Reportage da uno «stato canaglia»

Viaggio nella repubblica islamica (1a puntata)

Come si vive in Iran? Le donne sono oppresse? Teheran prepara armi nucleari per bombardare Israele e l’Europa? Tutto questo corrisponde a verità oppure attorno alla Repubblica islamica c’è soprattutto molta (interessata) propaganda? Angela Lano ha incontrato autorità
e gente comune. Questo è il suo reportage (fuori dai luoghi comuni).

Teheran, giugno 2007. Atterriamo in un enorme aeroporto, pulito e ordinato. Quasi un biglietto da visita della Repubblica islamica dell’Iran.
Fuori, il traffico è caotico: una miriade di auto, nuovissime e vecchie, lussuose e sgangherate, viaggiano a singhiozzo nella metropoli da 12 milioni di abitanti.
Ci colpisce subito un elemento del paesaggio: le donne sono avvolte nei chador neri, i lunghi mantelli che dal capo scendono fino ai piedi, avvolgendo tutto il corpo. È un dettaglio che impressiona, perché, all’apparenza, fornisce un aspetto «omologante» della presenza femminile nel paese.
Impareremo, nei giorni successivi, che è meglio non giudicare una civiltà dai metri o centimetri di stoffa che indossa o non indossa la popolazione: il 35% dei parlamentari iraniani è donna. Uno dei quattro vice-presidenti (c’è anche un sunnita) è donna. Il 60% degli studenti universitari (la percentuale più alta del mondo) è donna. Molte sono le signore in carriera: top manager, docenti, medici, ingegneri, giornaliste, ecc. E questo, nonostante il chador. I paragoni con l’Italia di vallettopoli e di velinopoli – dove la carriera la si fa solo se si è «sufficientemente scoperte» – sono immediati.
Qua e là, a dir il vero, incontreremo anche tante donne con un semplice foulard colorato che copre la testa e in abbigliamento elegantissimo o moderno.
La città ci appare frenetica, immensa nei suoi innumerevoli quartieri e giganteschi caseggiati. Nell’ora di auto, dall’aeroporto al residence nella collina elegante di Teheran dove alloggiamo, scorrono di fronte a noi paesaggi urbani molto diversi: da quelli più popolari alle aree ricche della borghesia medio-alta iraniana. I contrasti tra zone nuove e belle e quelle povere è ancora molto forte, acuito dal continuo flusso di persone che dalle province desertiche o montane si stabiliscono nella megalopoli persiana. Notevole è anche la presenza di immigrati giunti dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iraq.
Nelle strade, dovunque, giganteggiano le fotografie del defunto imam Khomeini, di cui, in questi giorni, si celebra il 18° anniversario della morte (3 giugno 1989).

La retorica di «Ahmy»:
è vero pericolo?

Entriamo nel compound della presidenza iraniana: è un quartiere vero e proprio, con molti edifici, chiuso da cancellate, guardiole, checkpoint. Lasciamo borse, zaini, macchine fotografiche e quant’altro, in un posto di polizia. Veniamo perquisiti: le donne entrano da un ingresso, gli uomini da un altro. Da una nostra tasca esce una bottiglia d’acqua: siamo invitati a bee un sorso, per provare che non contenga liquidi pericolosi (anche nei nostri aeroporti è vietato portarsi dietro bottigliette con liquidi). Le penne vengono smontate e rimontate, per verificare che non siano  piccoli ordigni.
Alla fine, riusciamo a salire al terzo piano e ad accedere a una sala congressi enorme e bella. È affollata di giornalisti, membri di associazioni, delegazioni inteazionali, politici.
Il presidente Mahmoud Ahmedinejad entra di lì a poco, tutti balzano in piedi e lo accolgono con l’inno nazionale. È in tenuta casual, informale. Saluta con sorrisi. Ha un’aria popolare, molto poco chic.
«La rivoluzione iraniana è stata una salvezza per il popolo iraniano – arringa subito il pubblico, apparentemente già ben disposto -, ma anche per il resto dell’umanità: un esempio di giustizia e liberazione. La Repubblica islamica dell’Iran appartiene a tutte le nazioni libere, non è solo del popolo iraniano. Noi lottiamo per la dignità e la liberazione dei paesi oppressi, contro il sionismo, contro il razzismo, il marxismo, l’apartheid e l’amministrazione criminale statunitense».
La sua è una retorica che mescola populismo, messianismo politico-religioso, guevarismo zapatista e altro ancora, a tratti ridondante, a tratti coinvolgente. Molti la amano, altri la odiano o la sopportano con fatica.
 «L’imam Khomeini – aggiunge Ahmedinejad – è stato un perfetto successore del profeta Muhammad: credeva che la fede in Dio fosse sufficiente per cambiare il mondo. Il suo messaggio è universale, senza confini e barriere linguistiche, culturali, religiose. Riteneva che tutte le forze dovessero unirsi per sconfiggere gli oppressi del mondo – dal nord al sudamerica, dalla Palestina ai popoli africani. Rispettava la dignità di tutti: riteneva che gli esseri umani non debbano essere umiliati, oppressi  dai poteri coloniali.
Credeva nel potere dei popoli: quando una nazione è risoluta, nessun potere può sconfiggerla. E così che accade all’Iran».
Ahmedinejad fa poi un riferimento alla Palestina, questione molto sentita in Iran: «Il regime sionista non vale nulla: anche se sostenuto dai potenti della terra, non potrà vincere se i palestinesi hanno fiducia in Dio. Il conto alla rovescia del regime sionista è iniziato. Ormai in tanti sono stufi di questa situazione di oppressione mondiale: in molti stanno cercando giustizia e purezza. Loro, i potenti, possono ferire, uccidere, ma il popolo lotta e va avanti come in Libano, in Palestina e in altri paesi. Dobbiamo credere in Dio e marciare avanti: la distruzione dei “tradizionali” poteri è molto vicina».
I delegati di Siria, Palestina, Libano, India, Pakistan, di alcuni stati africani, del Venezuela lo acclamano dedicando a lui, a Khomeini e all’Iran interventi entusiastici, da «liberatori degli oppressi». L’inviato indiano sottolinea che «la rivoluzione iraniana è stata pacifica e senza spargimento di sangue».
La Siria si definisce «orgogliosa di essere considerata alleata della Repubblica islamica d’Iran», mentre il rappresentante pakistano enfatizza «la necessità dell’unione dei “fratelli musulmani” sotto la bandiera dell’Iran per “lottare contro le occupazioni straniere”. Il governo iraniano deve guidare questa rivoluzione per gli sciiti e i sunniti insieme».
Caloroso l’abbraccio tra l’inviato del presidente venezuelano Hugo Chavez e Ahmedinejad: «La vittoria della rivoluzione islamica è un esempio per tutti i popoli oppressi. Il Venezuela crede che il popolo d’Iran avrà successo nella sua lotta contro l’oppressione statunitense».
Insomma, retorica arabo-islamica-terzomondista a parte, sembra che «Ahmy» faccia paura prevalentemente all’Occidente ricco e neo-colonialista.
Khomeini:
cominciò tutto con lui

La settimana del nostro viaggio cade durante le grandi celebrazioni per la morte di Ruhollah Khomeini (1). Gli organizzatori del nostro soggiorno iraniano ci portano al Mausoleo dell’imam, a qualche chilometro a sud della città.
Una folla immensa, oceanica riempie la moschea – un’enorme costruzione di ferro e cemento, semiaperta. Anche qui, il servizio di controllo è massiccio. Le donne sembrano un oceano nero che ondeggia seguendo il ritmo della preghiera.
Le parole dell’ayatollah Khamenei, dal palco, rimbalzano da un lato all’altro delle colonne in cemento armato e legno, mentre da un maxischermo troneggia la sua figura. I suoi sono proclami religiosi e nazionalisti. Sollecita l’unità della popolazione contro il comune “nemico”. Forte è il richiamo identitario. I cittadini-fedeli gli rispondono di tanto in tanto con un’invocazione di lode a Dio, al profeta Muhammad e ad Ali (cugino e genero).
Una giovane donna del servizio d’ordine si avvicina per chiederci se siamo comode e se va tutto bene. Se girasse per le nostre piazze, la scambieremmo per una suora: chador nero sovrapposto a copricapo bianco che le incoicia il viso, bellissimo e dall’espressione molto decisa. Anche le mani sono nascoste da guanti neri.
Al centro della moschea-open space c’è un parallelepipedo verde, di vetro, con all’interno la tomba di Khomeini, oggetto di pellegrinaggio e di venerazione.
Nel pomeriggio, visitiamo la cittadella dell’Imam: un quartiere popolare e collinare, che ospita la casa dei suoi ultimi anni di vita, collegata alla moschea con un ponticello. Poi entriamo nell’ospedale per le malattie cardiache (dove Khomeini venne ricoverato e dove spirò) e un museo.
Gli amici iraniani tengono a farci notare che il loro leader, nonostante l’importanza politica che rivestiva e il ruolo, decise di vivere in due modeste stanze, in mezzo al popolo. Nel suo salotto-ingresso riceveva capi di Stato e delegazioni straniere. Casa e moschea sono ben lontane dal lusso spettacolare che contraddistingue i palazzi degli shah Pahlavi, insediati sull’antico trono di Persia da Gran Bretagna prima e Stati Uniti dopo.
Il museo fotografico, che ripercorre la vita di Khomeini, e l’annessa libreria, dove regalano testi sull’islam, trattati religiosi e di politica internazionale da lui scritti, costituiscono un centro di propaganda per la popolazione, soprattutto giovanile, e per eventuali turisti.
Lasciamo il quartiere e dopo poco ci troviamo ad attraversare la via più lunga e elegante di Teheran, costeggiata da alberi, palazzi lussuosi con banche, negozi, residenze, ristoranti alla moda, giorniellerie, boutique.
Una delle tante e interessanti contraddizioni di questa metropoli mediorientale.

Una «fatwa»
contro le atomiche

Siamo in un lussuoso hotel, eredità dei tempi dello shah, seduti in un bel salotto orientale, sfarzosamente arredato con velluti, lampadari dorati, tavolini pregiati e altre raffinatezze. Stiamo aspettando di cenare con le delegazioni straniere presenti in questa settimana di celebrazioni.
Hassan, un ingegnere che ha studiato in Italia, ci «disvela» l’enigma del nucleare iraniano.
«Non ci interessa la bomba atomica. Vogliamo usare il nucleare per scopi civili. Ne abbiamo ben il diritto. I risultati delle nostre ricerche vengono sfruttati nel campo della medicina e in altri settori scientifici. Si curano molte malattie con la medicina nucleare, si eseguono diagnosi, si crea energia elettrica. Inoltre, per alterare le caratteristiche di molti metalli, c’è bisogno di arricchimento nucleare.
Diciamolo: questa non è una lotta per la “sicurezza mondiale”, ma per il predominio economico. Se noi non fossimo in contrasto “ideologico” con gli Stati Uniti, nessuno ci direbbe nulla. I giornali occidentali non continuerebbero a pubblicare quotidiana disinformazione e propaganda sul nostro conto.
Israele, India, Pakistan, a differenza dell’Iran, possiedono bombe nucleari e non hanno mai firmato il Tnp, il “Trattato di non proliferazione nucleare”.
Fino a qualche tempo fa, avevamo messo in moto circa 3 mila centrifughe nucleari. Arriveremo a 60 mila. Avremo la possibilità di costruire bombe, tuttavia, ciò che voi non sapete è che è stata emanata una fatwa, un consulto giuridico islamico, che vieta di produrre atomiche. Khomeini ce lo ha sempre ripetuto».

L’Iran nucleare
ha firmato il Trattato

In un dossier divulgativo, Peaceful Application of Nuclear Science and Technology in Islamic Republic of Iran, che mi consegnerà nei giorni successivi il direttore di una testata giornalistica iraniana, si legge: «A causa del forte impatto della scienza e della tecnologia nucleare sugli indicatori scientifici, economici e sociali, e per lo sviluppo in generale, la Repubblica islamica dell’Iran è determinata ad aprirsi la strada attraverso il tortuoso sentirnero dell’uso pacifico di questa tecnologia».
Nel dossier si legge: «Al momento, la Repubblica islamica dell’Iran ha focalizzato il programma nucleare principalmente su queste basi: 1) reattori nucleari per generare elettricità. (…) Da un lato, lo sviluppo degli standard di vita e il miglioramento degli indicatori dell’economia hanno creato un incremento della domanda di energia nei settori domestici e industriali. Dall’altro, l’economia nazionale è dipendente dalle rimesse del petrolio (…) la Repubblica islamica dell’Iran non può contare, per la propria energia, soltanto sulle foiture dai combustibili fossili (…), e questo per i seguenti motivi: le risorse sono limitate; inquinano; fanno lievitare il prezzo delle produzioni industriali».
Le altre basi sono: 2) reattori nucleari per la ricerca medico-scientifica-diagnostica; 3) combustibile nucleare; 4) sviluppo nucleare nel campo della medicina, dell’industria e dell’agricoltura.
Nella relazione si evidenzia, inoltre, che l’Iran «è tra i primi ad aver firmato lo statuto dell’Aiea (l’Agenzia internazionale delle Nazioni Unite per l’energia atomica), di cui è membro. Come tale, ne condivide gli obiettivi e i principi. Inoltre, l’Iran è tra i primi Paesi ad aver approvato, nel 1970, il Trattato di Non proliferazione Nucleare (Tnp).
Agli inizi del XXI secolo, a causa della propaganda sbagliata e falsa di alcuni gruppi di opposizione, le attività nucleari, per scopi pacifici, dell’Iran nel campo dell’arricchimento e del ciclo del combustibile nucleare, sono state mostrate come segrete e contrarie agli standard e ai principi inteazionali. Tuttavia, nonostante quanto dichiara la propaganda, esse sono sottoposte alla supervisione dell’Aiea e del Tnp».
L’Iran ha sempre ribadito la propria disponibilità a cornoperare con l’Agenzia e ad aprire ai controlli i propri siti. Mohammed el-Baradei, direttore generale dell’Aiea, a gennaio del 2006 dichiarò: «Nessuna prova che l’Iran prepari l’atomica».
Ciononostante, la propaganda politico-mediatica degli Usa e dei giornali occidentali – tra questi, dei quotidiani nazionali italiani – incalza.
Questa primavera, un’armata americana è stata radunata davanti alle coste iraniane. Il tamburo della prossima folle guerra di rapina sta risuonando minaccioso.
(fine 1.a puntata – continua)

Di Angela Lano


(1) Ayatollah Ruhollah Mosavi Kho­meini: nato nel maggio del 1902 e morto il 3 giugno del 1989. È stato leader politico e religioso dell’Iran dal 1979 al 1989, dopo la rivoluzione che rovesciò il regime dello shah Reza Pahlavi. Suo successore è l’Ayatollah Ali Khamenei.

Angela Lano




Terre di passaggio

Coo d’Africa: prove di federalismo etnico

Nazioni e popoli: un paese suddiviso in 9 stati regionali. Città fantasma, autodeterminazione etnica, educazione nomade e miscuglio culturale.
Reportage dall’Afar, zona depressa, ma che collega Addis Abeba al mare.

La cronaca internazionale si è ricordata dell’esistenza dell’Afar, regione del nord-est dell’Etiopia al confine con Eritrea e Gibuti, soltanto qualche mese fa, in occasione di un tentativo un po’ maldestro di inserirsi nel giro dell’economia politica dei rapimenti inteazionali.
Il 2 marzo scompariva un gruppo di turisti europei di cui facevano parte dipendenti e familiari dell’ambasciata inglese di Addis Abeba. Con il loro rilascio, dopo dieci giorni di prigionia, si spegnevano i riflettori, senza tuttavia che sulla vicenda venisse mai fatta piena luce. Poco importava che nelle mani dei rapitori fossero rimasti otto etiopici, liberati soltanto un mese dopo, nell’indifferenza generale.
Gli autori del colpo erano semplici banditi oppure militanti di gruppi indipendentisti come l’Afar Revolutionary Democratic Unity Front? Il fatto poi che il rilascio sia avvenuto in Eritrea ha aperto numerose ipotesi sul coinvolgimento del governo di Asmara, tradizionale avversario dell’Etiopia. I due paesi hanno combattuto una guerra fratricida tra il 1998 e il 2000, ma ad oggi non sono riusciti a mettersi d’accordo sul confine e a riprendere normali relazioni diplomatiche. Anche perché la vicinanza di un potenziale nemico non dispiace alle élite dei due paesi, soprattutto quando la minaccia estea facilita la repressione del dissenso interno, come dimostrano le centinaia di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri dei due paesi.

landa inospitale

«Chi sia stato non lo so – afferma Karim, guida turistica – ma di certo non ha reso un bel servizio a  quel poco di turismo che stiamo cercando di sviluppare nella regione».  Turismo che paradossalmente punta proprio sul fascino dell’estrema inospitalità dell’area: il vulcano Ertale, tuttora in funzione a testimonianza dell’intensa attività geologica (che tra milioni di anni porterà alla separazione del Coo d’Africa dal resto del continente), la depressione della Dancalia con le sue miniere di sale, uno dei luoghi più caldi della terra, dove le temperature possono arrivare a cinquanta gradi all’ombra. «I turisti che arrivano fin qui amano l’avventura e non ricercano troppe comodità» precisa Karim. Sarebbe comunque difficile trovarle, in una regione dove la popolazione è organizzata in clan seminomadi che vivono principalmente di pastorizia o dell’estrazione e commercio del sale.
L’unica striscia verde nel giallo del deserto è rappresentata dal fiume Awash, che, soffocato dal caldo, esaurisce la sua corsa nel lago Abhe Bad, nei pressi dell’antico capoluogo, Asaita.

Decentramento «etnico»

Da qualche anno è infatti in costruzione la nuova capitale regionale, Semera. Ufficialmente per ragioni logistiche, visto che Asaita era troppo lontana dalla strada che collega Addis Abeba al porto di Gibuti, ma soprattutto per segnare simbolicamente il cambio di clan al potere ed avviare in pompa magna la stagione del decentramento amministrativo.
L’Afar infatti è uno dei nove «stati regionali» su base etnica in cui l’Etiopia è stata suddivisa con la Costituzione del 1995. Nessun altro paese africano si era spinto a istituzionalizzare le divisioni etniche in maniera così radicale, riconoscendo il diritto all’autodeterminazione di «nazioni, nazionalità e popoli» fino a prevedere anche il loro diritto alla secessione.
«Da nessuna parte però viene specificata la differenza tra nazione, nazionalità e popolo e così resta una gran confusione su chi abbia diritto a che cosa. Inoltre la divisione amministrativa su base etnica rischia di esasperare  differenze e rivalità tra vari gruppi e di far esplodere il paese. «Aspettiamo di vedere quali saranno i risultati del censimento nazionale avviato nel mese di maggio» sostiene Bruk, ex funzionario regionale ora passato alla più remunerativa posizione di consulente delle Nazioni Unite. «E l’efficacia del decentramento amministrativo dipende in realtà soprattutto dalle capacità finanziarie e dalle risorse umane disponibili nelle varie regioni».
In Afar questo processo è iniziato tra mille difficoltà logistiche e finanziarie soltanto nel 2004, come nelle altre cosiddette «regioni emergenti». Difficile però emergere quando si parte da un territorio a 100 metri al di sotto del livello del mare e da un tasso di scolarizzazione che non raggiunge il 22%, appena un quarto della media nazionale.

educazione seminomade

«Lo stile di vita delle popolazioni seminomadi mal si adatta al sistema della scuola tradizionale» spiega Fikre Referra, direttore della scuola elementare di Dubti, mostrandoci le aule in muratura costruite una decina di anni fa con fondi della Banca Mondiale, ma da allora rimaste quasi vuote, come appaiono oggi. «E l’offerta di educazione alternativa, come le scuole mobili, resta limitata, visto che a garantirla ci sono soltanto quelle poche Ong locali e inteazionali che operano nella regione.  C’è poi il problema degli insegnanti: difficile convincere quelli qualificati a venire a insegnare fin qui. Resistono un anno o due, ma appena possono si trasferiscono in città o in altre regioni». Uno dei diritti fondamentali garantiti dal federalismo etnico dovrebbe essere l’insegnamento in lingua locale nella scuola primaria, ma qui si è preferito adottare l’amarico, la lingua nazionale. «L’Afar è una regione povera, con circa un milione e mezzo di abitanti: quanta strada può fare un giovane che parla solo la lingua locale? E poi abbiamo dovuto ovviare alla carenza di insegnanti capaci di esprimersi in lingua afar, che resta giovane e poco codificata. Stiamo completando solo ora, grazie a fondi della Cooperazione Italiana, la stampa del primo dizionario afar-amarico-inglese» spiega Habib Yayo, direttore dell’ufficio regionale per l’educazione. Ci riceve in una stanza al terzo piano di un palazzo non ancora completato -mancano porte, ringhiere e rifiniture – ma già in funzione da due anni.

città artificiale

Se mai sarà finito, sabbia, polvere e mancanza di manutenzione lo avranno fatto nascere già vecchio e decadente. Come la maggior parte dei palazzi di Semera, pomposamente presentata come città modello dell’autodeterminazione regionale. Peccato che il modello seguito nella pratica sia stato quello della cattedrale nel deserto circondata dai simboli retorici del potere: stadio, aeroporto e museo della cultura afar.  Tutti ancora in costruzione e circondati dal deserto: uno skyline da città fantasma in cui svettano i serbatorni che tentano di risolvere la mancanza d’acqua.
Per il momento le uniche cose che sembrano funzionare davvero sono i condizionatori e le parabole satellitari degli appartamenti destinati ai funzionari degli uffici regionali, attorno a cui ruota quel poco di vita che esiste a Semera.
La maggior parte di funzionari ed esperti arriva da fuori, con il soprannome di highlanders, in quanto scendono dalle regioni dell’altopiano forti dei loro diplomi a cercare lavoro nella nuova amministrazione regionale. Ma in omaggio al principio dell’autodeterminazione etnica, i direttori degli uffici, di nomina politica, devono appartenere all’etnia afar. E siccome tra questi sono in pochi quelli in possesso di un titolo di studio, non di rado dei giovani neo-diplomati si trovano a dirigere colleghi più anziani ed esperti che arrivano da altre regioni.
Molti di quelli che lavorano a Semera, e soprattutto coloro a cui non viene concesso di abitare negli appartamenti riservati ai funzionari assegnati dalle autorità politiche, scelgono di vivere nella vicina cittadina di Logya, dove si svolge la vera vita. Punto di sosta per i funzionari delle organizzazioni inteazionali e delle Ong in visita a Semera, ma soprattutto dei camionisti che percorrono la strada che  collega Addis Abeba al porto di Gibuti, da cui transita tutto il commercio con l’estero dell’Etiopia.

miscuglio culturale

Una rotta che spiega l’interesse strategico da parte del governo di Addis per questa regione altrimenti marginale. Il transito dei commerci e la vicinanza degli uffici pubblici hanno contribuito a ricreare anche in questo angolo di Afar la mescolanza di etnie e popolazioni tipica di molte altre regioni dell’Etiopia. Le principali attività commerciali sono infatti gestite da famiglie costrette ad emigrare dal vicino Tigray in cerca di fortuna o per sfuggire alla guerra.
È il caso di Desta, scappato dalla città di Zalambessa, al confine con l’Eritrea, rasa al suolo durante il conflitto del 1998-2000. Oggi gestisce il Nazaret Hotel, che gode della fama di miglior albergo della città, come testimonia la lunga fila di letti puliti ed equipaggiati di zanzariere che ogni sera vengono preparati nel cortile, per sconfiggere il caldo approfittando della brezza nottua. «Stiamo espandendo l’albergo – racconta – per accogliere tutti i lavoratori che arriveranno con l’apertura dei cantieri per la costruzione di una grossa diga sul fiume Awash che servirà alla coltura della canna da zucchero».
Il segno della presenza sempre più numerosa degli highlanders è sicuramente la costruzione di una grossa chiesa ortodossa a Logya, in una regione dove il 90% della popolazione è musulmana. «In fondo questa mescolanza in Etiopia è la norma» sottolinea Shimeles, giovane medico anche lui di passaggio al Nazaret Hotel. La sua maglietta recita «Etiopia: una nazione, molti popoli e linguaggi» e la sua vita sembra confermarlo: nato ad Addis, ha studiato a Jimma, nel sud-ovest del paese e ora lavora in Afar per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tra le altre cose è impegnato a fronteggiare un’epidemia di «acute water diahorrea» che tradotto sarebbe «colera», ma per ragioni politiche e diplomatiche la parola non si può usare, visto che il governo etiopico continua a rifiutarsi di riconoscere ufficialmente la presenza di questa epidemia.
Mentre chiacchieriamo l’unico canale televisivo nazionale manda in onda immagini di repertorio della Conferenza nazionale che nel 1995, al termine della guerra civile per rovesciare la dittatura di Menghistu, aveva prodotto l’attuale Costituzione. «Continuano a mandare in onda questa roba per fare il lavaggio del cervello alla gente e distogliere la loro attenzione dai problemi veri, come la fame o l’Aids. Parlano di federalismo e diritto all’autodeterminazione, ma io non so di quale nazione, nazionalità o popolo faccio parte. Sono semplicemente etiopico! Ma intanto violano apertamente i diritti dell’opposizione, i cui leader sono ancora in galera».
In prigione dal novembre 2005, in seguito alle proteste per i brogli elettorali che hanno permesso al governo del primo ministro Meles Zenawi di restare al potere, ci sono i principali leader dell’opposizione e con loro una ventina di giornalisti. Ad aprile sono stati scagionati dalle accuse di alto tradimento e tentato genocidio. Ma la maggior parte di loro resta in carcere e sarà comunque processata per tentativo di insurrezione armata e crimini contro la Costituzione, reati per cui sono previsti anche l’ergastolo o la pena capitale.
Pratiche di un sistema federale che rischia di fallire non tanto perché troppo etnico, quanto piuttosto perché troppo poco democratico.

Di Emanuele Fantini

Emanuele Fantini




«Piccola casa», grande amore

Ritoo alla missione della Piccola Casa, sulle orme delle pioniere

Nel 1972 la Piccola Casa è ritornata in Kenya, nella missione di Tuuru, al fine di dare una continuità
ed un valore sempre attuale alla testimonianza di tante suore, che cinquant’anni prima avevano dato la loro vita per dissodare il terreno di una cultura ancora totalmente ignara del Vangelo.

A ll’inizio del xx secolo la Piccola Casa fu contattata dal beato Giuseppe Allamano, che si trovò nella necessità di avere suore da mandare nelle neonate missioni della Consolata, quando ancora egli non aveva alcun progetto per la fondazione di una congregazione femminile. La richiesta fu accolta e per un ventennio (1903-1925) le suore Vincenzine del Cottolengo lavorarono in Kenya al fianco dei primi padri e fratelli della Consolata.
dissodarono il campo
Mons. Perlo desiderava prima di tutto avere delle «buone massaie», che fossero in grado di occuparsi del corretto andamento delle missioni. Progressivamente però esse furono investite di ruoli di primo piano nella evangelizzazione come la visita ai villaggi, l’assistenza agli ammalati e ai morenti, la cura pastorale dei piccoli per mezzo di asili infantili e il catecumenato delle ragazze.
Le Vincenzine si dedicarono anche ai bambini abbandonati, curandoli e allevandoli. Da tale attività nacquero i primi orfanotrofi.
Durante la Prima guerra mondiale vediamo le suore cottolenghine sparse in diverse parti dell’Africa Orientale per prestare la loro opera infermieristica e caritativa in vari ospedali da campo organizzati per lenire le sofferenze della popolazione indigena, coinvolta nelle ostilità senza peraltro conoscee il motivo.
Non mancarono le difficoltà, dovute alla lingua e al fatto che le suore erano preparate per il servizio del povero e dell’infermo, mentre fin dall’inizio furono impiegate per attività di catechesi diretta, per la quale non erano ancora pronte.
La difficoltà di comunicazione con la casa madre fece sorgere nella Piccola Casa un certo timore che le suore potessero in qualche modo perdere l’ispirazione carismatica originale, diventando poi di fatto una congregazione religiosa separata.
Un altro elemento che per certo creò notevoli difficoltà fu lo stile di vita imposto da mons. Perlo alle suore, ai padri e ai fratelli, fatto di privazioni eccessive e difficilmente sopportabili. Egli era un uomo radicale, esigentissimo con se stesso e anche un po’ troppo duro con gli altri che non erano fatti con il suo stesso stampo e rischiavano di ammalarsi conducendo un’esistenza modellata sulla sua.
Nel 1910 l’Allamano fondò le suore missionarie della Consolata che, finita la guerra, sostituirono gradualmente le suore Vincenzine. Queste lasciarono alle nuove venute i frutti del loro apostolato: case avviate, chiese ricche di ricami e paramenti e soprattutto delle comunità cristiane già iniziate, anche se ancora in tenera età e quindi bisognose di cure per crescere sane e robuste.
Le Vincenzine hanno dissodato il terreno. Non hanno potuto vedere molte conversioni e battesimi, ma i successi riportati nei decenni seguenti affondano le radici nel loro sacrificio di consacrate. Esse hanno «seminato nel pianto» lasciando poi ad altri la gioia di raccogliere «i loro covoni».
eredità ripresa
Sotto la spinta del rinnovamento impressa dal Concilio Vaticano II la Piccola Casa è ritornata in terra d’Africa. Il Cottolengo riprese coscienza che il seme sparso da tante sorelle in missione, era ormai pronto a germinare e a fare frutto: quando si trattò di decidere in quale parte del mondo iniziare, fu chiaro per i superiori della Piccola Casa che la nostra avventura missionaria avrebbe dovuto ricominciare là dove, per motivi storici, era stata interrotta. Mancava soltanto l’occasione per partire, o un segno particolare della divina Provvidenza, che aiutasse a capire in che modo il Cottolengo potesse reinserirsi nella chiesa del Kenya.
Nell’Africa equatoriale, e in particolare in Kenya, la poliomielite era, ed è tuttora, una fonte di grandi problematiche sociali, in quanto normalmente non uccide le persone affette, ma le rende gravemente handicappate, impedendo loro sia una vita autonoma, sia la possibilità di lavorare per provvedere alla famiglia.
Nel 1963, padre Franco Soldati, missionario della Consolata, cominciò a raccogliere i piccoli poliomielitici della zona di Tuuru, nel distretto di Meru. L’opera prosperò notevolmente e la struttura dovette essere ampliata, fino ad una capienza di 250 posti letto: assieme ai poliomielitici venivano accolti anche portatori di handicap mentale e affetti da paralisi spastiche.
Ingenti erano le spese di mantenimento. A questo si aggiunse il problema dell’approvvigionamento idrico: l’acqua veniva raccolta in un vicino corso d’acqua e trasportata alla missione con taniche caricate sulla Land Rover. Tale problema trovò soluzione a partire dal 1971, ad opera di fratel Giuseppe Argese, che riuscì a costruire un gigantesco acquedotto, ancora oggi considerato una meraviglia dell’ingegno umano.
L’opera diventava sempre più difficile da gestire per cui padre Soldati chiese la collaborazione della Piccola Casa. Padre Luigi Borsarelli, ai tempi padre Generale del Cottolengo, e madre Bianca Crivelli si dimostrarono molto interessati alla proposta e, dopo aver visitato la missione, conclusero che «quello era pane per i loro denti».
Nella lettera circolare che madre Bianca inviò a tutte le suore si legge: «Dopo esserci consigliate, aver pregato e fatto pregare, abbiamo optato per il nostro ritorno nelle terre già santificate dal lavoro, dalle fatiche e dagli eroismi delle nostre sorelle. Non potremmo fare a meno di ritornare là, perché la compianta madre Scolastica, chiudendo le memorie di suor Maria Carola, la pregava di intercedere affinché “quella fiaccola accesa con sacrifici eroici delle nostre sorelle non si spenga prima che altre sorelle giungano a riprendere il solco da lei lasciato interrotto”… Desideriamo tornare là dove il nostro santo Cottolengo è ancora conosciuto e amato, dove sono ancora di casa le sembianze delle nostre care sorelle».
Le prime cinque suore del Cottolengo giunsero a Tuuru l’11 marzo 1972. Tutte erano infermiere professionali, ad eccezione di una specializzata in fisioterapia. L’idea era quella di trasformare Tuuru in un vero e proprio centro di riabilitazione e di recupero per i poliomielitici, avvalendosi anche della collaborazione del prof. Operti, che si era nel frattempo reso disponibile a una preziosa opera di volontariato come chirurgo; la riabilitazione sarebbe stata affidata alle suore cottolenghine.
missione cottolenghina
Insieme al secondo gruppo di suore, partirono anche due fratelli cottolenghini che si inserirono gradualmente nell’organico lavoro della missione di Tuuru. Fratel Lodovico iniziò il proprio servizio al dispensario, dove ogni giorno affluivano circa 200 persone, affette da vari tipi di malattie, e collaborava con il prof. Operti per gli interventi chirurgici ai bambini polio ricoverati nella missione.
Fratel Umberto ben presto imparò l’arte di confezionare scarpe ortopediche e calipers per i piccoli handicappati di Tuuru. In seguito altri fratelli si unirono al nucleo originario dedicandosi chi al lavoro nella calzoleria e nell’officina ortopedica e chi alla formazione dei giovani aspiranti alla vita religiosa dei fratelli.
Giunsero quindi i primi sacerdoti cottolenghini che si dedicarono alla cura pastorale della parrocchia di Tuuru. Nel 1973, durante una visita canonica dei tre superiori della Piccola Casa si conclusero gli accordi con padre Soldati e con i superiori dei missionari della Consolata, per un passaggio definitivo del Centro e della parrocchia di Tuuru alla Piccola Casa.  Sorsero poi anche le vocazioni locali: il primo sacerdote keniota fu don Filippo Ntonja, che aprì la strada a un nutrito gruppo di giovani che ora formano le nuove leve della società dei sacerdoti cottolenghini in Kenya.
Con la gestione del Centro di Tuuru da parte della Piccola Casa, venne dato un nuovo impulso all’edilizia con la costruzione di un reparto per i «buoni figli», una nuova casa per il ricovero delle bambine, la palestra, l’officina ortopedica, la calzoleria e il nuovo dispensario.
Il Centro sempre più si veniva qualificando come una struttura per la terapia chirurgica e riabilitativa dei bambini affetti da poliomielite. Il trattamento chirurgico veniva eseguito dal prof. Operti, che ogni anno giungeva in Kenya nel mese di febbraio, con l’incarico di operare tutti i bambini, che erano stati prescelti dalle suore nel corso dell’anno.
La parte di recupero funzionale era quindi lasciata alle sorelle fisioterapiste, che per molti mesi cercavano di recuperare motilità agli arti malformati, tramite una paziente e continua attività di rieducazione motoria. Tale attività è continuata fino al 1999, quando si è deciso di riconvertire l’attività della missione di Tuuru ai bambini spastici, cerebrolesi gravi. Tale scelta è nata dalla considerazione che dopo molti anni di campagne di vaccinazione antipolio, il numero dei bimbi affetti dalla malattia era radicalmente diminuito.
Da sempre Tuuru è stato anche un centro di accoglienza per i giovani «buoni figli», e ancora oggi accoglie un discreto numero di handicappati mentali, per lo più di sesso femminile. Tuuru è anche l’unica parrocchia cottolenghina in Kenya: è una parrocchia molto grande ed esigente, con un vasto numero di chiesette succursali, che vengono visitate regolarmente dai sacerdoti e dai catechisti. La missione, inoltre, ha costruito e gestisce una grande scuola elementare per i poveri, dove bambini bisognosi vengono accolti e seguiti nella loro educazione primaria.
nuova missione a chaaria
Sin dal 1983 si cominciò a sentire la necessità di una casa di formazione per i fratelli, che fosse più confacente alle necessità della loro crescita spirituale. Il vescovo di Meru offrì ai fratelli un terreno nella erigenda parrocchia di Chaaria, un piccolo mercato situato a circa 20 km da Meru.
La zona era semiarida e popolata da un esiguo numero di famiglie, per lo più dedite ad attività agricole per l’esclusivo sostentamento familiare. A Chaaria già esisteva una chiesetta, che però era succursale di una parrocchia alquanto lontana. Esistevano anche i locali di un piccolo dispensario costruito con le offerte della gente: dispensario che comunque non era mai stato attivato.
La costruzione del Cottolengo Centre di Chaaria proseguì velocemente e, nel giugno del 1985, il primo gruppo di candidati fratelli venne accolto nella nuova casa di formazione. In luglio vennero accolti i primi sette «buoni figli», tutti provenienti da Tuuru. Si trattava di giovanotti ormai adulti e diventati troppo pesanti per l’assistenza delle sole suore.
Il 19 gennaio 2001 a Chaaria sono giunte le suore cottolenghine: al momento sono solo due, ma i progetti della Piccola Casa prevedono l’ampliamento di questa comunità, al fine di dare un necessario taglio femminile al nostro servizio. Al momento suor Lucy si occupa di terapia occupazionale e della scuola speciale per gli handicappati. Inoltre si dedica ad attività di counselling per i pazienti affetti da HIV, e a programmi pastorali in parrocchia.
a servizio dei «buoni figli»
Fin dall’inizio fu attivato il servizio sanitario nel dispensario: il servizio copriva sei giorni alla settimana e riusciva ad assistere fino a 200 persone al giorno. Insieme alla terapia per varie malattie tropicali, si eseguiva prevenzione sia attraverso la vaccinazione dei bambini, sia attraverso le visite periodiche alle donne gravide.
Dal 1993 venne iniziata l’attività del mobile clinic, attraverso la quale si tentò di aiutare i pazienti provenienti da località molto remote. In giorni fissi il personale del dispensario usciva dal Centro, per raggiungere villaggi relativamente lontani, dove si organizzavano giornate di terapia e prevenzione, normalmente all’interno di alcune chiesette, che risultavano particolarmente adatte allo scopo.
Negli ultimi anni il dispensario è diventato un ospedale con 140 posti letto. La trasformazione si deve all’arrivo, nel 1997, di fratel Beppe Gaido, medico, la cui presenza consente al dispensario di fornire prestazioni di più ampia portata e attira un numero sempre maggiore di utenti con le patologie più varie, anche con carattere di urgenza o gravi; basti rilevare che nei primi sei mesi del 2003 il numero dei pazienti visitati gioalmente è giunto fino a 350 unità.
L’aumento dei pazienti è dovuto anche al fatto che essi sanno di venire curati adeguatamente, di poter trovare le medicine, un consiglio competente e un aiuto umano.
È da considerare poi che il servizio clinico dell’ospedale copre 24 ore su 24 anche le necessità sanitarie dei «buoni figli», con i quali si fa prevenzione, diagnosi di laboratorio e cure di vario genere.  Inoltre, l’ospedaletto si prende cura di un certo numero di orfani, dalla nascita all’età di circa 6 mesi: tali orfani sono per lo più figli di donne decedute al momento del parto, tanto nel nostro ospedale, quanto in altri ospedali vicini.
Due volte al mese usciamo per il mobile clinic, e cerchiamo di portare le nostre prestazioni sanitarie più vicino alle persone che più ne hanno bisogno. Dal 1990 è presente un organizzato servizio dentistico supportato dal contributo di dentisti che vengono a Chaaria durante il mese di agosto. Dobbiamo veramente tanto ai volontari che hanno gradualmente elevato il livello delle prestazioni tecniche in ospedale: a loro dobbiamo l’inizio delle attività di ecografia diagnostica e l’attivazione dell’attività chirurgica.
Il Centro è attrezzato per 50 posti letto, al momento tutti occupati. Gli ospiti sono accuditi anche da un buon gruppo di personale dipendente, che ogni giorno segue le loro necessità personali. Oltre al quotidiano servizio domestico e alberghiero, esiste un’attività di apprendimento scolastico. Non sono mancati momenti di svago attraverso il gioco o le uscite dal Centro. Nel 2006 siamo riusciti a portare i «buoni figli» al Parco Nazionale per almeno due volte.
Il Centro è meta per visite guidate da parte di gruppi scolastici, parrocchiali ecc.
Quasi tutti gli ospiti hanno bisogno di interventi fisioterapici; esiste dunque una palestra totalmente dedita ad attività di riabilitazione per i «buoni figli». Anche nel Centro operano molti volontari che contribuiscono all’animazione dei ragazzi e alla normale gestione dei servizi.

C onoscere la storia è sempre importante, perché ci aiuta a capire il cammino percorso prima di noi, gli sforzi e i sacrifici che hanno contribuito a portare a compimento le opere che oggi vediamo e che spesso diamo per scontate.
È sempre utile per noi un ritorno alle origini, perché ci aiuta a collocarci meglio nello scorrere di una storia di cui effettivamente anche noi siamo un tassello e che sicuramente continuerà dopo di noi anche grazie al nostro contributo. 

di Beppe Gaido

Beppe Gaido




Piccoli uomini, grandi inquietudini

Pigmei: la difficile via dell’integrazione

I pigmei sono stati tenuti per secoli in stato di emarginazione e servaggio dalle popolazioni bantu. Negli ultimi decenni è cominciato il loro inserimento nella società congolese, grazie anche a organizzazioni non governative (ong) locali. Un processo lento, che richiede il riconoscimento della cultura e maggiore rispetto dei diritti umani di più abitanti delle foreste equatoriali africane.

Goma, estremo est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Rwanda. Il nome della città evoca disastri, dalle ondate di profughi in fuga dal genocidio rwandese alla terribile eruzione del vulcano Niyragongo, che nel 2002 rase al suolo il centro abitato. I suoi segni sono tutt’ora visibili nello spesso strato di lava nera che ricopre tutto e su cui la gente ha ricostruito le proprie povere abitazioni.
Difficile fare un elenco delle priorità, in questo angolo di Congo: le numerose ong si occupano di povertà, istruzione, sanità, recupero delle vittime di guerra. Passa così in secondo piano un’altra realtà, di cui pochi si interessano: la situazione delle popolazioni pigmee, poveri tra i poveri e spesso discriminati dalle popolazioni bantu.
Esistono tuttavia alcune piccole ong locali che tentano interventi in favore dei più antichi abitanti di questa parte d’Africa: attività gestite da congolesi bantu che cercano di contrastare la mentalità dominante che emargina i pigmei. Certo, mancano i mezzi, ma soprattutto a volte manca una reale conoscenza della cultura pigmea. Con il rischio di fare danni, pur con le migliori intenzioni.
la Uefa
I ncontriamo l’associazione Union pour l’Emancipation de la Femme Autoctone (Uefa) nella propria sede, una piccolissima stanza in un edificio sull’unica strada asfaltata di Goma. Il personale si mostra un po’ titubante, ma qualcuno accetta di raccontarci delle loro attività.
Le parole della segretaria (che non vuole darci il nome) sono molto significative e rivelano il loro tipo di approccio: «Lavoriamo in sei luoghi nei dintorni di Goma. Il nostro obiettivo principale è l’integrazione: quella pigmea è una popolazione miserabile, che vive di elemosina. Non vogliono più fare la vita nomade, quindi insegniamo loro l’agricoltura e spieghiamo come lavorare con i non pigmei. Abbiamo assistenti sociali sul terreno e ci adoperiamo anche per le donne vittime di violenza, che accompagniamo al centro più vicino di salute».
La Uefa sopravvive con finanziamenti dal Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) per i progetti sull’agricoltura e dall’Irc (Italian Resuscitation Council) per la parte medica. Con questi fondi, foiscono alle donne violate anche un aiuto economico, comprando loro maiali e vacche, in modo che possano avviare un’attività. La sede principale dell’ong è nella città di Bukavu, più a sud. A Goma le loro attività sono iniziate tre anni fa, dopo l’eruzione.
Tanta buona volontà e spesso anche con buoni esiti, ma la mentalità di fondo non si discosta troppo dalla cultura generale. Prosegue infatti la donna: «Non è facile lavorare con i pigmei, sono primitivi. Ora che vivono coi non pigmei, cominciano a integrarsi, ma non vogliono studiare. Grazie al lavoro di alcuni educatori popolari che si occupano di alfabetizzazione degli adulti, cerchiamo di far loro capire che l’istruzione è importante».
E conclude notando che i pigmei cominciano a perdere la loro cultura tradizionale, perché non possono più mantenere il loro stile di vita, basato sulla caccia e la raccolta dei frutti. Ad esempio non possono più entrare nel parco nazionale del Virunga: troppo alti i rischi legati all’insicurezza, come dimostrano i pigmei sfollati presso il Lago Verde. «Lo stato ha da tempo deciso che non possono più vivere come animali: sono persone e devono vivere come gli altri» conclude la donna.
Il Cidopy
Sulla strada che attraversa Goma da nord a sud sorge la sede del Centre d’information et de documentation pygmees (Cidopy), un’altra ong locale. Qui l’atteggiamento è diverso. Ci spiega Achille Biffumbu, il responsabile: «Collaboriamo con una fondazione olandese, che dal 1989 lavora coi pigmei della regione settentrionale dell’Ituri: con la guerra loro sono stati obbligati a sospendere le loro attività dirette e hanno preso contatti con noi. Qui a Goma lavoriamo dal 2005. Statistiche sui pigmei non ce ne sono; esistono delle stime che parlano di 15 mila pigmei qui nel Kivu e 60 mila in Ituri. Abbiamo cominciato il nostro lavoro dalla salute, dalla scolarizzazione dei bambini e da attività agricole; ma incontravamo molte difficoltà. È così che siamo arrivati a comprendere che la cultura pigmea si sta perdendo non per il contatto con i bantu, ma per il modo che si ha di lavorare con loro».
Gli esempi non mancano: più a nord un missionario ha costruito piccole case in tolla per loro; ma, dietro la casa, i pigmei costruiscono ugualmente le loro capanne. O ancora: i pigmei sfollati presso il Lago Verde hanno chiesto legno per costruire delle case, ma poi l’hanno venduto.
«È difficile capire – prosegue Achille -. Per questo preferiamo lavorare con loro, adattandoci alla loro cultura e facendo un’analisi antropologica dei loro bisogni».
Lo stesso vale anche per il lavoro coi bambini, che hanno un modo diverso di studiare: quando è il periodo della caccia o della raccolta del miele, vanno in foresta con la famiglia. Allora, bisogna adattare il calendario scolastico ai loro bisogni.
In questo il Cidopy si è avvalso di un programma di scambio con altre ong che lavorano coi pigmei in Camerun e l’anno scorso hanno organizzato una sessione di aggioamento per gli insegnanti delle scuole in cui ci sono bimbi pigmei. Nel Kivu la composizione delle classi è mista: il 25% dei bambini sono bantu e molti non sono facilmente distinguibili, segno di una commistione tra bantu e pigmei.
«Il problema fondamentale di cui ci siamo resi conto – prosegue Achille – è che molta gente lavora con loro senza conoscee la cultura. Prendiamo il settore sanitario: i pigmei hanno difficoltà a frequentare i centri di salute, per vari motivi: se non li capiamo, pensiamo che siano refrattari. Se dite a un pigmeo di andare all’ospedale, ci andrà tutto il villaggio. Un pigmeo non passa la notte in un letto. Allora, noi costruiamo una casa in tolla o in foglie di fianco all’ospedale, dove possono trascorrere la notte facendo il fuoco. Abbiamo pensato di creare piccole équipes mobili per la sensibilizzazione sanitaria e da alcuni mesi è in funzione una clinica mobile».
Attualmente non esistono direttive politiche; ma durante la dittatura Mobutu ne aveva deciso l’integrazione forzata: tutti i pigmei dovevano lasciare le foreste e vivere ai margini della strada. Dunque, la mentalità che ancora esiste nelle popolazioni bantu che vedono i pigmei come «primitivi» da «normalizzare» è un’eredità di Mobutu.
Oggi che la situazione politica del paese è cambiata e si sono finalmente avute le prime elezioni multipartitiche dal 1960, qualcosa è mutato anche per i pigmei. In occasione della giornata mondiale delle popolazioni autoctone, è stata resa pubblica una loro dichiarazione nei confronti del governo: sono senza terra e non protetti dalla legge; vengono cacciati perché nessuno se ne occupa.
In un paese come il Congo, con tante emergenze, non vengono considerati una priorità. Così il Cidopy, grazie a un finanziamento olandese, ha steso un progetto per ottenere il riconoscimento formale delle terre dei pigmei e ha approntato l’accompagnamento giuridico necessario.
Quanto alla politica, Achille spiega: «Esistono rappresentanti pigmei, ma c’è un problema di leadership tra di loro. In Rwanda i pigmei sono ben organizzati; in Burundi una di loro, Liberate Nichayenzi, è diventata deputata e si sta dimostrando in gamba. Qui invece ci sono molti opportunisti, sia bantu che pigmei, che cercano di trarre profitto personale da una posizione di leadership. Resta aperta la questione di come trovare rappresentanti validi: non abbiamo ancora una risposta, ma ci stiamo lavorando, perché sappiamo quanto sia importante dar loro voce nelle istituzioni democratiche che stanno nascendo». 

Di Giusy Baioni

Giusy Baioni




Banche e traffici nel paese del canale

Panama: reportage dal paese centroamericano

Paese piccolo ma importante per la sua posizione di cerniera tra nord e sud America, Panamá era conosciuto soprattutto per il suo canale (per lungo tempo affittato agli Stati Uniti) e per le banane. Oggi il paese possiede una delle flotte mercantili più grandi del mondo (ma in mani straniere) ed è una piazza finanziaria rilevante (ma molto discussa). In questo contesto, siamo andati a vedere come vivono le popolazioni indigene sopravvissute all’invasione bianca.

Abbondanza di farfalle, alberi e fiori: questo il significato di Panamá, nome indigeno del piccolo paese situato in posizione strategica tra il nord e il sud America. Un luogo speciale, dove è avvenuto l’incontro non soltanto di culture indigene ma anche di specie animali e vegetali.
La popolazione di Panamá comprende, oltre alla maggioranza di mestizos, un 10% di origine cinese, una comunità nera che vive sulla costa caraibica e alcune tribù indie.
La capitale, che è stata la prima città fondata da europei sull’oceano Pacifico, si presenta come una modea metropoli con un grosso nucleo di alti edifici in cemento, parchi, monumenti e chiese. Famoso centro finanziario internazionale, accoglie circa 400 banche, dove pare venga riciclato il denaro proveniente dal traffico della droga. I colombiani sono coinvolti in numerose attività, dagli alberghi ai casinò, ma soprattutto nell’impresa edile, in forte espansione in città e anche sulle coste del pacifico, dove sorgono centri turistici per i nordamericani in vacanza.
Tutti i complessi di lusso sono protetti da muri e guardie armate, ma il filo spinato e le inferriate alle finestre le notiamo anche sulle modeste case dei quartieri poveri. Questa è una costante nei paesi dell’America Latina, che dimostra quanto gravi siano i problemi della violenza metropolitana.
Dell’antica città fondata dagli spagnoli nel 1519 (come avamposto per i traffici con le ricche colonie del Pacifico) rimane un complesso di ruderi circondato dalla foresta e dal mare, che durante la marea si ritira lasciando un vasto spazio fangoso. I vascelli carichi dell’oro peruviano si fermavano al largo e il prezioso carico veniva immagazzinato sull’isola di Perico, una delle 4 che chiudono il golfo e che ora sono unite da una strada costruita con il materiale estratto dal canale. La città, ricca di palazzi e conventi ma non protetta da mura,  venne rasa al suolo dal pirata Morgan nel secolo successivo. Gli spagnoli ricostruirono la città dall’altra parte della baia, in posizione più difendibile e oggi è un giorniello di architettura coloniale, in via di restauro. In uno dei palazzi più belli, costruito dai francesi a fine ‘800, visiteremo il museo del Canale di Panamá, dedicato alla sua tormentata storia, dai primi progetti fatti dai francesi, fino alla sua realizzazione da parte degli statunitensi, avvenuta tra il 1903 e il 1914, anno dell’apertura.

Il canale delle Americhe:
una risorsa contesa

Ci imbarchiamo sul battello che da Gamboa percorre il canale e attraversa le chiuse che permettono alle navi di scendere dal lago Gatun, un invaso artificiale riempito dalle acque del rio Chagres, al livello del Pacifico. Navighiamo seguiti da un grosso bastimento, in un contesto naturale di fitte foreste. I lavori di mantenimento e allargamento del canale continuano senza sosta per rendere più agevole il passaggio delle navi, che a volte devono attendere giorni per passare. ll nuovo progetto di allargamento del canale, del costo di 5,25 miliardi di dollari, sarà anche finanziato dai cinesi, interessati all’espansione del loro commercio. Una terza corsia sarà costruita con chiuse più grandi, in grado di contenere i giganteschi cargo da 12.000 containers, che superano le misure Panamax (con questa sigla si indicano le navi le cui dimensioni permettono il passaggio attraverso le chiuse del canale di Panamá, ndr).
Prima di uscire in mare aperto passiamo sotto il ponte delle due Americhe, percorso dalla Panamericana (la strada che parte dall’Alaska e corre per migliaia di chilometri fino a raggiungere i fiordi cileni) presso il quale i cinesi hanno costruito un monumento in memoria dei connazionali morti durante i lavori di costruzione del canale. La metà dei 45.000 lavoratori, reclutati in tutto il mondo, anche tra i neri delle colonie caraibiche, morirono per incidenti e malattie, febbre gialla e malaria.

Gli emberá del Darién:
da cacciatori a guide

A Panamá la Panamericana si ferma davanti a una foresta impenetrabile. Una regione selvaggia, il Darién, percorsa da canali, paludi, montagne,  fiumi e cascate, abitata dagli indigeni e conosciuta solo da narcotrafficanti e guerriglieri colombiani. Il Tapòn del Darién è un tappo che chiude ogni comunicazione via terra tra nord e sud America. Chi vuole  raggiungere la Colombia, deve prendere l’aereo. Il Darién è anche una preziosa riserva della biosfera, la più vasta area protetta del Centro America con una biodiversità eccezionale. Alcune tribù di indigeni emberá, che vivevano isolati in questa regione (conducendo una vita durissima, data l’impossibilità di commerciare i loro prodotti) una trentina di anni fa chiesero di essere trasferiti a Panamá. La difficoltà di inserimento in un contesto urbano spinse il loro capo (cachique) a chiedere al governo di potersi installare nella regione del fiume Chagres, ricca di foreste e acqua, lo stesso fiume che fornisce l’acqua al canale. Gli emberá continuarono a condurre così la loro vita di cacciatori, con arco e frecce,  vivendo anche grazie alla pesca, alla semina di yucca, fagioli e mais e a qualche animale da cortile. Da quando il Chagres è diventato parco protetto tutto questo è interdetto, per cui sono stati aiutati dal governo a prepararsi ad accogliere i turisti curiosi di avvicinare le popolazioni indigene.
Ora la loro vita sta cambiando, hanno scuole primarie e sanità, ma cercano di mantenere il più possibile le tradizioni. Anche noi facciamo l’esperienza emberá, risalendo il fiume sulle loro primitive imbarcazioni, guidate da uomini seminudi, col perizoma rosso. Veniamo ospitati in un villaggio di case costruite su palafitte, condividendo il pranzo con le loro famiglie. Parlando col capo villaggio, vengo a sapere che suo nonno era quell’Emiliano che lasciò il Darién per lavorare nel cantiere del Canale. La sua storia sta scritta nel museo di Panamá: era uno degli indigeni che lavorò alla costruzione delle canoe espandé (a un solo albero) usate durante i lavori. Fu lui che negli anni ‘70 scelse di trasferire la tribù in questa regione, sul sito dove sorgeva una base scientifica americana. Morì in questo villaggio a 96 anni.
L’artigianato che viene offerto in vendita è molto raffinato. Si tratta di lavori in un legno pregiato, il cocobolo, preziosi intagli in avorio vegetale, dato dalla  noce di una specie di palma. Lavorando una rafia molto soffice e lucida, tinta con colori vegetali,  gli emberá fanno un tipo di cesteria e di maschere molto belle. Queste sono usate dagli chamán (il personaggio più importante, che sovrintende alla salute della tribù) per le guarigioni. Nel villaggio vi è la scuola, costruita dagli indigeni sulla base della struttura donata dal governo. Nascoste dagli alberi sono  due chiese protestanti, frequentate dagli abitanti, che comunque rimangono animisti. Nella foresta dove tutto è sacro si trovano cibo e medicamenti e il botanico è un personaggio importante, di supporto allo chamán.
La nomina a chamán viene fatta nei primissimi anni di vita di un bambino. Segni premonitori lo indicano come il futuro chamán del villaggio, sin dalla nascita. La luna piena, un terremoto, un avvenimento speciale durante la gestazione, il modo in cui è venuto alla luce, i primi movimenti. Sovente il fanciullo tenta di rifiutare questo ruolo impegnativo, vorrebbe essere un bambino normale, come tutti. Dopo una lunga, impegnativa preparazione, a 15 anni viene  mandato nella foresta, dove dovrà passare 5 anni solo e nudo. Si unirà profondamente alla natura, utilizzando le conoscenze acquisite dagli anziani, approfondendole e vivendo in stretta comunicazione con il mondo selvaggio.

I kuna di San Blas:
una società matriarcale

Hanno dovuto fare guerra al governo, negli anni ’20, per ottenere l’autonomia della loro Comarca (distretto). I kuna sono indigeni  provenienti dalla Colombia che trovarono rifugio nei secoli scorsi sulla sottile striscia di terra che si affaccia sul mare dei Caraibi e sulle isole che gli spagnoli chiamarono di San Blas.
Piccoli di statura ma molto forti e determinati, hanno un loro governo autonomo e cercano con fermezza di mantenere i loro costumi e le tradizioni. La società dei kuna è matriarcale, anche l’eredità passa per via femminile. Quando una ragazza si sposa è il marito a trasferirsi nella casa dei suoceri e in caso di divorzio deve andarsene. Le donne sono molto laboriose e forti come i loro uomini e oggi riescono a guadagnare  denaro dalla vendita dei molas, ricami tradizionali usati per decorare le loro camicette. Sono intagli e applicazioni in stoffa colorata, dal disegno naturalistico ma anche geometrico, molto raffinato, stilizzato e simile a un labirinto, in cui si riescono ad identificare forme di uccelli, animali, angeli…
Le isole abitate sono solo 40 su circa 400. Ogni villaggio ha il suo sahila, eletto dal popolo, che dirime le controversie,  convoca le assemblee e in alcuni giorni chiama all’alba gli uomini al lavoro nei campi di terraferma. I kuna si sono finora difesi molto bene dall’aggressione del turismo di massa. La terra non si vende, gli operatori stranieri non sono accettati e chi vuole godere della magnifica natura delle loro isole  deve pagare una tassa alla famiglia che li ospita e adattarsi ad abitare strutture molto semplici. Ci fermiamo alcuni giorni in un’isola abitata da circa trecento persone e dormiamo nell’unico albergo, una modesta capanna, uguale alle loro, fatta di legno e bambù, con leggeri tramezzi che separano le camere.
Con una imbarcazione scavata nel tronco di un albero e munita di motore ogni mattina raggiungiamo altre isole, piccole lingue di sabbia corallina coperte da palmeti. Alcune disabitate, altre abitate da una sola famiglia, cui dobbiamo un dollaro per il permesso di sostare, bagnarsi e ammirare i coralli e i pesci colorati.
Durante questo soggiorno, a stretto contatto con la gente dell’isola, abbiamo  tempo per capire che le cose stanno lentamente cambiando anche per i kuna.

Le paure (giustificate)
del pastore Attilio

Ne abbiamo conferma parlando con Attilio, pastore della Iglesia de Christo che mi riceve nella sua chiesa, una tettornia con vista mare, con le panche e il leggio, accanto alla capanna della scuola biblica e al recinto dove grugniscono i maiali coi loro piccoli. Attilio è nato qui, 42 anni fa. Da ragazzino era rimasto affascinato dal racconto delle scritture fatto dai missionari americani giunti sull’isola.  Nella loro tradizione religiosa, i kuna hanno sempre creduto in un unico Dio creatore e in un profeta inviato per annunciare la buona novella, per cui la parola del Vangelo venne accolta bene.
Era un ragazzo studioso e dopo le elementari fu mandato a Panamá a frequentare il liceo, poi in seminario per approfondire lo studio che più lo interessava. La sua chiesa lo inviò poi in alcune regioni del paese (Bocas del Toro, Chiriguì, Veraguas) per un periodo di formazione durato un anno e mezzo.
Da 19 anni Attilio regge questa parrocchia, abita una casa come le altre, una capanna con il tetto di paglia, dove si trovano il fornello  e le amache per dormire. La moglie è una donna bella e gentile, di cui posso ammirare il lavoro preciso e raffinato del ricamo delle sue camicette,  ben superiore come qualità ai pezzi che ho visto in vendita presso altre case del villaggio.
«I giovani non hanno più voglia di lavorare – ci spiega Attilio -. Un tempo le barche andavano solo a remi o a vela e gli uomini lavoravano la terra che abbiamo sulla costa, piantavano manioca, yucca, fagioli e banane. Oggi a lavorare sono rimasti solo i più anziani, tra i quali è comune il vizio dell’alcornol». Attilio crede che molti si avvicinino alla chiesa solo per farsi aiutare, specialmente con i  missionari battisti,  arrivati da due anni dagli Usa con molto denaro. «Noi della Iglesia de Christo ci aiutiamo in caso di bisogno, ma io ci tengo ad avere fedeli con una fede sincera», insiste Attilio. Pare che anche la figura del sahila si sia sbiadita. Nessuno vuole avere la responsabilità che comporta la posizione di capo villaggio. «Abbiamo dovuto ripiegare su una persona di poco valore, che ama troppo bere e la vita comoda. D’altra parte nessuno voleva accettare l’incarico».
Oggi gli studenti migliori delle elementari sono mandati a studiare a Città di Panamá, dove trovano alloggio in casa di parenti, nelle periferie della capitale, pericolose per la delinquenza.
Passeggiando per la via Central, la più commerciale e animata, avevamo notato molte donne kuna in costume, con le braccia e le gambe fasciate da file di perline colorate, il fazzoletto rosso e giallo in capo e l’anello d’oro al naso. Vengono in città per comprare i tessuti per i loro «molas», ma anche per guadagnare qualcosa in più e mantenere i figli agli studi.
Anche Attilio ha due dei suoi 4 figli a Panamá e deve ammettere che il suo mondo, quello che ha sempre cercato di preservare e difendere, è destinato prima o poi a scomparire. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




«Le changement»

La rivoluzione guineana e l’uomo nuovo

Un anziano presidente in carica da 23 anni. L’inflazione al 50%, mancanza di acqua ed elettricità perfino nella capitale. Nonostante la varietà climatica, il suolo fertile e la ricchezza in minerali. Come un paese entra in profonda crisi economica e sociale e come cerca di uscie. Anche grazie alla società civile.

Conakry. Nel corso dei primi due mesi del 2007, la Guinea ha vissuto l’apice di una crisi economico-sociale che da molti anni attanagliava il Paese.
La causa principale è stata la pessima gestione dello stato e il crollo delle entrate minerarie, che hanno portato le casse del paese a una situazione insostenibile. Inoltre, a partire dal 2000, i donatori inteazionali hanno pressoché bloccato tutti gli aiuti alla Guinea, data l’impossibilità di garantie una gestione trasparente.
In questa situazione il governo è stato costretto a una politica economica basata sull’indebitamento e questo si è ripercosso sui prezzi (il tasso d’inflazione nel 2006 era del 50%) e quindi sulla popolazione. Il prezzo del sacco di riso, alimento di base per la popolazione, nel corso dell’anno è passato da 60.000 a 150.000 franchi guineani (circa 22 euro), che corrisponde al salario medio mensile nel paese.
Anche il corso della valuta locale ha seguito lo stesso cammino (da 2.500 franchi per 1 euro a inizio 2005 a 5.200 franchi per 1 euro all’inizio del 2006 a circa 7.900 ad aprile 2007), un colpo pressoché mortale per un paese che importa quasi tutto quello che consuma.
Lo stato non arriva a garantire i servizi di base neanche nella capitale (dove l’elettricità e l’acqua sono distribuiti per qualche ora al giorno, ma con, talvolta, giorni di interruzione completa). Il panorama è, ovviamente, ancora più desolante nelle regioni intee, dove questi servizi non sono assolutamente presenti,  la rete stradale è formata, per lo più, da sconnesse piste in terra battuta, impraticabili nella stagione delle piogge (tre, quattro mesi l’anno).

paese ricco per gente povera

Questa situazione disastrosa si ripercuote anche sul sistema sanitario e quello scolastico, che sono tra i peggiori dell’Africa dell’Ovest.
Questo quadro è ancora più difficile da accettare se si pensa alle potenzialità del paese: la diversità climatica (dalla foresta pluviale, alle zone secche, alle mangrovie lungo le coste) permette di coltivare una grande varietà di prodotti tutto l’anno. La Guinea è attraversata dai più grandi fiumi della regione, e bagnata da piogge abbondanti. Tutto quello che si coltiva cresce con facilità: riso, pomodori, patate, caffè, cacao, banane.
Nonostante ciò, anche l’agricoltura guineana è moribonda (è passata dal 90% del Pil negli anni successivi all’indipendenza al 20% di oggi). Uno dei segnali più evidenti di questo fenomeno è la «scomparsa» della banana come fonte di entrate della Guinea (mentre era il primo paese esportatore di questa frutta ai tempi delle colonie). 
In più, il suolo guineano è talmente ricco di minerali da essere definito uno «scandalo geologico» (secondo produttore di bauxite al mondo, vi si trovano anche oro, diamanti, ferro, ecc.). Ma anche queste risorse sono poco e male sfruttate (gran parte dei guadagni non restano in Guinea o finiscono nelle mani dei pochi).

la voce dei movimenti

In questo quadro fosco, i due principali sindacati dei lavoratori (l’Unione sindacale dei lavoratori di Guinea, Ustg e la Confederazione nazionale dei lavoratori di Guinea, Cntg) insieme al Collettivo nazionale delle organizzazioni della società civile (Cnosc), si sono fatti portavoce del malessere della popolazione.
Negli ultimi tre, quattro anni, la società civile guineana ha cominciato a organizzarsi in maniera più strutturata in tutto il paese. Si parla di movimento associativo di «seconda generazione», poiché in Guinea sino al 1984 (cioè alla fine del regime «socialistico-autoritario» di Sekou Touré) l’associazionismo non esisteva, tranne nelle forme organizzate dallo stato.
Questo fenomeno appare oggi molto giovane, ma dinamico e sostenuto anche da numerosi partners allo sviluppo.
Il Cnosc è nato nel febbraio 2002 con l’obiettivo di essere la struttura nazionale che potesse raggruppare tutti gli attori della società civile. Oggi si può dire che questo obiettivo sia stato in gran parte raggiunto e lo dimostra la forte adesione alle diverse fasi dello sciopero (tra fine 2006 e inizio 2007) indetto da loro e dai due principali sindacati.
L’adesione allo sciopero è stata infatti da subito massiccia: circolazione dei mezzi di trasporto pubblici quasi assente, rifoimento di benzina e gasolio nullo, banche e servizi chiusi, porte dei principali negozi sbarrate.
Nell’ultima fase della protesta le richieste del movimento popolare non erano più unicamente economiche, ma anche politiche tra cui la nomina di un «governo di unità nazionale» formato da tecnici esperti che potesse portare il paese fuori dalla crisi e una riduzione del costo della benzina e del sacco di riso.

cambio o non cambio?

Per svariate settimane (tra gennaio e febbraio 2007) in tutto il Paese si sono registrate manifestazioni popolari guidate dai sindacati e dal Collettivo della società civile che chiedevano «le changement et le départ» (il cambiamento e la partenza) del presidente Lansana Conté, al potere da 23 anni. Manifestazioni spesso represse violentemente da parte della polizia e della guardia presidenziale, provocando centinaia di morti e feriti. Il tutto nel silenzio pressoché totale della comunità internazionale.
La popolazione indignata e ferita, ha vissuto questo calvario con sentimenti di frustrazione, ingiustizia e  rivolta. Le numerose vittime vengono martirizzate e i giovani continuavano a dirsi pronti a morire per il proprio paese.
Quando a inizio febbraio il presidente Conté accettò la richiesta dei sindacati di cedere parte del suo potere ad un primo ministro di largo consenso, la crisi sembrava essersi risolta.
Dopo alcune settimane di attesa, il presidente tenta un colpo di mano. Il 9 febbraio nomina alla primatura Eugene Camara, suo fedele alleato e da tempo al suo fianco anche nei precedenti governi già contestati.
È subito indignazione. I giovani invadono le strade in quasi tutto il paese per manifestare il loro sdegno: pneumatici bruciati, negozi razziati, creazione di barricate per impedire l’ingresso e l’uscita ai veicoli.
Gli edifici pubblici sono stati saccheggiati e completamente distrutti e molti prefetti e governatori sono stati costretti alla fuga.

scontro generazionale

Atti di violenza unica, senza il minimo controllo sociale, in cui anche i sindacati e la società civile hanno perso il controllo della situazione.
I giovani agivano irrazionalmente, spinti da un’incontrollabile voglia di distruggere qualsiasi simbolo del governo, cercando di ricavare anche un minimo beneficio dalla situazione.
Inutile il difficile compito degli anziani (i saggi) e dei capi religiosi che cercavano di dialogare con i rivoltosi, nel tentativo di far capire loro che ciò che stavano distruggendo erano dei propri beni.
El Hadji Barry, segretario della lega islamica di Mamou (città dell’interno), ci ha detto:  «Ho vissuto giorni veramente difficili, vedevo i miei “figli” distruggere quel poco che abbiamo e nonostante le innumerevoli ore passate in moschea nella speranza di dissuaderli, loro continuavano. La sera ci avevano promesso di non attaccare l’edificio del comune e il mattino seguente tutto era distrutto. Ci dicevano che noi non li capiamo, che anche noi siamo stati corrotti dal governo». «Siamo stati di fronte ad una profonda crisi politica e sociale», continua El Hadji «non c’era né religione, né ragione che tenesse. Questo che abbiamo vissuto è anche uno scontro generazionale, i giovani vogliono un cambiamento totale poiché nel quadro attuale non vedono alcuna possibilità d’inserimento per loro nella gestione dello stato e del suo futuro».
Dopo questi avvenimenti i diversi attori hanno cercato di riprendere in mano la situazione, ognuno con le proprie modalità. Il governo è intervenuto nuovamente con le armi e poi con la dichiarazione dello «stato d’assedio» (12 febbraio) per i successivi dodici giorni, periodo in cui il pieno potere era passato nelle mani dei militari al fine di riportare l’ordine e la tranquillità nel paese.
Durante questo periodo sono stati registrati saccheggi e violenze a opera delle forze armate, che avendo piena autorità ne approfittavano per «vendicarsi» della sommossa popolare, con il bene placito dei loro superiori (tutti entourage del presidente Conté).
Questa situazione di grande instabilità con un grave rischio di guerra civile ha portato la comunità Internazionale a reagire attraverso alcune missioni della Cedeao (Comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale) per fare pressioni sul  regime di Lansana Conté.
Sindacati, società civile, autorità religiose  e rappresentanti del governo si sono più volte incontrati, finché questa complessa fase di negoziazione ha portato il presidente  a cedere alla volontà popolare.

L’uomo della soluzione?

Il primo marzo Lansana Kouyaté, un tecnico di grande esperienza internazionale proposto dagli attori della società civile, ha preso ufficialmente funzione a Conakry come primo ministro.
Kouyaté ha ricoperto cariche diplomatiche di alto livello: da ambasciatore in Egitto a rappresentante della Guinea all’Onu, e poi sotto segretario generale delle Nazioni Unite per l’Africa, l’Asia dell’ovest e il Medio Oriente dal ‘94 e segretario esecutivo della Cedeao dal ‘97 (posto questo che gli ha permesso di tessere legami con tutti i capi di stato della regione).
Dal 2003 era rappresentante dell’Organizzazione della Francofonia nella mediazione della crisi in Costa d’Avorio.
A un mese dalla sua nomina, il primo ministro ha formato un governo di largo consenso in un clima di gioia manifestata da tutta la popolazione.
Ecco uno stralcio del suo discorso introduttivo alla nazione: «Cari compatrioti, io prometto di consacrare tutte le mie energie e la mia piena volontà al fine di rimettere la Guinea in piedi, in un clima di pace dopo un’esplosione sociale senza precedenti (… ) che il sangue versato durante i giorni di crisi serva come seme per la nostra speranza e la nostra giustizia…».
La nuova équipe governativa si è messa subito all’opera cercando di dare all’opinione pubblica dei segnali di cambiamento. Queste azioni vanno dalle piccole cose, come quella di un maggior controllo sull’utilizzo dei beni dei ministeri (ad esempio le auto che precedentemente erano utilizzate a scopi privati) a degli impegni di grande spessore di politica economica.
Tra questi sono da sottolineare il blocco dato alle esportazioni di prodotti agricoli (tra cui il riso, alimento principale per i guineani) con lo scopo di fae abbassare il prezzo sul mercato nazionale e la volontà di rivedere tutte le concessioni date alle imprese multinazionali per sfruttare le risorse minerarie guineane.
Oggi si possono già constatare piccoli cambiamenti, soprattutto la diminuzione dei prezzi dei beni di prima necessità.
La Guinea sta vivendo un momento «storico», nel quale la volontà di cambiamento della popolazione ha potuto prevalere sul presidente e sul suo clan, seppur pagandolo con il sangue di centinaia di vittime. 

Di Fabio Ricci e Monica del Sarto

Geppetto di Guinea

Non avevo mai pensato che un giorno sarei arrivato in Africa. Quando dopo sei mesi di anno sabbatico nella comunità cattolica San Giovanni vicino a Vienna, il priore mi ha fatto la proposta di andare in Guinea, dovevo cercare sulla carta geografica questo paese a me sconosciuto. La comunità San Giovanni è stata fondata in Francia negli anni Settanta dal domenicano Dominique Philippe, docente di filosofia a Fribourg in Svizzera, e un gruppo di suoi allievi.
La nuova congregazione è cresciuta velocemente e nel 1993 è stata chiamata da monsignor Robert Sarah, in quei tempi arcivescovo di Conakry, per aprire un’attività missionaria in Guinea. Alcuni anni fa monsignor Sarah si è trasferito in Vaticano, alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Robert Sarah continua a essere una personalità molto stimata e rispettata in Guinea, anche da parte dei musulmani, per il suo coraggio e la sua voce incorruttibile nel denunciare le ingiustizie nel paese.
La chiesa cattolica della Guinea è da tempo quasi completamente africanizzata e il numero di  sacerdoti stranieri nel paese è molto ridotto. La chiesa cattolica in generale è molto rispettata da tutti  e la convivenza con l’islam è buona. La comunità San Giovanni in Guinea ha aperto una missione vicino a Coyah, una piccola città a 60 km di distanza dalla capitale Conakry. È stata chiamata Mariamayah, che in lingua sussu, l’etnia locale, significa «là dove abita Maria».  Avevano bisogno di un falegname e quindi ho accettato la proposta del priore in Austria. L’ho accolta nella fede, non senza timori, come una chiamata del Signore, con spirito di curiosità e voglia di vivere un’avventura.

Arrivai in Guinea da solo alla fine del mese di novembre 1998. Conakry era tutta nascosta nel buio della notte appena cominciata. Ma il primo impatto rimane indimenticabile: l’umidità dell’aria calda e piena di profumi e odori mai sentiti e l’attività caotica nel piccolo aeroporto. C’era John Jesus, un frate irlandese, ad accogliermi. Questo frate meraviglioso, molto amato dalla popolazione per la sua giorniosa semplicità e umiltà, sarebbe poi diventato il mio punto di riferimento, nei primi sei mesi, prima del suo trasferimento nel Camerun.
I primi mesi furono difficili, anche perché non sapevo ancora parlare bene il francese. Mi diedero subito la responsabilità della falegnameria, che faceva parte di una società di costruzioni gestita dai frati. Tutti gli edifici della missione – chiesa, i conventi – erano stati costruiti con l’aiuto di artigiani locali. Alla fine dei lavori i frati avevano deciso di creare una ditta per garantire a questi artigiani un lavoro, ma anche fornire formazione artigianale ai giovani. All’inizio dovetti gestire otto persone, numero che crebbe fino a 25 artigiani.
La Guinea è in grande maggioranza musulmana e i cristiani si trovano soprattutto nella zona forestale nel sud del paese. I falegnami erano quasi tutti di fede musulmana. Il rapporto con loro fu uno dei modi migliori per conoscere le difficoltà della gente. Una volta conquistata la loro fiducia, venivano spesso da me per chiedere aiuto, per esempio piccoli prestiti  per comprare farmaci in una situazione di emergenza familiare o solo per  arrivare a fine mese. Una scuola di ascolto, certo, ma dovetti anche imparare a dire «no».

Il lavoro in falegnameria ogni giorno era una sfida. Di fronte alla continua mancanza di attrezzi o ai guasti dei macchinari era spesso necessario improvvisare o avere pazienza, talvolta perché il lavoro andava a rilento oppure non si riusciva a far nulla.
Un concetto importante da capire è che in generale, per l’africano il lavoro è sempre secondario agli impegni familiari, anche nell’ambito della famiglia allargata.
Alla comunità San Giovanni sono state affidate anche due parrocchie, Coyah e Forecariah. La vita parrocchiale era una buona occasione per creare contatti con la gente e amicizie con altri giovani. Prendevo l’abitudine di fare regolarmente visita a diverse famiglie, godendo della loro calorosa accoglienza e gentilezza. Dopo un anno e mezzo di presenza in Guinea queste amicizie facevano parte delle esperienze più preziose che ho portato con me al momento del ritorno in Italia.

Particolarmente importante sarebbe stata l’amicizia con Odilon, il mio assistente falegname, un uomo di più di quarant’anni con moglie e figli. Era cristiano, di etnia guerzé e originario della Guinea forestale. È stato nell’occasione del viaggio con lui nel suo villaggio natale Gouécké, vicino a Nzérékoré, che ho conosciuto l’orfanotrofio St. Kisito. Qui vengono accolti bimbi che hanno perso la madre durante il parto.
Nella mentalità della popolazione della zona questi bambini sono maledetti e quindi abbandonati. In generale nella famiglia allargata africana gli orfani sono sempre accolti da un parente, ma in questo caso la paura è troppo grande. Dopo il mio ritorno in Alto Adige le suore africane, che gestiscono l’orfanotrofio, in un momento di emergenza (diffusione di malattie mortali) si sono rivolte a me per chiedere aiuto. È così che ho organizzato una piccola rete di donatori per appoggiare St. Kisito, in particolare nella prevenzione sanitaria.
Sono tornato nel 2002 e poi nel 2006 per fare visita all’orfanotrofio. La cosa più bella del viaggio era l’essere tra amici dal primo fino all’ultimo momento. Già all’aeroporto mi ha accolto un’amica che subito mi ha fatto riposare in una stanzetta riservata, grazie a sue conoscenze nella guardia doganale.

Il viaggio da Conakry a Gouécké dura normalmente circa 22 ore in taxi brousse, ma l’ultima volta ne abbiamo impiegate 30. La ragione fu un guasto al motore dopo dieci ore di viaggio. Per fortuna il guasto si è verificato in una città, quindi anche alle dieci di sera è stato possibile trovare un meccanico. Il resto fa parte delle esperienze incredibili, che ti lasciano stupefatto per la capacità di improvvisare e di arrangiarsi con i mezzi più semplici: un bastone di legno, appena sufficientemente solido, e una corda per smontare il motore dalla macchina, una decina di attrezzi di base per ripararlo, sotto l’illuminazione debole di una torcia scadente, e rimontarlo, infine, alle cinque di mattina! 
A Nzérékoré assieme a suor Cathérine Thea, la responsabile dell’orfanotrofio, ho fatto una visita al vescovo monsignor Vincent Kouroumah. Mi ha spiegato la situazione delicata degli orfani. È difficile integrarli nella famiglia di provenienza o anche trovare famiglie coraggiose per accoglierli. Il vescovo è riuscito a far nascere un’attività di accoglienza di questi bambini.

Ogni viaggio in Guinea e l’incontro con gli amici mi fa partecipare alle sofferenze di un paese totalmente assente dai nostri media. Da anni l’inflazione crescente continua a schiacciare la popolazione in modo pesante. Ad esempio il prezzo del riso, alimento base, è aumentato enormemente. Le infrastrutture stradali continuano ad essere scadenti e il costo del trasporto influisce  sull’attività economica, anche per il prezzo del carburante.
La Guinea è circondata da paesi che negli ultimi anni hanno vissuto crisi violente e guerre civili terribili: Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau. La Guinea ha generosamente accolto numerosi rifugiati da questi paesi, dove spesso vivono le stesse etnie.
La popolazione della Guinea ha accettato per anni, con pazienza e un certo fatalismo, il governo forte e autoritario di Lansana Conté, arrivato al potere nel 1984 e tuttora in carica. «Poveri, ma almeno  in pace», era ed è un pensiero comune.
Solo recentemente, di fronte al continuo peggioramento della situazione economica e la vecchiaia del presidente, attraverso ripetuti scioperi generali il popolo ha cominciato a rivendicare dei cambiamenti. Nel paese vivono più di trenta diversi gruppi etnici, (alcuni maggioritari, vedi scheda), ma spero nel sentimento di unità e orgoglio nazionale, che i guineani hanno fatto loro dopo il radicale distacco dalla Francia, con il governo autoritario di Sekou Touré. Regime segnato da oppressione e terrore, ma che ha esaltato e valorizzato la tradizione e la cultura africana.
Non so quanto io abbia potuto aiutare durante il mio soggiorno in Guinea, ma so che per me questa esperienza è stata un grande privilegio e una tappa fondamentale per la mia crescita personale, professionale e spirituale. Infatti, ho poi deciso di riprendere gli studi e mi sto laureando in Studi europei e inteazionali con l’obiettivo di lavorare nella cooperazione allo sviluppo.

di Andreas Lochmann

Come ti riconverto il debito

Dal settembre 2005 un consorzio di due Ong Italiane (Lvia e Cisv) ha accettato la sfida di contribuire attivamente allo sviluppo di una vera partecipazione della società civile guineana al processo di lotta contro la povertà. Questa presenza è stata avviata in appoggio all’azione del Foguired (Fondo Guineo-Italiano per la riconversione del debito).
L’azione del Foguired nasce dalla «Campagna per la riduzione del debito estero dei paesi più poveri» (promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2000, anno giubilare) e dalla firma, avvenuta nell’aprile 2003, di un accordo bilaterale tra governo italiano e governo guineano.
Le due Ong avevano già attivamente collaborato alla campagna di sensibilizzazione in Italia sul problema del debito, promossa dalla chiesa italiana, in occasione del Giubileo del 2000.
Dopo una missione congiunta Cisv, Lvia, Foguired realizzata nell’aprile 2005, le due Ong hanno elaborato un progetto di appoggio alla società civile nell’ambito del fondo per la riconversione del debito.

Per l’azione del Foguired sono state individuate, le cinque prefetture «più povere» della Guinea come zone privilegiate. In queste zone si è puntato ad appoggiare le popolazioni direttamente alla base, mediante la promozione di opportunità di accesso ai finanziamenti per un ampio ventaglio di organizzazioni della società civile, anche quelle poco strutturate, soprattutto organizzazioni contadine. Questa strategia ha portato al finanziamento di quasi 600 microprogetti.
Uno dei bisogni primari di queste piccole associazioni, che hanno ricevuto il finanziamento è quella di un accompagnamento per realizzare il proprio progetto e garantie la sostenibilità, garanzia di prosecuzione nel tempo dell’azione di lotta alla povertà.
Per svolgere questo ruolo di accompagnamento e monitoraggio delle azioni, il Foguired, (sempre nell’ottica di appoggio alle realtà della società civile guineana), ha scelto tre «giovani» Ong locali originarie delle zone d’intervento.
Questa scelta ha messo in luce il bisogno di appoggio e formazione delle Ong locali.
È in questo quadro che si è inserita l’azione del consorzio Cisv-Lvia. Azione che ha avuto come obiettivo quello di rafforzare, con percorsi di formazione, e accompagnare le tre strutture incaricate di monitorare i progetti gestiti dalle associazioni di base, affinché questi diventino delle esperienze forti e durature di sviluppo locale.

Il progetto ha previsto la creazione di strumenti per il monitoraggio (schede e rapporti), ma anche l’organizzazione di occasioni di incontro e confronto nelle prefetture, sulle tematiche importanti per la popolazione che beneficia dei progetti Foguired (come si gestisce un progetto, incontri «filiera», cioè tra tutti i gruppi di produttori con problematiche simili, l’analisi partecipativa del territorio e delle priorità necessarie per il suo sviluppo).
Inoltre, l’azione del consorzio formato dalle due Ong italiane ha permesso di promuovere la creazione di reti tra gruppi che si occupano dello stesso settore, con particolare attenzione alle associazioni di agricoltori e allevatori. Di grande importanza, nella realizzazione di questo progetto, è stato, anche l’avvio di una fruttuosa collaborazione con la Cnop-g (Confederazione nazionale delle organizzazioni contadine di Guinea), la più importante organizzazione di agricoltori del paese.
L’obiettivo finale è stato quello di stimolare delle dinamiche «virtuose» nelle quali gli attori della società civile possano, a partire dall’aiuto ricevuto grazie alla conversione del debito estero, prendere in mano il difficile cammino della lotta alla povertà.
L’esperienza del progetto Foguired è stata molto positiva per le Ong italiane. Essa ha permesso di avviare un percorso di collaborazione con alcuni attori della società civile guineana, con i quali sono stati sviluppati nuovi progetti.

Fabio Ricci e Monica del Sarto
www.cisvto.org
www.lvia.it

Fabio Ricci e Monica del Sarto




L’ombelico del mondo

Reportage dall’isola di Pasqua

Rapa Nui (grande roccia, in lingua nativa) o Isola di Pasqua (così fu ribattezzata dal primo scopritore europeo) è una delle isole abitate più isolate del mondo, sperduta nel Pacifico meridionale a 3.750 km dal Cile e 5.000 km da Tahiti. I nativi, arrivati dalla Polinesia verso il x secolo, hanno conservato buona parte della loro cultura originaria, ricca di fascino e di mistero.

Gioo di pasqua, anno 1722. La nave del capitano olandese Jacob Roggeween, dopo giorni di navigazione in mare aperto, s’imbatte in un’isoletta in mezzo al Pacifico, apparentemente disabitata. Sbarcati al tramonto, gli uomini dell’equipaggio cadono in un sonno profondo sulla spiaggia.
Al loro risveglio, ciò che si trovano davanti agli occhi li lascia senza parole: in un’alba infuocata, decine di uomini, con i lobi delle orecchie lunghissimi, si muovono in danze sfrenate, adorando il sole che sta per nascere, ma soprattutto gettandosi ai piedi di gigantesche creature di pietra con volto umano e in testa uno strano cappello di pietra rossa. Il capitano Roggeween e la sua ciurma avevano trovato Rapa Nui, ribattezzata col nome di Isola di Pasqua; le statue non erano altro che i moai, figure oggi in lizza per diventare una delle «nuove» sette meraviglie del mondo.
Rispettosi, e forse spaventati dai costumi dei nativi, i marinai fecero ritorno a casa, e solo nel 1774 qualcun altro ritoò sull’isola: era il famoso avventuriero James Cook, con l’obiettivo di conoscere i segreti di quella popolazione, che già allora era oggetto di più di una leggenda. «Sono bassi, magri, hanno sguardo deciso e pelle che sembra pergamena» diceva Cook.

Gioo di pasqua, anno 2007. I nativi dell’isola ricalcano alla perfezione il ritratto tracciato dall’avventuriero. Sono rimasti in 1.500 sull’isola, tanti quanti gli «stranieri», arrivati dall’Oceania, Europa e America Latina. Sì, perché oggi l’isola di Rapa Nui batte bandiera cilena e solo con un volo dal Cile ci si può arrivare, nonostante che per la sua posizione in mezzo al Pacifico assomigli più alla Polinesia che non al continente sudamericano.
Non si tratta di una dipendenza inumana, come quella dei secoli passati, tutt’altro. Schiavizzati in massa dai conquistadores  e ridotti a soli 110 abitanti a metà secolo xix, i nativi hanno potuto portare avanti le loro tradizioni grazie all’annessione cilena, avvenuta nel 1888.
Oggi Rapa Nui, isolotto brullo, a forma triangolare, con un’estensione di poco più di 160 kmq, prospera grazie a un turismo attento, non di massa, che preserva le sue bellezze. Gli abitanti originari, concentrati in un’unica cittadina, Hanga Roa, vivono di pesca e artigianato.

Tra gli aspetti più significativi della vita e della cultura degli indigeni dell’isola c’è soprattutto la tradizione religiosa da loro conservata, anche se caratterizzata da un sincretismo senza eguali. «Il culto del sole, professato fin dal secolo iv, sotto il regno del re Hotu-Mata, è ancora vivo» dice Riccardo, studioso dell’isola e uno dei gestori del piccolo museo antropologico, pieno di reperti, posto in riva all’oceano.
«Però – prosegue Riccardo – colui che nel corso dei secoli è stato più venerato rimane il Tangata-Manu, l’uomo uccello. Ancora oggi viene ricordato con canti e balli solenni nel Tapati, una festa che dura 10 giorni a febbraio e coinvolge tutta l’isola».
Il Tangata-Manu era un semidio, che prendeva sembianze umane ogni anno differenti: colui che nel giorno prestabilito trovava un uovo della specie locale di gabbianella diventava uomo uccello per dodici mesi e comandava l’isola. Di pietre raffiguranti il Tangata-Manu ce ne sono a decine sparse in tutta l’isola, tante quante le statue dei moai. Queste ultime, rovesciate a terra da terremoti e lotte intestine, sono state rimesse al loro posto, grazie al lavoro di archeologi di tutto il mondo.
Il sincretismo religioso, caratteristica dell’Isola di Pasqua, ha raggiunto il culmine con l’arrivo dei primi cileni e della religione cristiana, soprattutto cattolica. A Rapa Nui cristianesimo e religione ancestrale si sposarono da subito, senza alcun contrasto o prevalenza dell’uno sull’altra. L’esempio che meglio rappresenta tale connubio è la celebrazione della messa, soprattutto nei riti della settimana santa e della pasqua.
Padre Andrés, cileno ma con la pelle indigena, per quasi tutta la durata della celebrazione rimane in mezzo ai fedeli, provocandoli a intervenire durante l’omelia e stimolandoli a proporre intenzioni di preghiera. La liturgia è bilingue, ma i due idiomi, castigliano (spagnolo) e rapanui, si alternano e s’intrecciano con naturalezza, provocando un effetto sorprendente e affascinante anche nelle persone di passaggio sull’isola, facendole sentire a proprio agio fra culture così diverse, eppure così compenetrate.
La domenica delle palme è un tripudio di colori e suoni: tutti cantano, portando con sé lunghe foglie prese dalle palme, banani, alberi di papaia e altre piante della locale vegetazione tropicale.

«La festa è per noi un momento in cui ricordiamo i nostri antenati» dice Wilma, signora tanto anziana quanto energica, mentre sorseggia un bicchiere di vino rosso nel piccolo bar a fianco della chiesa. «Anche se, in realtà, non si sa bene come siano finite le prime civiltà dell’isola» sussurra la donna in uno spagnolo tanto zoppicante quanto divertente.
Ciò che dice Wilma è vero: l’Isola di Pasqua è piena di misteri, il primo dei quali riguarda la sua popolazione originaria, quella che costruì gli stessi moai, prima dell’arrivo dell’olandese Roggeween.
Secondo quanto gli studiosi sono riusciti a ricostruire, attorno al 1100 d.C. la cultura originale dell’isola s’interruppe bruscamente: scomparvero gli adoratori del sole; furono rovesciati a terra tutti i giganteschi moai e rimasero a metà quelli che si stavano costruendo ai piedi del Rano Raraku, uno dei tre grossi vulcani dell’isola. In tale stato furono trovati dai turisti: immersi nella vegetazione e da essa in parte ricoperti.
Cosa è successo? Forse una catastrofe naturale, come un’eruzione vulcanica o un terremoto. Qualcuno sostiene che le decine di tribù dell’isola, trovatesi in soprannumero rispetto alle possibilità di cibo offerto dall’isola, cominciarono a farsi guerra tra loro, e in questo modo si estinsero quasi del tutto.
A tale estinzione contribuirono di certo anche gruppi di «orecchie corte» (gente proveniente dalle isole occidentali), che, dice la leggenda, sterminarono tutti gli uomini dalle «orecchie lunghe» (i rapanui), tranne uno, Ororoina, che così riuscì a conservare la specie.
«Anche se abbiamo perso l’usanza di allungare i lobi delle orecchie e di incidere le nostre leggende nelle tavolette ronga-ronga, siamo i diretti discendenti di Ororoina» afferma Cesar, artigiano che abita con la moglie e i due figli in un grande casolare all’estremità di Hanga Roa. «Come i nostri antenati, siamo esperti pescatori» aggiunge Ana, la moglie dell’artigiano. «Cesar, dimostraglielo» aggiunge la donna.
Detto fatto. L’uomo esce di casa, sale sulla piccola barca ormeggiata a pochi metri dall’abitazione, s’inoltra nell’oceano per una buona mezz’ora e torna con due bianchissimi tonni, una delle specialità dell’isola, esportata in tutto il mondo. Roba da non credere, anche per la squisitezza.

Cesar, Ana e la maggior parte degli abitanti di Rapa Nui sono orgogliosi di quello che hanno, anche se sembrano arrabbiati al punto giusto con la madrepatria. «I generi alimentari, che arrivano una volta alla settimana con i container dalla terra ferma, hanno i prezzi raddoppiati rispetto al Cile» lamenta Cesar; ed è vero. Tuttavia sono ben contenti di essere legati al continente, soprattutto per l’indotto derivante dal turismo. Inoltre, la distanza dalle coste americane permette di mantenere salda la propria identità, di cui sono orgogliosi. E non ne fanno mistero nei loro discorsi.
«Siamo l’ombelico del mondo» dice Huki, effervescente archeologo che, oltre a far conoscere la cultura dell’isola nei vari incontri inteazionali in cui viene invitato (è stato più volte ospite anche della Biennale di Venezia), gestisce il Kona Tau, uno degli alberghetti più affascinanti dell’isola.
Huki, comunque, dice sul serio: Te-Pito-Te-Henua, in lingua rapanui, significa proprio «ombelico del mondo». «Su una spiaggia dell’isola – spiega Huki – c’è una grossa pietra tonda che, secondo la leggenda, è caduta dal cielo all’inizio dei nostri giorni, mandata dalla divinità ancestrale dei nostri antenati, il Make-Make, il creatore del mondo».
La particolarità della pietra, a cui si può accedere liberamente, risiede nel fatto che, in ogni momento della giornata e in qualunque condizione atmosferica, emana un calore costante. Per questo motivo, è considerato, non solo dai nativi ma anche da vari studiosi stranieri, uno dei centri di energia del pianeta, a conferma del suo nome.
Huki si sofferma poi su un altro grande mistero di Rapa Nui: il trasporto dei moai. È certo che essi furono «fabbricati» alle pendici del vulcano con pietra nera per il volto e pietra rossa per l’eccentrico cappello; ma come sono arrivati e installati sulle coste del mare? «È opera degli alieni – scherza Huki sorridendo, per poi riprendere il discorso seriamente -. Non si sa con certezza. L’ipotesi che noi studiosi diamo per favorita è questa: ogni moai è stato scolpito con le rocce del vulcano, poi è stato deposto su grossi tronchi d’albero e fatto rotolare a valle fino al luogo desiderato».
Un’opera ingegnosa, soprattutto se si pensa a quante persone dovevano lavorare all’unisono. «Diverse centinaia, forse migliaia» aggiunge l’archeologo.
Ma chi rappresentavano queste figure dal volto lungo e stretto e le orecchie da gigante? «Sono gli antenati delle varie famiglie – spiega Huki -. Alla loro morte, le statue, fatte a loro sembianza, venivano poste a poche decine di metri dal mare, rivolte verso l’interno, per essere venerate e come strumento di protezione dal mare e dagli attacchi estei».

Moai, Tangata-Manu, Te-Pito-Te-Henua e, soprattutto, sincretismo religioso: l’Isola di Pasqua è un luogo magico; metterci piede significa percorrere secoli di storia in pochi chilometri quadrati. Lo sa bene il sindaco dell’isola, Pedro Paoa, che da anni lotta con il governo cileno per garantire all’isola un riconoscimento maggiore rispetto all’attuale. «Non vogliamo l’indipendenza, ma una maggiore autonomia – afferma Paoa -; dopotutto, per cultura e tradizioni siamo diversi dalla madrepatria; anzi, direi che siamo quasi più polinesiani».
La sfida lanciata dal sindaco ha di recente lasciato il segno nelle alte sfere cilene: il 2 maggio 2006, il Senato ha iniziato un iter legislativo per riconoscere a Rapa Nui uno status particolare, simile a quello delle regioni italiane a statuto speciale. «Che facciano in fretta; non vogliamo più dipendere così tanto dal Cile» dice Paoa rivolto ai politici cileni.
A prima vista, il sindaco dell’ombelico del mondo ne avrebbe tutte le ragioni. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




NOSTRA COMPAGNA DI GALERA

20 giugno, festa della Consolata

La curiosa storia di un quadro della Consolata, oggi venerato nella cappella della Casa regionale
dei missionari della Consolata a Nairobi (Kenya), di un «magico» coltellino milleusi e di dodici monete d’argento. Il tutto sullo scenario della II guerra mondiale.

Un giorno indimenticabile quel 10 giugno 1940. Gli italiani avevano appena ricevuto dalla radio la notizia che la nazione era formalmente entrata in guerra, contro Inghilterra e Francia e già il giorno seguente, in Kenya, volavano ordini tassativi di imprigionamento e deportazione di tutti i missionari e missionarie di nazionalità italiana presenti nel paese.
Quel mattino, inaspettati, gli inglesi giunsero fino alla missione del Mathari e, senza tante cerimonie, dissero: «Tutti i membri di nazionalità italiana sono da questo momento sotto arresto. I padri missionari hanno venti minuti di tempo per raccogliere le loro cose e presentarsi a questo comando. Le suore dovranno restare nei loro conventi fino a nuovo ordine».
Venti minuti di tempo per raccogliere le proprie cose… Nel cuore dei missionari scese un gelo di sconforto. Venti minuti per impacchettare il materiale di una vita di lavoro. Che fare, cosa poter scegliere, cosa abbandonare in venti minuti? Ognuno corse alla sua stanza e cominciò a mettere in sacche e vecchie valige quel poco di roba e libri personali ritenuti utili…
A un missionario venne subito in mente che quel giorno era il primo giorno della novena della Consolata. Nella chiesetta del Mathari c’era il quadro della Vergine; come si poteva lasciarlo solo, abbandonato?
Si trattava di un’immagine speciale, uno di quei quadri che il beato Allamano aveva consegnato ai componenti delle varie spedizioni che partivano da Torino. «Portatelo con voi, custoditelo, perché vi protegga sempre», sembravano ancora echeggiare le parole del Fondatore. Il missionario si precipitò in chiesa. Tentò di armeggiare per vedere di togliere dalla coice quella tela, ma si rese presto conto che sarebbe occorso troppo tempo.
Aveva un coltellino in tasca, quel coltellino milleusi sempre così utile quando si trattava di  cavar spine e pulci penetranti. Con decisione e precisione il coltello si insinuò lungo la linea della coice e la tela ne uscì fuori in poco più di un minuto. Il Santissimo Sacramento venne tolto dal tabeacolo e portato al sicuro dalle suore. L’icona della Consolata, ben arrotolata, andò a far compagnia ai pochi libri e calzini puliti e sporchi del «padre salvatore».

LA LUNGA PRIGIONIA
«Dove si va?» era la domanda sulla bocca di tutti. Purtroppo la risposta non lasciava molte speranze. La meta era la prigione di Nairobi-Kabete, dove i missionari italiani vennero condotti in attesa che arrivassero i loro confratelli, arrestati nelle altre missioni del Nyeri e del Meru quello stesso giorno.
Dalla prigione temporanea di Kabete (oggi un grande sobborgo di Nairobi), dove in totale vennero radunati ben 419 missionari, incluse alcune suore, ben poco riuscì a trapelare. Le poche notizie che si hanno di quei giorni, le raccogliamo da una lettera scritta l’anno successivo, in cui l’autore, padre Giuseppe Maletto, pur misurando con attenzione le parole per paura della censura, dà un breve resoconto di quei giorni. L’autore, raccontando di quei giorni, scrive che dall’11 giugno i missionari «furono inteati fino al 4 ottobre, quando partimmo per il Sudafrica, via mare… Alcuni missionari dello Spirito Santo e di Mill Hill ci sostituirono nelle missioni. Le reverende suore furono dapprima tutte radunate nella fattoria di Nyeri; in seguito alcune furono lasciate ritornare in 4 o 5 stazioni di missione, soltanto del vicariato di Nyeri…».
La lettera di padre Maletto venne scritta da Koffiefontein, località del Sudafrica, oggi famosa per le miniere diamantifere, ma in quei giorni sede di un grosso campo di prigionia. In esso, nel frattempo, erano stati inviati anche i missionari italiani provenienti dal Kenya.
Lo stesso padre Maletto fornisce, anche qualche particolare su come viene vissuta la vita di preghiera all’interno del campo: «Abbiamo una cappellina che può contenere 10 persone inginocchiate e 20 in piedi e pigiate…» (da lettera del giugno 1941).
Anche se le rassicurazioni date da padre Maletto in merito alle condizioni dei missionari della Consolata in prigionia consolò i superiori di Torino, una seconda lettera, inviata il mese successivo, dava una visione meno ottimistica della vita in cattività: «Noi stiamo relativamente tutti bene. Per noi, fatti i due appelli giornalieri, la pulizia delle camerette e personale, lavatura e cucitura, il resto è tempo libero. Come però desidereremmo di poterci sgranchire le gambe con qualche passeggiata o almeno quattro passi fuori dei reticolati spinosi. In Kenya, a Kabete, ci si conduceva a spasso una, due o tre volte la settimana, come i collegiali, sorvegliati da assistenti. Era una gran festa. Qui nulla di nulla. La nostra minuscola cappella con il Santissimo è un grande conforto per noi. Altri non ne abbiamo…» (lettera del 24/3/1941, giunta in Italia nel luglio 1941).
A commento del breve brano della lettera di padre Maletto, in cui si ricordano i «tempi della prigionia di Kabete», il sottoscritto ricorda una breve conversazione avuta con un missionario compagno di prigionia, il padre Merlo Pick. Parlando dei «quattro passi fuori dei reticolati», pur sorvegliati dagli assistenti, Merlo Pick ricordava come due o tre padri riuscivano sempre, avvalendosi della conoscenza della lingua kikuyu, ad avere notizie delle missioni del Nyeri da parte di finti e occasionali viandanti.
La situazione risultava essere un po’ una comica: la comitiva dei «collegiali prigionieri» sembrava andare a passeggio, ma qualcuno, con la voce un pochino più alta, chiedeva notizie in kikuyu ai passanti che sembravano divertirsi di quei prigionieri in casacca da galeotti. «Come stanno le suore a Nyeri? Come vanno le missioni abbandonate? Salutateci tutti…».
Nessuno dei sorveglianti, del resto ignari del kikuyu e tanto più dell’italiano, riuscì mai a scoprire lo stratagemma. Al massimo, qualcuno pensò che nel gruppo dei galeotti ci fosse il «solito buontempone», in vena di sollevare il morale alla truppa!

LA CONSOLATA SI FA BELLA
A Koffiefontein la vita di prigionia scorreva monotona, senza troppi sussulti.
Però, si sa, il missionario non ama starsene con le mani in mano. Molti, infatti, occuparono questo lungo periodo di inattività forzata con l’apprendimento di lingue utili per il futuro: qualcuno si dedicò con dedizione allo studio del kiswahili, del kimeru, altri ancora si cimentarono addirittura con il tedesco. Alcuni dimostrarono interesse alla pittura, scultura, musica e altro ancora. Ci fu persino chi scoprì che tra le sabbie e pietruzze del campo di concentramento c’erano minuscoli diamanti e rubini…
A un certo punto, alcuni missionari decisero di cimentarsi con l’oreficeria! L’icona della Consolata, trafugata e messa in valigia di tutta fretta, faceva la sua bella figura nella cappelletta di fortuna che i missionari avevano ricavato nel campo di prigionia. Perché non abbellirlo? In fin dei conti la Consolata aveva accompagnato i «suoi» missionari addirittura in galera. Si meritava davvero un po’ di attenzione. Si iniziò con il produrre una bella coice per rimpiazzare quella originale, rimasta nella missione quando la tela fu tagliata e asportata.
A parte qualche rustico attrezzo, recuperato tra i rottami del campo di concentramento, non si poteva contare su struomenti adatti per lavorare il legno. L’arte, però, non conosce ostacoli e la coice venne scolpita con il solito e indispensabile coltellino milleusi.
Guardando l’immagine della Consolata nella sua nuova sede, saltò anche fuori la proposta di riprodurre le stelle che incoronano la Madonna, come nel quadro originale venerato nel santuario di Torino. «Bellissima idea – concordarono i più -. E perché non costruire le stelle in metallo prezioso?».
Già, proprio una bella idea! Ma dove si sarebbero potuti trovare dei metalli preziosi in una prigione? Oro? E chi ne aveva con sé? Argento? Alla parola «argento» qualcuno inizió a sussultare: la moneta del Sudafrica, il rand, era d’argento, forse la soluzione era stata trovata. Molti prigionieri accettarono, di buon grado di mettere a disposizione la «cinquina» che il governo inglese passava ai prigionieri: uno scellino al giorno. Al cambio risultavano circa 12 rand.
Dopo vari tentativi, l’orefice autodidatta riuscì a ottenere 12 belle stelle d’argento, con un piccolo punteruolo che permettesse di applicarle alla tela dell’icona. L’effetto fu sorprendente. Che emozione, la Consolata sembrava più bella… Anzi, meno triste, nonostante fosse anche lei in galera insieme a tutti i suoi missionari, dove resterà fino al mese di settembre del 1944.

RITORNO A CASA
Fu la voce della Radio Vaticana ad annunciare, il 20 settembre di quell’anno, che «i padri e le suore del Kenya erano tutti tornati alle loro missioni!».
L’anonimo «salvatore» della Consolata si era riportato in Kenya, tra le sue poche cose, anche il prezioso quadro. Per prudenza staccò le stelle d’argento, mettendole al sicuro. Incredibilmente, il quadro trovò ancora la sua vecchia coice, anche se, ahimé, fu necessario restringerla un pochino, dopo il taglio della tela praticato al momento dell’arresto.
Non ne uscì un capolavoro; anzi, a ben guardare, la squadratura non risultava delle più perfette. Nessuna paura! Era come avesse fatto la guerra! Purtroppo, però, nel trambusto del ritorno dalla prigionia, delle 12 stelle d’argento ne restavano solo nove.
Quando, nel processo di africanizzazione della diocesi di Nyeri, i missionari affidarono la missione al clero locale, pensarono di lasciare il quadro di questa «famosa» Consolata alle suore missionarie della Consolata di Nyeri. Ma dopo alcuni anni, le sorelle restituirono gentilmente il cimelio ai padri missionari, che ora lo conservano nella cappella della loro Casa regionale di Nairobi.
Ma quelle tre stelle mancanti…
Un giorno mi feci coraggio e raccontai questa curiosa storia a un amico indiano, ottimo orafo del Kashmir. Mi stette ad ascoltare per un po’ e poi, d’impulso, disse: «Mi porti una stella, padre, e io farò quel che devo fare».
Gli portai una stella di campione e dopo tre giorni mi chiamò a ritirare tre altre bellissime stelle d’argento, più lucenti delle prime.
«Voglio anch’io onorare la vostra Vergine – mi disse – perché benedica anche me e la mia famiglia. Anche se sono indù, apprezzo il vostro lavoro di missionari».
Oggi il quadro è tornato ad avere le sue 12 stelle. E la Vergine Consolata, prigioniera con i suoi missionari per tre anni nei campi di concentramento del Sudafrica, continua a presentarci il suo Bambino, a benedirci e accompagnarci in Kenya e in altre parti del mondo.  

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Per un pugno di pesos

La rivolta dei maestri di Oaxaca… non è ancora finita

Per oltre 5 mesi, a Oaxaca, stato del Messico centrale, lo sciopero dei maestri ha paralizzato 12 mila scuole pubbliche, ricevendo il sostegno di 350 organizzazioni civili di base e resistendo alla repressione violenta del governo centrale, Ulises Ruiz, finché il nuovo presidente del Messico ha firmato un accordo con il sindacato degli insegnanti. La scuola è ripresa, ma la tensione continua.

«Fino a quando non pagheranno un po’ di più mio papà, non me ne andrò da questa piazza». Adriana ha 9 anni ed è già una messicana decisa e senza timori. Con il sorriso ammaliante dei bambini e due occhioni luccicanti, mi viene incontro guardandoti fisso in volto e cercando la tua approvazione. «È quasi quattro mesi che dormo qui nello zócalo, la piazza principale della città, e lo faccio assieme a loro», mi dice la bambina indicandomi con il dito le centinaia di persone che, sotto tendoni di fortuna e striscioni di ogni tipo, vivono barricati in una sorta di campeggio cittadino.
Ma dove siamo?
«Bienvenidos en Oaxaca – continua Adriana – il luogo in cui i diritti umani non esistono più». Fa impressione sentir parlare una bambina in questo modo. Per capie di più, mi avvicino al gruppetto di donne più vicine a lei: sono la sua mamma, la zia e due cugine, anche loro ragazzine. Sguardo fiero e un’aria distesa, nonostante la situazione precaria, espongono Adriana come un piccolo trofeo. «Sono orgogliosa di lei – dice – per come mostra amore e solidarietà a suo padre, che si trova in una situazione bruttissima: è un maestro».
«Che male c’è ad essere un insegnante?» penso. Ma la donna mi anticipa: «Mio marito è uno dei 70 mila maestri pagati una miseria dallo stato, che ora è in sciopero permanente assieme a tutti gli altri».
L’equivalente di quasi 100 euro al mese, ecco quello che guadagna un maestro di Oaxaca. Uno stipendio da fame. Che lo porta a cercare un doppio, triplo lavoro, con il quale non riesce più a passare del tempo in casa e a crescere i propri figli. La situazione a Oaxaca e nello stato omonimo (il Messico è una federazione) è insostenibile da anni, ma solo il 14 giugno 2006, esasperati, i maestri sono scesi in piazza, per una marcia pacifica in cui chiedevano un aumento di salario.
Il governatore statale, Ulises Ruiz Ortiz, non ha badato a mezze misure nel reprimere la sollevazione popolare: gas lacrimogeni, proiettili di gomma, manganelli in aria hanno seminato il panico tra i manifestanti, bambini compresi. La violenza della polizia statale, anziché zittire il movimento di protesta, ha scatenato l’indignazione della società civile di Oaxaca e di tutto il Messico. Il capo della polizia si è dovuto dimettere, ma il governatore, la vera mente dell’assalto, è rimasto al suo posto, diventando così il bersaglio popolare.
Invitato ad andarsene anche dal governo centrale di Città del Messico, «Uro» (così chiamato per le iniziali del suo nome) non ha fatto alcun passo indietro, anzi: «Non cederò ai ricatti di questi sobillatori» ha detto, riferendosi ai maestri. I quali, decisi ad andare fino in fondo nella loro rivolta, si sono organizzati in una assemblea permanente, la Appo: Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca.
La Appo è diventata da subito un esempio a livello mondiale per la radicalità della sua lotta: in decine di parti della città, ma anche nei piccoli centri dello stato, sono sorti dei plantón, cioè occupazioni di piazze, edifici pubblici, emittenti radiotelevisive. Sono state messe auto, pullman di traverso per le strade, e sassi giganteschi hanno impedito il passaggio di qualsiasi veicolo. Proprio quando stava per arrivare il flusso di turisti nordamericani, canadesi ed europei, Oaxaca è diventata una città fantasma, sconsigliata da tutti gli operatori turistici mondiali.

La gente del posto, all’inizio, era divisa in due pensieri: da una parte, con l’occupazione, perdeva i guadagni del turismo, che permettevano un’esistenza dignitosa a migliaia di persone; dall’altra, le veniva spontaneo appoggiare la lotta dei maestri, la cui soddisfazione lavorativa avrebbe garantito un’adeguata educazione ai propri figli, in una zona dignitosa ma in cui la povertà non è mai stata completamente cancellata. Alla fine i commercianti, a parte qualcuno vicino al potere, ha appoggiato la protesta.
Dopo la violenza iniziale delle autorità, per 160 giorni, da giugno a ottobre 2006, il conflitto che si è creato ha conosciuto solo botta e risposta attraverso i mezzi di comunicazione. Le forze di polizia, accusate di corruzione e brutalità, sono state costrette ad abbandonare la città, mettendosi in periferia.
Dentro, la sicurezza era garantita dalla gente della Appo, che, organizzata in tui, manteneva l’ordine pubblico in un modo a prima vista facile, senza grandi problemi: la coscienza collettiva era ai massimi livelli; si sapeva che bastava veramente poco per generare un caos in cui le prime vittime sarebbero state i civili e il messaggio pacifico che portava con sé la protesta. In città tutto continuava a funzionare, compreso il coloratissimo mercato cittadino, in cui decine di donne industriose vendevano i loro prodotti fabbricati a mano: vestiti, oggetti in legno, e molti generi alimentari, soprattutto cibo prodotto in casa, come lo squisito pizatl, una sorta di pollo cotto al vapore, immerso nella polenta e racchiuso in una foglia di pannocchia o di banana. Erano funzionanti anche i locali in cui scorrevano fiumi di mezcal, la famosa bevanda alcolica messicana, quella del guisanito, il vermicello messo a riposare sul fondo della bottiglia per dare più sapore alla storica bevanda.
Per tutto questo tempo, centinaia di persone, come Adriana e la sua famiglia, hanno abbandonato le proprie case e sono andate a dormire in piazza. Soprattutto donne, mentre i mariti (più del 90% dei maestri è di sesso maschile) discutevano in accese riunioni sui passi successivi da compiere.
«C’è qualcuno che vorrebbe passare a un’azione più diretta – racconta José, insegnante elementare padre di quattro bambini -. Meno male che poi si convince a continuare la protesta in forma nonviolenta». Per far capire alla gente le loro intenzioni, decise ma contrarie all’uso della violenza, José e gli altri maestri hanno tappezzato la città di gigantografie di Gandhi, il padre della nonviolenza.
Anche i comuni della zona, imitando in piccolo Oaxaca, hanno organizzato forme di resistenza popolare, sospendendo le attività, scendendo in piazza con i gonfaloni, offrendo appoggio e mezzi alla campagna informativa della Appo. «Ci diamo da fare per far conoscere a tutti la situazione – dice Marcela, giovane attivista -. In molte piazze abbiamo allestito punti di informazione che, con video e assemblee, spiegano quello che sta accadendo».
I l luogo più suggestivo è la piazza di San Francisco, dove sorge la chiesa più bella e meglio conservata della città: qui, subito fuori l’imponente struttura dei francescani e all’inizio di una delle vie dove si vende artigianato e il famoso cioccolato locale, si è installato il Campamento por la dignidad y contra la represion en Oaxaca (Accampamento per la dignità e contro la repressione a Oaxaca). Marcela parla a decine di cittadini e ai pochi viaggiatori che entrano in città, raccontando la vita disperata di migliaia di maestri e delle loro famiglie. «Riceviamo appoggio e solidarietà da tutto il Messico e dall’estero – dice -: è una grossa spinta ad andare avanti».
E come hanno reagito i religiosi all’occupazione simbolica della piazza? «Sostenendoci anche loro – rivela con un sorriso Marcela -. Qui la chiesa è vicina alla gente, ne vive problemi e sfide, cercando di offrire il massimo appoggio».
Proprio così. Dai pulpiti delle decine di chiese di Oaxaca i sacerdoti invitano la gente a tener duro, senza cedere alla tentazione dello scontro diretto. Una mensa popolare è stata aperta proprio nei locali attigui alla cattedrale, nella piazza principale. La chiesa stessa rimane aperta giorno e notte per le preghiere dei fedeli, qui come in tutto il Messico molto devoti. «Non possiamo non sentire l’ansia della gente in questo momento» dice padre Andres, cappellano della cattedrale.
In effetti, a fine ottobre la tensione è alle stelle. Giravano voci di un avvicinamento di soldati dell’esercito alla città, in arrivo dalla capitale. Si era in alerta roja, allarme rosso. Ma senza farlo troppo vedere. «Da fuori, Oaxaca sembra una città in preda alla guerriglia» dice Sandra, che gestisce una pensione nel centro città, a pochi passi dallo zócalo. «La realtà, invece, mostra una città tranquilla, troppo tranquilla; chissà quando tutto si sistemerà e come andrà a finire» continua la donna preoccupata.

I timori di Sandra sono risultati profetici: il 28 ottobre, a 160 giorni dall’inizio del conflitto, la polizia di Uro ha fatto sgombrare con la forza la piazza principale; nella settimana successiva si è scatenato il finimondo: dieci persone sono rimaste uccise, tutti civili, tra cui un ragazzino 14enne e un giornalista freelance statunitense, William Bradley. Altre 70 persone almeno sono state arrestate, in maggioranza maestri e leader della Appo.
Grande è stata l’indignazione mondiale per il modo in cui è stata affrontata la situazione: il governatore si è dimostrato un mandante di assassini feroci, a volte travestiti da cittadini comuni, come nel caso dell’uccisione del maestro Fidel Garcia: è stato colpito alle spalle da una raffica di proiettili, mentre tornava a casa dopo una riunione della Appo.
L’arcivescovo di Oaxaca, Wilfredo Mayren, ha dato asilo politico a decine di maestri, tra cui Flavio Sosa, uno dei massimi dirigenti della Appo. «Esiste un terrorismo di stato e una persecuzione schizofrenica» affermava l’arcivescovo, accusando duramente le forze armate statali.
Per qualche giorno tutto è stato zittito e, quando la polizia se n’è andata, Oaxaca è tornata una città fantasma; ma per poco. La voce popolare, nonostante i morti, i feriti e i detenuti, si è rifatta viva quasi subito, con nuove occupazioni, nuovi scioperi, ed eclatanti denunce verso le autorità penitenziarie, ree di usare contro i maestri incarcerati violenza e torture, documentate dalla Ccdoih, Commissione civile internazionale per l’osservazione dei diritti umani, creata con l’avvallo di Amnesty Inteational.
Il famigerato Uro è rimasto al suo posto e lo è ancora oggi. Ma la situazione è cambiata, complice il cambiamento avvenuto il primo dicembre 2006 a livello di governo centrale: Vicente Fox, che si era mostrato indifferente verso la protesta dei maestri, viene sostituito alla presidenza del paese da Felipe Calderón, compagno di partito (del Pan, Partito di azione nazionale, conservatore), ma, almeno in apparenza, più deciso a risolvere la crisi di Oaxaca, tenendo conto delle richieste della gente.
Calderón è salito al potere nel mezzo di scandali e accuse di brogli elettorali: ha vinto per poche migliaia di voti, battendo il favorito della vigilia, il progressista Manuel Lopez Obrador, che non ha mai riconosciuto l’esito del voto. Nonostante ciò, il nuovo presidente ha concluso un accordo con la Appo per un aumento dei salari e un miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto risolto, quindi? «All’apparenza sembra risolto – dice Berta Muñoz della Ccdoih -. Il 9 marzo 2007 c’è stato l’ultimo arresto ai danni di una professoressa, Yolanda Ramirez, portata via dalla polizia mentre camminava per strada, senza alcuna spiegazione né accusa specifica». Berta, la Appo e tutte le persone di Oaxaca si chiedono quale sarà la prossima mossa di Uro. Perché alla fine, come spesso succede in America Latina, le efferatezze vengono ideate da chi dovrebbe difendere il popolo, anziché attaccarlo.
Il nuovo presidente dice di volere la pace sociale, ma la gente gli crede poco. Nel frattempo, a Oaxaca qualche piazza rimane occupata, soprattutto in periferia e nei quartieri più popolari, dove le forze dell’ordine non riscuotono alcun successo.
I turisti sono tornati. Questi sono interessati alle spoglie ma affascinanti rovine di Monte Albán (poste su un’alta collina a 15 minuti dal centro), ai 42 metri di circonferenza di El Tule, l’albero più grande al mondo, alla natura incontaminata di Ixtlán e ai lavoratissimi palazzi della civiltà mixteca di Mitla.
Il commercio è ripreso, le scuole anche. Ma quello che manca all’appello, come spesso accade, è il rispetto dei diritti umani, soprattutto dei «senza voce». Chissà se Adriana, un giorno, vorrà seguire le orme del padre e diventare maestra. Forse no. 

Di Daniela Biella

Daniele Biella




SAMBA VIOLENTA

Le metropoli brasiliane nella morsa del crimine organizzato

Statistiche e sondaggi d’opinione rivelano come la gente in Brasile si senta ogni giorno meno sicura. Narcotraffico, miseria e corruzione sono il cocktail esplosivo che impensierisce la vita quotidiana degli abitanti del colosso sudamericano.

I l problema della violenza è una realtà con cui individui e società hanno sempre dovuto fare i conti nel corso dei secoli. Anche in Brasile l’opinione pubblica rimane ripetutamente scioccata di fronte a episodi violenti compiuti da organizzazioni criminali, a cui rispondono le forze dell’ordine con azioni altrettanto violente. Per non parlare di chi, come gli squadroni della morte, si arroga il diritto di «fare un po’ di pulizia» per proprio conto (o per conto terzi), contribuendo così a fare impennare le statistiche degli omicidi e a riempire le pagine di cronaca nera.
Nella società contemporanea, grazie soprattutto al potere dei media, la violenza viene trasformata in spettacolo e, attraverso questo processo, viene giorno dopo giorno banalizzata. È impressionante vedere la forma con la quale alimenta le pagine dei giornali e guadagna spazi televisivi.
Crimine, paura, violenza, sofferenza, dolore e morte sono elementi imprescindibili dell’esperienza umana, che vorremmo veder rimossi, cancellati, ma che non riusciamo a eliminare totalmente. Servirebbe una cultura della pace, la quale dipende dalla promozione di valori positivi e dalla vigilanza che persone e istituzioni riescono a mantenere sulla dimensione contraria, ugualmente presente, fatta di rivalità, egoismo, esclusione.
Senza un equilibrio stabile nella coesistenza dei due opposti sarà sempre impossibile costruire una società che possa garantire una convivenza minimamente accettabile fra gli esseri umani. Se le istituzioni sono assenti, le organizzazioni criminali hanno buon gioco a conquistare il vuoto lasciato da esse.

CIFRE INQUIETANTI
Il Brasile non fa eccezione. In questi ultimi tempi sono stati diffusi nel paese svariati sondaggi, aventi come tema la violenza. L’ultimo di essi in ordine di tempo, realizzato dalle Agenzie CNT e Sensus e divulgato lo scorso 10 aprile, indica come il 90,9% degli intervistati noti un aumento significativo della violenza nel paese. Soltanto il 5,2% ha affermato di non avvertire nessun incremento in materia di violenza, mentre il 4% non ha saputo esprimere la propria opinione.
La povertà e la miseria sono indicate dal 24,1% delle persone intervistate come le cause principali della criminalità; il 19,1% la attribuisce alla cronica mancanza di giustizia; un altro 19% ritiene che il narcotraffico sia la causa principale; il 15% ha colpevolizzato un sistema legislativo ritenuto troppo garantista; l’11% ha puntato il dito contro l’endemica corruzione della polizia; il 7,6% dà la colpa alla debolezza e disorganizzazione delle forze dell’ordine. La percentuale mancante, infine, non ha saputo che cosa rispondere.
Il sondaggio, realizzato in 24 stati della federazione e fondato su più di duemila interviste, ha anche riportato ciò che la popolazione pensa essere la causa principale dell’insicurezza in cui vive il cittadino brasiliano. Il risultato è inquietante, in quanto se il 71,7% ha attribuito la responsabilità della violenza nel paese ai criminali, ben il 20% ha indicato come colpevole della situazione l’azione violenta della polizia.
I cittadini intervistati hanno indicato nella violenza urbana la causa numero uno di insicurezza, invocando un’azione congiunta di tutti gli organi preposti a difendere il vivere comune e la tranquillità della popolazione, partendo dal governo centrale, per scendere a quello federale e via via toccando più capillarmente la società con azioni che partano dalle stesse amministrazioni comunali.
La grande copertura mediatica che i fatti criminali hanno nel paese ha contribuito a creare nella gente una sensazione diffusa di insicurezza, che si unisce alla rabbia che scatta di fronte ai tanti casi di impunità goduta da chi delinque. Questa sensazione fa sì che l’opinione pubblica esiga pene sempre più severe per tutti coloro che infrangono la legge.
Oggi, più della metà dei brasiliani è favorevole alla pena di morte, nonostante venga riconosciuto il rischio di possibili errori giudiziari. A tanto portano la frustrazione e il senso di impotenza avvertito dalla maggior parte della popolazione.
Nella valutazione del sondaggio presentata dal direttore dell’agenzia Sensus, Ricardo Guedes, la percezione che la gente ha della violenza in genere è maggiore della violenza reale. Questo dato è rafforzato dal fatto che, sebbene il 90,9% della popolazione riconosce un aumento significativo della violenza, solo il 16,8%, in realtà, ritiene di vivere in una città violenta. Infatti, un individuo può vivere degli anni o tutta una vita in città come Rio de Janeiro o San Paolo senza vedere o subire personalmente nessun tipo di violenza. I mezzi di comunicazione si incaricano di creare uno scenario di violenza più grande, dando ampia copertura ai fatti delittuosi.
Visto dal di fuori, si ha l’impressione che basti che il turista metta il piede in una città per essere attaccato da qualche bandito.

RIO: UNA LUNGA STORIA
DI VIOLENZA
Paura e violenza a Rio de Janeiro hanno percorso insieme un lungo cammino nella storia della città, attraversato secoli, guadagnando nuovi scenari e scatenando vecchie reazioni. Ciò non deve stupire: la violenza è alle radici del processo di formazione nazionale del Brasile. Pensiamo, ad esempio, all’epoca del commercio illegale del pau-brasil (un legname pregiato destinato al mercato europeo), quando si è dato inizio alla decimazione dei popoli indigeni nativi; oppure alla corsa all’oro, causa di avidità e violenza anche in Brasile. Per non tacere del traffico di schiavi. Tutto entrava, partiva e veniva trafficato nel porto di Rio.
Il senso di insicurezza nella città di Rio de Janeiro pervase tutto il periodo coloniale, cominciando proprio dagli inizi. Nella seconda metà del 16° secolo, la regione era stata invasa dai francesi, occupazione destinata a durare poco tempo, visto che già nel 1565 i portoghesi riuscirono a scacciarli dalla colonia.
Costante era, soprattutto, il timore del pericolo «esterno»: paura delle malattie portate dal traffico degli schiavi, delle invasioni straniere, di essere attaccati dai nativi. Questa angoscia, presente nella popolazione «carioca», scatenava reazioni di panico e paura anche in situazioni apparentemente innocue, come il semplice avvicinarsi di imbarcazioni sconosciute alla baia di Rio.
Anni più tardi, i francesi pianificarono nuovi attacchi contro la città e nel 1711 riuscirono a sconfiggere i portoghesi. Durante questi avvenimenti, grande parte della popolazione urbana si rifugiò in altre regioni, mentre le autorità, non potendo resistere, si arresero agli attacchi nemici.
Anche il traffico degli schiavi contribuì a creare grande preoccupazione alla popolazione urbana di Rio. Molti schiavi rimanevano esposti in vetrine per essere venduti; ma coloro che non avevano acquirenti potevano rimanere in città per giorni, settimane e anche mesi.
Gli abitanti, che già dovevano convivere con il disordine e l’insicurezza causati dalla mancanza di ordine pubblico, avevano anche paura di essere contaminati da malattie provenienti dalla povertà di igiene, che accompagnava il commercio degli schiavi venduti in città. Delinquenti comuni, schiavi, schiavi liberati, schiavi fuggitivi, zingari… tutto rappresentava una minaccia agli occhi degli abitanti di Rio, soprattutto della componente bianca.
Infine, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, con la crescita rapida e disordinata della popolazione urbana, si iniziarono a formarsi le favelas, quartieri di insediamento spontaneo, talvolta forzato, quasi sempre abusivo. In alcune di queste aree le istituzioni dello stato non si sono mai rese presenti, facendo di conseguenza mancare all’immensa popolazione di questi settori i servizi più elementari.
Vista l’assenza dello stato sul territorio, con l’andare del tempo gruppi mafiosi, legati al traffico degli stupefacenti, hanno occupato lo spazio lasciato vacante dallo stato, istituendo un vero e proprio «governo-ombra» a base criminale. I trafficanti stessi si sono da sempre incaricati di mantenere l’ordine all’interno delle favelas, facendo di tutto per non attirare l’attenzione della polizia.
Non sono però mancate vere e proprie guerre fra gruppi rivali per il controllo delle aree strategiche come i morros, le cime delle colline, le parti più alte delle favelas, da cui è facile tenere tutto e tutti «sotto mira».
La polizia e l’esercito entrano periodicamente in queste aree per tentare di non perdere completamente il controllo della situazione e «far vedere i muscoli». Queste guerre tra bande di narcos, la polizia e in alcuni casi le milizie di vigilanti, terminano quasi sempre con la morte di qualcuno: siano essi criminali, poliziotti o civili innocenti.
Il numero di giovani morti nelle favelas a causa della violenza urbana supera quello offerto dai bollettini di molte zone di guerra. Secondo il B’tselem, un gruppo israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2006, sono morti 729 minorenni israeliani e palestinesi a causa della violenza in Israele e nei territori occupati. Durante lo stesso periodo, secondo i dati foiti dall’Istituto di sicurezza pubblica brasiliano, nella sola Rio de Janeiro sono stati assassinati ben1.857 minorenni.
Recentemente, il governatore dello stato di Rio de Janeiro, Sergio Cabral, ha chiesto al presidente Lula «l’uso delle forze armate per il periodo di un anno, al fine di garantire la legge e l’ordine nello stato, nella regione metropolitana e nella città di Rio de Janeiro». Nella dichiarazione pubblica resa dal governatore, si rileva come, «nonostante i ripetuti sforzi svolti in quest’area dal servizio pubblico, sia stato finora molto difficile, con le risorse disponibili, far fronte all’avanzata della criminalità che minaccia l’ordine pubblico e l’incolumità delle persone e del loro patrimonio».
L’appello è più che mai urgente in questo periodo in cui Rio si prepara ad essere la sede dei giochi panamericani, che avranno luogo nella metropoli «carioca» dal 13 al 29 luglio prossimo. L’avvenimento, che avrà per giunta un’attenzione speciale da parte dei media, esigirà un rinforzo significativo della pubblica sicurezza.
Si può dire che la Rio di oggi sia una miscela paradossale. Se da un lato fa sfoggio di bellissimi paesaggi e spiagge che portano in città milioni di turisti ogni anno, dall’altro assiste all’aumento esponenziale delle favelas, ubicate soprattutto sulle colline che circondano la città. La più famosa di esse è la Favela de Rocinha, la più grande e popolosa del paese. La gioia e il colore della samba, presenti ogni anno nella sfilata del carnevale, si armonizzano con le storiche partite di calcio nello stadio del Maracaná, con la statua del Cristo Redentore, ma si scontrano con le tragiche conseguenze prodotte dalle attività della criminalità organizzata.
Soprannominata la «città meravigliosa», Rio convive oggi con la sfrontatezza di un’organizzazione mafiosa comandata da fazioni criminali come quella del «Terceiro comando» o del «Comando vermelho», organizzazioni criminali responsabili di delitti efferati e dello stato di permanente insicurezza della popolazione.

DALLE CARCERI
DI SAN PAOLO
In Brasile, il crimine organizzato si infiltra fra le maglie della società civile, approfittando della poca intesa politica fra i governanti e della corruzione diffusa, che ammorba e indebolisce le istituzioni che dovrebbero combattere il crimine. Se a Rio sono attive le milizie criminali, a San Paolo agiscono pressoché indisturbati (e quasi sempre con la connivenza della polizia) gli squadroni della morte.
Secondo l’avvocato Ariel de Castro Alves, cornordinatore del Movimento nazionale dei dirittti umani, per capire meglio i conflitti a Rio e la violenza quotidiana che colpisce oggi il paese, è importante ricordare quanto è capitato a San Paolo negli ultimi anni con l’avvento del gruppo criminale «Primeiro comando da capital» (Pcc), nato nel 1993 nei pressi della Casa circondariale di Taubaté.
L’idea originaria dei fondatori del gruppo era quella di organizzare i detenuti attraverso un partito o movimento politico, avente il fine di lottare contro gli episodi di ingiustizia e violenza che avvenivano quotidianamente all’interno delle prigioni brasiliane: torture, umiliazioni e assenza di diritti elementari nel sistema carcerario. Il Pcc chiedeva anche che venisse resa giustizia ai 111 prigionieri uccisi dalle forze speciali della polizia militare nell’episodio conosciuto come il «Massacro del Carandiru», del 1992.
Con il tempo, l’organizzazione si è fatta più complessa e ha deviato dalle finalità originarie postulate dai suoi fondatori, rafforzandosi rapidamente a causa della precarietà che caratterizza il sistema carcerario brasiliano e dalla mancanza di volontà politica di voler affrontare di petto il problema. Nello stesso periodo, le autorità hanno limitato la presenza delle organizzazioni umanitarie nelle strutture carcerarie, impedendo l’ingresso di molti loro rappresentanti all’interno delle prigioni.
Senza più controllo e monitoraggio di alcun tipo e facendosi forza della corruzione vigente a tutti i livelli del sistema carcerario, il Pcc si è presto trasformato in una potente organizzazione criminale. Il suo dominio si è venuto via via affermando grazie a crimini compiuti dentro e fuori le mura carcerarie, sfruttando e ricattando altri prigionieri e loro familiari, accumulando ricchezza grazie al traffico di droga, imponendo terrore e morte a coloro che li avversavano o che tradivano. Non è neppure mancato l’aiuto benevolo di avvocati, funzionari dello stato, membri delle forze dell’ordine e altre figure «utili» arruolate in svariati settori della società.
Invece di agire con fermezza, lo stato ha preferito procedere al riconoscimento di leader e portavoce del movimento, mantenendo aperto con il Pcc un dialogo fatto di negoziati e accordi reciproci. Era sembrata una buona strategia quella di negoziare con pochi esponenti del gruppo, in grado di esercitare un controllo sugli altri membri dell’organizzazione.
Questo sistema ha funzionato soltanto per qualche anno. Il crimine organizzato nelle prigioni è cresciuto rapidamente, sfuggendo totalmente al controllo delle istituzioni. La prova di forza più importante del gruppo criminale si è avuta con la ribellione del febbraio 2001, che ha coinvolto 29 stabilimenti carcerari nello stato di San Paolo. Il trasferimento di prigionieri dallo stato paulista in altri istituti di pena del Brasile ha contribuito a far sì che l’organizzazione creasse ramificazioni e avesse appoggi in tutto il paese.
Nel corso degli anni 2001-2003, svariati attacchi contro poliziotti e tribunali sono stati attribuiti al Pcc. Tuttavia, il fatto di cronaca più eclatante risale al 12 maggio dell’anno scorso, quando il crimine organizzato ha dato inizio alle esecuzioni sommarie di agenti dello stato. Tra maggio e agosto, l’organizzazione avrebbe ucciso ben 59 persone in 3 ondate di attentati (poliziotti, guardie civili, agenti di custodia e civili) e si sono contate ribellioni e sommosse in gran parte degli istituti di pena, inclusi vari carceri minorili.
Sebbene lo stato di San Paolo sia stato quello maggiormente colpito da questi avvenimenti di violenza e panico, si sono contati disordini anche in altri stati del paese, come Espírito Santo, Paraná e Mato Grosso.
Dopo l’ondata di attacchi del 12 maggio, si è assistito alla «ritorsione» orchestrata dalle forze dell’ordine e degli squadroni della morte, in un insieme di violenze che ha portato a vere e proprie esecuzioni sommarie e massacri. Secondo i risultati delle autorità, tra il 12 e il 20 maggio 2006 sarebbero morte in totale ben 492 persone.
Altri dati foiti dalla «Segreteria di pubblica sicurezza» hanno dimostrato che nel secondo trimestre del 2006 sono state assassinate a San Paolo 1.888 persone: una cifra che corrisponde a più del doppio delle vittime avutesi in Iraq nello stesso periodo. Il terrore ha invaso la più grande metropoli dell’America Latina. La polizia ritiene che, in almeno 82 episodi, gli squadroni della morte si siano resi responsabili di omicidi e sparizioni, ma nessuno di questi casi è stato ufficialmente chiarito da polizia o magistratura. Le notizie sono negate dalle autorità e il Pubblico ministero ha finora avuto grandi difficoltà a reperire dati ufficiali e informazioni.
I testimoni temono ritorsioni e non credono nelle istituzioni, ragione che favorisce l’impunità di chi delinque. Oggi, un anno dopo gli attacchi da parte del crimine organizzato e la reazione sconsiderata di forze dell’ordine e squadroni della morte, la situazione è ancora propizia per nuovi scontri e altri massacri. Il sistema carcerario continua ad essere fuori controllo, la polizia non riesce a far fronte all’emergenza, la maggioranza delle famiglie degli agenti uccisi durante gli scontri non sono ancora stati indennizzati.

BABY CRIMINALI
Negli ultimi tre mesi, si sono verificati crimini che hanno generato un dibattito nazionale su violenza e realtà minorile. Il Congresso brasiliano sta pensando di applicare sentenze più dure per crimini che coinvolgono bambini e possibilmente ridurre l’età minima per poter giudicare i criminali adolescenti. Attualmente più di 300 progetti di legge sono stati presentati al Congresso nazionale, con proposte tendenti a ridurre la maggior età penale da 18 a 16 anni. Altri due progetti arrivano a proporre la riduzione dell’età rispettivamente a 14 e addirittura a 12 anni.
Enti come la Conferenza episcopale brasiliana e l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) si oppongono duramente a queste proposte, che non vengono viste come soluzioni adeguate al problema della criminalità minorile. Anche due avversari politici come il governatore dello stato di San Paolo, José Serra, e il presidente Lula sono d’accordo che la diminuzione dell’età perseguibile non risolverebbe il problema della violenza causata da ragazzini e adolescenti.
La questione è annosa e controversa, perché una qualsiasi soluzione deve tenere in conto i parenti delle vittime della violenza minorile che esigono giustizia e, con indignazione, rifiutano tutto ciò che tutela i giovani che si macchiano di crimini anche orrendi. Alcuni casi in particolare suscitano vivaci dibattiti in seno all’opinione pubblica. Uno di questi, particolarmente odioso, si è verificato di recente a Rio de Janeiro e ha riguardato la morte del bambino João Helio, di appena 6 anni, rimasto impigliato nella cintura di sicurezza dell’automobile di sua madre, alla quale alcuni banditi stavano rubando la vettura. Tutti gli occupanti del veicolo erano riusciti a scendere, mentre il piccolo João non ce l’aveva fatta ed era stato trascinato per 7 chilometri.
Uno dei banditi aveva 18 anni al momento dell’aggressione: la pena detentiva che lo attende può variare da 20 a 30 anni di reclusione; il suo complice sedicenne, invece, potrà rimanere detenuto al massimo per 3 anni, secondo quanto prevede l’attuale legislazione.
Movimenti per i diritti civili e Ong continuano a fare pressione, esigendo che alle misure repressive in ambito di ordine pubblico, vengano associate misure preventive in ambito sociale. Il 10 aprile scorso si è realizzata una mobilitazione nazionale che ha attirato l’attenzione della società brasiliana e dei mezzi di comunicazione sulla necessità di migliorare il «Sistema nazionale di promozione socio-educativa» (Sinase) e di procedere a investimenti immediati e urgenti di politica pubblica.
La violenza, in Brasile come altrove, è un problema complesso, che presenta molte sfaccettature e dipende da innumerevoli cause. Una di queste è la proliferazione delle armi da fuoco, che si possono ottenere con esagerata facilità nel paese.
In Brasile, come in altre parti del mondo, regna una cultura della violenza e contro questo fenomeno c’è l’assoluto bisogno di educare le persone. Nel mese di ottobre 2005, per esempio, non è stato approvato un referendum che puntava all’esercizio di un controllo più capillare ed efficace del commercio delle armi.
Tuttavia il nuovo «statuto del disarmo», entrato in vigore nello stesso anno, è considerato rigoroso e moderno. Secondo la nuova legge, oggi dovrebbe risultare più difficile acquistare o avere accesso a un’arma. Peccato che alle buone intenzioni non si accompagnino sempre fatti concreti. Infatti, si continua a sapere di imprese che hanno aumentato la loro fabbricazione e vendita di armi sul mercato brasiliano. Ciò che rimane da stabilire è se queste armi vengono vendute legalmente…
Toccherebbe allo stato fare i controlli del caso, e applicare in modo severo una legge per altro già esistente. Ma si sà: i poteri sono molto deboli e la corruzione si tocca con mano in ambito giudiziario, legislativo, nelle forze dell’ordine e nelle istituzioni in genere. Come conseguenza si hanno indici molto bassi di controllo dei crimini e punizione dei colpevoli. La popolazione vive sfiduciata e insicura, cercando i mezzi di difendersi per conto proprio, con quello che trova.
Si può anche capire lo stato di confusione in cui il Brasile, oggi, sta vivendo. Non esistono facili vie di uscita, ma recuperare l’autorità dello stato di diritto e aumentare le politiche sociali sono misure indispensabili. 

Di Jaime Patias

Jaime Patias