Un passo verso la pace

Nord e Sud Corea più vicine dopo l’incontro tra i due presidenti

L’armistizio che concluse la Guerra di Corea (1950-1953) ha diviso in due blocchi un popolo
con la stessa storia, lingua e cultura. Oltre 50 anni di regime marxista ha negato ai nord-coreani i diritti e i beni fondamentali. All’inizio di ottobre 2007, i leaders dei due paesi hanno firmato un patto di riconciliazione, impegnandosi anche a sviluppare i legami economici. Ma per la riunificazione si dovrà ancora attendere.

Quarant’anni di spietata colonizzazione giapponese, poi la guerra. Prima quella mondiale, poi quella fratricida, conosciuta come Guerra di Corea, innescata da profonde divisioni ideologiche, strumentalizzate a propri fini dalle grandi potenze d’allora.
Al termine di questo conflitto milioni di morti, feriti, senzatetto, sfollati, rifugiati, un paese completamente distrutto e diviso. Un popolo diviso. Famiglie divise. Un retaggio che, a più di 50 anni di distanza, i coreani stanno pagando a caro prezzo.
 MURO DI SILENZIO E NOIA
Questo dramma, che ha sconvolto l’esistenza di milioni di persone, si materializza qui a Panmunjom, al 38° parallelo, in un bordo sottile di cemento alto poco più di dieci centimetri. Tanto basta per mantenere separati 70 milioni di persone che condividono storia, lingua, cultura, tradizioni, leggende. Una striscia che anche un pupetto di pochi mesi, barcollando a quattro zampe, potrebbe facilmente superare e che invece, qui, riesce a mantenere divisi eserciti tra i più potenti al mondo.
Ai fragori dei cingoli dei carri armati, alle urla dei soldati, ai pianti dei civili in fuga, ai sibili delle bombe, ora si è sostituito il silenzio. Che, però, equivale al clamore della disperazione. Un silenzio assordante che dura da quel 27 luglio 1953, quando le due delegazioni, da una parte quella nordcoreana e dall’altra quella statunitense in rappresentanza dell’ONU, apposero sul documento dell’armistizio le loro firme, fondamenta per quella striscia di cemento invalicabile.
In seguito, Seoul eresse lungo tutta la Dmz (zona demilitarizzata) un muro, questa volta vero, di cemento armato, identico a quello eretto a Berlino. La sua costruzione, come del resto quello che divide Cipro, non indignò il mondo «libero», perché eretto da una potenza ad esso alleata e per di più in prima linea a fronteggiare il «pericolo rosso».
Dalla mia postazione privilegiata, oggi posso vedere i volti dei turisti che, dalla parte meridionale, osservano curiosi ed emozionati, questo «regno eremita» con binocoli, cannocchiali, cineprese, macchine fotografiche. Hanno espressioni grevi, non so se dovute al fatto di essere consci dei tragici eventi che Panmunjom simbolizza o per la paura di essere di fronte a quello che è stato per anni descritto come un paese guidato da pazzi guerrafondai, pronti a lanciare ordigni nucleari a destra e a manca.
Le guardie nord e sud coreane si scrutano a vicenda. Nei loro occhi non vedo odio, neppure rancore, ma noia, quella sì. Le giornate passano lente, monotone, tutte uguali da 50 anni a questa parte. Solo qualche allarme, di tanto in tanto, e del resto subito rientrato, ha aumentato la tensione. Se invasione ci dovesse essere, non è certo da qui che inizierebbe.
Gioate lente, scandite dal ritmo cadenzato dei passi al cambio delle guardie o dalle bandiere che garriscono svogliatamente al vento. Il vento… solo lui, assieme agli uccelli e alle nuvole, che non conosce confini. Neppure qui a Panmunjom.

EGUALITARISMO COREANO

Avevo impiegato 24 ore ad attraversare in treno il breve tratto che da Pyongyang arriva a Sinuiju, al confine cinese. Innumerevoli black out sconvolgevano continuamente la tabella di marcia. Ora che compio il tratto inverso, la locomotrice sembra correre verso la capitale; non «divora la pianura» come quella cantata da Guccini, ma arranca faticosamente; e forse non va neppure verso la giustizia proletaria, se al confine ritrovo la situazione, purtroppo familiare, di guardie nordcoreane che pretendono dai commercianti e dalle famiglie cinesi parte della loro mercanzia o bagagli: meloni, scarpe, vino, carne, cappellini non importa quali, purché abbiano un marchio «global» ben visibile, magliette dai colori sgargianti che faranno distinguere chi le indossa dalla massa di uniformi verdi e grigie.
Un dazio illegale, certo, ma accettato da tutti. Del resto, qui in Corea del Nord, l’illegalità va a braccetto con la rigidità delle regole emanate dal governo. Ci vogliono 2.000 dollari per comprare un passaporto; ma per chi non può permettersi di pagare tale somma (la quasi totalità della popolazione), ne bastano 100 per corrompere una guardia di confine e sgattaiolare al di là dell’Amnok, il fiume che separa i due paesi. «È l’egualitarismo coreano – mi ha detto una volta un rifugiato incontrato a Dandong -. Puoi raggiungere gli stessi sogni percorrendo strade diverse».
A Pyongyang l’atmosfera è rilassata, come sempre. Nessuno è sceso per le strade a manifestare a favore o contro l’accordo a Sei o per la visita del nemico Roh Moon-hyun. Non ce n’è bisogno, in un paese dove il dissenso è vietato e tutti sono sempre d’accordo con le scelte di Kim Jong Il. Il compito dei cittadini è quello di contribuire a far prosperare il paese.
Compito arduo perché, pur volendolo, per molti non c’è possibilità alcuna di farlo. Le fabbriche faticano a sopravvivere con una tecnologia antiquata, pezzi di ricambio fatiscenti, continue interruzioni energetiche. Nelle campagne i trattori sono fermi nelle officine per mancanza di carburante e le famiglie dei contadini riescono a sopravvivere solo grazie al raccolto dei campi che il governo ha dato loro in concessione dopo le riforme economiche varate nel 2002.
Colpa dell’embargo imposto dagli Stati Uniti, accusano i dirigenti nordcoreani, colpa della politica collettivistica imposta dal governo in tutti questi decenni, replicano i governi occidentali. Fifty fifty, concludono diplomaticamente le agenzie non governative che operano nella nazione. Fatto sta che, secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal World Food Programme in un rapporto stilato in collaborazione con lo stesso governo di Pyongyang e l’Unicef, il 7% dei bambini è gravemente malnutrito, mentre il 34% è classificato come «cronicamente malnutrito».
A Pyongyang visito un orfanotrofio che accoglie un centinaio di bambini: «I loro genitori sono morti durante le carestie degli anni precedenti» dice la direttrice. Molti di questi piccoli ospiti sono malati. Non c’è un frigorifero dove mantenere medicine; ma anche se ci fosse non ci sarebbero medicine. L’embargo colpisce anche questi prodotti. Le differenze sociali, un tempo visibili tra gli abitanti delle città e i contadini, cominciano a farsi sempre più vistose.

QUALCUNO È PIù UGUALE…

In un’economia che marcia a moneta quadrupla (won, yen, euro e dollaro), solo chi ha rapporti con l’estero può permettersi una vita piuttosto agiata. A Pyongyang si può trovare di tutto: dallo stereo Hi-Fi ultima generazione agli spaghetti Barilla o la Nutella. Ma tutto è venduto in moneta forte. Chi non ha «agganci» all’estero, si deve accontentare degli scaffali semivuoti dei negozi popolari.
Una nuova classe sta sorgendo oggi. Non la possiamo chiamare «media», ma ha un livello di vita leggermente superiore allo standard locale. Sono gli operai delle multinazionali sudcoreane, giapponesi e europee, che stanno investendo nel nuovo mercato nordcoreano e i contadini «ricchi», coloro che riescono a ricavare dai loro appezzamenti di terreno sufficienti prodotti per rivenderli ai mercatini protocapitalistici che il governo organizza ogni settimana nelle città distrettuali.
Le riforme volute da Kim Jong Il nel 2002 e applaudite dal consesso internazionale hanno però impoverito ulteriormente la maggioranza della popolazione. Non quella che «non ha voglia di lavorare», come direbbero subito alcuni, ma quella che non ha possibilità di lavorare meglio e di più. La proporzionalità diretta tra produttività e salario, introdotta dal governo, avrebbe dovuto aumentare la produzione industriale e agricola, ma così non è stato. «Nella nostra fabbrica i macchinari obsoleti non ci consentono di produrre quanto si produce nella vicina fabbrica Hyundai. Eppure lavoro in media due ore di più al giorno, guadagnando molto di meno del mio collega» si lamenta un operaio di una ditta metalmeccanica della regione di Kaesong.
Fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile sentire una critica simile alla politica economica del partito. Il fatto che, seppur timidamente, qualche parola in più oggi venga detta fa ben sperare anche le organizzazioni che si occupano di diritti umani, a cui il governo ha sempre negato l’accesso per verificare direttamente la condizione della popolazione.

Due passi per cambiare la storia

Sono bastati solo due passi al presidente sudcoreano Roh Moon-hyun per dare nuove speranze al futuro della penisola coreana. Lo scorso ottobre, lo abbiamo visto su tutte le televisioni, l’inquilino della Cheon Wa Dae, la Casa bianca di Seoul, è entrato in Corea del Nord varcando quello che, per quattro lunghi decenni, è stato il confine più sigillato della terra: il 38° parallelo.
Roh è stato il secondo capo di stato della Corea del Sud a fare visita a Kim Jong Il, dopo il famoso viaggio di Kim Dae Jung nel 2000, viaggio che valse a quest’ultimo il premio Nobel per la pace. Ma se allora Kim Dae Jung andò a Pyongyang in aereo, oggi il successore Roh Moon-hyun ha voluto andarci via terra, a significare la volontà di riunificazione della penisola e la definitiva cancellazione della linea di confine tra i due paesi.
È dal 1953 che questa frontiera, saldamente chiusa al transito sia di merci che di uomini, segna la proiezione simbolica in Asia di quello che per l’Europa era il Muro di Berlino. In quell’anno, un armistizio pose temporaneamente fine a una sanguinosa lotta armata costata la vita a due milioni e mezzo di uomini fra coreani, cinesi e statunitensi.
La Guerra di Corea fu il primo conflitto «per procura», che pose di fronte le due superpotenze uscite vittoriose dalla Seconda guerra mondiale: Stati Uniti e Unione Sovietica. A queste se ne aggiunse in seguito una terza, la Cina, che cominciava a riaffacciarsi alla scena mondiale dopo le umiliazioni subite nell’Ottocento da parte dei paesi europei.
Pechino non solo interpretava il coinvolgimento di Usa e Urss in un paese a lei confinante, come un pericolo alla sua stessa esistenza, ma entrando direttamente nella contesa, voleva far sapere a tutto il pianeta che una terza potenza mondiale era nata dopo il 1945. Mao Zedong, in Corea, ci perse il suo figlio prediletto, uno dei 150.000 cinesi morti a fianco dei soldati di Pyongyang. Da allora l’intera penisola rimase divisa e ancora oggi le due Coree sono ufficialmente in stato di belligeranza, visto che non è mai stato siglato un trattato di pace.
Il 38° parallelo resta così l’ultimo tratto della Cortina di ferro non ancora smantellato. Un retaggio di Yalta eduna contraddizione al tempo stesso, visto che la contesa mondiale del xxi secolo non si esplica più come opposizione tra mondo capitalista e mondo socialista. E proprio in questo nuovo ordine mondiale, diviso più dall’appartenenza religiosa che da quella ideologica e politica, la Corea del Nord, ultimo regime a economia socialista «pura» esistente sulla terra, si sente isolata e respinta da quelle stesse nazioni che, un tempo, la appoggiavano, come la Cina.
Pyongyang allora cerca di sopravvivere cercando alleati tra quelle potenze che, pur combattendo apertamente l’idea marxista, si contrappongono al nemico comune: gli Stati Uniti. Iran, Siria, Pakistan intrattengono ottimi rapporti diplomatici e economici con Kim Jong Il. In cambio di assistenza militare, campo in cui la scienza nordcoreana eccelle, ecco arrivare quel petrolio che Clinton aveva promesso nel 1994 per sopperire alla chiusura delle centrali nucleari, ma che Bush ha negato appena salito al governo.
Le continue tensioni tra Pyongyang e Washington hanno infastidito anche Seoul, timorosa che un’escalation del nervosismo influisca negativamente sulla crescita economica. È per questo che sulla linea di demarcazione valicata a piedi da Roh Moon-hyun campeggiavano due parole ben visibili: «Pace» e «Prosperità», due condizioni essenziali per lo sviluppo dei 70 milioni di coreani.

DIALOGO E INVESTIMENTI

E pace e prosperità erano anche le parole d’ordine che hanno concluso gli attesi negoziati a sei tenutisi a Pechino contemporaneamente all’incontro tra i due capi di stato coreani. Al termine dei loro mandati, sia Bush che Roh hanno voluto lasciare in eredità ai successori uno spiraglio per risolvere al meglio il nodo coreano.
«Una Corea del Nord economicamente stabile è un vantaggio per tutti» afferma Son Key-young, studioso dei rapporti tra le due Coree, che nel 2000 aveva analizzato attentamente la politica di dialogo avviata da Kim Dae Jung. «Dapprima è un vantaggio per il Sud, che può allargare il proprio bacino economico e avere una manodopera culturalmente preparata, senza barriere linguistiche ma a basso prezzo.
È un vantaggio anche per il Giappone, che può dirottare il budget per la difesa missilistica su altre voci. Infine, rafforzare socialmente il governo di Kim Jong Il garantirebbe stabilità sociale all’intera area e al tempo stesso un trapasso meno traumatico da un’economia socialista a una di mercato».
Sono in molti, anche in Corea del Sud, a storcere il naso di fronte alle dichiarazioni di Son Key-young. Come si può sperare che un governo dispotico e autoritario come quello di Kim Jong Il rimanga al potere? E perché, ci si chiede, non seguire, invece, la politica delineata da Richard Armitage all’inizio dell’amministrazione Bush, che auspicava un totale blocco degli aiuti al Nord per accelerare il tracollo economico e una rivoluzione intea? «Una crisi alimentare potrebbe uccidere centinaia di migliaia di nordcoreani, ma alla fine ci sarebbe una ribellione che porterebbe al potere una fazione più propensa al dialogo» aveva auspicato Armitage, aggiungendo che «il sacrificio di poche migliaia di nordcoreani salverebbe la vita a milioni di persone, in caso Usa, Corea del Sud e Giappone si trovassero costretti a intervenire militarmente per arginare la prepotenza di Kim Jong Il».
Per fortuna la linea Armitage non fu perseguita e oggi il dialogo avviato da Kim Dae Jung e Kim Jong Il nel 2000 sta portando i suoi frutti. Lentamente l’economia nordcoreana si sta ravvivando. Sono numerose oramai le aziende sudcoreane che intendono investire al nord. La Hyundai, che per prima ha rotto la titubanza capitalista, guida ancora la cordata delle 26 ditte che hanno investito nella zona a economia speciale di Kaesong.
In un’intervista rilasciata in esclusiva, Noh Young-Don, presidente della multinazionale, mi dice che «investire a Kaesong ci permette di essere pionieri nel nuovo mercato nordcoreano e, al tempo stesso, ci rende fieri di contribuire al dialogo e alla conoscenza reciproca di un popolo unito, ma diviso, che per 57 anni non ha potuto parlarsi».

PER L’UNIFICAZIONE… CI VUOLE  PAZIENZA

E per quanto riguarda l’unificazione politica dell’intera penisola? «Ah, per quella non se ne parla. Secondo me per almeno un’altra cinquantina d’anni almeno. Prima dobbiamo adoperarci per diminuire il divario economico esistente tra i due stati» conclude Noh Young-Don. Nessuno dimentica quanto difficile è stata l’integrazione economica delle due Germanie dopo l’unificazione della Ddr nella Repubblica Federale. E in quel caso si parlava di una proporzione economica di 5 a 1. Qui, in Corea, siamo a livelli di 30 o 40 a 1. Vale a dire che l’economia della Corea del Sud ha un Pil 40 volte superiore a quella del Nord. Piuttosto si preferisce parlare di federalismo: un paese con due economie, ma una sola politica estera e libero scambio tra cittadini. Sono queste le basi su cui oggi si parla di una sola Corea.
Anche nel campo nucleare, il regime di Kim Jong Il ha mostrato di essere più disponibile di quanto si potesse credere. Il suo governo ha l’arduo compito di traghettare la Corea del Nord verso nuovi lidi. «Ora speriamo di non fare l’errore che abbiamo fatto con l’Iran, quando abbiamo abbandonato Khamanei e i progressisti, lasciando il campo libero ai conservatori» sospira David Khang, coautore del libro Nuclear North Korea: a Debate on Engagement Strategies.
Secondo Khang l’Occidente e gli stati asiatici hanno tutto l’interesse a favorire Kim Jong Il, che ha mostrato la volontà di apertura e di cambiamento. «Abbandonare Kim Jong Il significherebbe consegnare la Corea del Nord all’incertezza e ai militari» conclude infine lo studioso. La caduta del governo di Shinzo Abe in Giappone ha scongiurato questo pericolo, almeno per ora. Ma il sentirnero da percorrere è ancora molto lungo e scosceso. Per vedere un’effettiva pace tra il popolo coreano occorre ancora molta pazienza. 

Di Piergiorgio Pescali

Orfanotrofio di Pyongyang

Anche quando il raccolto di cereali in Corea del Nord è abbondante, la penuria di cibo attanaglia il paese. Agenzie di sviluppo imputano la colpa a vari fattori: mancanza di collegamenti tra i centri di produzione e i villaggi; sistema economico che spreca troppe risorse umane senza avere un adeguato ritorno in termini di produttività; soprattutto, penuria di mezzi agricoli, fermi per mancanza di carburante e mezzi di ricambio, merci sottoposte a embargo dagli Usa.
Oggi le autorità nordcoreane non nascondono le difficoltà economiche cui sono costrette a far fronte: in una cornoperativa situata in una zona il cui accesso è solitamente proibito agli stranieri, trovo una situazione intollerabile: pensionati, donne e bambini frugano tra i rifiuti alla ricerca di resti ancora commestibili e legna da ardere, bene prezioso nel gelido inverno montano. Il presidente del distretto mi elogia la meccanizzazione raggiunta: 34 trattori, 10 camion, 6 mietitrebbiatrici. Poi, dietro mia insistenza, mi dice che quel camion è fermo per manutenzione, la mietitrebbia ha il mozzo rotto e così via.  Alla fine, solo un trattore è operativo, «almeno sino a quando avremo benzina».

L’ospedale regionale è sovraffollato, mancano le medicine, si opera senza anestesia; eppure il personale si prodiga all’inverosimile per alleviare la sofferenza dei loro concittadini. È da zone come queste che arrivano i bambini dell’orfanotrofio di Pyongyang, vicino al seminario buddista, i cui genitori sono morti a causa delle carestie. Pulito e accogliente, l’edificio ospita un centinaio di bambini che hanno pochi mesi di vita. Sono tra i pochissimi occidentali a entrare in questo mondo di sofferenza, dove languono diversi bambini malnutriti, alcuni dei quali hanno già raggiunto lo stadio finale. «Lo dica pure in Italia che manca il cibo. Dobbiamo salvare i nostri figli. Abbiamo bisogno del vostro aiuto, abbiamo bisogno di medicine, di cibo… Chi vuole venire ad aiutarci è il benvenuto» dichiara un alto dirigente del partito.
La mancanza di corrente elettrica («non possiamo permetterci un generatore perché non abbiamo gasolio») costringe il personale a lavorare in condizioni proibitive. Mi mostrano alcune stanze: bambini scheletrici inermi fissano il vuoto con i loro occhi infossati; un altro continua a battere la testa contro la barriera in ferro del letto, lacerandosi il labbro e la fronte, altri ancora presentano eczemi in diverse parti del corpo, dovuti alla mancanza di difese immunitarie.
«Il 10% di questi bambini non raggiungerà l’anno, alcuni arrivano qui già morti o moribondi come questo» mi dice la direttrice mostrandomi un fagotto in cui è avvolto un bimbo dalla pelle raggrinzita. Lo accarezzo e lui istintivamente mi stringe il mignolo con le sue dita. Pak, la mia guida si commuove. Organismi cattolici come la Caritas, Misereor, i monaci Benedettini (la congregazione più numerosa in Nord Corea prima del 1950) hanno avviato programmi di collaborazione e sviluppo e il governo stesso non cela la sua preferenza verso questo tipo di interventi, meno politicamente interessati rispetto agli aiuti convogliati in via ufficiale dagli stati e dalle agenzie collegate all’Onu.
Alla sera, tornato in albergo, Pak mi annuncia che il bambino scheletrico mostratomi dalla direttrice è morto. Al suo posto ne hanno già accolto un altro.

Piergiorgio Pescali




Ma papà dov’è?

Antropologia della miseria

Fond de Blancs, amena località sul Mar dei Caraibi. Un gruppo di villaggi sulle montagne. La terra è dura da coltivare e si soffre la fame. Le famiglie sono disgregate a causa di una storia disastrosa di persecuzioni e boat people. Un «bianco» passa alcuni mesi con le comunità del luogo. Ad ascoltare. Per poi raccontare tutto in un libro. Ecco una parte di quella storia.

Nel primo pomeriggio, quando arrivo a casa di Funfun, sua madre, Marie, è sdraiata su una stuoia, stanca e accaldata. Tiene sopra di sè la figlia più piccola, Jená, la allatta e a tratti la imbocca con alcuni cucchiai di bouyon (una zuppa molto sostanziosa), preparata la mattina come piatto unico per tutta la famiglia. Funfun si precipita, come al solito, a casa del nonno per prendere l’unica sedia a disposizione.
Ci scambiamo le frasi rituali di saluto che introducono ogni nuovo incontro. La piccola Jená nel frattempo, si è addormentata tra le sue braccia, Jezibon, l’altro figlio, è seduto a terra in un angolo che mangia quel che resta della sua razione di minestra. Scambio alcune brevi battute con Marie e, parlando dei bambini, mi informo, delicatamente, sulla loro salute e sulla scuola.
Le parole che riesco a scambiare sono poche, il dialogo non è facile, in cuor suo, probabilmente, pensa di non avere un gran che da raccontare. Le risposte di Marie sono spesso monosillabi, seguiti da lunghi momenti di silenzio. Forse la mia presenza la intimorisce o forse, è solo esausta della giornata.
Nel sottotetto, a vista, noto che sono appesi alcuni abiti, una borsa dalla quale sbucano dei documenti e dei vecchi fogli e su un lato si intravede una piccola «valigia» di legno che contiene il misero guardaroba familiare. Chiedo a Marie l’età dei suoi bambini. La donna si alza, lascia per un attimo a terra la figlia e dalla borsa tira fuori gli atti di nascita e me li porge.

La famiglia

In Haiti la copia dell’atto di nascita è molto importante, spesso è l’unico documento ufficiale che la persona possiede insieme, per taluni, al certificato di battesimo. Con esso si stabilisce lo stato civile del bambino: se si tratta di un figlio naturale, se è riconosciuto dal padre, oppure di un bambino legittimo, se i genitori sono sposati.
Dai documenti, custoditi gelosamente, risulta che Marie, ha trentasette anni pur dimostrandone almeno dieci in più, Funfun ne ha undici, il fratello maggiore, Prudent, quattordici, mentre Jezibon e Jená hanno rispettivamente sei anni e dieci mesi. Non vive con loro la figlia maggiore, Tina, che ha quindici anni e lavora a Port-au-Prince, presso una famiglia di Capin emigrata.  Tina rientra a casa per qualche giorno due volte all’anno: a Natale e durante il periodo estivo.
Dalle carte scopro che Funfun è il suo soprannome, in realtà sul suo atto di nascita è scritto Jezilen ma la gente della zona la conosce unicamente con il suo nomignolo. Nessuno a parte la madre pronuncia il suo vero nome. Questa abitudine molto comune, è legata ad una pratica di segretezza secondo la quale al momento della nascita si dà ai figli un nome segreto che solo i membri della famiglia conoscono e che verrà utilizzato quando saranno adulti. La vera identità dei bambini deve rimanere, per quanto possibile, sconosciuta perché conoscere il loro nome può esporli ad eventuali malefici.

L’importanza del nome

La funzione del nome è molto radicata nella cultura popolare. Al tempo della colonia, un po’ per derisione e un po’ per non doverli associare ad un nome del calendario cristiano, i padroni davano spesso ai loro schiavi dei nomi abbinati a personaggi mitologici o storici dell’antica Roma o Grecia (Néron, Pompée, Phaéton, Charlemagne, Brutus, Cirus, Moïse, ecc.). Oggi, se tra coloro che abitano la capitale c’è la ricerca di nomi nordamericani che evochino personaggi di successo, in campagna il nome spesso porta alla luce una speranza dei genitori oppure un particolare sentimento religioso.
Quando una madre, ad esempio, è stanca di avere solo figlie chiama l’ultima arrivata Assefille (basta bambine, ndr) nella speranza che i loa (spiriti del vodou, intermediari tra Dio e gli uomini) le risparmino «il disonore» di un’altra figlia femmina. In altri casi il nome materializza un sentimento religioso: Jezilà, Dieufort, Dieuseul, Dieujuste, Mercidieu, ecc.
Marie vive sola nella sua casa con i quattro figli. Il padre dei suoi bambini non abita con loro, ha un’altra donna e passa raramente per un breve saluto o per lasciare un mezzo sacco di patate o poco altro per aiutare a sfamare i figli.
L’abbandono del tetto familiare da parte del marito o convivente è molto frequente ed esso si trasforma spesso in una vera tragedia per chi resta. Normalmente infatti, è il padre che lavora la campagna ed è tenuto a fornire i principali mezzi di sostentamento. Spesso succede che quando l’uomo lascia la famiglia per andare a vivere con un’altra donna rompe i contatti con la prima e molti sono i casi di distacco completo. Il padre da quel momento in avanti non invia né denaro né cibo e si disinteressa completamente dei figli.
Funfun, un giorno a proposito del padre mi racconta: «Sai, se papà mi incontra per strada mi ignora, gira la faccia dall’altra parte e prosegue».
I genitori si relazionano in maniera brusca e talvolta violenta rispetto ai figli, non c’è un vero e proprio dialogo ed i più piccoli a colpi di bastone apprendono le regole dell’educazione. «Non bisogna permettere che i bambini abbiano troppa familiarità con gli adulti. Diventano maleducati! Un bambino non deve guardare negli occhi un adulto che gli rivolge la parola, non va bene!» mi dice una donna durante una conversazione nel centro sanitario di Sainton. Quando un adulto si rivolge ad un bambino quest’ultimo deve rispondere con lo sguardo rivolto a terra e con un tono di voce acuto e sottomesso, detto appunto «voce da bambino».
Molte donne hanno più figli con differenti conviventi. L’uomo in questa situazione tende a privilegiare quelli che considera come i suoi figli, trascurando e maltrattando, in molti casi, i bambini che la donna ha avuto nelle precedenti unioni.
Ho potuto osservare anche alcuni casi di uomini abbandonati dalla donna che si prendono cura dei figli ma si tratta di un fenomeno marginale, molto più frequenti sono le situazioni di donne che vivono sole con i figli oppure i casi di mariti che vivono «sulle spalle» delle mogli. È la donna infatti, che in molte famiglie procura il reddito maggiore attraverso le mille piccole attività che porta avanti con la sua grande operosità.

Mancanza di riferimenti

«Il ruolo di genitore e marito, oggi in Haiti costituisce una grossa questione – è l’opinione di mons. Louis Kebreaux, vescovo di Hinche, fine pedagogo e profondo conoscitore della realtà familiare haïtiana – se da una parte la donna-madre rimane in una situazione fortemente subalterna ed assume un ruolo sociale che è quasi esclusivamente quello riproduttivo, dall’altra parte il padre, a cui spetterebbe nella famiglia il ruolo di colui che apre il bambino alla realtà circostante, è spesso assente. Ci troviamo in una “società senza padri” con tutte le conseguenze che ciò comporta. La debolezza, che talvolta è totale assenza, della figura patea influisce drammaticamente sulla crescita dei figli. Spesso, accade che al bimbo manchino persone di riferimento significative in grado di accompagnarlo nelle fasi più delicate della sua vita. Questa condizione d’insicurezza genera in lui stati di angoscia, di paura e di ripiegamento su se stesso. Il bambino riceve una formazione egocentrica che lo porta a sviluppare con il passare del tempo alcune situazioni patologiche: frustrazioni, nevrosi, ansie e paure. Queste si manifestano anche nel permanere di atteggiamenti infantili in individui ormai adulti».
A sei-sette anni, quando cioè raggiunge l’età scolare, avviene un cambiamento brutale nella vita del bambino. È l’età infatti in cui comincia a svolgere numerose attività nella casa e l’atteggiamento dei genitori nei suoi confronti muta: da tollerante ed accondiscendente, essi passano ad un comportamento esigente ed in alcune occasioni violento. Molto interessante la testimonianza di una donna, Yaya, che discute con un altro genitore,  a proposito dell’educazione dei figli: «Allora quando tu hai dei bambini, se ti rispondono male quando gli parli, bisogna frustarli perché gli entri nella memoria, perché se lo ricordino. Mia cara, dal momento in cui un bambino comincia a capire, tu hai il diritto di dirgli di togliere quella pietra [cioè di farlo lavorare]. Se non la toglie, devi frustarlo perché se lo ricordi. Ma se si attacca ancora al seno della madre, è troppo piccolo, non può capire e non si può picchiarlo».

Bambini: al lavoro!

I figli lavorano duramente sin dalla tenera età. Le bambine dai 7 – 8 anni sono incaricate di spazzare la corte, di andare a prendere l’acqua, di aiutare nella preparazione dei pasti, di lavare i panni, di accompagnare al mercato la madre,… I figli maschi portano il cibo al padre nei campi, guardano il bestiame e lo accompagnano all’abbeveraggio; quando raggiungono i 10 – 12 anni, cominciano ad aiutare il genitore nel duro lavoro dei campi e a 14 anni al bambino viene affidato una piccola porzione di terreno da coltivare.
Oltre al lavoro, se le condizioni familiari lo permettono, i bambini frequentano la scuola. Al bambino viene impartita un’educazione severa a colpi di una piccola frusta di fibre vegetali, sia la famiglia che la scuola, gli insegnano la paura del mondo, della magia, di Dio. Un timore generalizzato che non lo abbandonerà più e che lo condizionerà per tutta la sua esistenza: una diffidenza indifferenziata verso l’altro.  Tutto ciò pregiudica ulteriormente la sua già difficile situazione, obbligandolo a subire e quindi a elaborare sin da piccolo una mentalità di sottomissione ed esclusione che li spingerà sempre più a fondo nella miseria.
La struttura familiare haitiana, in città e nelle zone rurali, ha fortemente sofferto del difficile clima politico e sociale che si è creato nel paese, in particolare a partire dal 1986, anno della fuga di Baby Doc. Mireille che lavora nel centro sanitario di Fond des Blancs, ha vissuto la sua infanzia nella capitale, a Cité Soleil (la baraccopoli della capitale più estesa e violenta). «Negli anni Settanta – racconta – vivere in una cité di Port-au-Prince non era male. C’era povertà ma la gente si aiutava reciprocamente. È a partire dagli anni Ottanta che il clima è cambiato, è iniziata l’insicurezza e la violenza ha cominciato a crescere velocemente». Sono gli anni caotici della caduta del sistema duvalierista al quale succedono vari regimi golpisti fino al 1994, anno che segna il ritorno ad una democrazia, almeno di facciata, con il rientro dall’esilio del presidente Jean Bertrand Aristide.

Generazioni da buttare

«Molti dei ladri e delinquenti di oggi – continua Mireille – sono i figli della violenza degli anni Ottanta, di stupri commessi ai danni di migliaia di donne. Questi giovani ed adolescenti che hanno oggi un’età tra i tredici e i venticinque anni sono cresciuti senza genitori, in un ambiente duro dove hanno sviluppato un forte istinto alla sopravvivenza che li spinge a fare qualsiasi cosa pur di rimanere a galla. Sono pronti a tutto: uccidono a dodici anni per pochi dollari, assaltano senza pietà in pieno giorno nelle strade della capitale, sono abituati ad uno stile di vita che raramente sono disposti a cambiare. Socialmente parlando, oggi sono loro i più pericolosi».  Vivono nelle numerose bidonville di Port-au-Prince dai nomi che ricordano, talvolta, quelli delle grandi metropoli nordamericane. Sono giovani ed adolescenti spesso succubi di droghe a basso costo, fatte circolare ad arte da personaggi senza scrupoli che li sfruttano, per mantenere Haiti sotto l’incubo costante della violenza e del caos. La prossima generazione, nata alla fine del millennio, non sarà molto diversa da questa: la violenza è aumentata, il consumo di droga è cresciuto e soprattutto tra i giovanissimi, migliaia sono quelli che crescono per strada, senza alcun riferimento familiare.
Le ultime generazioni sono state duramente provate. Molti adolescenti nascondono la loro angoscia dietro il sorriso e la seduzione. Un sorriso che nasconde però, la paura dello straniero e del prossimo in generale. Una paura che si trasforma rapidamente nella violenza più feroce, senza nessun rispetto per l’altro. Impotenti, davanti all’angoscia che li distrugge, arrivano a commettere e a giustificare con un semplice «non è colpa mia» i delitti più orribili.

Senza capofamiglia

Numerosi capifamiglia nella prima metà degli anni Ottanta furono uccisi dalle milizie paramilitari e dall’esercito, sia in campagna sia in città. Il clima di violenza e la povertà di quel periodo, favorì un forte aumento della migrazione verso la capitale e verso l’estero e gli Stati Uniti diventarono sempre più la meta più ambita del movimento migratorio legale e illegale (boat people).
Moltissimi nuclei familiari si sfaldarono a causa della partenza del padre e dei figli maggiori. «Moltissimi bambini – mi dice ancora Mireille – sono cresciuti e crescono oggi in famiglie senza padri, in un clima di grave disordine e di paura. Le madri, costrette dalla necessità, passano molte ore fuori di casa a racimolare i mezzi di sopravvivenza. I figli vengono affidati a terzi o ad altri fratelli o sorelle di poco maggiori. Il sistema d’allattamento irregolare e disordinato, l’abitudine di trascurare il bimbo durante la fase delicata dello svezzamento, il quasi abbandono nel quale vive sin dai primi anni, il duro lavoro a partire dall’età di sei – sette anni procurano delle ferite al bambino che difficilmente, da adulto, riuscirà a rimarginare».
Le conseguenze di questa drammatica situazione del mondo infantile si possono osservare tra i piccoli pazienti che frequentano il centro sanitario di Sainton. Spesso si presentano bambini con forti ritardi nella crescita e disturbati psicologicamente perché mal accuditi dalla madre che, a causa delle difficoltà economiche, vive con i propri figli un’esistenza disordinata, inquieta, schiacciata dalle preoccupazioni quotidiane. Il bambino cresce in un ambiente caotico, senza una corretta cognizione del tempo e dello spazio e diviene il catalizzatore di tutte le tensioni accumulate dal genitore. 

Di Massimo Miraglio

Massimo Miraglio




Una rivoluzione in tonaca rossa

Reportage dal paese asiatico

Una delle più longeve dittature del mondo è stata messa in crisi dalla protesta, pacifica ma determinata, dei monaci buddisti (mezzo milione su 54 milioni di abitanti). Questo reportage nasce da un viaggio effettuato durante le prime manifestazioni di agosto e settembre. Poi la situazione
è precipitata.  La giunta militare del generale Than Shwe ha risposto con la forza, sparando sui monaci e sulla gente, cingendo con filo spinato le pagode, incarcerando i dissidenti. La rivoluzione in tonaca rossa per ora è finita nel sangue. 

Mandalay, agosto 2007. A 698 chilometri da Yangon, verso nord, distesa su un’assolata pianura, c’è Mandalay, la seconda città del Myanmar. Vivace e vitale, è considerata il centro del buddismo birmano. Si calcola che, su oltre mezzo milione di monaci, circa il 60 per cento viva in questa città, cresciuta sulle rive del Ayeyarwaddy (già Irrawaddy).
Dall’alto della storica collina di Mandalay, la vista sembra confermare le informazioni. Il fiume scorre lento tra pagode e monasteri. Più lontane ci sono le colline di Sagaing e Mingun, anch’esse ricoperte di templi e pagode. Ma una conferma viene anche dai visitatori, molti dei quali sono proprio monaci.
Mentre ammiriamo i colori che il calar del sole dona al panorama, iniziamo a conversare con un gruppo di loro. Tonaca rossa e testa rasata a zero, si intrattengono volentieri. Sono studenti ed uno parla inglese.
 In Myanmar, per i maschi di fede buddista è consuetudine entrare per qualche tempo – sia da ragazzi (come novizi) che da adulti (dopo i 20 anni) – in monastero, per apprendere i principi fondamentali del buddismo, per acquisire meriti (che serviranno per una rinascita più felice) o semplicemente per un periodo di studio e meditazione.
Chiediamo come si svolge la loro vita di monaci e studenti: se ogni mattina vanno a bussare alle porte della gente per riempire di cibo (quasi sempre riso) le loro ciotole; se è duro rispettare la proibizione di mangiare dopo mezzogiorno; cosa studiano in monastero. Ma quando cerchiamo di andare sull’attualità, sulle proteste di questi giorni, la nostra guida ed interprete dà segni di impazienza, inusuali per lei. Dice che è buio e che occorre salutare ed andarsene.  Le obbediamo, promettendo ai monaci un improbabile contatto via internet. Lasciamo la collina di Mandalay, interdetti rispetto allo strano comportamento della guida.   
«C’era un militare in borghese che ascoltava la vostra conversazione», ci spiega. «In Myanmar, è preferibile evitare qualsiasi riferimento alla politica e ad altri problemi del paese».

Le pagode e le foto
dei generali

Rispetto ad una volta, negli ultimi anni l’esercito birmano – noto come Tatmadaw – aveva assunto un atteggiamento molto più discreto, meno visibile, pur mantenendo uno  stretto controllo sul paese. Ora la situazione è di nuovo in ebollizione, inizialmente a causa di una motivazione economica: l’aumento vertiginoso del prezzo del carburante avvenuto questo agosto.
Il Myanmar è molto ricco e tra l’altro non sovrappopolato come altri paesi vicini: come si giustificano aumenti di questa entità? Probabilmente c’entrano l’ingordigia e la corruzione dei generali al potere. Un comportamento il loro che, tra l’altro, stride con l’incredibile gentilezza e cordialità della popolazione.
La giunta dei generali birmani è al potere ininterrottamente dal 1962. Dal 1997 si chiama «Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo» (State Peace and Development Council). 
La giunta – in un modo o nell’altro, con il bastone e la carota – è riuscita a tenere unito un paese con decine di etnie diverse e a tenere il Myanmar lontano dalle guerre che hanno insanguinato i paesi vicini (Cambogia, Vietnam), ma ha represso qualsiasi opposizione politica, in particolare la Lega nazionale per la democrazia (National League for Democracy), riunita attorno ad Aung San Suu Kyi, 62 anni, premio Nobel per la pace nel 1991, che ha trascorso in carcere o agli arresti domiciliari 14 degli ultimi 19 anni.
Sulla prima pagina de The New Light of Myanmar (La nuova luce del Myanmar) le foto sono sempre e soltanto quelle dei generali: un incontro, una inaugurazione, un successo economico della giunta militare. Ma le foto dei generali si incontrano anche in altri luoghi, ben più importanti di uno spazio sul quotidiano governativo. Sono nelle pagode, in teche di vetro, non lontane dalle statue del Budda: il generale Than Shwe che fa un’offerta, che si genuflette, che è in raccoglimento, che è in posa accanto ad un monaco. Un segno di rispetto per la religione buddista? Oppure un modo per ingraziarsi i monaci e di conseguenza la popolazione che verso di loro ha grande rispetto e devozione? Certamente la seconda motivazione prevale sulla prima.
I rapporti tra la giunta e la sangha, la comunità buddista, sono sempre stati appesi ad un filo, come la storia testimonia. Sul finire degli anni Ottanta, ad esempio, ci fu una forte contrapposizione perché i monaci appoggiavano le manifestazioni studentesche. Nel 1990, a Mandalay e poi nel resto del paese, i religiosi buddisti attuarono un temibile boicottaggio: non accettavano le offerte dalle famiglie dei soldati e non officiavano i loro matrimoni e funerali. Un’umiliazione inaccettabile per i militari, che infatti risposero con durezza. Centinaia di monasteri vennero occupati e molti religiosi incarcerati.

La «signora Bianca»,
un nome da tacere

Nella hall dell’albergo, da una poltrona all’altra, commentiamo ad alta voce alcuni articoli pubblicati da The New Light of Myanmar, il quotidiano governativo ha anche una versione in lingua inglese. Ad un certo punto, nella foga della discussione, uno di noi cita Aung San Suu Kyi. All’udire quel nome i due inservienti dell’hotel, che lì accanto stanno sistemando le piante, si girano di scatto e, per pochi secondi, guardano chi ha osato pronunciare quel nome ad alta voce. Noi, capita la situazione, ci scusiamo, cercando subito di stemprare la gaffe in una risata che però non riesce a nascondere l’imbarazzo. 
Siamo più discreti quando dobbiamo chiedere come andare al luogo in cui si esibiscono i Moustache Brothers, un gruppo di artisti popolari caduto in disgrazia. I taxisti ufficiali preferiscono evitare di avvicinarsi al luogo delle loro esibizioni, ma a questo si può rimediare.

A casa dei «Fratelli baffoni»,
artisti coraggiosi

La strada è buia, perché l’illuminazione pubblica è quasi inesistente. Ma il nostro improvvisato taxista sa dove fermarsi. Le insegne sono quelle di un negozio. Sì, siamo arrivati: ecco il teatro dei Moustache Brothers, i «Fratelli baffoni». In realtà, non è un vero e proprio teatro, ma una sorta di garage adibito a teatro. Non sarà un teatro, ma certamente è un luogo che colpisce appena si entra. Una struttura in legno, che si alza qualche centimetro sopra il pavimento, funge da palco. Attoo ad esso una ventina di sedie di plastica, a disposizione del pubblico. La parete dietro il palco è piena di splendide marionette di legno e di cartelli con frasi o singole parole – in inglese, francese, tedesco, italiano -, che fanno riferimento ai servizi segreti, al potere ed ai suoi «vizi»: Cia, Mossad, Guardia Civil, Most wanted, Moustache Brothers are under surveillance, e via dicendo. Un’altra parete è zeppa di manifesti, articoli di giornale, fotografie. La più grande ritrae Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, che – come recita la didascalia – nel giugno 2002 visitò i Moustache Brothers. E nella foto accanto la stessa è immortalata con i tre artisti.  Mentre osserviamo le immagini, si avvicina per salutarci un uomo mingherlino, con baffoni bianchi, una maglietta gialla con la foto del gruppo, il tipico longyi (1) e le ciabatte infradito, che in Myanmar indossano tutti. Sprizza energia ed entusiasmo. Si chiama Lu Maw ed è uno dei tre «fratelli».
Il 4 gennaio 1996, giorno dell’anniversario dell’indipendenza birmana, i fratelli fecero uno spettacolo nel giardino di Aung San Suu Kyi, come ricorda lei stessa in un suo libro (Letters from Burma, 1995). Presero in giro anche la giunta e i suoi generali. Che non risero affatto. Due dei fratelli – Par Par Lay (2) e Lu Zaw – vennero arrestati e condannati a sette anni di lavori forzati. Uscirono nel 2002, con la proibizione di fare spettacoli in luoghi pubblici. Oggi i Moustache Brothers si esibiscono nella loro casa di Mandalay al cospetto di piccoli gruppi di stranieri.
L’esibizione inizia con Lu Maw che, inginocchiato sulla vecchia moquette del palco, parla a raffica (in inglese) dentro un vecchio microfono. Lo spettacolo, tipicamente birmano, è un insieme di danza, teatro, musica e satira, chiamato a-nyeint. Ad assistere alla rappresentazione ci sono una ventina di persone, tutte straniere.  Non tutto è comprensibile per degli occidentali, ma il loro racconto servirà per far conoscere l’attività di questa compagnia di artisti coraggiosi.

Dal teck al gas,
le grandi ricchezze del paese

Verso l’altopiano dello Shan.  Da Bagan per arrivare a Kalaw, cittadina di villeggiatura già ai tempi della dominazione inglese, si percorre una strada sconnessa e piena di buche. Il nostro autobus non incrocia auto, ma decine di grossi camion, carichi all’inverosimile di enormi tronchi. Sono tronchi di teck,  un albero dal legno pregiatissimo per la sua durezza, impermeabilità e bellezza.
La guida ci spiega che tutto il legno viene esportato verso la Cina, sempre più ingorda di materie prime. Se si proseguirà con questa velocità di disboscamento, le foreste pluviali del paese rischiano di estinguersi nel giro di pochi anni.
Ma non ci sono soltanto le foreste. il sottosuolo del paese è ricco di ogni genere di minerali. Negli ultimi anni si è poi scoperto che i giacimenti di gas della zona sud-occidentale  del Myanmar, nello stato Rakhin (Arakan), sono tra i più cospicui dell’area. Già rifoiscono la vicina India, la Cina e la Thailandia. Mentre sono in fase di progettazione oleodotti verso lo Yunnan cinese e verso l’India.
La giunta militare ha potuto rimanere al potere dal lontano 1962, perché ha saputo trovare importanti partners commerciali, Cina, Thailandia ed India sopra tutti, come abbiamo visto. In questo modo, ben difficilmente questi paesi sceglieranno di schierarsi contro i generali al potere.
È certo che la giunta militare e le lobby ad essa legate si sono arricchite enormemente alle spalle delle popolazioni birmane. Rispetto alle altre accuse non c’è invece certezza assoluta. Negli anni passati il regime è stato accusato di usare lavoro forzato (donne, bambini, anziani) nella costruzione di strade, oleodotti ed altre opere pubbliche. La giunta sostiene di aver abolito il lavoro forzato nel 1999, ma esistono segnalazioni di diverso avviso. Sarebbe coinvolta anche la Total, la multinazionale francese dell’energia, che da anni ha investito nello sfruttamento del giacimento gassifero di Yadana.
Altra accusa pesante nei confronti dei generali riguarda il loro coinvolgimento nel narcotraffico. Il Triangolo d’oro, territorio montagnoso dove si coltiva il papavero da oppio, rientra in buona parte nello stato birmano di Shan (dell’etnia shan, ma anche di quella wa, la più indiziata per il narcotraffico). Tuttavia, la giunta si vanta di aver risolto il problema, arrestando nel 1996 Khun Sa, conosciuto come il «re dell’oppio», che da allora si è ritirato a vita privata. Invero, la produzione continua. Secondo le Nazioni Unite (3), per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%).

Il volere del popolo
(secondo la giunta)

Yangon, settembre 2007.  Atterriamo a Yangon (Rangoon), la ex capitale del paese, verso sera. Sulla strada che conduce dall’aeroporto all’hotel, passiamo l’incrocio che porta ad University Avenue, dove al numero 54 vive – reclusa e guardata a vista – Aung San Suu Kyi.
In hotel girano voci di nuove proteste avvenute il 5  e il 6 settembre a Pakokku, cittadina non lontana da Bagan. Prendiamo il quotidiano della giunta per vedere se e come ha trattato l’argomento. The New Light of Myanmar ne parla. A suo modo, ovviamente. Dice che le stazioni televisive straniere hanno esagerato le notizie sulle proteste e che alle dimostrazioni hanno partecipato soltanto una o due persone ed una cinquantina di monaci. Dice che i monaci sono stati incitati da esponenti locali della Nld (Lega nazionale per la democrazia). Dice che la gente ha compreso l’atteggiamento del governo ed apprezzato la sua magnanimità nei confronti dei religiosi. 
Yangon sembra tranquilla. La gente affolla la grande pagoda di Shwedagon, i mercati, i marciapiedi del centro. E, nonostante tutto, non dimentica mai di mostrare il proprio sorriso.
È ormai tempo di ripartire. Mentre andiamo verso l’aeroporto, ad un incrocio ci imbattiamo in un gigantesco cartellone rosso che, in lingua inglese, pubblicizza il people’s desire, il volere del popolo. Secondo la giunta militare, i quattro desideri della gente birmana sarebbero i seguenti:  «opporsi a quanti prestano ascolto ad elementi estranei, fantocci che sobillano il popolo diffondendo opinioni disfattiste: opporsi a quanti tentano di compromettere la stabilità dello stato e il progresso della nazione; opporsi alle nazioni straniere che interferiscono negli affari interni dello stato; annientare ogni elemento nocivo, interno ed esterno, in quanto nostro comune nemico».
No, i popoli del Myanmar non meritano di vivere sotto un simile regime.  

Di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il mistero di un diario

La «nyumba ya kagita», una storia dalla terre dei Meru

Dalle pagine di diario di un vecchio missionario emergono antichi riti di un’Africa che fu. La curiosità e l’interesse di un confratello che, anni dopo, vuole sapee di più del mistero che essi nascondono.

Se si «ficca» il naso nei diari antichi delle missioni – specialmente africane – si può facilmente far rivivere pagine piene di storie e di misteri. A volte ci si può imbattere in racconti utili a lasciare ai posteri almeno una traccia del passato, elementi da mettere in un archivio e conservare gelosamente, come qualcosa di prezioso. A volte, però,  si tratta di veri e propri «misteri», che necessitano di qualche sforzo e molta buona volontà per essere interpretati.
Eccovi una pagina, o meglio quattro righe, del diario di Amung’enti, una missione del Kenya nell’incipiente vicariato di Nyeri, diventato poi in parte diocesi di Meru. Data del documento: 27 ottobre 1920.
«Il funzionario governativo, Mr. Gillbill, dietro mia informazione, mandava a monte la nyumba ya kaita di tutto l’Egembe, radunava tutti i tamburi (di cui mi diede licenza di scegliee alcuni). Di più: chiamò a se tutti gli avvelenatori facendo loro una buona ramanzina».
A scrivere queste precise righe in tale scao e semi-misterioso stile, fu probabilmente il padre Bodino, uno dei primi missionari mandati in Kenya ancora dal beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e  missionarie della Consolata. Padre Bodino operò in questa missione che a quel tempo aveva nome Egembe (trasformato poi in Amung’enti), fin dal 1918. La missione aveva appena cinque anni di vita, essendo stata fondata il 1° dicembre 1913.
Sprofondato in una vecchia poltrona, in attesa che il fido Michael arrivasse con la cena, lessi e rilessi quelle righe. Che cosa significavano? Nyumba ya kaita poteva essere tradotto in «capanna della… kaita». Forse bisognava riscrivere la parola nel più moderno kagita? I tamburi dovevano essere davvero i vecchi tamburi costruiti con un tronco d’albero ed una pelle di vacca, visto che il padre aveva ricevuto il permesso di tenersi qualche esemplare. E la ramanzina agli avvelenatori?
Michael arrivò in quel momento con il suo portavivande e la zuppiera fumante.
«Michael cos’è la nyumba ya kagita?» – chiesi quasi innocentemente al giovanotto.
Ci mancò poco che zuppiera e tutto l’armamentario del vassoio se ne andassero per aria. Michael si era fermato di botto facendo un grosso sussulto, una specie di singulto alla maniera africana per dimostrare sorpresa e spavento.
«È solo perché volevo capire cosa c’è scritto in questo vecchio quaderno!» – lo rassicurai.
Michael tirò un sospiro di sollievo.
«Credevo che ci fosse di nuovo in ballo qualche faccenda da parte degli anziani. Sai… queste cose del tempo antico sono poco conosciute da noi. E quando si sente parlare della kagita non si può fare a meno di guardarsi intorno per scoprire chi potrebbe essere il capro espiatorio a fae le spese. Solo gli anziani possono oggi conoscere la verità completa. Forse il maestro Battista ti potrebbe aiutare…».
E così Michael se la cavò, stuzzicando però maggiormente la mia curiosità.
La capanna del maestro Battista era situata a non più di dieci minuti dalla missione. Battista era un maestro di scuola elementare, pochi anni più vecchio di me. La sua scheda anagrafica rivelava però un «pedigree» molto importante: era uno dei figli di un grande anziano, di quegli anziani che nella regione del Meru detta Egembe costituivano l’ultimo scalino della nobiltà, aventi potere sia nelle cose buone… come in quelle assai meno nobili, nelle quali ogni tanto si trovavano implicati.
«Allora, bwana Battista, mi dici qualcosa della nyumba ya kagita?» – gli domandai dopo aver sorbito un tè con lui e la moglie.
Battista, per tutta risposta, mi prese per un braccio e mi invitò fuori, per farmi vedere qualcosa di importante e, forse, per distrarre l’attenzione della moglie sui nostri discorsi.
«Vedi, padre, lassù su quella collina di fronte a noi? Bene, quella capanna diroccata è l’ultima capanna della kagita del nostro Egembe. Bada bene di non andare a toccarla. È tabù, tutti lo sanno e se ne stanno alla larga. Le prossime piogge, forse, laveranno tutto quanto e non ci sarà più alcun ricordo. Il tempo e le termiti avranno compiuto il loro lavoro».
Quello che segue ora è il resoconto di quanto il maestro Battista mi raccontò e che io mi son permesso di mescolare con quanto un nostro famoso missionario scrittore, il padre Ottavio Sestero, mi narrò nel 1964 nella missione di Tigania. Padre Sestero era conosciuto prevalentemente per i suoi scritti «avventurosi» e a volte burloni, ma quanto aveva scritto su usi e costumi della gente che ormai conosceva da anni, solleticava la mia curiosità.
Avevo fra le mani, fresco fresco di stampa, uno dei suoi ultimi romanzi missionari, «Il sacrificio del settimo anno». Anche in quel racconto veniva descritta la nyumba ya kagita.
Alla mia domanda un po’ insolente circa la veridicità di quello che lui aveva descritto, p. Sestero, dopo una lunga boccata dalla sua inseparabile pipa, mi disse: «Vede! Certe cose non si possono inventare. Ci vorrebbe troppa fantasia. Basta aver occhi per vedere e orecchie per sentire. Gli ingredienti ci son già tutti, basta cucinarli e fae una buona zuppa! Se lo desidera, posso anche accompagnarla a vedere i luoghi descritti in quel romanzetto. Non dobbiamo farci vedere poiché queste cose continuano a turbare la fantasia di queste nuove generazioni e con i nostri giovani è meglio chiudere il capitolo… o, al massimo, servircene per riempire le pagine delle nostre “avventure missionarie”».
Andammo un po’ di nascosto a visitare quei luoghi ed oggi, mentre scrivo, ritorno con la mia fantasia a rivederli: too a rivedere la capanna della kagita, gli antri della montagna in cui i futuri candidati alla circoncisione dovevano nascondersi, gli anziani njori vestiti nei loro caratteristici paludamenti, con la ncea (la corona dell’anziano), il meu (lo scopino scacciamosche), il bastone, lo sgabello a tre gambe significato della loro autorità, il manto di pelle di bue, il copricapo solenne fatto con la pelle della scimmia guereza, dalla coda bianco nera. E poi le zucche, le grandi e piccole zucche contenenti il vino di canna da zucchero e le zucchette del tabacco. Quanti grandi «ahh!» di soddisfazione si potevano ascoltare dopo le solenni bevute e i poderosi stauti che seguivano le abbondanti prese di tabacco…!
Battista prese a raccontare.
«La kagita era una grande capanna che fungeva da tribunale. Doveva essere costruita isolata, in una verde radura. Nessun boschetto, cespuglio e coltivazione poteva trovarsi nelle immediate vicinanze, affinché nessuno si accostasse ad origliare durante le sedute dei componenti del tribunale. Chi veniva scoperto su quello spiazzo rischiava quanto meno una feroce bastonatura. Il segreto era ciò che rendeva unito, forte e temuto il «consiglio degli anziani» che nella kagita si riuniva. Un membro che ne avesse svelato le decisioni importanti era condannato lui stesso a morte.
La kagita era il culmine di una piramide formata da una società detta njori, alla quale dovevano appartenere praticamente tutti gli uomini adulti poiché era una condizione indispensabile per fruire dei diritti della tribù.
Questi njori formavano il primo gradino, o base, di questa piramide. Un secondo gradino era formato dagli njori ncheke (letteralmente: njori ristretti o “magri”, nel senso che questo gruppo aveva un numero minore di appartenenti).
Il terzo gradino a cui si poteva accedere era quello finale degli njori-mpingiri (o “chiusi”, cioè una classe superiore, esclusa a chi, nella società, non avesse un grado elevato): questi ultimi costituivano il tribunale tradizionale della zona.
Sopra tutti quanti c’era la kagita, l’autorità suprema nel territorio.
Mio padre, ad esempio, era uno njori-mpingiri e uno dei pochissimi che appartennero nel passato alla kagita dell’Egembe. Se io ti dico queste cose è perché lui stesso me le ha confidate, quando sperava di fare anche di me un suo successore. Io, però, avevo ormai scelto di diventare maestro e cristiano».
Battista prese fiato e si accinse a continuare il suo racconto che, alle mie orecchie, stava diventando sempre più interessante.
«Le autorità inglesi hanno osteggiato la kagita pur avendone ricevuto a volte benefici molto utili alla loro politica di governo. In quella capanna diroccata che vedi lassù son successe tante cose… non tutte belle, per la verità».
Battista continuò, abbassando quasi istintivamente il tono della voce. «Mio padre un giorno mi raccontò che ricevette il messaggio segreto per un urgente raduno della kagita. Occorreva sistemare una grave questione intea alla comunità, senza che il governo inglese ne venisse a conoscenza. Un giovane della nostra tribù  nella regione dell’Egembe  ne aveva combinata una davvero troppo grossa. Secondo le nostre leggi tradizionali, la pena per certi delitti era quella capitale. Ma l’indiziato, secondo la tradizione doveva comparire di persona davanti a tutti i membri della kagita.
Bisogna dire che, in queste occasioni, le nostre donne si prodigavano nel rendere la capanna più accogliente possibile. Nel centro, in un incavo del terreno, trovava posto una grande zucca alla quale era stata tagliata la parte superiore, quasi fosse una grossa pentola. Le donne si incaricavano di portare anche un buon quantitativo di vino di canna da zucchero.
In quell’occasione i preparativi seguirono la solita procedura. Da tutti i clan arrivarono gli njori-mpingiri aventi diritto di partecipazione alla kagita».
«Mio padre – proseguì Battista – mi raccontò di come ciascun convenuto dovette sottoporsi al rito della “maschera dello njori” e, cioè, essere dipinto in faccia con ocra e burro, con i precisi disegni ricevuti quando furono eletti njori. Ognuno con il proprio sgabello a tre gambe, i manti tradizionali, il copricapo tradizionale, lo scopino-scacciamosche e il bastone del grande anziano, tutti presero posto intorno alla grande capanna, seduti sullo scranno dell’autorità.
Il mogà (stregone) stava già armeggiando attorno alla grande zucca. Sul suo fondo già aveva versato un liquido che lui stesso aveva ricavato dalla scorza di una pianta della foresta a lui conosciuta. Ora restava il compito delicatissimo di versare su questo liquido, il vino portato dalle donne. Occorreva una mano fermissima e tanta pazienza in modo da impedire che i due liquidi si mescolassero: il vino, più alcornolico, avrebbe galleggiato e coperto tutto. Un giovane seminudo e legato, intanto, venne fatto sedere non distante dalla zucca».
Battista continuò il suo racconto: «Il primo in dignità tra gli njori-mpingiri si alzò in piedi e proclamò solenne: “Sono del clan delle pietre; il mio popolo, che io qui rappresento, è innocente dell’accusa del delitto che dobbiamo giudicare. Ora bevo alla mia e vostra salute e di quelli del mio clan“. E così dicendo, con fare solenne ma attentissimo a non muovere il vino della zucca, prese con una mezza zucchetta, fungente da mestolo, un buon sorso della bevanda e la bevve d’un fiato, concludendo con un gran schiocco della lingua.  “Ho parlato”.  L’assemblea approvò:  “Ne bwega (va bene)”.  E l’anziano si sedette».
«Dopo di lui, in un silenzio di tomba, si alzò il secondo rappresentante.  “Io, njori-mpingiri del clan dell’acqua nera, dimostro che anch’io ed i miei sudditi siamo innocenti!”.  Stessa manovra, stessa somma attenzione nell’intingere ed alla fine la solenne approvazione dell’assemblea:  “Ne bwega”, va bene». Così, con calma, passarono tutti gli njori della kagita. Poi si fece avanti il mogà (stregone); rivolgendosi all’imputato gli disse: “Ora tocca a te, che sei stato portato qui a provare se anche tu sei innocente”. Con fare lesto immerse fino in fondo il piccolo mestolo e lo porse alle labbra dell’indiziato invitandolo a bere, operazione alla quale il giovane non poteva sottrarsi: dovette anch’egli bere dalla zucchetta che il mogà gli porgeva. Nel silenzio che seguì, cominciò dopo pochi minuti a sentirsi un sibilo come di persona che stesse per soffocare. Il condannato prese a un tratto a contorcersi come per liberarsi dai legami che lo tenevano prigioniero. Il veleno non gli aveva dato scampo. Fu questione di pochi minuti ed il “reo” giaceva stecchito sul pavimento. “La kagita ha giudicato e la verità ha colpito!”.
Su invito dello stregone, uno degli njori meno attempato si alzò e andò ad aprire un buco nella parete della capanna, proprio opposto all’entrata; un buco appena sufficiente per farci passare un corpo umano. Spinto con un bastone (nessuno avrebbe potuto toccare un morto neppure coi piedi) il giustiziato venne fatto passare attraverso quella feritornia e poi l’apertura fu chiusa con sterpi ed un po’ di fanghiglia. Il rituale era concluso».
Battista smise di raccontare e mi guardò, come per dirmi: «Così si usava fare. Era la tradizione che imponeva queste cose…».
E concluse: «Padre, io son grato al tuo predecessore, quello del tuo vecchio libro, perché è riuscito a mettere fine per sempre a queste cose del nostro passato».
La sera era ormai scesa ed in meno di dieci minuti sarebbe stato buio.
Guardai ancora una volta i resti di quella capanna e pensai a quelle quattro righe del vecchio diario. Piccolo mistero, che ora, non è più mistero né per me né per voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Passaggio a Nord Ovest

Viaggio nell’ultima frontiera nord-americana

Comperata dalla Russia nel 1867 e dichiarata stato federale nel 1959, l’Alaska costituisce un quinto della superficie degli Stati Uniti, ma è il meno popolato. La ricchezza del sottosuolo e la sua posizione strategica ne ha fatto l’ultima frontiera della colonizzazione americana. Per la sua natura incontaminata è diventata un’attrazione turistica privilegiata e rifugio di americani in fuga dagli altri 48 stati dell’Unione (i cosiddetti lower 48). Ma anche questo angolo di paradiso sembra minacciato dall’avanzare del «progresso».

Siamo atterrati in Alaska dopo aver sorvolato Danimarca e Norvegia, nord della Groenlandia e  Polo nord. I dati del paese li conoscevo: superficie del territorio pari a quella di Inghilterra, Spagna, Francia e Italia messe insieme; sviluppo delle coste superiore a quello degli Usa… eppure la prima sensazione è quella di aver raggiunto una terra esagerata, che toglie il respiro e mette soggezione. Tutto ha una dimensione grandiosa, compresa Anchorage, città modea che ha decuplicato i suoi abitanti in 20 anni. Le montagne che la circondano, basse e bianche di neve, paiono lontane.
Noleggio una bici e faccio un giro in centro; passo davanti alla statua del capitano Cook, arrivato fin qui nel 1778 alla ricerca del mitico «passaggio a nord ovest»; percorro la pista che costeggia il mare: i cartelli avvertono di non avventurarsi sulla distesa fangosa lasciata dalle maree, che qui raggiungono il primato di 10 metri.
Siamo a metà maggio: nel parco le betulle e gli aspen hanno ancora poche gemme, ma tra pochi giorni avranno le loro tremule foglie e cambieranno il paesaggio. La gente non ha paura del vento e del freddo; corre e cammina anche sotto una leggera pioggia; i ragazzi girano in maniche corte; i piccoli vengono portati  in carrozzine chiuse, agganciate alle biciclette.
SILENZIO!
Dopo la prima guerra mondiale, le attrezzature usate per costruire il canale di Panama furono trasportate in Alaska per costruire le ferrovie. La più importante serve anche oggi per trasportare il migliore carbone del mondo, perché privo di zolfo e non inquinante, dal cuore del territorio al porto di Seward, dove viene imbarcato e spedito in Cile e in Corea.
Nei mesi estivi la linea, viene utilizzata dai turisti per spostarsi da Anchorage a Seward, attraverso paesaggi spettacolari di monti, laghi e ghiacciai.  La cittadina prende nome dal segretario di stato americano che, nel 1867, volle comprare l’Alaska dai russi, contro il parere di buona parte del mondo politico di allora.  
Sul treno siedo accanto a una famiglia di Anchorage in gita. I genitori sono originari di Sitka, l’antica città russa del sud est del territorio. Le tre bambine hanno nomi curiosi: Charity, Mercy, Marissa. Sul treno sale anche una classe elementare di Anchorage, guidata dalla maestra, che subito precisa di essersi felicemente trasferita dal New Jersey: «Le grandi città dei lower 48 sono invivibili». Un giudizio che sentirò ripetere spesso sui restanti stati americani, percepiti lontani, inquinati e troppo affollati.
Totalmente ricostruita dopo lo spaventoso terremoto del 1964, Seward è una cittadina di circa 4 mila abitanti, protetta da un profondo fiordo, circondata da monti bianchi di neve. Da qui si parte con il battello per raggiungere velocemente il mare aperto, tra isole rocciose, dove nidificano molte specie di uccelli. Incrociando orche e delfini, ci addentriamo in uno dei pochi fiordi già accessibili in questi ultimi giorni di primavera, per ammirare i ghiacciai che scendono in mare. Si spengono i motori; il mare brilla di mille blocchi traslucidi. Davanti allo spettacolo della natura vi è silenzio, emozione.
Ritornati in città, visitiamo il centro di ricerche biomarine. Tra le specialità della natura di questa parte del Pacifico, mi incuriosisce la storia di un pesce che riesce a sfuggire al sonar usato dalle modee navi da pesca; è forse grazie a questa sua specialità che sfugge alla minaccia di estinzione. La pesca effettuata negli ultimi anni, infatti, ha ridotto moltissimo la vita di questi mari un tempo pescosissimi, riducendo anche la presenza di uccelli e mammiferi marini che si nutrono di pesce.
Siamo ospiti di Margherite Christensen, una indigena aleutiana. Il villaggio dove è nata, sull’isola di Kodiak, fu totalmente distrutto dal terremoto del 1964. «Frequentavo la scuola elementare – racconta -. Udimmo il rombo della terra che tremava; il mare si ritirò e un’onda si chiuse sul villaggio». A Seward Margherite era arrivata per seguire i corsi di panetteria alla scuola professionale per i nativi americani. Ora non lavora, perché ha deciso di adottare una bimba e vuole occuparsene personalmente.
Il governo americano ha aiutato le comunità indigene a creare le proprie cornoperative; hanno costruito anche alberghi, che gestiscono con profitto, e amministrano i territori assegnati loro dallo stato come riserve, in ricompenso dell’immenso territorio loro sottratto, per lo sfruttamento del sottosuolo: petrolio, carbone, oro e altri minerali.
UNA VITA DIVERSA
Per passare all’altra parte della penisola Kenai non troviamo di meglio che un furgone per trasporto merci. Nostra compagna di viaggio è una ragazza diretta a Soldotna, dove ha trovato un lavoro estivo in un albergo. Shannon, questo è il suo nome, è decisamente obesa, come molte sue coetanee americane, e fatica persino a camminare.
Ho l’impressione che alla base ci siano problemi psicologici. La giovane è timida, ma riesco a farla parlare. «Ho venduto tutto – mi dice – e ho preso un biglietto di sola andata per Anchorage, senza sapere se avrei trovato un lavoro». A casa ha lasciato una scatola con alcuni oggetti e ricordi. Le chiedo dei suoi. «Mio padre? Non lo conosco; la mamma ha un boyfriend e non è mai a casa». Poi continua: «Terminata la scuola superiore, ho lavorato vicino a casa, in un locale sulla spiaggia dell’isola di Tybee. Sono venuta qui perché volevo cambiare, uscire da un posto divenuto stretto per me».
Molti altri giovani come lei, incontrati nel nostro viaggio, sono arrivati in Alaska con lo stesso sogno: costruirsi una vita diversa da quella che hanno lasciato, per lo più segnata dal dolore. Fergie, l’autista del furgone, è uno di essi. Capelli legati a coda, una vita disastrata alle spalle, è appena ritornato dalle isole Hawaii, dove ha tentato senza successo di stabilirsi. Oggi è il suo primo giorno di lavoro come autista.
La strada per Homer costeggia il Cook Inlet, attraversa un territorio di foreste con il terreno ghiacciato e duro; ma tra pochi giorni il disgelo creerà le condizioni di vita per le micidiali zanzare estive. Quando siamo nei pressi di Ninilchik, prego l’autista di fare una sosta fuori programma per visitare la bella chiesa russa. Il sole sta tramontando e restiamo in silenzio: lo sguardo spazia, al di là dell’immensa baia, sulle cime ghiacciate di una serie impressionante di vulcani.
Finalmente arriviamo a Homer, accolti nella casa di Kristal e suo marito.
OMBRE TROPPO LUNGHE
Questa mattina Homer registra la marea più bassa dell’anno. La gente è scesa a passeggiare sulla distesa umida di sabbia increspata, con i bambini e i cani, bellissimi, dal pelo lungo e bianco, la coda arrotolata. Le alghe sono lunghi nastri bruni, tra i rivoli d’acqua che si ritira. Nel cielo volano le aquile dalla testa bianca, tipiche di questa zona, così pure cicogne, stee artiche e gabbiani.
Homer non ha un vero centro cittadino, ma solo case sparse sul pendio boscoso, lungo la baia di Kachemak, vasto braccio di mare circondato da monti e numerosi ghiacciai. La gente che sceglie di venire in questo luogo è attratta dal clima, più mite che nel resto della penisola Kenai.
Trish, biologa marina, vi è arrivata 30 anni fa dal Tennessee per lavorare nelle industrie del pesce. Anno dopo anno ha visto il mare perdere la sua ricchezza a causa di una pesca indiscriminata. Dopo una grave malattia, ora che è in pensione, si sta costruendo una vera casa, accanto alla cabin che aveva nel bosco, per le vacanze.
Le cabins sono capanne di tronchi di legno, tipiche delle zone di frontiera, senza servizi interni, riscaldata da una stufa. «Finché c’erano i miei genitori, ritornavo una volta all’anno in Tennessee; ora mi è rimasta una sorella, che ha una famiglia numerosa, non la vedo da anni».
Visitiamo Seldovia, un antico insediamento russo di cacciatori di pelli, raggiungibile solo via mare. Quando l’Alaska fu acquistata dagli Usa, sorsero le fabbriche per il trattamento delle aringhe. Ora è tutto chiuso: le aringhe si sono estinte, così pure i famosi granchi della baia. Resta la pesca degli halibut, giganteschi pesci che raggiungono anche i 200 chili.
Il villaggio è un insieme di vecchie case di legno, con la chiesetta russa bianca e azzurra in posizione panoramica sulla baia e il porto, poche vetture e tutte d’epoca. Nei boschi vicini sono sorte le cabins per le vacanze di chi abita in città. Oggi sono arrivati alcuni proprietari per aprir casa e farsi un giro in barca a vela.
Sul traghetto di ritorno siamo accolti da una robusta signora in uniforme, dai capelli bianchi e le gote arrossate dal vento. Seduta a terra, apre la mappa e ci indica l’orario dei traghetti: vuole convincerci a ripartire in serata per le isole Aleutine. Una settimana di navigazione per arrivare nell’ultimo avamposto, un’isola priva di vegetazione, che durante la seconda guerra mondiale fu occupata dai giapponesi. Ringraziamo stupite per la calda accoglienza di questa gente di Alaska, ma dobbiamo rinunciare: non abbiamo il tempo né le forze per un simile viaggio.
Dispiace lasciare la casa di Kristal e suo marito, in cui abbiamo trovato veri amici. Abbiamo parlato a lungo di noi e dei nostri paesi. Anch’essi lasceranno Homer. Da poco hanno messo in vendita la bella casa, dove si erano trasferiti dal sud della Califoia alcuni anni fa, per restare accanto al figlio, rimasto vedovo dopo un incidente, e prendersi cura dei tre nipoti. Ora che i ragazzi sono cresciuti e studiano in un college a Seattle, hanno deciso di trasferirsi nello stato di Washington. «L’inverno in Alaska è troppo lungo e buio; comincia a pesarmi» Kristal confida, mentre con la sua auto mi porta a visitare un altro luogo interessante non lontano da Homer.
Si tratta di un insediamento di russi, conosciuti come «vecchi credenti». È domenica e sono vestiti a festa. Alcuni sono in coda a prendere i biglietti per fare un giro in giostra. Le bambine indossano vestiti lunghi e leggeri, di colore rosa e azzurro, come le mamme, e un velo sul capo, fermato da una tiara. Incuriosita, mi fermo per parlare con la gente, che si mostra molto riservata. Sono i discendenti di quei russi ortodossi che, nel 17° secolo si opposero alle riforme ecclesiastiche imposte dalla gerarchia ufficiale e per questo furono costretti a fuggire dal paese e rifugiarsi in Cina e Sud America. Dal Brasile si sono trasferiti negli Stati Uniti e ultimamente quassù, alla ricerca di un luogo pulito, lontano dai vizi delle grandi città. Pare però che i giovani siano attratti dalla modeità. Hanno scoperto l’alcornol e, la sera, vogliono divertirsi come gli altri americani.
C’È POSTO PER TUTTI
Negli ultimi decenni l’Alaska è diventata la nuova frontiera americana. Molte persone sono venute dalla Califoia, per fuggire dal traffico, crimine e sviluppo edilizio esagerato. Ma c’è gente che viene anche dagli stati per nulla congestionati, come Idaho, Montana, Dakota. La ragione è che in Alaska non si pagano le tasse statali; anzi, alla fine dell’anno, gli abitanti ricevono un bonus proveniente dallo sfruttamento petrolifero.
Inoltre, la breve estate turistica richiede molto personale stagionale, reclutato anche al di fuori degli Stati Uniti. Centinaia sono gli studenti provenienti dall’est europeo. Slavo, alla sua prima stagione, è uno dei 200 universitari croati arrivati da poco. La paga è minima, ma le mance sono generose; e poi, a fine stagione farà una crociera sulle navi del gruppo che gestisce i grandi alberghi del parco Denali.
Oltre alle 8 ore nel villaggio turistico, Slavo e i suoi amici lavorano anche nel ristorante della Roadhouse di Talkeetna, per cui le ore di riposo sono pochissime. D’altronde, a queste latitudini la luce diua dura molto e il cielo si oscura solo per 5 ore.
Talkeetna è il punto di partenza per scalare le cime del Mckinley, una impressionante montagna di ghiaccio di oltre 6.000 metri, che domina una regione di grandi fiumi a soli 300 sul livello del mare. Un gruppo di alpinisti belgi è appena ritornato alla base: due di essi hanno alcune dita delle mani congelate. Li incontro mentre si stanno rifocillando con i ricchi piatti della cucina della storica Roadhouse, avamposto dei pionieri dell’800, dove si fermavano le carovane di slitte trainate da cani.
Da pochi anni è proprietà di Trish Costello, una giovane signora di origine spagnola-irlandese, competente e appassionata: alle 4 del mattino è già in cucina a impastare il pane e preparare i pancakes. Trish è sempre in movimento: quando arrivano i primi avventori, organizza, prende le prenotazioni, assegna le camere, cucina, dando ordini a un certo numero di personaggi incredibili che si alternano ai fornelli. Tipica del gruppo è una giunonica ragazza in canotta e boxer colorati che spadella senza posa.
L’ambiente è più che familiare, come ai vecchi tempi: ai grandi tavoli si trova sempre posto, tutti insieme per potersi conoscere. Alle tre del pomeriggio la cucina chiude, ma si continua con le bevande, zuppe e dolci fatti in casa con i frutti di bosco.
Ma le poche camere in affitto a Talkeetna sono occupate. Dopo la prima sera dobbiamo spostarci dall’altra parte della strada, nella Casa dei 7 pini, gestita da una gentile, anziana vedova di Anchorage. «Era la casa che avevamo fatto per le vacanze con i nostri 4 figli – mi confida -; ora sono sposati e abitano lontano». Poi mi fa una proposta: «Se ti fermi e prendi in mano la gestione di questa casa, me ne vado al nord a trovare mio fratello». Mi dispiace rinunciare a questa occasione: questo paese è sorprendente, anche per le tante opportunità che può offrire persino a persone anziane.
Paradiso perduto?
Questo grande paese mi ha tolto il fiato, sin dal primo giorno. Sarà per la luce, che ti lascia riposare poche ore, o l’immensità dei panorami, con paesaggi dai ruvidi contrasti, orizzonti spogli di ogni orma umana, oppure per la prospettiva di trovarsi all’improvviso davanti un orso affamato.
I boschi sono scuri per l’abbondanza di pini spruce che a volte paiono cipressi, tanto sono sottili. Betulle e aspen hanno messo in questi giorni le prime foglie che, muovendosi, brillano e ingentiliscono i boschi. Le grandi felci si stanno schiudendo e tappezzano il sottobosco. 
Ma si parla molto di riscaldamento globale e del danno creato dagli aerei che passano sulla rotta polare. Sono chiamati in causa anche velivoli militari, che, dalle due grandi basi aree vicino ad Anchorage e Fairbancks compiono frequenti voli di ricognizione e addestramento. In Alaska, infatti, sono dislocati oltre 10 mila militari dell’aviazione e un corpo di marines. Durante il fine settimana i parchi sono affollati da gruppi di giovani rumorosi, robusti e allegri. Sono militari, tra i quali molte donne. «La posizione del paese è strategica: siamo più vicini al Giappone che a San Francisco, lo stretto che ci separa dalla Siberia russa è largo poco più di 80 miglia» afferma una coppia con in spalla due biondissimi bambini. «Abitiamo qui da due anni – dice la giovane mamma -; mio marito è militare, di stanza a Delta Junction, presso Fairbancks, una delle due grandi basi militari».
Il paradiso incontaminato forse non esiste più. I villaggi dei nativi stanno scivolando nell’Artico per lo scioglimento del permafrost, il terreno che fino a poco tempo fa rimaneva gelato tutto l’anno. Gli americani che cercavano un paese tranquillo ora si confrontano con le gang di asiatici che spacciano droga, non solo ad Anchorage, ma anche nei villaggi più remoti, dove il buio del lungo inverno accrescono l’isolamento e la paura. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




«La sola verità è amarsi»

30° anniversario della morte dell’apostolo dei malati di lebbra e della pace

Il 6 dicembre 1977, moriva a Parigi Raoul Follereau. Per 50 anni ha fatto udire fino alle più alte sfere nelle stanze dei bottoni la voce di chi non ha voce: i lebbrosi e tutti gli esclusi del mondo. Il suo esempio e il suo messaggio non possono essere dimenticati; oggi più che mai, c’è bisogno di continuare la sua lotta «contro tutte le lebbre»: egoismo, ignoranza, indifferenza, viltà.

C ome le più grandi avventure, anche quella di Raoul Follereau iniziò per caso.
Era il 1936 e stava attraversando il deserto del Sahara. Vi era andato già diverse volte, in veste di giornalista e di credente, per raccontare la vita di padre Charles de Foucauld. A un certo punto il radiatore della sua auto si mise a bollire e i passeggeri furono obbligati a una sosta per far raffreddare il motore. Fu allora che apparvero dei fantasmi d’uomini. Erano degli scheletri che si trascinavano a stento, lo sguardo pieno di paura. Follereau con il suo proverbiale impeto li chiamò, li invitò ad avvicinarsi, ma quelli si allontanarono e si nascosero.
Follereau si rivolse al suo accompagnatore. «Chi sono?» chiese. «Lebbrosi» rispose quello. E non seppe aggiungere altro, né spiegare perché vivessero da reietti, isolati da tutto e tutti.
«Quel giorno – raccontò anni dopo Follereau – capì che esisteva un crimine imperdonabile, degno di qualsiasi castigo, un crimine senza appelli e senza amnistia: la lebbra».
ORFANO A 13 ANNI
Un caso, abbiamo detto. Ma è proprio così? L’uomo di carità è colui che è attento alla sofferenza degli altri. Follereau era stato allenato dalla vita ad affinare questa speciale sensibilità.
La sua adolescenza fu stravolta dalla Grande guerra. Quando scoppiò il primo conflitto mondiale aveva appena 11 anni (era nato a Nevers nel 1903). Il padre venne chiamato alle armi. La piccola fabbrica di famiglia, che produceva attrezzi per l’agricoltura, dovette essere convertita in «industria bellica». Non c’era più spazio per i sogni e per i giochi. Anche Raoul, insieme al fratello maggiore, fu costretto a lavorare alle macchine per produrre proiettili. La scuola divenne un lusso; ma il ragazzo ostinato studiava la sera con l’aiuto di un anziano sacerdote.
Le ostilità sembravano non cessare più, infinito l’elenco dei morti. A casa si pregava perché fosse risparmiata la vita del proprio congiunto. Purtroppo non fu così. Nel 1917 avvenne ciò che tutti temevano: il soldato Follereau venne ucciso in battaglia nella Champagne. Raoul aveva 13 anni e adesso era uno dei 3 milioni di francesi resi orfani dalla guerra.
Il disastro bellico in Francia s’era sovrapposto a un altro conflitto, che riguardava questa volta le coscienze e bruciava negli animi più sensibili ai valori della religione cristiana. Nel 1905, con la cosiddetta legge Combes (dal primo ministro che l’aveva proposta, un ex seminarista divenuto massone), la Francia aveva dichiarato solennemente la separazione tra stato e chiesa. Gli edifici di culto vennero espropriati, gli ordini religiosi disciolti e costretti all’esilio.
Raoul, che aveva studiato presso i Fratelli delle scuole cristiane, sperimentò su di sé l’anticlericalismo. Nel 1920, agli esami per l’ingresso alla facoltà di filosofia, venne bocciato per due volte nonostante la sua dissertazione fosse tra le migliori. Ma non piacevano le tesi esposte e dunque… Dovettero intervenire le organizzazioni degli ex combattenti per difendere il figlio di un caduto in guerra. Il ministro dell’istruzione, per evitare lo scandalo, ammise d’ufficio Follereau alla Sorbona.
AVVOCATO, GIORNALISTA, POETA
Del resto, quel giovane era già una piccola personalità. Dall’età di 15 anni aveva scoperto la sua vena di comunicatore. La sua prima conferenza la tenne nel 1918 nel cinema della sua città, in occasione di una cerimonia per ricordare le vittime del conflitto mondiale. «Dio è amore», fu il titolo, lo stesso che 85 anni dopo verrà scelto da Benedetto xvi per l’enciclica iniziale del suo pontificato.
Follereau fu uno studente brillante, a 20 anni era già laureato in filosofia e diritto. Forse sentì già in sé la vocazione di difensore degli ultimi e di lottatore contro le ingiustizie. Scelse allora la strada dell’avvocatura, ma nello studio dove iniziò a lavorare la prima causa che gli affidarono fu quella per un divorzio. Sbatté subito contro il muro della propria coscienza e dovette trovare altri strumenti per portare avanti la sua battaglia.
L’occasione si presentò presto, sotto forma di un posto quale segretario di redazione del giornale parigino L’Intransigeant. L’ambito intellettuale e dell’informazione era in effetti quello più adatto a lui. Allargò presto i suoi impegni e nel 1927 fondò la «Lega dell’unione latina», un’organizzazione che si proponeva di difendere la civiltà cristiana contro tutti i «paganesimi» e le «barbarie».
Follereau aveva elaborato la sua esperienza giovanile: le divisioni intee alla Francia, il ripudio della tradizione e delle radici cristiane su cui pure si fondava la nazione; e poi, la tragedia bellica, generata da anacronistiche contrapposizioni tra le vecchie potenze dell’Europa. Da questo passato Follereau vedeva proiettare ombre sul futuro, che di lì a pochi anni avrebbero preso drammaticamente corpo.
Chi erano i nuovi barbari temuti dalla sua Lega, se non la triade con cui avrebbe fatto i conti tutto il xx secolo? Il germanismo, che sarebbe sfociato nella follia nazista; il bolscevismo, che avrebbe applicato la ricetta comunista sotto forma di feroce dittatura; e la corsa al denaro, che più avanti sarebbe divenuta quasi un’ideologia con il nome di consumismo, alimentata dalle ricette iperliberiste con al centro di tutto il mercato e la borsa.
Per far circolare le idee del suo movimento fondò un mensile, L’Opera Latina, dove diede molto spazio ai poeti. Era poeta egli stesso, una sua lirica fu apprezzata da Gabriele D’Annunzio, che lo volle incontrare. L’anima poetica di Follereau fece la sua parte negli appelli ai grandi della terra e ai giovani che furono i «capolavori» della maturità. Follereau era un vulcano: giornalista, drammaturgo, conferenziere…
VIAGGI  E INCONTRI STRAORDINARI
E intanto viaggiava all’estero, si recava in ogni luogo dove poteva esserci un’impronta francese o latina. Nel 1929 il ministero della Pubblica Istruzione, forse per «risarcirlo» della discriminazione che aveva subito anni prima agli esami di ammissione universitaria, gli affidò una ricerca sull’influsso culturale francese in America del Sud. Nel suo rapporto scrisse di aver trovato dovunque i religiosi e le religiose francesi, gli stessi che erano stati cacciati dal proprio paese a causa delle leggi del ‘905. Questi connazionali avevano fondato scuole, collegi, università. Erano loro i migliori ambasciatori della patria che li aveva rifiutati.  Chi aveva incaricato Follereau della missione si aspettava certo altre conclusioni…
Durante quel viaggio il giornale argentino La Nacion gli affidò un reportage su de Foucauld. Il piccolo fratello del deserto non poteva non attirare Follereau, che tra il ’30 e il ’36 fece la spola tra l’America Latina e il Sahara.
Fratel Charles era stato un viveur impenitente e un ufficiale avventuroso prima di farsi conquistare da Gesù. Non dall’immagine potente del Figlio di Dio, ma da quella ordinaria del figlio del falegname, che vive la sua vita nascosta nella piccola Nazareth. Un incontro che gli cambiò l’esistenza e lo condusse infine nel Sahara algerino, al seguito delle truppe francesi. Follereau vide proiettata in questa avventura umana tutto il suo ideale di una Francia capace di espandere la civiltà cristiana, non con la forza economica e delle armi ma con la fedeltà all’amore di Dio.
L’umiltà eroica di Charles de Foucauld, che adorava il Santissimo nel silenzioso eremo di Tamanrasset e lì, il primo dicembre del 1916, venne ucciso da un tuareg, era l’esempio di chi offre la propria vita senza chiedere nulla in cambio. Sapendo, però, che in quell’oblazione sta il «di più» che fa grande la fede e conquista i cuori.
Dunque, Follereau a 33 anni era già tutto questo, quando il «caso» fece sì che la sua auto restasse in panne nei pressi di un accampamento di lebbrosi. Una visione che non lo avrebbe più abbandonato, sebbene costretto ancora ad occuparsi d’altro.
La storia incalzava. Scrisse un libretto dal titolo «Hitler, volto dell’Anticristo» si recò in Italia e Romania per convincere queste nazioni – che la latinità rendeva sorelle della Francia – a non schierarsi con la Germania nazista. Incontrò anche Mussolini, incuriosito dal fiocco che Follereau indossava a mo’ di cravatta più che dalle idee dell’interlocutore. Quella strana cravatta, disse Follereau, è il segno di una differenza e della libertà individuale. Il duce si limitò a sorridere.
Nel 1939, allo scoppio della guerra, fu destinato al servizio degli ascolti telefonici. Follereau, in altre parole, divenne una sorta di 007 e fu testimone diretto del drammatico precipitare degli eventi inteazionali. L’anno dopo si trovò a Vichy, quando nacque il governo collaborazionista del maresciallo Pétain. Rifiutò ogni incarico e si rifugiò a St. Etienne, continuando la sua personale battaglia fatta di incontri e di discorsi. Tra il ’40 e il ’42 girò la Francia in lungo e in largo per ridare orgoglio e fiducia ai connazionali avviliti dall’occupazione straniera, mentre collaborò discretamente con l’esercito clandestino.
«IL VAGABONDO
DELLA CARITà»
Tra tanto girovagare, nel novembre del ’42, mentre nel mondo infuriava la guerra, Follereau incontrò una suora bergamasca, Eugenia Elisabetta Ravasio, che era divenuta giovanissima madre generale delle Suore missionarie di Nostra Signora degli apostoli. La religiosa era appena tornata da un viaggio in Africa, dove s’era imbattuta in orde di hanseniani, costretti a vivere nell’isolamento e nell’abbandono più completi. Madre Eugenia voleva costruire per loro un piccolo villaggio nella foresta, dove ognuno avrebbe potuto disporre di un capanno con un orto e delle cure sanitarie.
In Follereau si materializzò l’immagine di sei anni prima: l’incontro casuale coi lebbrosi nel Sahara, il loro destino di perenni fuggiaschi. Il progetto della suora lo conquistò e si buttò a capofitto nell’impresa di trasformarlo da sogno in realtà. Iniziò subito un giro di conferenze e una raccolta di fondi.
Il primo appuntamento fu ad Annecy il 15 aprile del ’43 e sembrò surreale l’iniziativa a favore dei lebbrosi tra le macerie dei bombardamenti, in una nazione e in un continente devastati dal conflitto bellico. «Ma la lebbra ormai mi aveva preso – raccontò più tardi Follereau -, ero il suo felice prigioniero». Il luogo per far sorgere il villaggio dei lebbrosi fu individuato in Costa d’Avorio, in una località chiamata Azoptè.
Per 10 anni Follereau, insieme a due suore, girò per le strade di Francia, Belgio, Svizzera, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco, Canada. Tenne 1.200 conferenze e divenne il «vagabondo della carità», «l’apostolo dei lebbrosi». Montagne di corrispondenza giunsero al suo indirizzo. Malati, medici, missionari gli raccontarono storie, drammi, speranze. E tutti dissero che non c’era solo Azoptè, che erano tanti e tanti – milioni – i lebbrosi da salvare dal peggiore effetto della malattia: il pregiudizio.
L’impegno a favore dei lebbrosi divenne un fiume in piena, sempre più impetuoso e inarrestabile. Non ci fu più spazio per altri mestieri, prese corpo l’idea di una fondazione che incanalasse il lavoro svolto in così tanti luoghi. Il campo d’azione divenne il mondo.  Follereau passò dall’Africa all’Asia, all’America Latina. Le sue conferenze divennero incalzanti, la sua oratoria proverbiale. Mirava al cuore degli ascoltatori, metteva a nudo l’indifferenza, la tiepidezza della maggioranza fortunata dell’umanità verso gli ultimi e gli esclusi. Coniò il suo famoso slogan: «Nessuno ha diritto d’essere felice da solo». Ecco, Follereau non voleva essere solo, voleva condividere giornie e dolori. Anche nella sua vita privata.
A 15 anni appena, s’era fidanzato con Madeleine, che a 21 sarebbe divenuta sua moglie. Madeleine fu per sempre la sua spalla. Lo sostenne nei momenti di difficoltà, quando l’attività vulcanica del marito non si conciliava con il conto della spesa; lo affiancò nei viaggi avventurosi, perfino a rischio della vita, quando piegata da una crisi di appendicite si trattò di accamparsi in Bolivia negli sperduti villaggi degli indios o di risalire il Rio delle Amazzoni con una canoa mezza rotta, tra nugoli di zanzare e frotte di caimani affamati. «La più grande fortuna della mia vita fu mia moglie», disse ormai anziano Raoul e aggiunse: «Solo quando si è in due si è invincibili».
«INSEGNARE DI NUOVO    AGLI UOMINI AD AMARSI»
Follereau non era un don Chisciotte. Credeva nell’utopia, ma non confondeva le pale di un mulino a vento col gigante da abbattere. La sua strategia solo a prima vista poteva apparire ingenua, in realtà puntava a moltiplicare il coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle istituzioni in un gioco di causa-effetto che allargava il raggio d’azione e d’influenza a cerchi concentrici.
In questo senso il 1952 fu un anno fondamentale. Mentre la scienza medica annunciava la possibilità di curare la lebbra con i sulfoni, Follereau si rivolgeva alle Nazioni Unite. «Per molti paesi – scrisse – la lebbra rimane una malattia vergognosa: si nascondono i lebbrosi, si dissimulano, si interrano, nelle famiglie come nelle nazioni». La sua era ancora una voce isolata, ma comunque la voce di un testimone autorevole che nessuno poteva far finta di non sentire. Egli stesso ne era consapevole e l’anno successivo alzò il tiro creando la Giornata mondiale dei malati di lebbra.
Due gli scopi essenziali: garantire agli hanseniani trattamenti e cure come tutti gli altri malati; guarire i sani dalla paura ancestrale verso la lebbra.
Dal 1953 a oggi la Giornata si è sempre tenuta l’ultima domenica di gennaio e anche i pontefici non hanno mai mancato di unirsi all’appello alla solidarietà verso le persone affette dal morbo di Hansen.
Follereau ricordò spesso i suoi incontri con i papi, a cominciare da quello che ebbe a Castel Gandolfo con Pio xii: «Quando gli esposi tutte le miserie, le crudeltà, il dolore, l’eroismo di cui ero stato testimone, quando ebbi terminato questa arringa che era quasi una preghiera, ci fu nello studio del papa un grande silenzio,  limpido, assoluto. La voce del papa riprese, con un tono del tutto mutato: “Sì – mi disse -, sì, quello che serve è insegnare di nuovo agli uomini ad amarsi”».
APOSTOLO DELLA PACE
In un certo senso Follereau fu un antesignano della globalizzazione. Di fronte a un problema planetario, anche la lotta deve essere condotta sulla stessa scala. Aveva ben chiaro che il destino dell’umanità era legato a un unico filo. L’esperienza della seconda guerra mondiale e l’ingresso nell’era atomica non avevano fatto altro che rafforzarlo in questa idea.
Nel 1948, in una sorta di manifesto dal titolo «Bomba atomica o carità», profeticamente affermava: «Non c’è più posto per coloro che tergiversano o temporeggiano. Oggi bisogna scegliere, subito e per sempre. O gli uomini impareranno ad amarsi, a comprendersi, e l’uomo finalmente vivrà per l’uomo, o spariranno, tutti e tutti insieme». 
Già nel 1944 aveva scritto al presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, chiedendo che l’equivalente dei costi di un giorno di guerra fossero destinati alla ricostruzione e alla pace. Ma gli accordi di Yalta sancirono l’inizio della «guerra fredda» e così, 10 anni dopo, Follereau inviò un’altra lettera, stavolta sia al presidente americano Eisenhower che a quello sovietico Malenkov. Si rivolgeva ai due grandi in modo apparentemente naïf, mettendo alla berlina le contraddizioni della corsa bellica tra superpotenze. Chiedeva a ciascuno dei due destinatari un aereo da bombardamento: «Perché ho calcolato che, con il prezzo dei due vostri aerei di morte, si potrebbero curare tutti i lebbrosi del mondo. Un aereo in meno in ogni campo non modificherà l’equilibrio delle vostre forze. Voi potrete continuare a dormire tranquilli e io dormirò meglio».
Naturalmente nessuno gli rispose, ma intanto cresceva tra i popoli la consapevolezza del problema. E Follereau faceva di tutto per alimentare il fuoco delle coscienze.
L’anno dopo, era il 1955, indirizzò una lettera aperta ai «Nostri Signori della Guerra e della Pace». Il tono adesso ricordava quello dei profeti biblici: «Forse che voi non troverete mai per guarire i poveri, per nutrirli, per allevarli, la millesima parte di ciò che avete sacrificato per lunghi anni per uccidere, per odiare, per distruggere? Questa domanda è l’uomo, ciascun uomo di ogni popolo che ve la pone. Che rimaniate o no silenziosi, egli si rallegrerà della vostra iniziativa o constaterà la vostra indifferenza: in ogni caso, non sfuggirete al suo giudizio».
Nel ’64 Follereau affinò la sua tecnica di comunicazione globale. Inviò una lettera al segretario generale dell’Onu, Sithu U Thant, ribadendo la sua richiesta di destinare «un giorno di guerra per la pace» e poi chiese il sostegno della gioventù di tutto il mondo. Ai ragazzi compresi tra i 14 e i 20 anni vennero distribuite cartoline da inviare a U Thant in cui si dichiarava di far proprio l’appello di Raoul Follereau. Alla fine furono 3 milioni quelle che arrivarono al Palazzo di vetro di New York, spedite da 125 paesi di tutti i continenti.
Con i giovani Follereau riuscì a creare un feeling speciale. Tra tanti adulti incapaci di comprendere i loro sogni, i giovani scoprivano un vecchio che parlava come loro di grandi ideali da realizzare. Ad essi si rivolse nella sua ultima conferenza: «Il mondo di domani sarà come voi lo farete. Avrà il vostro viso e la vostra dimensione. Costruite una cattedrale e che sia il rifugio di tutto ciò che vi è di pulito, di schietto, di onesto e di giornioso nel cuore dell’uomo. Non crediate che il mondo sia perduto: non è vero. Stiamo attraversando un brutto momento, ci troviamo in un tunnel, ma i miei vecchi occhi riescono ancora a vedere in fondo la luce verso cui stiamo andando».

I l piccolo francese di Nevers era divenuto un megafono gigantesco, che come nessun altro prima era riuscito a far salire in alto, alle stanze dei bottoni, la voce di chi non aveva voce. Continuò fino all’ultimo a fare il globe trotter per i suoi lebbrosi e per tutti i poveri, fino alla sua morte avvenuta a Parigi il 6 dicembre 1977.
La sua opera «contro tutte le lebbre» prosegue attraverso la Fondazione internazionale che porta il suo nome e che è presente in mezzo mondo con una rete di associazioni di volontariato. Per Follereau valgono i versi di Jacques Prévert:
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo.

Di Enzo Romeo

Enzo Romeo




Missione compiuta

Un «necrologio» appassionato

Il 29 giugno scorso, con la benedizione del vescovo ausiliare di Westminster e vari discorsi di circostanza ha chiuso i battenti il Missionary Institute di Londra. Iniziativa unica nel suo genere, per quasi quarant’anni il MIL ha continuato a ripetere profeticamente ciò che oggi appare sempre più evidente e necessario: la missione bisogna imparare a farla e a viverla insieme.

Scrivendo queste poche righe di «commemorazione» per il Missionary Institute London (MIL), mi rendo conto di ubbidire essenzialmente a un’esigenza personale: considerare ancora viva e importante un’esperienza di formazione che ha occupato quattro irripetibili anni della mia vita come missionario della Consolata. Penso anche – anzi, ne sono quasi sicuro – di interpretare il sentimento dei tanti confratelli, ora sparsi a servire il Regno di Dio nei quattro angoli della terra, che al MIL hanno studiato o insegnato, alimentando uno scambio di sapere che per 40 anni ha contribuito a tenere in piedi un’istituzione unica nel suo genere, esempio di collaborazione e condivisione fra forze missionarie e laboratorio di evangelizzazione per futuri agenti della missione. Un tempo breve e intenso, giunto al suo termine il 29 giugno scorso quando una toccante cerimonia di commiato ne ha decretato il precoce pensionamento.
Oggi il MIL non c’è più. I suoi locali hanno chiuso e saranno presto riconvertiti in qualcosa di differente. «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo», scriveva l’autore del libro dell’Ecclesiaste, frase che ben si adatta allo spirito missionario, fatto di dinamismo e continue ripartenze. Sono spariti i contorni della campagna inglese che ne facevano da coice,  ma resta attuale l’ideale che aveva portato alla fondazione di questa «università della missione», un ideale che continua a vivere in altre istituzioni che da questa esperienza hanno tratto ispirazione e che in altre parti del mondo ne continuano a trasmettere il messaggio.
Ci si conosceva tutti al MIL;  innanzi tutto perché si era in pochi: circa 150 studenti provenienti di volta in volta da una trentina di paesi diversi. Ma anche perché, al di là dell’impegno accademico, molte erano le occasioni di aggregazione fra studenti, insegnanti e staff. Fra queste ultime spiccavano i 30 minuti di intervallo, curiosamente previsti dopo la prima ora di lezione, in cui si aveva modo di socializzare, parlare del più e del meno o terminare, allargando la platea dei partecipanti, la discussione di classe che la fine dell’ora aveva lasciato in sospeso. Mezzora in cui si creava un ambiente propizio allo scambio, all’integrazione e al dialogo. L’atmosfera del MIL, che tutti ricordano e apprezzarono, era il frutto di una scelta ben precisa: dar vita a un esperimento di collaborazione e comunione fra forze missionarie come strumento imprescindibile della missione evangelizzatrice della chiesa. Il MIL, infatti, è stato frutto dello sforzo congiunto di sette istituti missionari (Missionari d’Africa, di Mill Hill, della Consolata, Comboniani, dello Spirito Santo, della Società per le Missioni Africane e del Verbo Divino) che, per rispondere all’esigenza di offrire ai propri studenti una formazione in linea con il loro carisma, si sono riuniti in consorzio dando vita a un ateneo orientato interamente alla missione.

LE RADICI

Vari motivi di differente natura hanno concorso, verso la metà degli anni ’60, alla fondazione della nuova istituzione accademica. La prima ragione era di ordine essenzialmente pratico. In quel periodo, infatti, esistevano a poca distanza l’uno dall’altro due grossi seminari appartenenti ad altrettante congregazioni missionarie: la Società di San Giuseppe per le missioni estere (Mill Hill Missionaries) e i Missionari d’Africa, altrimenti conosciuti come Padri Bianchi. I primi, di fondazione locale, avevano la loro Casa madre e seminario nell’imponente struttura del St. Joseph College, dominante la zona di Mill Hill, nella parte settentrionale di Londra. I secondi, avevano invece acquistato, nel 1958, i locali e il terreno dell’ ex-orfanotrofio di St. Edwards, nella confinante area di Totteridge, con l’intenzione di trasformarlo in un seminario e centro di studi per i loro studenti.
È stata la collaborazione iniziale di queste due istituzioni, fatta di scambi di locali e di personale docente, che ha fatto scaturire l’idea di fondare una scuola di teologia dove la missione potesse permeare tutte le aree della formazione accademica.  Un’esigenza, questa, avvertita anche da altri istituti missionari che, poco alla volta, si unirono con entusiasmo all’iniziativa.
C’è, però, una seconda ragione più profonda e più prettamente teologica che portò all’inizio di questa nuova apertura accademica che si concretizzò, finalmente, nella fondazione del Missionary Institute. Nel 1965, a conclusione del Concilio Vaticano II venne pubblicato il decreto Ad Gentes, sull’attività missionaria della chiesa. Il documento, guardando alla vastità dell’opera missionaria da compiere, mise l’accento sulle nuove sfide della missione e, in modo speciale, sulla responsabilità della chiesa locale nel lavoro di evangelizzazione. Il documento auspicava che detto lavoro venisse portato avanti da persone adeguatamente formate e capaci di investire risorse nello studio teologico, filosofico e culturale delle chiese da evangelizzare. Il documento, inoltre, invitava tutti gli agenti della missione ad utilizzare al meglio le risorse umane e materiali disponibili, promuovendo  sforzi congiunti che dovevano portare alla costituzione di opere e strumenti comuni al servizio dell’evangelizzazione. In modo particolare, si evidenziavano alcuni ambiti di azione, quali quello accademico, pastorale-catechetico e di comunicazione sociale.
Ai primi tentativi avviati dalle due sopraccitate congregazioni, che porterà nel settembre del 1967 a dar vita a un unico programma accademico, seguirà la partecipazione degli altri istituti che progressivamente si insedieranno nella zona e offriranno studenti e personale docente alla nuova iniziativa. Nel 1968, con l’approvazione ufficiale della «Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles» e della «Sacra congregazione per l’evangelizzazione dei popoli» nasce ufficialmente il Missionary Institute of London a cui, attraverso la «Sacra congregazione per l’educazione cattolica» verrà dato il potere di conferire diplomi e certificati accademici.
A partire dall’anno accademico 1972-1973, il MIL si affilia e inizia un lungo rapporto di collaborazione con l’Università di Lovanio, in Belgio, una delle più antiche e prestigiose università cattoliche del mondo. È grazie a questo accordo che gli studenti del Missionary Institute possono accedere al programma di «Baccalaureato in Sacra Teologia» e, in seguito, al titolo di «Master in Scienze Religiose».
Nel 1994, infine, il MIL ottiene l’affiliazione alla Middlesex University di Londra, un ateneo di recente costituzione che aveva avuto uno sviluppo rapido e costante nel mondo accademico britannico. Tra le sue iniziative più interessanti poteva vantare un prestigioso istituto di filosofia e di studi religiosi. L’impegno con la Middlesex permise al MIL quel collegamento con il mondo universitario inglese che ancora gli mancava per poter attirare fra le sue fila un numero maggiore di studenti laici. Frutto di quell’accordo fu l’istituzione di corsi triennali per il conseguimento di una laurea breve in missiologia e, soprattutto, un programma di studi superiori (master) in varie aree della missione quali giustizia e pace, etica e società, evangelizzazione e spiritualità missionaria. La partecipazione a questi programmi di specializzazione di studenti con una significativa esperienza missionaria alle spalle ha garantito al MIL un apprezzamento incondizionato del mondo accademico ed ecclesiastico inglese.

UNO STILE DIFFERENTE

Uno dei problemi più sentiti dalla nuova istituzione fu, da subito, quello di garantire un certo equilibrio fra una formazione accademica tradizionale, che rispondesse ai requisiti obbligatori che qualsiasi università pontificia richiede ai candidati al sacerdozio, e il carattere squisitamente missionario che si voleva dare ai corsi del MIL. L’ideale perseguito è sempre stato quello di fare della missione il «minimo comun denominatore» dell’intera formazione accademica.  Da un lato si ebbe cura di introdurre nel piano di studi corsi, sia fondamentali che elettivi, di natura spiccatamente missionaria, quali: teologia della missione, antropologia culturale e sociale, etnologia, teologia delle religioni, islamismo, religioni tradizionali africane, economia e sviluppo nel mondo contemporaneo. Dall’altro, e ben più importante, si cercò di dare a tutto l’insegnamento accademico, soprattutto ai corsi fondamentali (teologia sistematica, Sacra Scrittura, liturgia) un taglio particolare che fosse spiccatamente orientato alla missione, cercando di superare la tendenza a «occidentalizzare» troppo lo stile dell’insegnamento. Questo secondo obbiettivo, a onor del vero, non sempre è stato raggiunto in maniera sufficiente. Ci si è dovuti accontentare della sensibilità missionaria e della voglia di condividere l’esperienza maturata sul campo di alcuni insegnanti, nonché del contributo offerto dagli studenti (spesso attraverso le loro domande interessate) che avevano avuto una qualche esperienza di missione come parte del loro cammino formativo.  Soltanto verso la fine degli anni ’80 il MIL iniziò a ricevere insegnanti provenienti da paesi del Sud del mondo disposti a dare un insegnamento ad ampio raggio che fosse in grado di tener conto della voce e delle teologie del Terzo Mondo. Il primo in assoluto fu un missionario della Consolata, il mozambicano padre Felipe Couto, successivamente rettore dell’Università cattolica del Mozambico e attualmente rettore dell’Università nazionale di Maputo.
Sempre a quel tempo risale l’iniziativa di invitare docenti di importanti centri accademici del Sud del mondo affinché condividessero i frutti delle loro ricerche con studenti e colleghi del MIL.
Grande attenzione venne anche posta sulla dimensione pastorale della missione. Sebbene gli aspetti formativi fossero lasciati ai singoli seminari, uno degli obbiettivi fondamentali del MIL  è sempre stato quello di garantire ai propri studenti la possibilità di integrare in maniera costruttiva l’ambito accademico con quello più squisitamente pastorale, con una spiccata preferenza per l’approccio contestuale tipico delle teologie emergenti nel Sud del mondo.  Molti corsi erano costruiti come veri e propri seminari in modo da poter raccogliere l’esperienza diretta degli studenti, facendola diventare così parte integrante della materia insegnata. Per esempio, la tesi finale del Diploma in missiologia, conferito attraverso il MIL dalla Middlesex University era volutamente impostata come un lavoro di sintesi basato su un’esperienza pastorale continuativa e significativa di almeno due anni. Guidato da un tutor scelto fra il personale docente e da un responsabile della struttura dove svolgeva il suo servizio pastorale, lo studente veniva invitato a riflettere teologicamente su un contesto ben preciso di cui doveva descrivere dettagliatamente le caratteristiche e sottolineare pregi e difetti del lavoro pastorale che veniva svolto. La seguente lettura biblico-teologica doveva poi guidarlo a suggerire linee d’azione più efficaci e nuove prospettive. In questo modo, lo studente non solo «studiava» teologia ma, cosa ben più importante, imparava a «fare» teologia. Grazie a questo approccio, impostato sul metodo del «vedere-giudicare-agire», molti responsabili di varie istituzioni caritative o pastorali hanno trovato il modo di poter analizzare e rinnovare le loro politiche di intervento sul territorio e sulle persone.
A questo riguardo, Londra ha rappresentato un terreno ricco di opportunità: il suo carattere di metropoli multietnica ha sempre favorito innumerevoli possibilità di lavoro pastorale significativo: tra i migranti, i senza fissa dimora, i carcerati, i malati di Aids. In svariate occasioni è stato possibile collaborare con organizzazioni non governative operanti nei settori della cooperazione e di giustizia e pace. Molte parrocchie si sono avvalse della presenza degli studenti del MIL che, oltre ad offrire il loro contributo nelle varie attività, hanno rappresentato una voce critica e, attraverso le loro ricerche, hanno fornito dati utili per meglio impostare il lavoro di evangelizzazione e assistenza caritativa. Inoltre, grazie alla presenza sul territorio di una maggioranza di persone di fede anglicana e di moltissimi cristiani di altre denominazioni, Londra si è sempre rivelata un palcoscenico unico per quanto riguarda il dialogo ecumenico e interreligioso.
Di tutta questa abbondanza il MIL si è arricchito, creando con la città un proficuo scambio di sapere. Dalla realtà si auspicava prendesse spunto la ricerca; dalla ricerca si attingevano gli strumenti per una missione efficace e consapevole della realtà.
Dal 29 di giugno tutto questo non esiste più. Motivi di varia natura hanno portato gli istituti missionari che più avevano investito nell’iniziativa in termini di studenti e personale docente a ritirarsi progressivamente sino a chiudere con questa esperienza. Dopo l’affiliazione con la Middlesex University erano state manifestate alcune difficoltà incontrate a livello di programmi accademici e di orari poco compatibili con la routine di un seminario. Ma le ragioni principali sono state economiche (Londra è purtroppo una città molto cara per mantenere una comunità di seminaristi) e formative (la maggioranza dei candidati di tutte le congregazioni viene ormai da paesi del Sud del mondo e si ritiene più opportuno investire in strutture accademiche più vicine alla terra d’origine). A queste difficoltà, purtroppo, non ha fatto riscontro la sperata partecipazione dei laici, accorsi in numero inferiore alle attese e insufficiente a coprire i costi di gestione dell’università.
La storia del MIL continua a vivere in altre esperienze. Oggi, per esempio, il Tangaza College di Nairobi (un’iniziativa congiunta di vari istituti missionari)  continua a sostenere l’idea fondamentale che la missione attuale o la si fa insieme o non riesce a trovare le forze sufficienti per poter avere un impatto significativo sulla realtà. Al Missionary Institute questo sogno è stato inseguito con tutte le forze. Accademicamente, si è cercato di promuovere un lavoro interdisciplinare di insieme, fatto con la partecipazione e grazie all’esperienza di tutti. A livello di aggregazione si è cercato insistentemente di favorire tutte quelle attività che potessero unire, approfittando della ricchezza umana e culturale di ciascuno: dalle celebrazioni liturgiche ad avvenimenti sportivi, culturali e di festa.
Sarò forse apologetico e certamente di parte, ma mi sembra che, dando uno sguardo alla complessità del mondo attuale e della missione che ad esso si rivolge, la strada imboccata dal MIL è quella da continuare a perseguire. 

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Tutta un’altra storia

Preti d’America, alla scoperta di esistenze ed idee

L’Argentina non è soltanto terra d’immigrazione. Come negli altri paesi delle Americhe, anche qui ci sono popoli autoctoni, antecedenti la conquista bianca. I più noti sono i Mapuche (anche per la lunga disputa con Benetton), ma le popolazioni indigene sono una ventina. Ne abbiamo parlato con padre José Auletta, missionario italiano, che da 30 anni lotta al loro fianco.

Buenos Aires. Piccolo ed occhialuto, di prim’acchito sembra più un professore di liceo che un difensore dei diritti civili. Invece, ancora una volta, l’apparenza inganna. Lui è padre Auletta, missionario della Consolata, in Argentina dal 1976. Di nome farebbe Giuseppe, ma per tutti ormai è José. Lo incontriamo a Buenos Aires, dove si trova di passaggio. Il suo lavoro è infatti nelle lontane province del Nord, dove la vita è molto diversa da quella della capitale, metropoli in cui il fascino della città si scontra con il degrado delle immense periferie (villas miserias).

In questa sua lunghissima permanenza in Argentina (30 anni sono molti), lei ha sempre preferito lavorare con le popolazioni indigene di questo paese. Una prima domanda potrebbe allora essere la seguente. Rispetto ad altri paesi dell’America Latina, per esempio la confinante Bolivia o lo stesso Perù, le popolazioni indigene dell’Argentina sono decisamente minoritarie. Non soltanto come numero, ma anche come visibilità. È così?

«Sopravvive l’idea che l’Argentina abbia pochi popoli indigeni. In realtà, in questo momento si ritiene che siano presenti da 500 mila ad 1 milione di indigeni di diversi gruppi etnici, dal nord al sud dell’Argentina».

Che non sono pochi rispetto alla popolazione dell’Argentina, che non arriva a 37 milioni di abitanti…

«Non sono pochi, soprattutto se si tiene conto che, fino a non molto tempo fa, si credeva che in Argentina non ci fossero indigeni…».

Addirittura…

«Sì, e non solo tra la gente comune ma anche nell’ ambito della chiesa. Non sono pochi i vescovi che hanno scoperto solo ultimamente gli indigeni dell’Argentina».

Ho visto un bel manifesto di Endepa. Ci può parlare di questa organizzazione?

«L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) è nata più 20 anni fa come un organismo dipendente dalla Commissione episcopale di pastorale aborigena (Cepa). Il momento forse più importante si è avuto nell’anno 1994, in occasione della riforma della costituzione nazionale che risaliva al 1853. In quell’occasione, la presenza nella costituente di rappresentanti dei popoli indigeni fu elemento decisivo affinché venissero riconosciuti i loro diritti, soprattutto quando nessuno se lo aspettava. Dopo quel riconoscimento oggi si può parlare dell’esistenza di 20 gruppi etnici in Argentina».

Questi gruppi etnici dove sono dislocati principalmente?

«In buona parte delle province, da Nord a Sud, dalla Patagonia a Salta. Cominciando dal Sud, incontriamo i Mapuches (Neuquen, Rio Negro, Santa Cruz); i Wichis a Formosa; i Guaranies a Misiones; i Tobas nel Chaco; gli Ona, i Kolla, i Tehuelche, i Quilmes…».

Quilmes è una famosa marca di birra, è una città della Gran Buenos Aires…

«Ma è soprattutto il nome di un popolo indigeno. Anzi, è il nome del popolo indigeno che più ha sofferto nella storia dell’Argentina… Dopo essere stati sconfitti dai conquistatori spagnoli (1666), tutta la comunità fu deportata nella provincia di Buenos Aires, a 1.500 chilometri da Tucumán, suo luogo natale».

Dallo sterminio al riconoscimento del 1994

In generale, c’è una condizione particolare che caratterizza tutte queste popolazioni indigene dell’Argentina? Voglio dire: sono sempre state, come sembra dalle sue parole, popolazioni umiliate oppure questo, qui in Argentina, non è accaduto?

«Basta un esempio: la famosa “conquista del deserto” (1875-1884), portata avanti con piena coscienza dallo stato attraverso il generale Julio A. Roca, che tendeva semplicemente a sterminare gli indigeni per fare posto agli emigranti che arrivavano da altri paesi, dall’Europa in particolare. Quindi, c’è stata una lunga storia di ingiustizia verso questi popoli indigeni. Addirittura, se analizziamo l’articolo dove si parlava di indigeni, non c’è niente di lusinghiero. La costituzione affermava infatti che bisognava…».

Mi scusi, padre, stiamo parlando della costituzione del 1853?

«Sì, quella prima della riforma. Essa diceva che bisognava difendersi dagli indigeni, quasi fossero il nemico numero uno dello stato. E, per coronare il tutto, convertirli al cattolicesimo. Una contraddizione tremenda».

«Convertirli al cattolicesimo…» Posso scrivere proprio così?

«Lo può scrivere, perché proprio questo diceva quella Costituzione…».

Per fortuna, la revisione costituzionale del 1994 ha introdotto l’articolo 75…

«Sì. È un articolo veramente completo: riconosce la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini, rispetto alla stessa formazione dello stato nazionale; riconosce i diritti alla proprietà comunitaria delle terre che storicamente occupano; riconosce il diritto alla propria organizzazione e all’insegnamento delle proprie lingue, il diritto ad essere informati su questioni che li interessano direttamente. Questo è l’articolo n. 75 comma 17 della Costituzione del 1994».

La terra: un diritto per pochi?

Torniamo alle sue esperienze. In precedenza, ha detto di aver lavorato molti anni con gli indigeni tobas. Che tipo di esperienza fu?

«Arrivai a Machagai, nel Chaco, alla fine dell’anno 1983, quando ricominciava la democrazia in Argentina. Il territorio della mia parrocchia aveva una configurazione molto ricca, nella quale appariva evidente la realtà indigena, come nella vicina Colonia Aborigen Chaco. Terminato il mio servizio di parroco, chiesi all’istituto di vivere direttamente nella stessa comunità. Non fu facile, ma, mi fu concesso. Nel maggio 1991 cominciai la nuova esperienza fino all’ottobre del 2000, vivendo lì prima da solo, poi con l’aiuto di un confratello e alla fine con le suore della Consolata. Si costituì una piccola équipe e riuscimmo a portare avanti un lavoro organizzato. A livello di promozione umana cercammo di impostare lavori comunitari centrati su tre aspetti: la comunicazione, ovvero strade interne perché la gente potesse muoversi con più agilità verso scuole, ospedali o la città di Machagai; la formazione di centri comunitari; terzo, un progetto abitativo, però con aiuto, lavoro e costruzione comunitari».

Tuttavia, la battaglia più importante e difficile era un’altra, vero?

«Il reclamo fondamentale era quello per la terra. Si riuscì ad avere il titolo comunitario di proprietà nell’anno 1996 con molte difficoltà».

Quanti sono i Tobas?

«Lì, nella colonia sono circa 4 mila persone».

Parlano ovviamente una loro lingua?

«Sì, c’è un processo di recupero della lingua. Sono stato responsabile di un’équipe diocesana di pastorale indigena, che si occupava proprio della preparazione di docenti aborigeni, che potessero insegnare nella loro lingua».

La regione del Chaco che tipo di caratteristiche fisiche e soprattutto sociali presenta rispetto ad altre province argentine?

«Più o meno ha le caratteristiche di tutto il Nord: fondamentalmente povero, ma con risorse forestali immense, in questi anni saccheggiate da imprese multinazionali con la connivenza del governo che lascia fare. Personalmente, ho assistito a momenti di grande siccità e a grandi inondazioni provocate proprio dall’uso indiscriminato delle risorse naturali».

Chi è il colpevole di aver venduto tutta la terra alle multinazionali straniere?

«Senz’altro l’indiziato primo è lo stato stesso. Nel Chaco, la prima tappa si ebbe all’inizio del secolo con le piantagioni di cotone, per far posto alle quali si disboscò una grande quantità di terreno usando manodopera indigena schiava, come d’altra parte nelle vicine miniere. Nell’anno 1924 ci fu un eccidio, uno sterminio di circa 500 indigeni tobas nella zona Aborigen Chaco, che è ricordato come la “matanza di Napalpí”. Un migliaio di indigeni tobas iniziò uno sciopero della raccolta del cotone. La repressione fu feroce: il 19 luglio un centinaio di poliziotti armati di fucili Mauser e Winchester uccise senza pietà circa 500 Tobas indifesi.

E dopo il cotone, arrivò l’allevamento del bestiame. Insomma, ogni progetto era buono per ampliare l’area coltivabile a danno dell’area boscosa. L’equilibrio naturale si ruppe, come dimostravano l’alternanza di inondazioni e siccità».

Morire per fame (nel granaio del mondo)

Dopo i 10 anni di Carlos Menem, l’Argentina sprofondò in una paurosa crisi economica, che culminò con la rivolta del dicembre 2001. Come si manifestò quella crisi nelle regioni del Nord?

«Dalla povertà si passò alla miseria, per dirlo in forma molto sintetica. Si vissero 10 anni di illusione e di inganno. Si parlava di un’Argentina da primo mondo, però solo in alcuni ambienti. A Buenos Aires si perse la cultura del lavoro e della solidarietà e venne imposta la cultura del “si salvi chi può in qualsiasi modo”».

Nel 2002, nelle province di Tucuman e Misiones ci furono decine di bambini morti per fame. Una cosa che ha dell’incredibile per un paese come l’Argentina, no?

«Certamente, soprattutto se si considera che quelle province avevano ed hanno risorse sufficienti per tutti purché equamente distribuite. Tra l’altro, la denutrizione è un problema ancora attuale, che sarà difficile sradicare in poco tempo».

A proposito di alimenti, anche nel Nord dell’Argentina si è avuta la diffusione delle coltivazioni di soia?

«Nella provincia di Salta, dove io lavoro, la tendenza è quella di ampliare sempre di più le aree coltivate a soia».

Perché la soia? Dicono, si dice, che abbia portato molta ricchezza al paese, ma anche molti svantaggi, legati al fatto di essere soia transgenica.

«Oggi la soia è un prodotto per l’arricchimento facile e immediato di molte imprese. Ma è soprattutto un prodotto che impoverisce la terra. Anzi, secondo alcuni è una causa scatenante dei problemi alimentari del paese».

Percorrendo le terre attorno alla grande Buenos Aires, ho visto molti campi racchiusi dietro barriere di filo spinato ed ognuno aveva la sua marca: Cargill, Monsanto, eccetera. Cosa significa questo esattamente?

«Significa che in quei terreni sono stati utilizzati prodotti agro-chimici per “migliorare” (tra virgolette) le coltivazioni stesse. I nomi sono quelli dei gruppi industriali internazionali che sfruttano queste terre per lasciarle, un domani non molto lontano, senza sostanze. Un deserto».

Guaraní contro Seaboard Corporation

Dal Chaco lei è passato ad Oran, nella provincia di Salta. Con chi sta lavorando?

«La parrocchia di San José si trova in una zona urbano-periferica di Oran. Comprende quartieri degradati in una città che di per sé è povera, anche se ricca di risorse. Oltre alla popolazione urbana, ci occupiamo di 4 comunità di indigeni kollas che vivono sulle montagne. Vivono lontani dalla città, per cui li raggiungiamo ogni fine mese per una settimana e soltanto da maggio ad ottobre quando non piove. Da qualche anno lavoro inoltre nella commissione diocesana di pastorale sociale, che si occupa soprattutto di “terra”, l’asse attorno a cui girano tutti i problemi di Oran. Con diverse pastorali – aborigena, della carità, della sociale, della salute – si è formata una commissione interpastorale con un’équipe giuridico, un gruppo di avvocati volontari che si sono presi a cuore i problemi della terra».

Ancora una volta conflitti per la terra. Sembra un problema infinito…

«In questo momento ci sono 6-7 casi di cui uno di non indigeni, di criolos. Il caso più conosciuto è quello della comunità di Iguopeigenda (in lingua spagnola, Rio Blanco Banda Sur), composta da indios tupí-guaraní. La comunità si sta confrontando con un “mostro”, l’industria zuccheriera Tabacal, che dal 1996 è proprietà della multinazionale statunitense Seaboard Corporation.

Questa ha comprato dai Costas, la famiglia di latifondisti già proprietaria di Tabacal, una grande quantità di terreno, circa 1 milione di ettari».

Dunque, siete in lotta addirittura con una multinazionale. Un confronto impari…

«Sono già 3 anni che ci troviamo a lottare con la multinazionale statunitense. Gli indios di Iguopigenda erano sotto minaccia di sfratto dalla terra che occupavano da tempo. Intervennero i nostri avvocati che presentarono istanza alla giustizia per reclamare il diritto al possesso di quella terra. Nel frattempo, ci furono minacce alla comunità e a noi. Dopo 2 anni, il giudice, una donna, ha deciso di accogliere la richiesta degli indigeni, riconoscendo alla comunità il diritto di poter recuperare 224 ettari».

Parliamo di 224 ettari su un’estensione di 1 milione…

Una comunità composta di 60 famiglie (una media per ogni famiglia di 5-6 persone), che vogliono vivere del lavoro della terra. Un lavoro peraltro rispettoso, nel senso che non distrugge, ma produce lo stretto necessario per poter vivere e vendere i frutti della terra. Favorendo anche la società, riuscendo cioè a vendere ad un prezzo non esagerato. In questo momento siamo in attesa che i nostri avvocati richiedano l’esecuzione della sentenza».

Perché una compagnia con tanto terreno nelle proprie mani non capisce quanto irrilevante sia, rispetto alla sua attività economica, un pezzettino di terra di pochi ettari? Come mai accanirsi contro 60 famiglie, che con quella terra sopravvivono?

«Da una parte, la compagnia statunitense si fa forza di un pezzo di carta che le accredita la proprietà della terra, approfittando del fatto che i popoli indigeni non si sono mai preoccupati delle cose formali. Abitano le terre senza definire i confini del territorio che occupavano o che occupano. Dall’altra parte, alla Seaboard Corporation, come a tutte le multinazionali, interessa soltanto il profitto, da perseguire ad ogni costo. Salvo poi presentarsi ai cittadini con il suo lato positivo-umanitario con donazioni a istituzioni pubbliche che le consentono di apparire sui media come un’associazione benefica. Una vergogna in tutti i sensi».

L’Argentina di Kirchner e la sete di potere

Lasciamo un attimo gli indigeni, per parlare dell’Argentina di Nestor Kirchner. Il suo parere su questa presidenza.

«Si è cercato di riordinare la cosa pubblica in diversi aspetti, ma non si può nascondere la sete di potere che sta invadendo un po’ tutti i politici, a cominciare dall’attuale governo che pretende di continuare al potere».

La sete di potere è una caratteristica del peronismo…

«E non solo, perché anche partiti diversi, che governano in altre province, hanno la stessa tendenza. Abbiamo avuto un caso significativo nella provincia di Misiones dove il governatore Carlos Rovira pretendeva di cambiare la costituzione solo per essere rieletto in forma indefinita. La stessa popolazione ha chiesto a mons. Piña, vescovo in pensione, di mettersi alla testa del reclamo popolare. Così è entrato nella costituente, per evitare che si riformasse l’articolo che avrebbe permesso al governatore di essere rieletto indefinitamente. La risposta è stata tale che, per una volta, la gente ha sconfitto la mania dei politici di sentirsi padroni del potere».

Mi sembra di capire che la sua fiducia del cambiamento è una fiducia condizionata.

«Sì, anche perché uno continua a sentire discorsi ambigui, che possono facilmente trasformarsi in un nuovo inganno per la gente, troppo spesso utilizzata per i fini del governante di tuo».

Per lei che ha lavorato con popolazioni indigene per molti anni, cosa significa l’esperienza della Bolivia, dove c’è da poco un presidente aymara? Mi riferisco ovviamente a Evo Morales.

«È stato un passo importante, ma anche qui bisogna stare attenti. Far sì che ci sia una vera partecipazione popolare e che non si cada in eccessi demagogici, che possono essere pericolosi. Certamente è fondamentale che sia stato eletto un presidente indigeno, con la forza dei popoli indigeni, che sono la gran maggioranza della popolazione».

Dopo 30 anni in Argentina, che sensazione personale si porta dentro?

«Senz’altro di arricchimento umano, culturale, un grande insegnamento che ho ricevuto nei diversi posti, in particolare nel Chaco. Anche le altre tappe sono state importanti, di preparazione per vivere il grande amore che è stato l’incontrare la realtà indigena che peraltro io non ho mai idealizzato. Come tutti gli esseri umani, anche gli indigeni hanno pregi e difetti».

(fine 6.a puntata – continua)

Paolo Moiola

Paolo Moiola




URANIO POVERO

Crisi politica e insicurezza alimentare, dove va il paese

Vastissimo, ma desertico. Indicato come il meno sviluppato del mondo, ma anche quello a tasso di crescita più elevato. L’accesso all’acqua per tutti è ancora un sogno. L’educazione è da inventare, mentre chi gestisce il potere si appropria dei fondi pubblici stanziati per migliorarla. Intanto nasce un nuovo movimento tuareg ribelle, che semina morte nel nord. Ritratto di un paese estremo.

L’aria è secca a Marmari, villaggio nel dipartimento di Tanout, nel centro del Niger. Un gruppo di case in mattoni di fango essiccati, buttate in mezzo alla sabbia. Il giallo ocra tinge e domina ogni cosa in questa terra. El Hadji Mamoudou è il capo villaggio, anziano e cortese. Ci porta a visitare il pozzo subito fuori dall’abitato: una grossa fortuna per la popolazione. Siamo a mille chilometri dalla capitale, Niamey, in una zona semiarida, che prepara al deserto, dove gli allevatori convivono con gli ultimi avamposti degli agricoltori stanziali. Peulh e tamashek (più comunemente tuareg) i primi, haousa e kanouri i secondi.
Il pozzo in cemento è profondo cento dieci metri. È stato realizzato dalla cooperazione internazionale ed è entrato in funzione nel 2004.
Gli uomini attingono l’acqua da questa voragine, di cui non si vede il fondo, utilizzando asini o buoi. Fanno tirare loro una lunga corda su rudimentali carrucole. Sotto il sole che, in questa stagione, rende il caldo infeale, raggiungendo i 45-50 gradi all’ombra. Quando il recipiente con un centinaio di litri arriva in superficie, due uomini lo versano negli abbeveratorni per gli animali. E qui, tra una vacca e un asino che cercano di placare la sete, una ragazza riempie alcuni bidoni di plastica. È il fabbisogno per una famiglia.
«In questa stagione il pozzo diventa secco più volte al giorno – racconta El Hadji Mamoudou – iniziamo ad attingere al mattino presto, ma dopo che un paio di famiglie hanno riempito i loro recipienti l’acqua si è ritirata». Siamo alla fine della stagione secca, che dura da settembre a maggio. È il periodo peggiore, perché i granai sono ormai vuoti. Ma proprio adesso agli uomini occorre tanta energia per lavorare i campi e preparare il nuovo raccolto, sperando che le piogge siano abbondanti e regolari. «Occorre aspettare una o due ore, ed ecco che la falda acquifera ricarica il pozzo e altre due famiglie si fanno avanti». Così per tutto il giorno, per 4 o 5 cicli. Ma questo punto d’acqua non è sufficiente per l’intera popolazione di Marmari, e molti si spostano a Chirwa, percorrendo quasi 4 km a piedi o con il carretto. In questo villaggio, più importante, una pompa a motore estrae acqua da 700 metri di profondità e la distribuisce a cinque fontane.
In Niger il problema dell’accesso all’acqua (non solo a quella potabile) rimane enorme.

Lo spettro della fame

Durante i mesi delle piogge si coltiva una varietà di miglio che si è adattata a questo suolo sabbioso. Il cereale, immagazzinato nei granai, sarà pestato dalle donne a forza di braccia nei mortai, e dovrà fornire la farina per il pasto quotidiano della famiglia per il resto dell’anno.
Finita la stagione delle piogge e ultimato il raccolto, si tenta di coltivare un po’ di ortaggi: «A 4 km da qui c’è un avvallamento che permette all’acqua di fermarsi per qualche mese in pozze naturali. Sono stati scavati anche dei pozzi poco profondi per l’irrigazione» continua El Hadji. «Intoo facciamo i nostri orti. Quest’anno però non c’era abbastanza acqua e non siamo riusciti a far crescere nulla».
Il Niger, dove l’alimentazione dell’80% degli abitanti dipende direttamente dall’agricoltura, occupò per qualche giorno le cronache dei giornali a causa della crisi alimentare del 2005. Una cattiva stagione piovosa nel 2004, l’invasione delle cavallette, congiunta alla precaria economia di sussistenza e ai non adeguati stock nazionali di sicurezza avevano fatto scattare l’emergenza in Niger, Mali e Burkina Faso. Ma fu il Niger il paese più colpito, dove si stima che 3,6 milioni di abitanti furono interessati dalla penuria di cibo. Oltre ai 150 mila bambini che soffrono di malnutrizione cronica, se ne aggiunsero altri 800 mila (sotto ai 5 anni). L’apparato internazionale degli aiuti umanitari di emergenza si era allora mosso con gran fragore. Ma la radice del problema non è stata eliminata e l’esposizione delle popolazioni ai capricci delle precipitazioni atmosferiche e alle migrazioni di insetti è sempre drammaticamente reale.

I due primati

Paese di un milione e duecentomila chilometri quadrati (quattro volte l’Italia), in gran parte desertico, il Niger è abitato da circa 13 milioni di persone.
Combinando la speranza di vita, che di poco supera i 44 anni, il tasso di scolarizzazione intorno al 21% e il reddito pro capite annuo di circa 220 dollari, il paese si guadagna da tempo l’ultimo posto (su 177 paesi recensiti) nella classifica dello sviluppo umano stilata ogni anno dalle Nazioni Unite.
Un altro primato è il tasso di crescita più elevato del mondo: 3,3%. Anche questo concorre alla malnutrizione e preoccupa il governo che vorrebbe ridurlo al 2,5% entro il 2015. La media di quasi otto figli per ogni donna (2,7 è la media a livello mondiale) e l’elevato numero di matrimoni precoci (la metà delle ragazze si sposa prima dei 15 anni, nei villaggi a 12 – 13 anni), spiegano la forte crescita. Questo nonostante i tassi di mortalità infantile restino molto elevati: oltre uno su quattro bambini non arriva all’età di 5 anni.  Valori questi che dimostrano le enormi difficoltà sul piano sanitario e nutrizionale.

uranio e ribelli

Il Niger è il terzo produttore d’uranio al mondo (dopo Canada e Australia) e i suoi giacimenti sono già sfruttati da decenni dai francesi. Il governo sta oggi vendendo concessioni per nuove prospezioni, spinte dal rialzo dei prezzi causato dal consumo cinese. Ma nel nord, nelle zone desertiche dell’Air, Azawak e Kawar la corsa è aperta anche alla ricerca del petrolio (già sfruttato nei vicini Ciad e Mauritania, e presto anche in Mali). Non è un caso quindi che tornino a far parlare di sé i gruppi di ribelli tuareg.
Nel febbraio di quest’anno il sedicente «Movimento dei nigerini per la giustizia» (Mnj) attacca una postazione militare a Iférouane, facendo tre morti e alcuni feriti. Toa così lo spettro della ribellione tuareg, degli anni ’90 conclusasi con la firma della pace di Ouagadougou, nell’aprile 1995. Le condizioni dell’accordo erano la reintegrazione dei ribelli nell’esercito (oltre 2.300 effettivi), il decentramento amministrativo e maggiori investimenti per sviluppare le terre del nord.  Tutte soddisfatte, secondo il governo. Il contrario per il neonato movimento. L’Mnj sostiene, in un memorandum, che la regione non beneficia di alcun investimento, «ha un sistema educativo in rovina, un livello degli allievi inquietante, un alto tasso di abbandono» e aggiunge «un sistema sanitario in decomposizione, che non tiene in conto della componente nomade e nessuna infrastruttura per un utilizzo duraturo delle zone minerarie».
Un movimento che vuole darsi connotati da «difensore degli oppressi» (forse a immagine dei più forti gruppi che controllano il delta del Niger in Nigeria), definendosi una «organizzazione che combatte l’ingiustizia» chiede un «forum di riflessione imparziale per una riforma globale della politica in Niger».
Si tratta di un gruppo di giovani tuareg, il cui capo Aghali ag Alambo non esita a rilasciare interviste, e che lanciano i loro comunicati sul proprio sito internet.

«Sono solo banditi»

Ma il governo giudica l’Mnj «una banda di banditi armati e trafficanti di droga» e rifiuta ogni forma di negoziato. Allora il movimento continua con attacchi. A uno sperduto sito di prospezione della potente impresa francese Areva, all’aeroporto di Agedez, per poi catturare il 22 giugno un’intera guaigione dell’esercito a Tezirzait, nelle montagne dell’Air, uccidendo 15 soldati e facendo una trentina di feriti. Consegnati questi ultimi alla Croce Rossa internazionale.  Toa anche l’insicurezza sull’asse stradale Tahoua – Agadez – Arlit.
Alcuni analisti sospettano legami tra questo movimento e il gruppo di tuareg che ha attaccato l’11 maggio una posizione militare a Tin Zawaten, nel nord – est del Mali. Gruppo che non ha rispettato agli accordi di pace del 4 luglio 2006 (vedi MC, settembre 2006). Parlano di un movimento transnazionale spinto anche dalle idee di un grande stato tuareg, predicate dal leader libico Mouammar Gheddafi.

problemi dell’educazione

Intanto il governo, e in particolare il potente primo ministro Hama Amadou (indicato anche come futuro presidente), è travolto dallo scandalo sull’educazione. Oltre 6,1 milioni di euro del «Programma decennale di sviluppo dell’educazione» si sono volatilizzati. Si tratta di un grosso finanziamento, in larga parte di governi europei, con l’obiettivo di migliorare il tasso di alfabetizzazione e di scolarizzazione del paese. Un’audit voluta dai partner nel 2006 ha rivelato «gravi problemi nella gestione dei fondi destinati all’educazione». Due ministri dell’educazione (Hamani Harouna e Ary Ibrahim) e altri dirigenti del ministero sono stati arrestati nell’ottobre scorso. I due dichiarano di aver ricevuto «ordini dalla gerarchia», ma Hama Amadou ha rifiutato di comparire davanti all’Alta corte di giustizia che conduce l’inchiesta, dichiarando di voler rispondere a domande scritte per scritto.
Da qui la mozione di sfiducia che l’opposizione ha presentato all’Assemblea nazionale. Ma ecco il colpo di scena. Nonostante il partito del primo ministro e i suoi alleati possano contare su una netta maggioranza parlamentare (88 dei 113 seggi), 62 deputati votano la sfiducia. Hama Amadou, dopo sette anni di regno è costretto a dimettersi. Il presidente della repubblica Mamadou Tanja (che finirà il secondo mandato nel 2009) nomina il 6 giugno scorso Seyni Oumarou (un fedelissimo di Hama) nuovo primo ministro. Ma l’équipe governativa cambia poco.
Questioni molto lontane queste da El Hadji Mamoudou e gli abitanti di Marmari. L’acqua quotidiana e il prossimo raccolto tra piogge e invasioni di cavallette li preoccupano di più. Resta vero che la maggior parte dei loro bambini non vanno a scuola e hanno a disposizione solo qualche sgangherata tettornia di paglia come aula. Ma lo sviluppo di un paese deve necessariamente passare dall’educazione.

di Marco Bello

Intervista al vescovo di Maradi

Il monsignore dei grandi spazi

Monsignor Ambroise Ouedraogo è il vescovo di Maradi. La sua diocesi ha una superficie di un milione di chilometri quadrati (oltre tre volte l’Italia), ma conta appena 3.000 cristiani. Sono perlopiù immigrati dagli stati vicini (Benin, Burkina Faso, Togo, Nigeria, ecc.) arrivati qui in cerca di lavoro.
Lui stesso è burkinabè. Giunge in Niger come missionario fidei donum nel 1985, mandato dal cardinale Paul Zungrana di Ouagadougou. Nel 1999 mons. Catatregué, allora vescovo di Niamey lo consacra vescovo ausiliare. Due anni più tardi l’unica enorme diocesi del Niger viene divisa in due: nasce la diocesi di Maradi e mons. Ambroise ne diventa il primo pastore. Lavorano con lui altri 16 preti, di cui 2 diocesani e 14 redentoristi e padri bianchi. Le religiose sono una trentina, nelle diverse congregazioni dell’Assunzione, di Cluny, le figlie del Sacro Cuore di Maria (diocesane senegalesi) e le piccole sorelle di Gesù (tra cui alcune italiane). Queste ultime operano alla frontiera della diocesi, dove non ci sono preti.
Il vescovo, nella sua semplice abitazione (e ufficio) di Maradi, ci racconta il loro lavoro e la particolare evangelizzazione di pochi cristiani in una marea musulmana.

Quale pastorale portate avanti in queste condizioni così particolari?
Con mons. Berlier, c’era quello che chiamiamo «la pastorale sul tappeto»: ovvero una presenza cristiana, della chiesa cattolica con i musulmani, per vivere nel quotidiano il vangelo. Incontrare la gente, visitare, partecipare alle feste di famiglia, «stare con». Questo ha permesso che la chiesa sia riconosciuta e accettata dalla popolazione a maggioranza musulmana.
Nel 1985 ci siamo chiesti: dobbiamo continuare con questo tipo di pastorale di presenza o passare a una di evangelizzazione? Abbiamo fatto questo salto. Ma allora come evangelizzare questo popolo che è credente e musulmano? Se la nostra pastorale di evangelizzazione è di fare dei cristiani battezzati, cresimati, con i sacramenti, diventa molto difficile. Ma l’evangelizzazione è osare testimoniare il vangelo, annunciare il Cristo, essere testimoni del resuscitato. Andare verso i nostri fratelli e sorelle.
Penso che sia questo, che cerchiamo di portare avanti nelle due diocesi del Niger.
La maggioranza dei nostri cristiani vengono dall’estero, pochissimi sono nigerini. Nonostante questo cerchiamo di formarli, e coscientizzarli, perché non si isolino, ma possano essere in mezzo ai loro fratelli musulmani come «sale e luce».
Questa pastorale la facciamo attraverso le nostre strutture di educazione, come le scuole, le strutture sanitarie, i progetti di sviluppo. Cerchiamo di portare lo spirito del vangelo nel cuore delle azioni di pastorale sociale. Da due anni abbiamo la Cadev (Caritas e sviluppo), nella quale cristiani e musulmani sono impegnati per la lotta contro la povertà e nella promozione umana.
Se togliessimo i musulmani dalla Cadev resterebbero in pochissimi! È proprio un luogo di concertazione, di relazione cristiano-islamica. Si cerca insieme di mettere in piedi una politica di sviluppo che possa raggiungere le popolazioni.

Con questo obiettivo, arrivate a far lavorare bene insieme le persone?
Si, anche a livello delle nostre scuole. La maggioranza dei nostri insegnanti è musulmana. Lo è anche il responsabile dell’insegnamento cattolico. È una persona molto aperta, fa bene il suo lavoro e sposa la filosofia cristiana dell’educazione. È un’apertura nella relazione tra le religioni e facciamo continuamente questo sforzo, perché il rischio è che ognuno faccia le sue cose, che i cristiani si chiudano. Questo porterebbe a un suicidio della chiesa in Niger.
Oggi i cristiani hanno più coscienza, sanno di esserlo e devono manifestarsi come tali. C’era questa frase «la pastorale offensiva», per dire «siamo cristiani e vogliamo testimoniare la nostra fede con i fratelli musulmani». Non nascondersi, restare in disparte. Direi che abbiamo superato questa paura.

Non ci sono reazioni dell’integralismo musulmano?
In Niger c’è un certo integralismo, che aspetta per svegliarsi. È forte in ambienti periferici, più poveri. È li che agisce. Quando c’è stata la conferenza nazionale, tra il 1990 e il ‘91, c’era anche una tendenza che voleva fare del Niger un paese islamico. Fortunatamente, c’erano dei politici che hanno visto il pericolo e hanno optato per uno stato laico, dove ogni fede si possa esprimere liberamente.

Quali sono i problemi principali che avete per integrare la piccola comunità cristiana in quella musulmana?
Il primo problema che viviamo come cristiani è questa difficoltà di dire la propria fede. Già solo portare una croce ti mette in una condizione di straniero, perché per la maggioranza della gente, un nigerino non può essere che musulmano. Nella vita dei sacramenti ci sono le problematiche delle coppie miste cristiano-musulmane. Se è la donna a essere cristiana, il rischio è che per la pressione famigliare, debba rinunciare alla propria fede. È una constatazione. La sfida è formare le giovani affinché possano essere solide nella loro fede e non perderla alla prima occasione.
I cristiani sono stranieri e le questione più urgenti sono economiche: la ricerca del lavoro, sbarcare il lunario. Come legare questo con la fede e i tempi per la formazione? Non è sempre facile. Nei quartieri in cui vivono testimoniano la loro fede, anche se ci sono difficoltà. Fortunatamente non ci sono quartieri separati. Nella parrocchia di Maradi facciamo degli incontri di «Comitati cristiani di base», che si ritrovano una volta alla settimana. Pregano, leggono il vangelo, discutono su quale chiamata porta «la parola» nella loro vita. Penso che anche questo faccia in modo che i vicini li vedano e li riconoscano come cristiani.

Lo scopo di questa evangelizzazione qual è esattamente?
Siamo due religioni missionarie e ciascuno vuole avere il più gran numero di fedeli possibile. Ma nella nostra situazione, penso che sia difficile. È un sogno, ma dico che non dobbiamo mettere tra parentesi il comandamento di Cristo che ci invita ad andare in missione, fare dei discepoli, battezzare. L’evangelizzazione, fa anche vivere seriamente la mia fede, testimoniarla, rispettare la fede dell’altro e vedere insieme che cammino possiamo prendere per creare un mondo più fraterno, di giustizia, pace, solidarietà. Penso che cristiani e musulmani possono impegnarsi in questo senso e fare delle cose meravigliose.

I vescovi e i preti hanno contatti con i responsabili musulmani?
Esiste una commissione per le relazioni cristiano-musulmane. All’inizio si facevano le riunioni tra di noi, ma da circa tre anni invitiamo gli imam, con i quali cerchiamo di preparare dei moduli di formazione tra cristiani e musulmani per conoscerci reciprocamente. Il cristiano impara a conoscere il fratello musulmano e viceversa e questo ci permette di evitare conflitti inutili. Dal lato islamico la difficoltà per noi è che non sempre sappiamo verso chi andare, non essendoci una struttura ben precisa, un responsabile. Esiste l’associazione islamica. Ogni anno alle feste principali, ramadam, tabaski, mandiamo loro un messaggio di pace, solidarietà, auguri. Questo è cominciato con mons. Berlier, e porta dei frutti. A Natale i musulmani inviano una delegazione in cattedrale a Niamey, per fare gli auguri ai cristiani. Lo scorso Natale sono venuti anche ad Agadez (città del nord con scarsissima presenza di cristiani, ndr).

Lei si considera un missionario e in una situazione particolare?
È vero che essere missionario in Niger non è facile. Capisco i primi missionari che sono venuti dall’Europa per annunciare il vangelo in Africa. Oggi abbiamo condizioni di trasporto più facili, ma ci aspettiamo sempre che avendo una famiglia, questa diventi più grande. Qui in Niger non è così scontato. Io dico che bisogna vivere nella pazienza e nella speranza. Noi seminiamo, alcune piante cresceranno e dei frutti dell’albero qualcuno beneficerà. Lavoriamo e viviamo con la fede di portare il vangelo senza aver paura di annunciarlo e di dirsi cristiani. Di più: grazie al vangelo vogliamo essere al servizio dei fratelli e sorelle musulmani, dei più poveri. Questo fa parte dell’annuncio della buona novella. Quando la folla che seguiva Gesù aveva fame, lui ha fatto la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Noi siamo attenti ai bisogni della popolazione musulmana e vediamo in che misura possiamo rispondere. Senza «fare al loro posto», ma insieme. La nostra missione non è fare dell’assistenza, ma in partenariato con i musulmani lavorare per il benessere di uomini e donne, nella ricerca della pace e frateità.

Quali sono le sfide per domani?
Da due anni abbiamo elaborato una visione pastorale con tema: «Insieme con il Cristo, cammino verità e vita, costruiamo una chiesa famiglia che vive, testimonia e annuncia il vangelo in Niger».
Questo percorso dura fino al 2010 e vedremo se saremo riusciti a realizzarlo.
Le sfide per la chiesa in Niger è vivere il vangelo e attraverso a questo trovare il cammino per dare una risposta alla povertà e all’ingiustizia nel paese.

a cura di Marco Bello


Marco Bello




Da Trento a Hiroshima

Trentino – Giappone

Gli studenti di una scuola superiore di Cavalese, in provincia di Trento, hanno vissuto un’esperienza unica, viaggiando fino a Hiroshima, per antonomasia luogo simbolo della follia umana. Hanno visto i disastri dell’atomica e hanno discusso con i loro coetanei giapponesi sulla follia delle guerre. Una lezione di vita che rimarrà per sempre nella loro memoria e forse servirà per diffondere la consapevolezza di quell’impagabile bene che è la pace.

L’aggettivo «nucleare» suscita immediatamente in tutti noi qualche reazione, in generale di timore se non proprio paura. La nostra mente va infatti al disastro di Cheobyl o alla distruzione di Hiroshima. Una tale reazione di allarme è certo comprensibile, ma è anche vero che essa deriva da una diffusa ignoranza scientifica di tutto quello che ha a che fare con le radiazioni e la radioattività (1). Se sapessimo che ogni ora milioni di radiazioni ionizzanti di origine naturale attraversano il nostro corpo, forse il nostro atteggiamento sarebbe un po’ diverso.
La tematica nucleare è certo importante per capire la portata degli eventi catastrofici di cui l’energia atomica è stata protagonista, ma non solo. Il cittadino moderno ha bisogno di venir informato sui pro e i contro dell’atomo in quanto oggi si torna a riproporre l’energia nucleare per la produzione di elettricità. D’altra parte basta pensare all’enfasi data dai media ai casi Iran (vedi reportage in questo stesso numero di MC) e Corea del Nord per rendersi conto che esiste pure un grave pericolo di proliferazione mondiale delle bombe atomiche.

È in questo quadro che, all’inizio del passato anno scolastico, un gruppo di studenti del liceo statale «La Rosa Bianca» di Cavalese, in provincia di Trento, inizia un impegnativo percorso di studio ed approfondimento sul tema dell’energia nucleare, nelle sue applicazioni militari (bombe atomiche) e civili (centrali elettronucleari, medicina nucleare, ecc.). I giovani sono seguiti dal corpo insegnante, con la collaborazione dei docenti di matematica e fisica, storia e filosofia, letteratura, religione e lingua inglese, oltre che da esperti estei, in particolare da un fisico dell’Unione scienziati per il disarmo (Uspid). I giovani raccolgono, esaminano e discutono molto materiale, reperito su libri e riviste, oltre che su internet.
Nel corso del lavoro didattico nasce l’idea di effettuare una visita a Hiroshima, luogo simbolo della distruzione nucleare e sede di un museo e di un parco della pace. Queste strutture consentono al visitatore di farsi un quadro dettagliato dell’effetto immediato dell’esplosione atomica e delle conseguenze per i sopravvissuti, spesso protrattesi nel tempo o evidenziatesi anche a distanza di anni dall’evento.
Tra il dire e il fare ci sono però, come sempre, di mezzo i…  quattrini! L’energico dirigente dell’Istituto «La Rosa Bianca», prof. Fiorenzo Morandini, individua una possibilità di finanziamento in una nuova iniziativa dell’Assessorato all’Istruzione della Provincia autonoma di Trento, che per la prima volta prevede la possibilità di gemellaggi con scuole di paesi extraeuropei. Viene steso un programma di attività, lo si inoltra ai competenti uffici, si attendono i tempi necessari e…  la risposta è positiva! Viene messa a disposizione la bella cifra di 45.000 euro per sostenere il progetto. L’Istituto La Rosa Bianca fornisce una quota di autofinanziamento e gli studenti partecipanti contribuiscono con 450 euro ciascuno.
In tal modo, con il patrocinio del Forum trentino per la pace e della Fondazione Campana dei caduti di Rovereto, un gruppo di 19 studenti, 4 docenti e il dirigente scolastico, un foto cine operatore, più un fisico come esperto esterno (lo scrivente), a fine maggio 2007 partono per Tokyo. Lì passano due giorni cercando di smaltire le sette ore di differenza nel fuso orario, visitando la città, ma soprattutto visitando la scuola superiore Meiji Gakuin, partner del progetto, con la quale si è fatto del lavoro preparatorio comune. Tutti i partecipanti hanno anche l’occasione di conoscere di persona il bravissimo professor Takao Takahara, docente di studi sulla pace all’università di Yokohama (2).

Trasferitisi a Hiroshima con un volo durante il quale si può ammirare la più famosa, alta e bella montagna giapponese, il Fuji, gli studenti e i loro insegnanti vivono la tappa più densa di impegni di tutto il viaggio. Al loro arrivo sono accolti dal prof. Hitoshi Mukai e dall’hibakusha Hiromu Morishita (3). Egli rappresenta per alcuni una vecchia conoscenza, essendo stato invitato in Trentino nel 2005 dall’Uspid e dalla Fondazione Campana dei caduti, in occasione del sessantesimo anniversario della distruzione di Hiroshima. Morishita, settantasettenne, possiede un’energia e un dinamismo invidiabili, tanto da suscitare la domanda scherzosa dei ragazzi se, per arrivare in tarda età in condizioni tanto buone, bisognasse proprio subire l’esplosione atomica!
Il programma degli incontri, svoltisi prevalentemente alla scuola superiore femminile Jogakuin, prevede una serie di presentazioni da parte degli studenti locali e dei loro ospiti stranieri. Nel corso di queste relazioni, ciò che più colpisce gli italiani è scoprire il contenuto profondamente pacifista dell’attuale Costituzione giapponese e, nel contempo, apprendere come l’educazione alla pace, un tempo importante e diffusa, venga oggi man mano abbandonata dalle scuole nipponiche. Per i giapponesi, invece, è piuttosto sorprendente constatare come gli italiani siano fondamentalmente contrari al possesso di armi atomiche, sebbene ve ne siano nelle basi di Aviano e di Ghedi e nonostante che i nostri partner europei Francia e Gran Bretagna ne posseggano. Ulteriore motivo di riflessione è constatare come al tempo della discussione sulla bozza di Costituzione europea non vi è stato nessun dibattito sugli aspetti militari in essa contenuti.
Indimenticabile sono la visita al Museo atomico e al Parco della pace, nonché gli incontri con alcuni sopravvissuti alle esplosioni atomiche. Oltre a Morishita, i ragazzi conoscono la signora Fumiko Sora, che racconta la sua storia, e Miyoko Matsubara, la quale rievoca in modo commovente e drammatico i terribili eventi di cui fu involontaria protagonista il 6 agosto 1945.

Toati in patria il 2 giugno 2007, gli studenti presentano la loro esperienza alla cittadinanza, regalando anche al sindaco di Cavalese un alberello dono della città di Hiroshima, nato dai semi di una pianta sopravvissuta all’esplosione e ancora oggi visibile dietro il Museo atomico. Il primo cittadino prende l’impegno di curare la pianta che, una volta irrobustitasi, sarà collocata in un parco cittadino con una targa commemorativa. A giudizio unanime dei partecipanti (4), giovani ed adulti, un viaggio a Hiroshima rappresenta un’esperienza memorabile, capace di far capire il dramma della guerra atomica molto più di quanto si possa fare con i libri o i documentari. Essere circondati dalle mute e drammatiche testimonianze della storia colpisce profondamente la mente e il cuore. Sarebbe bello sognare che un pellegrinaggio ad Hiroshima fosse un compito obbligatorio per i neo capi di stato e di governo delle potenze nucleari militari, che hanno nelle loro mani i destini dell’umanità. Forse, vedendo il disastro che un loro comando avventato potrebbe provocare, agirebbero con maggiore prudenza e senso di responsabilità.

Mirco Elena

Note:
(1)  Siamo arrivati al punto che persino una tecnica d’indagine medica come la risonanza magnetica nucleare, che nulla ha a che fare con le radiazioni ionizzanti o con la radioattività, ha visto il suo nome abbreviato con l’eliminazione dell’aggettivo “nucleare”, per non causare allarme nei pazienti e nel personale medico!
 (2) Takahara è una persona attivissima ma dallo stile incredibilmente tranquillo; ormai cinquantenne ha mantenuto un’invidiabile, quasi utopica fiducia nella possibilità di risolvere pacificamente i conflitti di qualsiasi natura; nei consessi inteazionali la sua voce porta messaggi di ragionevolezza e rappresenta un pacifismo della volontà e della ragione, che contrasta fortemente con la disillusione e il realismo cinico di tanti altri esperti e studiosi.
(3)  Hibakusha: con questo termine si indicano i sopravvissuti alle esplosioni atomiche.
(4 ) Sul sito della scuola – www.scuolefiemme.tn.it – immagini e materiali relativi al viaggio in Giappone degli studenti trentini.

Mirco Elena