nord (dodici
dei quali hanno adottato la legge islamica, sharia) e quelli cristiani
del sud, ma anche tra potere centrale e  singoli stati federati.
Le tensioni tra cristiani e musulmani, ma anche tra allevatori e
coltivatori che spesso sfociano in massacri con centinaia di vittime,
sono oggi in lieve diminuzione, ma sempre latenti.
Il sistema federale che doveva garantire la partecipazione di tutte le
etnie, ma ancora prima l’impostazione coloniale, hanno in realtà
favorito i tre principali gruppi: haussa, yoruba e igbo. Questo ha
creato spesso un senso di emarginazione e alienazione rispetto allo
stato nigeriano delle altre centinaia di etnie.
Dalla metà degli anni ’90 questi sentimenti di identità etnica e
politica, esacerbati dai sistemi oppressivi delle dittature militari,
sono sfociati nella nascita di una moltitudine di milizie
etniche.  Gruppi armati attivi nelle diverse zone del paese con
origine simile ma anime molto diverse. Dalle rivendicazioni politiche
degli yoruba, al movimento per l’indipendenza del Biafra, alle milizie
islamiche nel nord, ai movimenti per la ripartizione delle risorse nel
delta del Niger.

Cambio ai  vertici

Lo scorso dicembre, il partito del presidente, Partito democratico del
popolo (Pdp), ha eletto il suo candidato per le presidenziali. Si
tratta di Umaru Yar’Adua, governatore, musulmano, di uno stato del nord
(Katsina). Uomo schivo, ma soprattutto uno dei rari governatori
«integri», secondo la Commissione per i crimini economici e finanziari
(Efcc), istituita dall’attuale presidente. La commissione ha aperto
inchieste su 31 dei 36 governatori. In effetti la Nigeria, secondo la
classifica annuale in base alla corruzione, stilata dall’Ong
Transparency Inteational, resta uno dei paesi più corrotti del mondo,
occupando il 142simo posto su 163 recensiti.
Secondo un tacito accordo tra gruppi di potere, dopo gli 8 anni di
governo federale a un uomo del sud, cristiano, sarebbe stato un uomo
del nord ad avere la presidenza. Con la riforma della costituzione il
presidente ha tentato di venire meno ai patti, senza peraltro riuscirci.
Allora Obasanjo ha preferito mandare avanti un uomo di secondo piano
del partito, ma musulmano del nord, e con una buona immagine a livello
nazionale. È riuscito così, allo stesso tempo a soddisfare l’accordo,
ma anche a scartare alcuni avversari «musulmani» diretti. Come
l’attuale vicepresidente, Atiku Abubakar, uomo potente del Pdp ma in
rotta con Obasanjo (è anche stato uno dei fautori del «no» alla riforma
costituzionale) che ora si candiderà sotto un’altra bandiera politica.
Oppure Ibrahim Badatasi Babangida, già presidente dittatore dall’85 al
’93 intenzionato di nuovo a correre per la presidenza.
È molto probabile che i giochi si definiranno all’interno del Pdp, che
oggi controlla 28 dei 36 governatorati e ha la maggioranza al
parlamento federale. Con una possibile vittoria di Yar’Adua, il partito
dovrebbe poi accontentare gli stati del sud con la vice presidenza.
Ma anche gli Igbo (Ibo) dell’est, etnia maggioritaria (40 milioni) e
che non hanno un presidente da 40 anni vorrebbero dire la loro.
Questa successione sarebbe il primo passaggio di poteri tra civili nella storia del paese.

Molte risorse,  ma per pochi

La Nigeria è dunque un paese molto ricco di risorse, che non vanno però a beneficio della sua numerosa popolazione.
Secondo gli analisti dell’Inteational Crisis Group (Icg), Ong
internazionale per la prevenzione dei conflitti, il sistema federale
non funziona e contribuisce all’aumento della violenza che destabilizza
il paese. Incoraggia lotte feroci tra gruppi d’interesse per
appropriarsi del potere. In questo contesto sono nate le milizie
etniche e politiche, ma è anche fiorito il crimine organizzato. Le tre
componenti si intrecciano in modo inestricabile. Lo stato, sempre
secondo l’Icg, vuole reprimere i sintomi, inviando più poliziotti e
militari, piuttosto che cercare di debellare le cause: controllo delle
risorse, uguaglianza dei diritti, condivisione del potere e della
responsabilità.
Questa situazione sta portando all’aumento dei conflitti interni, con
conseguente peggioramento della situazione di sicurezza e
un’instabilità crescente. Alcuni analisti parlano di possibile
«collasso» o «esplosione» del gigante.

Petrolio chiama sangue

Il caso emblematico è il sud dove si concentrano i giacimenti di
petrolio nel delta del fiume Niger e in mare. Da queste zone il paese
ricava il 95% delle sue entrate all’esportazione. Ma si stima che il
70-75% della popolazione del delta (oltre 20 milioni) vive con meno di
un dollaro al giorno.  Questa situazione costituisce un substrato
ideale per milizie armate, come il Mend (Movimento per l’emancipazione
del delta) sorto a inizio 2006 e molte altre, che rivendicano il
controllo locale delle risorse. I loro metodi sono attacchi al governo
federale e alle compagnie petrolifere, come rapimenti degli impiegati
(come il recente sequestro dei tre italiani e il libanese dipendenti
dell’Agip), ma anche attentati con auto bomba.  Vogliono
paralizzare l’industria del petrolio alla quale hanno già fatto ridurre
del 25% la produzione nel 2006.
Motivi di militanza spesso etnica o politica (come anche richieste
d’indipendenza), contrabbando e criminalità comune si intrecciano nella
galassia dei movimenti del delta, rendendo molto difficile districarsi,
e facili le strumentalizzazioni.  Le milizie riescono facilmente a
far crescere l’odio verso il governo centrale e garantirsi un supporto
popolare molto utile in questo tipo di guerriglia. Il governo risponde
con la forza, inviando esercito e polizia.  Azione poco efficace
in una zona i cui centinaia di fiumi sono impossibili da controllare.

Chi ci guadagna

Mentre nel 1960 era retrocesso ai singoli stati il 50% dei proventi del
petrolio estratto sul loro territorio, questa percentuale è scesa al
13% dopo il 1999 (toccando il minimo di 1,5% durante il governo del
generale Sani Abachi). Una delle rivendicazioni delle milizie del delta
è che questa ripartizione delle risorse sia più equa. Questo non sempre
risolverebbe i problemi della popolazione, perché sono spesso i
governatori corrotti che riescono ad approfittare di queste
retrocessioni.
Tra le altre rivendicazioni c’è spesso la questione ecologica, a causa
dell’impatto negativo dell’estrazione e trasporto del petrolio in
questo fragile ecosistema.  Secondo l’Icg per i disastri
ambientali le responsabilità sono condivise, oltre che dalle compagnie,
anche dai ladri di greggio che danneggiano le tubature causando
fuoriuscita di petrolio. Oltre ai danni ambientali questo fenomeno
provoca spesso incidenti devastanti come la recente esplosione a Lagos
(dicembre 2006) che ha causato la morte di oltre 280 persone.
Nonostante la grande instabilità che questi fenomeni di lotta armata
stanno creando, sembra lontano il pericolo di una vera insurrezione
organizzata, anche se questo spettro compare ogni volta si avvicini una
scadenza per il potere.

Marco Bello

Chirurgia «mini» per un paese «maxi»

Tutto è cominciato quando un amico mi propose un’esperienza in Nigeria,
presso la Nnewi University nello stato di Anambra, dove nessuno aveva
mai fatto chirurgia laparoscopica (1). Si trattava di partecipare al
primo congresso di chirurgia mini invasiva, durante il quale avrei
dovuto eseguire la prima operazione di quel tipo mai eseguita. La cosa
mi ha entusiasmato moltissimo e senza pensarci su, ho accettato
immediatamente. Io, abituato dal 1987 a missioni in Kenya, Burundi e
soprattutto in Sud Sudan, in condizioni estreme, avrei avuto la
possibilità di agire in un ambiente medico più consono al nostro. Avrei
potuto apportare con questa nuova tecnica chirurgica, già ampiamente e
lungamente utilizzata da noi, una ventata di attualità a tutto
vantaggio dei pazienti.
Arrivato in Nigeria, con tutte le paure, le tensioni emozionali (tutto
sommato fisiologiche), l’orgoglio, la speranza, la felicità, sono
subito entrato in sintonia con la gente e i luoghi,  che
sembravano a me già visti e vissuti. È infatti molta la somiglianza con
diverse città e villaggi di altri paesi africani, con le strade
polverose, rossicce e piene di gente e attività.
In ospedale siamo stati accolti molto bene e quasi coccolati.
L’interesse è stato molto alto e durante la mia relazione le domande
non si sono risparmiate. Talvolta con fare polemico, soprattutto dai
ginecologi, che già utilizzano la laparoscopia diagnostica ma non
quella operativa. Si sono visti forse minati nell’esclusività di tale
metodica, con il timore di essere surclassati dai chirurghi generali.
Sono state delle giornate interessanti di scambio di vedute e con
propositi positivi. Abbiamo realizzato delle sessioni di training
simulato, che hanno coinvolto a tuo tutti i partecipanti al
congresso, dimostrando il vivo interesse dei medici locali. Si è infine
passati alla sessione della chirurgia in diretta con dei casi
all’inizio semplici come un caso di colecistectomia laparoscopica
(asportazione della colecisti) e un’appendicectomia laparoscopica
(asportazione dell’appendice). D’altronde in tutto il mondo si è
iniziato con questi due tipi di interventi prima di passare a quelli
più complicati. La sala operatoria era gremita di medici, infermieri e
studenti interessati a questo grande evento (all’inaugurazione ha
partecipato il ministro della sanità). Nonostante questo non sentivo il
peso di tutti quegli sguardi, ma la leggerezza della voglia di essere
lì. Avevo sì dei timori all’inizio, perché in Nigeria nessuno aveva mai
preparato ferri chirurgici di quel tipo specifico, nessun aiuto
chirurgo aveva mai fatto esperienza su questi interventi. Ma
l’entusiasmo di avere vicino molte persone motivate, mi ha fatto subito
superare ogni difficoltà. Alla fine di tutto però ero stanco. Ma con
una stanchezza «carica» dovuta al fatto che tutto era andato
perfettamente bene e aveva creato immensa gioia e soddisfazione a
pazienti e ambiente medico.
È bello vedere l’entusiasmo e la voglia di andare avanti, anche quando
sussistono problemi sociali e politici come in questo paese. E questo,
secondo me, vale comunque a tutte le latitudini del mondo.

Dario Andreone

(1) Chirurgia laparoscopica o chirurgia mini invasiva è la tecnica
chirurgica che prevede l’esecuzione di un intervento chirurgico
addominale senza apertura della parete. Ciò avviene attraverso piccoli
strumenti che passano in fori nel ventre e l’intervento viene
visualizzato attraverso un monitor.

Marco Bello e Dario Andreone




Tristi le  mille colline

Esperienza estiva di un gruppo di giovani di Reggio Emilia

Da oltre 40 anni la diocesi di Reggio Emilia è legata alla chiesa rwandese. Tra le varie iniziative figura anche l’invio di gruppi giovanili desiderosi di fare esperienze di missione. Quello guidato dal padre Moreschi ha animato oltre 700 giovani di ogni etnia, gettando un seme di speranza in un  paese che non è ancora riuscito a liberarsi dall’incubo.

«Paese dalle mille colline», come è spesso definito, il Rwanda si trova a un grado e mezzo sotto l’Equatore, schiacciato tra Tanzania e Congo, Uganda e Burundi, con cui costituiva un territorio unico durante il periodo coloniale.  Grande come la Sicilia, è popolato da quasi 9 milioni di abitanti. La scorsa estate vi ho trascorso tre settimane, insieme a un gruppo di giovani della diocesi di Reggio Emilia per un campo di esperienza missionaria. 
Il legame tra la diocesi di Reggio e il Rwanda risale al 1969, quando vi approdò padre Tiziano Guglielmi, missionario reggiano della congregazione dei Padri Bianchi. Tale legame è diventato sempre più forte, anche dopo la morte del missionario, avvenuta il 19 maggio 1980 in un incidente aereo alle pendici del vulcano Bisoke, nel nord del Rwanda. Anzi, proprio tale disgrazia ha portato alla costituzione del gruppo «Amici del Rwanda. Padre Tiziano», per continuare le opere avviate dal missionario reggiano nella missione di Rwamagana, realizzando la costruzione di una scuola, un centro ospedaliero, la casa per le suore e un’altra per i volontari.
La guerra civile dell’aprile-luglio 1994 e conseguente genocidio ha costretto il gruppo e la diocesi a interrogarsi sul loro ruolo nel futuro del paese martoriato. Don Luigi Guglielmi, fratello di padre Tiziano e all’epoca direttore della Caritas diocesana, volle avviare un progetto che coinvolgesse più direttamente la diocesi reggina e fosse segno di speranza e di solidarietà con la popolazione e la chiesa rwandese.
Nasceva così, nel 1995, il primo progetto Amahoro (pace, in lingua rwandese) a Munyanga, nella diocesi di Kibungo: una casa-famiglia per accogliere i bambini rimasti senza genitori. Tale progetto non si limita a fornire le strutture materiali, si traduce soprattutto in una esperienza di comunità tra volontari italiani e rwandesi, condividendo insieme la vita quotidiana, orientamenti e scelte per l’avanzamento del progetto.
Oltre un centinaio di volontari italiani si sono avvicendati per assicurare il servizio della casa Amahoro e per aprie di nuove in altri luoghi, come a Kabarondo e Bare. A questi volontari si sono presto uniti anche gruppi giovanili, desiderosi di fare esperienze missionarie e realizzare progetti minori attraverso campi estivi di qualche settimana.

Anche il 2006 ha visto partire da Reggio Emilia due delegazioni di volontari. La prima, all’inizio dell’anno, aveva il compito di aggiustare delle pompe che si erano bloccate; la seconda, ad agosto, era il nostro gruppo di giovani, che ha trascorso una ventina di giorni nella missione di Munyaga. Abbiamo animato una marea di ragazzi, fino a 700 in alcune giornate dedicate a un campo estivo. Altri giorni sono stati impegnati nella costruzione di case di fango per i poveri, sotto la direzione di suor Bea, una religiosa belga in Rwanda da una vita.
Naturalmente abbiamo avuto anche il tempo per conoscere la situazione del paese. Il Rwanda è un paese con una storia gloriosa e splendide tradizioni; geograficamente bello e godibile per il clima e fertilità del suolo; non ha pascoli in abbondanza, ma sufficienti a sfamare molte mandrie di mucche dalle coa spropositatamente grandi.
Un’eterna primavera sembra regnare nel paese dalle mille colline, irrorate da piogge regolari, incastonate da molti laghi, piccoli e grandi (Kivu, Bulera, Ruhongo, Rweru, Muhazi e l’immenso Vittoria) e solcato da numerosi fiumi, due dei quali, che alimentano il lago Vittoria, sono ritenuti come le vere sorgenti del Nilo.
La gente è buona e laboriosa. L’intero territorio è coltivato come un giardino, tutto a mano, anche le colline più scoscese, con un ingegnoso sistema di terrazze.
Sulla brillantezza del paesaggio, però, incombe la tristezza infinita della gente. Le ferite aperte dall’eccidio, a più di 10 anni di distanza, non sono ancora rimarginate. La gente sembra avere ancora stampate negli occhi scene orrende di cui è stata testimone. Tutti gli adulti che abbiamo incontrato in quei 20 giorni ci hanno raccontato storie tristi, perché tutti hanno avuto la pertita di uno o più familiari. Una signora rwandese, sposata a un italiano, ha perso i genitori e un fratello con tutta la sua famiglia. Questo fratello, per non finire sotto i colpi di macete, si è gettato nel fiume insieme alla moglie e ai figli.
Le iniziative per ricostruire la convivenza civile e la riconciliazione sono molte. Il tribunale internazionale con sede ad Arusha (Tanzania) ha già emesso sentenze esemplari contro chi si è macchiato di delitti contro l’umanità e continua il suo lavoro fra tante difficoltà finanziarie e logistiche; i tribunali tradizionali, chiamati «gachaca», cercano di promuovere la riconciliazione; il governo vuole imporre la pace e l’unità nazionale usando il pugno di ferro e violando i diritti umani più elementari.

Visitando i «luoghi della memoria» sparsi su tutto il territorio, questo momento nero della storia rwandese risulta anche più tragico e indimenticabile.
Nella chiesa di Ntarama, per esempio, dove furono uccise oltre10 mila persone, si respira ancora l’odore della morte. I teschi delle vittime sono raccolti negli scaffali; sul pavimento ci sono vestiti e scarpe e contenitori di plastica lasciati dalle vittime. Sulle pareti della chiesa si è cominciato a scrivere la lunga lista di 10 nomi. Non difficile immaginare l’atmosfera di tristezza che pervade la gente del villaggio.
Di luoghi della memoria come questi è piena la nazione. Altra meta d’obbligo è Nyamata. Durante la guerra civile vi operava padre Joaquim Vallmajo, spagnolo, assassinato perché parlava troppo dei soprusi dei soldati del Fronte patriottico rwandese. Vicino al cippo che ricorda il missionario spagnolo c’è la tomba della volontaria italiana Antonia Locatelli, anche lei uccisa con una pallottola in bocca, nel 1992, per aver telefonato all’ambasciata del Belgio e a emittenti radio inteazionali (Bbc e  Rfi) dando l’allarme di quanto stava succedendo sotto i suoi occhi: il massacro di 300-400 tutsi. Il giorno seguente a tale appello fu uccisa davanti a casa da un gruppo di interahamwe (milizie speciali hutu) venuto appositamente da Kigali. Grazie a lei, però, il mondo fu informato e la polizia fu costretta a intervenire e a porre fine alla carneficina.
Anche con una breve permanenza nel paese ci si accorge che il Rwanda non è ancora uscito da una esperienza così tragica; il demone dell’odio e della divisione ha radici antiche. La popolazione è laboriosa, intelligente e pacifica, ma nel suo interno rimangono frange di estremisti che spingono allo scontro frontale. Per questo si incontrano dappertutto posti di blocco molto noiosi. Suor Bea e suor Mary Amè ci dicono che sono gli stranieri a essere sotto stretto controllo, ma in generale è tutta la popolazione rwandese a vivere sotto stretta sorveglianza.
A parte questo, tutto sembra rientrato in una discreta normalità. La gente cammina per le strade a piedi come un fiume perenne, dato che il traffico automobilistico nella zona rurale è  molto limitato. Kigali, la capitale, brulica di gente indaffarata, i negozi sono pieni di prodotti di ogni genere, anche quelli occidentali.

Kibeho non è solo un luogo della memoria, ma è diventato il simbolo del dolore assoluto, nel cuore dell’Africa dei massacri. Vi abbiamo incontrato una delle veggenti alle quali la Madonna, sarebbe apparsa più di una volta a partire dal 28 novembre 1981.
I protagonisti sarebbero sette. Ma la chiesa ha riconosciuto solo le apparizioni alle prime tre veggenti, studentesse delle scuole magistrali in un collegio cattolico. I messaggi consegnati alle tre giovani non si discostano da quelli di altre apparizioni mariane: invito alla preghiera, alla conversione e alla penitenza salvifica. Ma ciò che fa di Kibeho un evento particolarmente impressionante è che, il 19 agosto 1982, i tre veggenti ebbero la visione dei massacri che ci sarebbero stati di lì a pochi anni in Rwanda. «Abbiamo visto gente che si uccideva, corpi decapitati, fiumi di sangue lungo le strade» raccontavano i veggenti.
Inizialmente le apparizioni furono accolte con sospetto e scetticismo; i più benevoli pensavano che gli orrori annunciati riguardassero il Burundi. Poi, dopo 7 anni di indagini e il lavoro di una commissione medica internazionale, il vescovo approvò il culto della Vergine e la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna dei dolori.
E proprio in quella chiesa, il 7 aprile 1994, si rifugiarono circa 20 mila tutsi e hutu moderati. I tutsi che  si trovavano in chiesa vennero fatti uscire e massacrati ad uno ad uno a  colpi di machete. Quelli che non uscirono vennero uccisi con le granate in chiesa. Tra le vittime ci furono anche due delle tre veggenti.
Quando il Fronte patriottico rwandese giunse al potere, a Kibeho si rifugiarono decine di migliaia di hutu, per sfuggire alla vendetta dei tutsi, formando un enorme campo profughi, sotto l’assistenza di organizzazioni inteazionali. Ma il 18 aprile 1995 l’Esercito patriottico rwandese cinse d’assedio il campo, con lo scopo di controllare i rifugiati, arrestando i sospetti di genocidio e rimandando il resto alle proprie case.
La gente, presa dal panico, cercò di rompere il cordone militare e scappare a perdifiato, sotto i colpi dei soldati. Le strade furono cosparse di sangue,  come nella visione proposta ai veggenti 14 anni prima. Si parla di oltre 8 mila vittime, colpite alle spalle; 4 mila secondo le autorità rwandesi. 
Ma per Kibeho non era ancora finita. Le autorità rwandesi, in maggioranza tutsi, volevano confiscare il santuario e trasformarlo in mausoleo del genocidio del 1994. Il vescovo locale, mons. Augustin Misago si oppose, così pure la Santa Sede, spiegando che la chiesa non poteva diventare simbolo della memoria solo per una parte del popolo, ma doveva essere luogo di riconciliazione.
Proprio da Kibeho, il presidente del Rwanda lanciò contro mons. Misago l’accusa di genocidio nel 1999. Arrestato e condannato a morte, dopo un processo farsa durato tutto l’anno del giubileo, il vescovo fu poi assolto da un giudice di buon senso.
Oggi il santuario di Kibeho, con le sue travi e capriate di legno affumicate, rimane un monito contro ogni ideologia razzista di purezza etnica e continua ad accogliere migliaia di pellegrini di ogni etnia desiderosi di pace e riconciliazione.

A Munyaga, luogo della nostra esperienza, 700 ragazzi di tutte le etnie hanno giocato e cantato e ballato spensieratamente. Abbiamo gettato un piccolissimo seme di speranza, nell’attesa che cresca e maturi con frutti di pacifica convivenza, cancellando il velo di tristezza che ancora avvolge le mille colline del Rwanda martoriato. 

di Alessandro Moreschi

Alessandro Moreschi




Addio vecchio «baobab»

Scomparso Ki-Zerbo, uno dei padri del continente

Joseph Ki-Zerbo è della stirpe dei grandi intellettuali africani e afro americani. Come Aimée Césaire della Martinica, Cheik Anta Diop e Léopold Sédar Senghor del Senegal, ha contribuito molto alla conoscenza dell’Africa. Accademico alla Sorbona fa conoscere al mondo la vera storia degli africani. Uomo politico, combatte per la libertà e la democrazia.  Teorizza lo «sviluppo endogeno», il contrario di quello imposto dall’Occidente. Combatte, fino all’ultimo dei suoi giorni.

A metà degli anni Cinquanta, quando l’Europa si rialzava faticosamente dalla seconda guerra mondiale, il professor Joseph Ki-Zerbo entrava alla Sorbona, per sostenere con brio un dottorato di storia. Era la prima volta che un nero africano accedeva a una tale distinzione universitaria. E inoltre non era un istituto qualsiasi. In quegli anni di dopo guerra, le tesi più folli sulla superiorità razziale dei bianchi sui neri circolavano abbondantemente. Gli studiosi erano categorici: i neri non hanno avuto storia.
Nelle colonie francesi, in particolare, i transalpini sono diventati gli antenati degli africani. È evidente che quando non si ha avuto storia non si hanno avuti antenati, e la colonizzazione li aveva allora foiti ai colonizzati, per sostituzione.

Le origini

Joseph Ki-Zerbo, nato nel 1922 a Toma in Burkina Faso, ha avuto un’infanzia totalmente impregnata di queste ideologie. Figlio del primo cristiano burkinabè, il catechista Alfred Diban Ki-Zerbo, è cresciuto nella cerchia privilegiata dei missionari cattolici. Ha avuto quindi maggiori possibilità, rispetto ai coetanei, di andare alla scuola occidentale.
Ki-Zerbo, come lui stesso amava qualificarsi, è un «negro d’eccezione». Proprio perché grazie alla posizione del padre ha potuto beneficiare a pieno del sistema coloniale. In seguito, riuscendo a fare studi brillanti, ha un posto da alto funzionario dell’amministrazione francese. Con il suo diploma di docente ordinario di storia, diventa professore all’università. Una situazione che gli porta molti vantaggi. Ma Joseph Ki-Zerbo non si è mai sentito a suo agio nel lusso dell’amministrazione coloniale. Ha sempre pensato che la sorte di un nero non era quella di trovare un modo di salire nell’alta gerarchia dell’amministrazione, ma di sapere esattamente chi è e da dove viene. A questo proposito pronunciò una frase diventata celebre: «Quando non si sa cosa si cerca, non si può capire ciò che si trova».

Ricerca d’identità

Molto presto, quindi, Ki-Zerbo dedica la sua vita alla ricerca «dell’identità del nero». Ha pensato che il primo mezzo per iniziare questa ricerca sarebbe stato il conoscere la storia e la storiografia. Va quindi a iscriversi alla Sorbona, nella migliore delle università francesi per ottenere il più importante dei diplomi, il che gli permette di fare delle ricerche con tutta l’autorità necessaria. Integra la cerchia, molto rispettata, dei professori universitari. Da allora può quindi impegnarsi negli studi per riesumare la «storia dei negri» e dar loro un’identità. Sarà il primo africano a scrivere un voluminoso libro di storia, intitolato: «L’Histornire de l’Afrique noire». È la prima opera sull’Africa scritta da un intellettuale del continente. Resta sempre un riferimento per l’insegnamento della storia nelle scuole e nelle università in Africa.
Sempre in questa ricerca indispensabile dell’identità, sarà designato dall’Unesco (Organizzazione culturale, scientifica e educativa delle Nazioni Unite) per scrivere e dirigere la redazione di diversi volumi di «L’Histornire général de l’Afrique».

«Baobab» della politica

Ma Ki-Zerbo è anche un uomo politico molto impegnato. Nel 1958, quando è ancora funzionario francese, milita attivamente per l’indipendenza e per l’unità dell’Africa. È tra gli organizzatori della campagna per il «no» al referendum proposto dal generale Charles De Gaulle (1958), che chiedeva agli africani delle colonie francesi di scegliere tra il restare in federazione con la Francia o l’indipendenza.
Con il suo partito, il Movimento di liberazione nazionale (Mln), che raggruppava personalità come Abdoullaye Wade, attuale presidente del Senegal, si mobilita per chiedere l’indipendenza immediata. Il suo movimento perde. Per essere coerente con se stesso, dimissiona dalla funzione pubblica francese. Assieme ai suoi compagni di partito, va in soccorso alla Guinea Conakry, che era l’unico paese ad aver votato per l’indipendenza.
Per punire la Guinea, dopo il voto De Gaulle aveva richiamato tutti gli assistenti tecnici francesi. Peggio: i francesi partirono portandosi via tutto, anche le prese elettriche degli uffici. Il paese si trova privato di risorse e competenze. Ki-Zerbo e i suoi compagni portano insegnanti, professori, e tecnici indispensabili per far funzionare l’amministrazione statale.

Politico per la democrazia

Dopo questa esperienza guineana, il professore torna in Burkina Faso e rilancia il suo partito. L’Mln è considerato il partito degli intellettuali. I suoi militanti sono insegnanti della scuola elementare, infermieri, medici e professori dei licei.
Il professore si rivela un grande intellettuale e politico temibile. Sarà lui il principale responsabile della caduta del regime di Maurice Yameogo, primo presidente del paese. Da allora diventa una personalità imprescindibile per la scena politica nazionale. Il suo partito resta per molto tempo la seconda forza del paese.

Professore di «sviluppo»

Ma la cosa più importante che ci lascia il professor Ki-Zerbo è la sua riflessione politica. Ha teorizzato quello che lui stesso ha chiamato: «lo sviluppo endogeno». Non è una teoria che punta all’autarchia e neanche un ritorno ai valori ancestrali, ma piuttosto un approccio aperto al mondo.
Approccio per il quale gli africani sanno da dove vengono e dove vogliono andare. Il professore si è sempre ribellato al modo in cui lo sviluppo è teorizzato per l’Africa. Lui pensa che questa maniera di aiutare l’Africa si focalizza troppo sui «mezzi» piuttosto che sulle «condizioni». Secondo lui si possono versare tutti i miliardi che si vogliono sul continente, ma non si provocherà mai lo sviluppo: piuttosto la perversione dell’élite politica e intellettuale, che si perde nella corruzione. Al contrario, sostiene Ki-Zerbo, se le «condizioni» sono riunite, gli africani stessi troveranno le risorse necessarie al loro sviluppo. Cita a esempio il decollo economico dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo.
Tra le condizioni necessarie allo sviluppo, la prima è l’educazione. Se il tasso di scolarizzazione non raggiunge la soglia del 70% della popolazione, lo sviluppo è impossibile. Se la conoscenza tecnica della produzione non permette di ottenere del valore aggiunto, lo sviluppo è impossibile. Ma oggi l’economia africana è basata sull’esportazione di materie prime grezze (caffè, cacao, cotone, tè, legno, ecc.). Ki-Zerbo pensa che nessun paese al mondo si sia sviluppato in questo modo.
Un’altra delle condizioni per lo sviluppo è la democrazia e l’emancipazione della donna. Tutte queste teorie le presenta nella sua ultima opera «A quando l’Africa?» (tradotto in italiano dalla Emi, ndr).

«Se ci sdraiamo …

Ki-Zerbo è un vero «baobab» africano. Il baobab è l’albero più maestoso della savana, come lo è la quercia per i paesi occidentali. È questo il personaggio che è scomparso il 4 dicembre scorso. Intellettuale e uomo politico impegnato, ha lottato fino alla morte per la libertà e la democrazia. Dopo l’assassinio del popolare giornalista burkinabè Norbert  Zongo, nel dicembre 1998, il professore, malgrado l’età, è una delle figure della contestazione del regime e della battaglia per portare in giudizio gli assassini.

… siamo già morti»

È lui che inventa lo slogan del movimento di lotta contro l’impunità in Burkina Faso: «ni an lara an sara», ovvero «se ci sdraiamo, siamo già morti». È con questa frase che i militanti della lotta contro l’impunità lo hanno accompagnato alla sua ultima dimora, nel piccolo villaggio natale di Toma, a un centinaio di chilometri da Ouagadougou. Il professore voleva riposare in mezzo ai suoi. Coloro che lo hanno regolarmente eletto deputato a partire dal 1970, malgrado i rischi che questa scelta comportava. È per questo motivo, d’altronde, che la regione di Toma è una delle ultime a non avere una buona strada. Ma la popolazione, nonostante tutto, è rimasta fedele al professore. 

Di Newton Ahmed Barry

* Newton Ahmed Barry è uno dei più noti giornalisti del Burkina Faso. Attualmente è redattore capo dell’«Evénement», bimensile di attualità politica di cui è uno dei fondatori.

Newton Ahmed Barry




Nel ghetto della cronaca

L’immigrazione sui mass media italiani

Quale immagine dell’immigrato viene data dai media italiani? Che linguaggio si utilizza?
Quali situazioni vengono descritte? In Italia i professionisti dell’informazione
sono generalmente succubi degli stereotipi e lontani da quella funzione civile ed educativa
a cui il giornalismo dovrebbe mirare.

Sui mass media italiani l’immigrazione – e con essa la diversità religiosa e culturale – è vista come un problema. La si associa a illegalità, devianza, criminalità o comunque a disagio sociale sia per i protagonisti dei fatti raccontati (i soggetti immigrati, trattati come autori di atti o, meno spesso, come vittime), sia per i cittadini italiani (costretti a «subire» le conseguenze dell’immigrazione). Le fonti che trattano dell’immigrazione, che producono quindi fatti «notiziabili» (neologismo giornalistico, ndr), sono soprattutto quelle istituzionali: forze dell’ordine, magistratura e, quando si tratta di esprimere commenti, classe politica. Gli elementi, le occasioni che rendono gli immigrati soggetti meritevoli di essere rappresentati sulle pagine dei giornali, nei notiziari radiofonici, in Tv o sui siti Web informativi sono gli «sbarchi dei clandestini», le azioni delittuose, i problemi sociali (inserimento sociale difficoltoso, abitazione, credenze religiose), talvolta il lavoro; quasi sempre situazioni, fatti, eventi e casi che creano problemi alla collettività. Se il soggetto immigrato non è un problema – possiamo affermare sulla base delle ricerche – non è «notiziabile», ovvero non interessa ai media.

Il giornalista seduto
L’immagine del singolo soggetto immigrato tratteggiata dai mass media è quella dell’irregolare, del «clandestino», del criminale, di colui/colei che causa insicurezza, ansia, tensione e conflitto. Molto spesso è di sesso maschile; e talvolta è una vittima, ma comunque una vittima che dà problemi. Il taglio giornalistico dato all’informazione sui cittadini stranieri che vivono in Italia è soprattutto quello delle brevi notizie e degli articoli di cronaca. I cittadini immigrati sono «confinati dentro il ghetto della cronaca», per usare un’espressione della ricerca del Censis del 2002 Tuning into diversità, sull’immagine dell’immigrazione nella stampa italiana. I media offrono notizie e articoli senza scavo, senza approfondimento, senza problematizzazione, senza inchiesta, senza indagine, insomma senza ciò che fa del giornalismo una delle professioni più nobili e affascinanti. Le notizie e gli articoli sull’immigrazione nascono, si alimentano di particolari e sono scritti soprattutto al «desk», alla scrivania del giornalista, nel chiuso della redazione, alla stretta dipendenza delle fonti (carabinieri e polizia soprattutto); fonti dalle quali i giornali mutuano il linguaggio.
Il linguaggio con cui sono rappresentati l’immigrazione e i suoi protagonisti impiega il «lessico dell’estraneità»: extracomunitario, straniero, immigrato; oppure albanese, romeno, marocchino, nomade. Si tratta di un linguaggio il quale definisce la persona che «viene da fuori» e continua a restare fuori della comunità. All’estraneità viene associata l’aggressività, la criminalità, l’illegalità, l’irregolarità, caratteristiche – anche queste – che sono fuori di qualche cosa (della calma, dell’ordinario, della legge, delle regole). Quando l’estraneo è una vittima, entra in campo il linguaggio della compassione, della lacrima, dell’intenerimento temporaneo.

Che giornalismo vogliamo?
Lo «straniero» rappresentato dai giornali è afono, senza voce o (quando va bene) con una voce flebile. Non viene mai intervistato, ascoltato; non ha quasi mai diritto di parola o di scrittura, pur in presenza di un giornalismo che ricorre sempre più alla narrazione e alle dichiarazioni – messe fra virgolette – dei protagonisti dei fatti. Senza voce e senza diritto di parola, l’immigrazione sembra non avere neppure una cultura meritevole di essere narrata, se si escludono i casi considerati «curiosi» o le occasioni in cui pratiche diverse (ad esempio, la macellazione degli animali fatta da persone di religione musulmana) sono viste con sospetto o denunciate come fuori della norma.
Quanto sia importante comprendere a fondo – in un quadro pedagogico-interculturale – la produzione giornalistica italiana sull’immigrazione, è Luigi Secco a sottolinearlo. In un suo fondamentale testo sulla pedagogia interculturale, il pedagogista scrive: «La situazione interculturale, in cui si trovano soggetti di diversa provenienza, non può essere risolta dalla scuola da sola. La scuola è sempre un istituto entro la collettività. Lo scolaro passa a scuola un certo numero di ore della giornata; il resto del tempo lo passa in famiglia, nei club di vario genere, sulla strada, ecc. Entra allora urgente e cogente il tema della società educante nel senso più ampio del termine».
La trasformazione sociale della nostra società – con 3 milioni di cittadini stranieri che sono parte attiva del tessuto economico-produttivo ma anche della convivenza civile – richiede un giornalismo all’altezza; capace di leggere, interpretare e offrire ai lettori la «nuova Italia» multiculturale che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, nelle città più grandi e nei piccoli paesi di provincia. Un giornalismo che sia consapevole del proprio ruolo civile ed educativo.

Raccontare le diversità
oltre stereotipi e pregiudizi
Un cambio delle routines redazionali, una diversa organizzazione del lavoro giornalistico con il superamento del fenomeno della «deskizzazione» (lavoro giornalistico svolto stando alla scrivania, ndr), l’impiego di un nuovo linguaggio, la formazione e l’aggioamento dei giornalisti: sono queste alcune delle azioni da compiersi per arrivare ad una stampa «diversa» che sia in grado di raccontare la diversità e l’Italia multiculturale; per un giornalismo che sia «interculturale». Sono gli «uomini macchina» – i giornalisti che lavorano alla scrivania – ad avere una visione meno sensibile, più stereotipata dell’immigrazione.  La routine uccide la professionalità: il ricorso al «formato breve» della notizia, il lavoro al desk che costringe il giornalista a guardare il mondo con una specie di cannocchiale rovesciato che allontana gli eventi, il distacco dalla realtà aggravato dall’abuso di stereotipi linguistici, la perdita di spessore dell’identità giornalistica, portano ad una perdita di credibilità della professione. D’altra parte, il compito primario dei media è di restituire ai lettori una realtà che soddisfi la loro richiesta di comprensione dei fatti che accadono nel mondo e che formi la loro coscienza critica.
Il giornalismo interculturale raccoglie la sfida educativa e – anziché presentare il fenomeno immigrazione con toni negativi, caratterizzandolo come invasione, emergenza, minaccia – cerca di cogliere, di comprendere e di presentare le opportunità, i vantaggi, gli arricchimenti che derivano dalla situazione multiculturale.
Il giornalismo interculturale è quindi disponibilità alla ricerca e al cambiamento, per offrire a lettori assetati di conoscenza le basi per capire la nuova realtà e per interagire con essa. Esso punta all’approfondimento, alla ricerca, all’indagine, al dibattito civile, alla promozione culturale per offrire una rappresentazione del fenomeno immigrazione e dei suoi protagonisti libera da generalizzazioni, stereotipi, pregiudizi e che eviti così ogni forma di discriminazione. Il giornalista interculturale deve dare prova di preparazione professionale e di responsabilità civile, sviluppando attenzione e consapevolezza per il contesto multiculturale in cui si trova a lavorare; considerando la differenza come un bene da tutelare e mettendo in atto un’autentica comprensione di fenomeni, problemi, persone, popoli appartenenti a culture diverse dalla propria.
Si tratta di una professionalità consapevole e rispettosa della diversità etnica; di una professionalità che comprende sia competenze tecniche, sia conoscenze specifiche e inoltre una particolare impostazione mentale aperta al dialogo, al confronto, allo scambio. È così che i mass media possono indirizzare in modo positivo, costruttivo e creativo, opinioni e sentimenti dei lettori verso l’«Altro», il «diverso» e favorire un processo di conoscenza, integrazione e arricchimento reciproco fra persone portatrici di usi, costumi, lingue, tradizioni, religioni e valori differenti.
L’informazione è invece la risorsa basilare per assicurare a ciascuno una prima forma di inclusione sociale. Essa può essere considerata il primo elemento di cittadinanza. I mezzi di comunicazione di massa, grazie alla loro pervasiva presenza nella odiea società globalizzata e al loro ruolo di «scuola parallela», assumono un’importanza fondamentale nell’attuale contesto pluriculturale e multietnico, in quanto possono sia favorire l’inserimento dei cittadini immigrati, sia educare i cittadini autoctoni a dialogare e a comprendere le culture «altre». Ecco che il giornalismo interculturale si impegna a valorizzare la presenza immigrata come risorsa per la società di accoglienza, favorendo la conoscenza, l’accettazione reciproca, l’integrazione e lo scambio fra culture diverse: obiettivi raggiungibili se si seguono i principi fondanti e le indicazioni della Pedagogia interculturale, ben espressi dai testi del pedagogista Agostino Portera; se si acquisisce un nuovo atteggiamento  culturale basato sul rispetto, sull’accoglienza, sul dialogo. Non dobbiamo dimenticare, poi, che nei mass media aperti all’intercultura i cittadini di origine straniera possono trovare una forma positiva di rispecchiamento; una ragione in più per amare la nuova patria dove vivono, per sentirsene parte attiva e costruttiva.

Un nuovo giornalismo
per una società più giusta
Vi è, inoltre, un aspetto di «giustizia sociale» nell’azione del giornalismo interculturale. Come sottolinea Nobre Correia (in Problemi dell’informazione n. 4,  anno 2005), ci avviamo verso una società duale anche in campo mass-mediale: da una parte la grande maggioranza della popolazione che fruirà di mass media gratuiti, fornitori di emozione e intrattenimento senza informazione aggiornata e di spessore su quanto accade nel mondo; dall’altra parte un’élite in grado di pagare per avere un’informazione che foisca gli strumenti per affrontare le difficoltà della vita e per conservare una posizione di privilegio nella società. Solo un giornalismo «diverso», che non si rassegni alla profezia della sua «morte annunciata», può lavorare per una società che non sia così ingiusta; e può affermare di non volersi arrendere alla discriminazione, allo sfruttamento, all’imbonimento ai danni di chi non ha potere economico e politico per alzare la voce e pretendere condizioni di vita e di comunicazione democratici ed eguali per tutti.
Visione critica del mestiere di giornalista (ma anche del mestiere di autore di fiction e prodotti multimediali), rigore professionale, uso riflessivo della tecnica giornalistica, rispetto dei codici deontologici e sensibilità umana: sono questi i pilastri del giornalismo interculturale. Su questo fronte si gioca la battaglia per avere professionisti dell’informazione – già in servizio o in procinto di entrarvi – capaci di cogliere le sfide di una società pluralistica, complessa, multiculturale e multireligiosa. In questo ambito si pone l’aver avviato, due anni fa,  all’Università degli studi di Verona – grazie al Centro studi interculturali (vedere riquadro) – un insegnamento di giornalismo interculturale che è una novità nel panorama della formazione universitaria. Perché la sfida è quella di avere giornalisti e comunicatori in grado di rispondere in modo adeguato alla sfida – affascinante e inquietante – che la società multietnica ci pone di fronte. 

Maurizio Corte*

(*) Maurizio Corte è professore a contratto all’Università degli studi di Verona, dove insegna comunicazione interculturale e giornalismo interculturale. Collabora da anni al Centro studi interculturali dell’ateneo veronese. Gioalista professionista, lavora al quotidiano L’Arena di Verona. Ha pubblicato «Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale» (Cedam, Padova 2002) e «Comunicazione e giornalismo interculturale. Pedagogia e ruolo dei mass media in una società pluralistica» (Cedam, Padova 2006).

ll’Università di Verona
Un altro giornalismo è possible

La ricerca sulla rappresentazione dell’immigrazione nei media – affidata a Maurizio Corte – è solo una delle attività svolte dal Centro studi interculturali (Csi) dell’Università degli Studi di Verona, diretto da Agostino Portera, direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione della Facoltà di scienze della formazione e professore ordinario di pedagogia e di pedagogia Interculturale. Il Csi, infatti, promuove e realizza supporti scientifici, culturali e strumenti metodologico-didattici nel campo dell’educazione e dell’istruzione in una società pluralistica e multiculturale. Fra i suoi obiettivi vi sono quelli dell’educazione, dell’istruzione, della consulenza, della ricerca e dell’alta formazione interculturale, in ambito scolastico e dell’extrascuola.
Il Csi collabora con enti, istituzioni, associazioni (pubbliche e private, nazionali e inteazionali), con singoli professionisti accreditati e con istituzioni universitarie italiane e straniere. Il direttore del Centro studi interculturali, Agostino Portera, è membro dell’esecutivo dell’Iaie (Intercultural association for intercultural education) ed è il direttore di due Master promossi e organizzati dal Csi: il Master, con formazione a distanza in «Comunicazione interculturale e gestione dei conflitti» e il Master Fse, con didattica in presenza, in «Comunicazione interculturale nelle organizzazioni e nelle relazioni inteazionali». Entrambi i Master sono proposti anche nell’anno accademico 2006-2007 e si inizieranno a primavera di quest’anno: le informazioni sono reperibili sul sito del Csi. Fra i membri del comitato scientifico dei Master tre studiosi di livello internazionale: Donata Gottardi, professore ordinario di diritto del lavoro, Nicola Sartor, professore ordinario di scienza delle finanze, e Luigi Secco, pedagogista e professore emerito di pedagogia.
«Miriamo allo studio e alla ricerca, nonché alla qualificazione dei percorsi scolastici ed extrascolastici, agli interventi educativi, di consulenza psicopedagogica, di formazione e di specializzazione professionale, così come delle politiche di intervento nel settore interculturale», spiega Portera. «In questo modo, il Csi si propone a livello locale, nazionale ed internazionale, come una struttura che svolge servizi ed attività rivolti a ricercatori e studiosi nel settore della pedagogia interculturale; a educatori ed operatori impegnati nel settore; agli insegnanti; ai giovani laureandi e ai laureati; a professionisti».
Ogni anno il Centro studi interculturali organizza convegni di livello internazionale. Sia l’attività convegnistica che quella di ricerca trovano poi espressione nella pubblicazione di testi scientifici a disposizione della comunità degli studiosi e introdotti nei corsi di pedagogia, di pedagogia interculturale, di comunicazione interculturale e di giornalismo interculturale proposti dall’Università degli studi di Verona. L’ateneo veronese è il primo in Italia ad avere un insegnamento pedagogico di giornalismo interculturale nell’ambito dei due Master organizzati dal Csi e del corso di laurea specialistica in giornalismo della Facoltà di lettere e filosofia.

Centro studi interculturali
Dipartimento di Scienze dell’educazione
Facoltà di Scienze della formazione
Università degli studi di Verona
via Vipacco 22
37129 Verona

Telefono / E-mail / Sito Web:
045.8028147 (dal martedì al giovedì, ore 9.30-13.00)
csi.intercultura@univr.it
http://fermi.univr.it/csint.

Testi di riferimento:
Maurizio Corte
Comunicazione e giornalismo interculturale. Pedagogia e ruolo dei mass media in una società pluralistica
Cedam, Padova 2006

Maurizio Corte
Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale
Cedam, Padova 2002

Agostino Portera
Globalizzazione e pedagogia interculturale
Edizioni Erickson, Trento 2006

L’annuale dossie della Caritas
Avanza l’Italia multietnica

Con 300.000 nuovi immigrati (regolari) all’anno  il nostro paese si sta trasformando. Anche se 4 italiani su 10 li considerano dei criminali.

Qual è la situazione «reale» dell’immigrazione in Italia? La grande stampa italiana – sempre puntuale nel denunciare reati e crimini commessi da persone di origine straniera – ne ha parlato poco e male quando, lo scorso ottobre, si è trattato di presentare i dati del Dossier Caritas-Migrantes sui migranti in Italia, giunto alla sedicesima edizione («Al di là dell’alternanza»). Eppure si tratta di numeri che interessano cittadini, educatori, operatori sociali, imprenditori e professionisti dell’informazione e della comunicazione. Infatti, senza cittadini immigrati la situazione economica e sociale italiana sarebbe destinata al disastro: fra 15 anni, i lavoratori italiani giovani (entro i 44 anni) saranno diminuiti di 4.500.000. E senza persone di origine straniera, nel 2050 l’Europa, vedrebbe diminuire di 7 milioni la popolazione nel suo complesso e di 52 milioni la parte di popolazione in età da lavoro. 
Con un ritmo di 300 mila nuovi ingressi regolari l’anno, rivela lo studio della Caritas, l’Italia è sempre più multietnica. Il nostro paese supera, in percentuale, gli ingressi di immigrati regolari negli Stati Uniti. Gli attuali 3.035.000 regolari (l’incidenza con la popolazione italiana è del 5,2%) – stimati a fine 2005 – sono destinati a diventare entro 10 anni il doppio, oltre 6 milioni (10%). È lo scenario che emerge dal Dossier 2006.

Quanti sono? – Nel nostro paese c’è un immigrato ogni 20 italiani. L’Italia, che a fine 2005 conta così tanti immigrati quanti più o meno sono gli emigrati nazionali all’estero (3.150.000) si colloca al terzo posto in Europa per numero di immigrati regolari, dopo la Germania (7.287.980) e la Spagna (3.371.394).
Ogni 10 stranieri, 5 sono europei, 2 africani, 2 asiatici e 1 americano. Dall’Europa, spiccano in primo luogo i cittadini albanesi e gli ucraini mentre dall’Africa, i cittadini marocchini.
Nel 2005 sono nati 52 mila bambini da genitori stranieri ed hanno inciso per il 9,4% sulle nuove nascite. Le donne straniere hanno una percentuale di divorzio superiore alle italiane: 2,5% contro l’1,7%. Il 50,1% dei migranti che vivono in Italia è uomo, il 49,9% è donna. Per il 70% (contro il 47,5% degli italiani) si concentrano nella fascia di età 15-44 anni.
La Lombardia conta la maggior presenza di persone di origine straniera: ospita quasi un quarto del numero complessivo di cittadini immigrati. Roma e Milano detengono, rispettivamente l’11,4% e il 10,9% della popolazione straniera. Al Nord si trova il 59,2% degli stranieri, al centro il 27% e nel meridione il 13,5%.
Un occupato ogni 10 è straniero. Ogni anno si inseriscono nel mondo del lavoro quasi 200 mila immigrati. Lo scorso anno sono stati 727.582 i nuovi assunti su complessivi 4.559.952. I settori maggiormente coinvolti: collaborazione familiare, servizi di pulizia, edilizia e agricoltura. Sono 130.969 i cittadini stranieri titolari d’azienda, con un aumento del 38%.

A quale religione appartengono? – Il 49,1% dei cittadini immigrati sono cristiani (circa un milione e mezzo), il 33,2% sono musulmani (circa un milione), il 4,4% è legato a religioni orientali. In 5 anni sono raddoppiati i minori di nazionalità straniera: sono 586 mila, pari ad 1/5 della popolazione straniera, un’incidenza superiore a quella degli italiani. Il 56% è nato in Italia.

Quanti delinquenti? – Quattro italiani su 10 pensano che i migranti siano criminali. Non è vero, dice il Dossier della Caritas. Dati del ministero dell’interno dicono che i denunciati per qualche reato coinvolgono gli immigrati solo nel 10% dei casi, la metà di quella degli italiani.
Otto cittadini immigrati su dieci dicono di aver migliorato la loro vita in Italia. Il 91% ha il cellulare, l’80% possiede il televisore, il 75% invia rimesse in patria, il 60% possiede un conto in banca, il 55% ha un’auto, il 22% un computer. Circa il 20% è proprietario della casa.
Nel 2005 l’efficacia degli allontanamenti dalle frontiere italiane è stata una delle «più basse degli ultimi anni». Le persone effettivamente rimpatriate sono state il 45,3% di quelle che hanno ottenuto il provvedimento di allontanamento, contro il 56,8% dell’anno precedente.

Maurizio Corte

Sfogliando s’impara

Dal quotidiano «Libero»:

«Dialogo a senso unico
Sui banchi di scuola si studia l’islam. Grazie alla Cattolica»

«Per promuovere il dialogo tra le culture, all’Università cattolica del Sacro Cuore si sono convinti che, nelle scuole italiane, non si debba più insegnare la lingua di Dante, ma l’arabo. Lo strano metodo pedagogico per facilitare l’integrazione degli exracomunitari è stato  ideato dal Laboratorio interculturale e promosso, oltre che dalla Cattolica, dall’Ufficio Scolastico Regionale e sostenuto finanziariamente con il contributo della Fondazione Cariplo. (…)
In Largo Gemelli, a due passi dalla Basilica di Sant’Ambrogio, in effetti, di sostanza ce n’è in abbondanza da suggerire di mutare il nome dell’istituzione in Ateneo islamico della Mezzaluna. In attesa che un mullah rimpiazzi il Magnifico Rettore».
Andrea Morigi
(Libero, martedì 21 novembre 2006, pag. 48)

Dal quotidiano «la Stampa»:

«Una coppia di tossici terrorizza una famiglia
I domestici romeni la liberano e bloccano i rapinatori»

«Ancora violenza. Stavolta in una brutale rapina consumatasi in una palazzina fra i prati di Pino Torinese. Autori una coppia di italiani che hanno colpito e immobilizzato una ragazzina di 15 anni, prima di essere bloccati dal generoso intervento dei custodi, una coppia di romeni. (…)
Carlotta s’è messa ad urlare e l’hanno sentita i custodi romeni, che vivono in un alloggio adiacente, Elena e Vasile Zaharia, 45 e 48 anni, entrambi originari di Bacau, sono subito intervenuti.  (…) Il malvivente ha fracassato alcune suppellettili e con la gamba di un tavolo ha colpito Vasile al collo e in faccia, poi ha sferrato un calcio alla moglie, Elena. La lotta è durata alcuni minuti: alla fine, la coppia romena è riuscita ad immobilizzare l’energumeno (…)».
Angelo Conti
(la Stampa, domenica 26 novembre 2006, pag. 65)

Maurizio Corte




Raccontare in Asia la storia di Gesù

Primo Congresso missionario asiatico

Il primo Congresso missionario asiatico, già suggerito dall’esortazione apostolica Ecclesia in Asia, è stato un evento importante per la chiesa del continente. «Raccontare la storia di Gesù in Asia: una celebrazione di vita e di fede» è stato il tema generale, suddiviso in temi specifici per  ognuno dei quattro giorni (19-22 ottobre): la storia di Gesù nei popoli, religioni, culture, vita della chiesa.
Erano presenti anche due missionari della Consolata: i padri Giorgio Marengo dalla Mongolia e Alvaro Pacheco dalla Corea del Sud.

Sì, ho partecipato al primo Congresso missionario dell’Asia, svoltosi dal 18 al 22 ottobre 2006 a Chiang Mai, una città nel nord della Thailandia, che è anche sede della diocesi.  Ero integrato nel gruppo della delegazione coreana. Ho ritrovato anche padre Giorgio Marengo, con i delegati della Mongolia.
Vorrei condividere con voi ciò che ho vissuto. Ho deciso di parlarne in forma di diario.

18 ottobre 2006
Sono arrivato nella città di Chiang Mai poco prima delle 6 di sera, insieme al gruppo dei delegati coreani in cui sono inserito. Altri arriveranno domani mattina. Purtroppo, all’appello manca l’unico vescovo coreano che doveva partecipare al Congresso: a pochi giorni dalla partenza ha cancellato la sua partecipazione. Ne rimango un po’ deluso: tale assenza è un segno evidente che lo zelo della chiesa sud-coreana verso la missione ad gentes è ancora debole. 
Per prima cosa mi metto alla ricerca del nostro padre Giorgio Marengo; ma in mezzo a tanta gente, non ci riesco. Sono stanco e affamato, per cui tramando a più tardi la ricerca.
Dopo la cena, il card. Crescenzio Sepe, vescovo di Napoli, designato dal papa Benedetto xvi come suo delegato, apre ufficialmente l’esposizione missionaria nella quale ogni paese è presentato con i propri elementi caratteristici.
Sono 1.047 i delegati al Congresso, inviati da 25 paesi dell’Asia, oltre a intellettuali chiamati a intervenire, ai giornalisti e osservatori di altri continenti, dal Libano al Canada, alle isole del Pacifico, passando per il Brasile e l’Italia, tra gli altri.
Finalmente nel padiglione della Mongolia incontro padre Giorgio e il gruppo di delegati della chiesa mongola. C’è anche tempo per fare le prime conoscenze tra i tanti partecipanti. Alla fine,  condivido la stanza con padre Jaime Palma, un prete messicano dei missionari di Guadalupe, che lavora in una parrocchia nella parte meridionale della Corea e approfitto dell’occasione per scambiarci le nostre esperienze  in terra coreana.

19 Ottobre
Il tema di questa giornata è: «La storia di Gesù nei popoli dell’Asia». Incominciamo i lavori con la celebrazione della messa, presieduta dal cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Dopo i soliti discorsi di benvenuto e presentazione delle delegazioni, mons. Luis Antonio Tagle, giovane vescovo della diocesi di Imus, nelle Filippine,  presenta un’eccellente serie di punti fermi in base ai quali raccontare la storia di Gesù. Chiaro, conciso e incisivo, ci offre alcune linee guida molto pratiche, che faranno del suo discorso uno dei più belli e significativi di tutto il Congresso. Egli sottolinea quanto sia «importante, nella cultura asiatica, il racconto per trasmettere la conoscenza e la fede cristiana, ed esorta i missionari a essere concreti e narrare ai fedeli l’esempio personale del proprio incontro con Gesù».
Nel pomeriggio ascoltiamo le testimonianze di varie persone sul tema del giorno. Questa «condivisione della fede» sono parte integrante del programma. Quindi veniamo divisi in gruppi di 10 persone, di vari paesi e differenti esperienze. Dobbiamo rispondere alla domanda: «Come ho incontrato Dio nella mia vita?».
Purtroppo, dovuto al programma intenso del Congresso, il tempo per tale condivisione rimane molto limitato. Avrei preferito più spazio per gli incontri interpersonali, scambi di idee e di esperienze, e meno per le presentazioni e relazioni tematiche, in cui si parla dell’Asia come se fosse una realtà uniforme. Una rappresentazione che non condivido affatto:  la missione svolta in Corea è molto diversa da quella in Thailandia e in altri paesi. Nei lavori in gruppo questa diversità emerge con molta chiarezza.
Arrivata la sera, ci godiamo un bello spettacolo, presentato da studenti giovanissimi di vari collegi cattolici, praticamente tutti non-cristiani. In una scenografia stupenda viene presentata la storia della chiesa cristiana in Thailandia dagli inizi ai nostri giorni. La presentazione viene goduta immensamente da tutti gli spettatori:  in essa sfila la bellezza e diversità della cultura thailandese, espressa soprattutto in una miriade di fogge e colori dei costumi delle diverse regioni ed etnie del paese.

20 Ottobre
Il tema del giorno è: «La storia di Gesù nelle religioni dell’Asia». Si parla naturalmente di dialogo interreligioso. Il tono generale dei vari interventi riflette quello di ieri: una visione di uniformità per tutta l’Asia, mentre in tanti paesi tale dialogo è ancora al palo di partenza o quasi. La Corea ne è un esempio concreto.
Le testimonianze provengono da persone passate dal buddismo e induismo alla fede cattolica. Ha parlato anche un musulmano del Bangladesh sulla sua positiva esperienza con i cattolici.
Nel pomeriggio riprendono i lavori di gruppo; dobbiamo rispondere alla domana: «Che cosa apprezzo nei seguaci delle altre religioni?».  Al termine, prima di cena, viene presentata una sintesi teologica sul tema del giorno, in cui viene ribadito quanto è stato detto nel mattino.
Dopo cena, concludiamo la giornata con un momento di preghiera: recita del rosario missionario e adorazione.
Finalmente andiamo a riposare, dopo una giornata caratterizzata da un orario stringatissimo e un programma molto impegnativo, che non ha lasciato tempo per riposare o scambiare qualche chiacchiera. E cerchiamo di addormentarci in fretta, perché anche domani sarà una levataccia, dura anche per me: si ricomincerà alle 6 del mattino con la celebrazione della messa.

21 Ottobre
Il tema della giornata è: «La storia di Gesù nelle culture dell’Asia». Il mattino segue lo schema dei giorni precedenti: relazioni tematiche e testimonianze. Gli argomenti sono vari e numerosi:  società dei consumi, mass media, migranti, gioventù, rapporti tra le religioni… La domanda proposta per i lavori in gruppo del pomeriggio è: «Quali pratiche o tradizioni nella mia cultura esprimono meglio il vangelo di Gesù?».
Dopo cena ci godiamo un altro dei momenti più significativi del Congresso: è tempo di socializzazione, con la presentazione di canti, balli e  proiezioni power-points da parte di alcune delegazioni presenti. La Mongolia strappa l’applauso più entusiasta e fragoroso: il nostro padre Giorgio si è cimentato nel suonare il violino mongolo, accompagnato dal flauto di un giovane della stessa nazione; perfino il vescovo di Ulaanbaatar, mons. Wenceslaus Padilla, si è esibito, cantando una canzone in lingua mongola. Un vero successo!
Ad accrescere l’interesse e il godimento delle varie rappresentazioni contribuisce pure lo sfoggio di vestimenti e costumi tradizionali indossati per l’occasione, espressioni della varietà e ricchezza culturale dei paesi da cui provengono i partecipanti al Congresso.
A proposito di canti e balli, un gruppo di indiani, specializzato in danze tradizionali, formato da cattolici e un ballerino hindu, durante i giorni del Congresso ha eseguito alcune rappresentazioni del vangelo e altri temi religiosi. Tale gruppo è stato creato da un prete con lo scopo di evangelizzare mediante la danza, la musica e il canto: una forma suggestiva di trasmissione e inculturazione della fede. L’originale iniziativa è stata citata a più riprese durante  gli interventi ufficiali del Congresso, per sottolineare come le varie forme di proclamazione del vangelo devono essere creative e adatte al contesto in cui i missionari sono chiamati ad operare.
Prima di andare a dormire, mi fermo per quasi due ore a parlare con un vescovo indiano: egli mi parlava con entusiasmo della sua esperienza missionaria nel suo paese; da parte mia gli racconto ciò che sto facendo in Corea. La prolungata condivisione delle nostre esperienze mi convince sempre più sulla necessità, in congressi come questo, di dare più spazio e tempo perché la gente abbia l’opportunità di incontrarsi, scambiare idee ed esperienze, che rimarranno nella memoria più delle teorie presentate nelle relazioni ufficiali.

22 Ottobre
È l’ultimo giorno del Congresso. È pure la domenica in cui si celebra la Giornata missionaria mondiale. Abbiamo ancora una relazione: questa volta sulla chiesa in Thailandia. Ascoltiamo la testimonianza di un cristiano locale, da poco convertito e appartenente a una minoranza etnica.
Seguono la lettura del documento finale e i vari ringraziamenti. Culmine della conclusione è la celebrazione dell’eucaristia, presieduta dal card. Sepe. Per esprimere la comunione con la chiesa della Thailandia in generale e con la diocesi di Chiang Mai che ci ha ospitati, vi prendono parte molti cattolici locali, appartenenti soprattutto ai vari gruppi tribali, dando così un colore tutto speciale alla celebrazione.
Nonostante ciò, rimango un po’ deluso: il livello liturgico di questa messa, come pure nelle celebrazioni dei giorni passati, mi sembra alquanto freddo: accentuato ritualismo, mancanza di musica viva, di gioia…  mancanza di «Asia». Mi sembra di essere… in piazza San Pietro, più che in Thailandia.
Tuttavia siamo tutti soddisfatti delle esperienze vissute in questo primo Congresso missionario in Asia. Proprio perché è il primo, c’è spazio per ulteriori miglioramenti. Il Congresso è stato e rimane un evento importante per la storia della chiesa in Asia: tanta gente ha potuto prendere maggiore coscienza dell’urgenza della missione in questo continente; soprattutto ha avuto un’occasione irrepetibile, per almeno altri sette anni, di conoscerci e incoraggiarci a vicenda. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco