Tu chi sei?

Malawi: Torino – Blantyre e ritorno

Vivere in Africa è un’esperienza molto particolare. E quando si torna c’è qualcosa che ti rimane dentro.
Gli ampi spazi, la natura, o forse il rapporto che si instaura con la gente. Un antropologo –  volontario in Malawi ci racconta i suoi perché.

Mi viene spesso chiesto da amici e parenti che cosa mi spinga a ritornare a vivere e lavorare in Africa, se sono anche io vittima di questo indefinibile stato d’animo detto «mal d’Africa» per il quale sembra, per fortuna, non essere stato ancora trovato il vaccino.
Credo che il desiderio di godere di una natura così generosa (spesso più alla vista dello straniero di passaggio che per la gente che la abita da sempre) sia sicuramente un aspetto non trascurabile. Il ricordo di tante mattinate trascorse in viaggio verso le zone di progetto (lo scrivente è volontario in Malawi, vedi box, ndr), per una riunione con le autorità locali piuttosto che per l’inizio di un nuovo pozzo, tra acacie deformate dal vento e pianure impolverate, mi risulta sicuramente più piacevole e meno stressante dell’imbottigliamento mattutino in corso Unità d’Italia per raggiungere il centro di Torino. Dunque sì, i famosi spazi africani hanno giocato un ruolo importante nell’avvicinarmi e apprezzare sempre più questo continente, oltre al fatto che questi posti sono popolati e ulteriormente arricchiti dalla presenza di animali che sin da bambino hanno stuzzicato la mia fantasia.
Come non stupirsi dinanzi all’imponenza di un elefante, all’eleganza di una giraffa, all’esibizionismo quasi snob di un leopardo disteso all’ombra di un ramo, al goffo riemergere dalle acque di un ippopotamo. Si sente spesso parlare dei cieli d’Africa, delle savane. Effettivamente la natura sembra dilatarsi, di giorno puoi godere di orizzonti non deturpati (o almeno non dappertutto) dalla cementificazione e di notte gli amanti delle costellazioni si possono perdere, in assenza di luci artificiali, in questo affascinante linguaggio del cielo.

Ma la vita che conduco qui in Malawi non è sempre fatta di parchi e savane, di spazi e cieli stellati. Allora mi chiedo, che cosa mi porta a ritornare in Africa, al di là di una bellezza paesaggistica indiscutibile?
Credo che la gente, il rapporto che si riesce a creare con le persone, anche se spesso solo «di passaggio» e con inevitabili barriere linguistiche, sia l’altro elemento determinante dell’interesse e del fascino che questo continente suscita.
Mi piace l’informalità e la spontaneità dei rapporti.
Se da una parte lo straniero è percepito come una sorta di «banca ambulante», un’opportunità per tirar su due soldi, dall’altra è spesso la semplice curiosità verso l’altro ad attirare le persone. Vengo sovente avvicinato da qualcuno, soprattutto in città, con la richiesta di un lavoro.
Ma il più delle volte le persone fanno seguire a uno sguardo incuriosito una serie di domande che ricordano i quesiti esistenziali di filosofi e pensatori o, se vogliamo, di tutti noi: «Chi sei? Da dove vieni? Dove stai andando?». Mi trovo così ogni tanto a urlare a uno sconosciuto che mi pone queste domande dall’altro lato della strada, tra il traffico di carretti e autobus fumosi: «Sono Dario, vengo dall’Italia, sto andando all’Inteet Caffè!». Un sorriso, un saluto, ognuno continua per la sua strada, tutto qua. E probabilmente segue, per lui, una serata nella propria abitazione a raccontare a genitori e famigliari che in mattinata ha incontrato un azungu (o musungu, uomo bianco) di nome Darewo che arriva dall’Italia, in cammino verso l’Inteet Caffè. Questa curiosità, il gusto della chiacchierata, dell’aggioamento, è sicuramente accentuato quando l’incontro avviene con lo straniero, ma è comune anche tra i locali. Per loro qualsiasi luogo e momento (il mercato, il caffè, in coda per la macinazione del mais o per l’acquisto delle sementi, all’ombra dell’albero) sono l’occasione per uno scambio, di sguardi e di parole.
Mi viene da pensare come spesso da noi avviene esattamente l’opposto. Si evita lo sguardo, c’è imbarazzo o disagio quando ci si trova a condividere uno spazio, magari limitato come un ascensore o la coda alle poste.

Ho sempre un po’ di difficoltà a riadattarmi, dopo mesi trascorsi in Africa, alla formalità di linguaggi e comportamenti, all’apatia e disinteresse verso chi ti circonda, anche solo per il tempo di un’attesa all’Asl piuttosto che alla cassa del supermercato. Mi trattengo dal chiedere alla signora che mi precede nella coda: «Ma lei chi è? Da dove viene? Cosa farà e cosa cucinerà dopo essere uscita da questo negozio?». Verrei probabilmente squadrato come un poco di buono, inopportuno curioso degli affari altrui.
Lo stesso se si entra in un locale, un ristorante o un bar.  In Malawi, se il locale è vuoto, ci si siede nel posto vicino all’unico tavolo occupato da un cliente, perché probabile occasione per fare due chiacchiere. E allora si attacca: «Da dove vieni, cosa ci fai qui?…», e così via. Nel corrispettivo bar del centro di Torino questo «avvicinamento» verrebbe probabilmente vissuto come un’invasione di campo. Mi immagino la signora di prima, quella del supermercato, commentare tra sé e sé: «Ma dico, con tutto lo spazio e i tavolini vuoti del bar, proprio qui vicino si doveva sedere…?».
È proprio così, il rientro a casa, in Italia, dopo periodi più o meno lunghi in Africa: è fatto di tante aspettative e voglia di ritornare alle radici, ma anche di tante delusioni.  Trovo la gente spenta o nervosa. I negozianti o non ti considerano oppure ostentano una gentilezza forzata e finalizzata alla vendita del loro prodotto. Ovviamente dopo qualche settimana mi abituo alla generale apatia, l’entusiasmo e la voglia di salutare «il mondo intero» si allentano, ma ogni tanto, come in un flash, mi chiedo come reagirei se il barista o la panettiera di tuo mi chiedessero: «Tu chi sei? Da dove vieni? Dove vai ora?». Probabilmente risponderei: «Sono Dario, sono di Torino, sto cercando di tornare in Africa».  

Di Dario Devale

Un paese sconosciuto

POCO CIBO, MOLTO AIDS

Il Malawi, paese dell’Africa australe sconosciuto ai più, è una striscia di 118 mila km quadrati (un terzo dell’Italia) incastrata tra l’omonimo lago, lo Zambia e il Mozambico. Per portarlo agli onori delle cronache mondiali c’è voluta la pop star Madonna, con la sua adozione «forzata», ovvero al di là del rispetto di ogni regola o procedura, di un bambino di quel paese.
Con una popolazione di circa dodici milioni di abitanti, è classificato dalle Nazioni Unite come uno dei paesi meno sviluppati al mondo, sulla base dell’analisi degli indicatori dello sviluppo umano. Il livello di mortalità infantile è di circa 103 decessi su mille nascite, mentre l’aspettativa di vita è intorno ai 42 anni.

Dotato di scarse risorse minerarie e un’alta densità di popolazione, la sua economia dipende fortemente dall’agricoltura. La posizione geografica priva di sbocchi sul mare, ha inoltre conseguenti costi penalizzanti sulla commercializzazione con l’estero. I principali prodotti di esportazione sono il tabacco (60% dell’export) e il tè. Anche zucchero e cotone sono esportati, mentre il mais è il principale prodotto di auto consumo.
Il settore agricolo fornisce il 38,4% del prodotto nazionale e occupa l’80% della forza lavoro. Questa forte dipendenza dalle esportazioni di pochi prodotti agricoli rende il paese fortemente vulnerabile agli andamenti dei prezzi sui mercati mondiali (quello del tabacco si è dimezzato negli ultimi anni), oltre alle ripetute siccità che colpiscono il paese. L’alto costo dei trasporti costituisce un ulteriore limite, senza dimenticare che il Malawi deve importare tutto il combustibile dall’estero. Quasi metà della popolazione è al di sotto dei 15 anni e la crescita demografica, superiore al 2%, impone una forte pressione all’ambiente.
Il terreno coltivato è intensamente lavorato, mentre la crescita della popolazione diminuisce la disponibilità di terra per persona, aumentando l’insicurezza alimentare (definita come quella condizione per la quale alla gente viene a mancare il livello minimo di cibo che permette un’esistenza energica e produttiva).
La pratica molto diffusa della monocoltura, prevalentemente mais, riduce nel tempo la fertilità dei terreni. A questo si aggiungono problemi legati all’erosione del suolo e all’inappropriata applicazione di concimi e fertilizzanti. Si calcola che il 60% dei malawiani vivono sotto la soglia di povertà e la malnutrizione rimane importante, con un 30% di bambini sottopeso.

L’attuale presidente, Bingu wa Mutharika, al potere dal maggio 2004, in seguito a elezioni contestate, ha l’oneroso incarico di lottare contro l’alto livello di corruzione e l’inefficienza dell’apparato statale. Il Malawi ha infatti estremo bisogno dei finanziatori inteazionali, come Banca mondiale e Unione europea i quali chiedono chiarezza nella gestione dei conti pubblici. I difficili obiettivi di Mutharika e il suo governo si possono riassumere come: limitare il deficit del bilancio, ridurre il debito pubblico, migliorare la qualità dei servizi pubblici e soprattutto stabilizzare l’economia.

Il Malawi è anche uno dei paesi più colpiti dall’Aids. Il 14,4 % della popolazione nella fascia tra i 15 e i 49 anni è affetta dal virus (fonti Unicef), e tra questi ragazze e giovani donne sono le più esposte al contagio. Le statistiche contano 900 mila sieropositivi, di cui 70 mila sono bambini. Questi contraggono il virus dalla madre, durante la gravidanza, il parto o l’allattamento. Gli orfani, invece, sono circa un milione, di cui la metà ha perso uno o entrambi i genitori a causa dell’Aids. Ogni anno sono circa 80 mila i morti per questo virus nel paese.
I bambini orfani e sieropositivi sono discriminati, oltre a non ricevere cure adeguate. Restano spesso esclusi dal sistema scolastico, dai servizi sanitari e di assistenza e sono più a rischio, rispetto ai loro coetanei, di abusi e sfruttamento.

D.D. e Ma.B.

Un progetto di sviluppo

CHI HA PAURA DELLA CARESTIA?

Il progetto al quale lavoro qui in Malawi mira a favorire una maggiore diversificazione della produzione agricola, attraverso la semina di patate dolci, cassava, cavoli e fagioli, oltre a piante di frutta, principalmente banane e manghi. Ovviamente non mancherà il mais, principale coltura del paese, dalla quale si ricava la nsima, una polenta locale, dieta quotidiana della famiglia malawiana.
Un adeguato sistema di irrigazione, basato sull’installazione di una pompa e pannelli solari, dovrebbe garantire la continuità nella produzione e raccolta, anche in tempi di scarsità o assenza di piogge, che quest’anno sono state abbondanti, ma che in passato hanno causato non pochi problemi, come nell’inverno del 2002, quando le scarse  piogge hanno sacrificato del tutto la produzione.
Al di là degli strumenti materiali (pozzo, sementi, sistema irriguo) il progetto dà importanza alla formazione delle persone, per un corretto utilizzo delle risorse, un’adeguata manutenzione delle stesse, per garantire quella fatidica «sostenibilità», cruccio e aspirazione di un qualsiasi progetto di sviluppo.
Un comitato di gestione dell’acqua verrà nominato dalla gente del posto e sarà responsabile del corretto utilizzo e manutenzione di tutto il sistema.

Gran parte del lavoro, almeno fino ad ora, è consistito nell’andare in giro a recuperare dati relativi alle varie fasi del progetto oltre che andare sul sito a consultare la popolazione beneficiaria. Per conoscere meglio il contesto dove lavoro ho cercato di incontrare e chiacchierare con molte persone, dall’infermiere del centro sanitario all’insegnante della scuola primaria. Si impara sempre molto, si conosce meglio il posto e forse si riesce a lavorare meglio.
Nel mese di novembre sono state distribuite sementi e fertilizzanti e ora la gente aspetta impaziente il raccolto, previsto per aprile. È questo un periodo dell’anno piuttosto difficile per i malawiani, perché da una parte si sta riducendo la riserva di produzione agricola precedente, ormai quasi del tutto esaurita, dall’altra non è ancora il momento di raccogliere la produzione successiva. È sempre un periodo di sacrifici e limiti, ai quali si aggiunge un incremento dei casi di malaria, legata al fatto che si è ancora in piena stagione delle piogge. Inoltre, soprattutto nelle aree rurali, si rischia di trascurare i sintomi e di non ricorrere tempestivamente alle cure del più vicino centro di salute, il più delle volte a qualche ora di cammino dal proprio villaggio.

La stessa distribuzione del raccolto tra i beneficiari del progetto dovrà tenere conto delle esigenze delle singole famiglie, ma anche di un’adeguata politica di marketing e vendita del raccolto in esubero. Questa operazione consentirà di acquistare ulteriori sementi e fertilizzanti negli anni a venire.
Nelle prossime settimane inizieranno inoltre una serie di incontri con un responsabile regionale dell’ufficio «servizi sociali». Verranno trattati temi come la ricerca di fondi, la stesura di un progetto, la gestione finanziaria e contabile. In futuro non ci dovrà più essere il musungu a suggerire eventuali attività di sviluppo dell’area, attraverso la gestione del progetto e il contatto con le autorità locali e i donatori. Una buona preparazione teorica, unita all’esperienza, dovranno favorire un approccio dinamico, attivo e partecipato dei soggetti del progetto.

Dario Devale

Cronologia essenziale

Regno di Kitwara, parte degli stati retti dal re dello Zimbabwe.
1835 Sessanta anni di guerre tra ngoni e chewa, alleati degli yao.
1859 Il paese è esplorato da Livingstone.
1891 Diventa protettorato britannico con il nome di Nyasaland, dal nome del lago Malawi, chiamato anche Nyasa.
1964 6 luglio Indipendenza, il paese è chiamato Malawi.
1967 Hatings Kamuzu Banda eletto presidente.
1971 Banda si definisce presidente a vita. Lungo regime dittatoriale legato al Sudafrica. Incarcerati e uccisi i dissidenti.
1990-91 Terremoti e inondazioni aggravano la scarsità di generi alimentari.
1993 14 giugno Adottato il multipartitismo nel paese grazie al referendum. Banda ha dovuto cedere a pressioni intee e estee (Banca Mondiale).
1994 17 maggio Prime elezioni libere, presidenziali e politiche. Bakili Muluzi, leader del United Democratic Front (Udf) all’opposizione viene eletto presidente.
1999 15 giugno Bakili Muluzi è rieletto presidente in seguito a elezioni non molto regolari.
2001 Il presidente dichiara lo stato di calamità naturale. La carestia causa molte morti in ambiente rurale.
2002 luglio Muluzi propone un emendamento alla costituzione per potersi ripresentare senza limite di mandato. Il parlamento lo respinge.
2004 20 maggio Bingu wa Mutharika, candidato dell’Udf è eletto presidente per cinque anni.
2006 David Banda, 14 mesi di età, raggiunge a Londra la cantante Madonna, contro ogni procedura di adozione del paese. Attualmente c’è un ricorso in tribunale di 67 associazioni malawiane.

Dario Devale




Peggio di così…

La più povera repubblica socialista dell’Urss, il Tagikistan è rimasto tale
con l’indipendenza (1991), tanto da rimpiangere il tempo che fu.
Il paese offre panorami mozzafiato, ma non ha strutture turistiche;
la gente è generosa, ma deve sopravvivere… con l’emigrazione.

Al turista frettoloso non consiglierei mai il Tagikistan: le strade sono in condizioni tali che qualsiasi spostamento, fuori dalla fascia di alcuni chilometri intorno alla capitale Dushanbe, è impresa assai ardua. Esse non vengono riparate da più di 10 anni, da quando il Tagikistan ha ottenuto l’indipendenza. È facile immaginare cosa ciò voglia dire in un paese in cui quasi metà territorio si trova oltre i 4 mila metri e meno di un quinto sotto i mille. Chiazze del vecchio asfalto sono rimaste qua e là; ma sono così sforacchiate che gli autisti preferiscono evitarle e passare sulla parte sterrata.
Ma per chi non ha fretta questa circostanza ha i suoi vantaggi.
La carretta su cui stavo viaggiando arrancava a fatica verso il passo di Anzob, a 3.700 metri. Per fare raffreddare il motore, ogni quarto d’ora l’autista si fermava accanto al solito ragazzino, pronto lungo il ciglio con la lunga canna dell’acqua. Intanto, avevo tutto il tempo di ammirare il paesaggio e abituare l’occhio alle sue bellezze sempre nuove. Scendevo dalla macchina, assaggiavo l’aria, sempre più frizzante, e tiravo fuori la macchina fotografica.
L’Asia Centrale riserva agli amanti della montagna mille sorprese ed emozioni. Non avrei mai pensato che in natura potessero esistere tali e tante varietà di forme, colori, vegetazione nello spazio di pochi chilometri. Da una parte del crinale le valli sono aperte, i declivi morbidi ed erbosi, la roccia bianca; dall’altra tutto è brullo: rocce nere, verdi, azzurrognole si levano perpendicolari. Passa qualche chilometro e la montagna si colora di rosso.
Il veicolo su cui stavo viaggiando era un’auto privata. I trasporti pubblici interurbani sono quasi inesistenti. In due settimane ho incrociato solamente un vecchio autobus, che faceva servizio (irregolare) tra alcuni paesi vicini. Chi ha vera necessità di muoversi deve armarsi di pazienza e aspettare un taxi collettivo o un privato che vada nella direzione voluta. Fino a che non sono riempiti tutti i posti, non si parte. Può capitare di metterci mezza giornata, uno, due giorni per compiere anche brevi percorsi. La va a fortuna.
RICORDI DI TERRORE
Ho aspettato più di tre ore, prima che si riempisse il taxi, diretto a Garm, cittadina a circa 200 chilometri da Dushanbe. Per ingannare l’attesa proposi al taxista Giamshid di andare a bere qualcosa.
Il nome del paese mette ancora paura. A Garm e nella regione omonima ha imperversato con particolare ferocia la guerra civile, che, tra il 1992 e il 1997, ha visto fronteggiarsi le bande paramilitari dei post-comunisti filogovernativi e quelle della cosiddetta Opposizione unita, un’insolita alleanza tra i partiti: democratico, nazionalista e islamico.
«Se sono ancora vivo lo devo a una donna», mi diceva il taxista Giamshid, ex insegnante di scuola, che aveva lavorato diversi anni a Mosca.
Non c’era niente di romantico nella sua storia. Giamshid era stato catturato da una banda di filogovernativi e stava già per essere ucciso, quando una donna, che faceva parte del commando, convinse i compagni a lasciarlo andare. Quell’improvviso gesto di pietà, che Giamshid non si sapeva ancora spiegare, gli aveva salvato la vita, ma per molti altri era andata peggio.
Nel suo villaggio, in un solo giorno, avevano ammazzato 11 persone. La regione di Garm era considerata dai post-comunisti una roccaforte dell’opposizione e ogni abitante maschio era un nemico da eliminare.
Per sottrarsi alle incursioni delle truppe, gli uomini scappavano sulle montagne, si rifugiavano nelle repubbliche vicine, arrivavano fino in Russia. Donne e bambini rimanevano, campando come potevano. Coltivare i campi era pericoloso: per sfamarsi vendevano o uccidevano il bestiame.
Sebbene la guerra sia durata diversi anni, le violenze maggiori sono avvenute nell’arco di sei mesi, tra l’estate del 1992 e i primi mesi del 1993. Si calcola che in questo periodo le vittime del conflitto siano state circa 50 mila, i profughi 800 mila.
Adesso, percorrendo la valle solcata dal fiume Sorkhâb (in tagiko «acqua rossa», per il colore del terriccio discioltovi), che parecchi chilometri più a sud, dopo la confluenza col Pianj, diventerà il famoso Amu Daria, non pare vero che quei luoghi siano stati il teatro di tante violenze; ma, se il discorso cade sulla guerra, negli occhi della gente riaffiora la paura e l’orrore di quei giorni, quando gli elicotteri volavano sulle teste e le truppe entravano nei villaggi in cerca degli uomini e nessuno poteva sentirsi sicuro.
INDIPENDENZA AMARA
All’indomani dell’indipendenza c’era chi in Tagikistan aveva immaginato un futuro finalmente libero e prospero, svincolato da Mosca e dal suo regime autoritario. Erano nati diversi movimenti e partiti politici, ispirati a ideali di rinascita nazionale, sia in senso laico che religioso, ma la mancanza di una tradizione democratica aveva velocemente portato al deterioramento della vita politica e la lotta per il potere era presto sfociata in guerra aperta.
Le forze in campo si dividevano, più che per appartenenza politica, per appartenenza a clan, radicati in un determinato territorio: il clan di Khogiand, al nord, da cui tradizionalmente provenivano i dirigenti del partito comunista, si era alleato con quello di Kuliab, una città del sud.
L’opposizione, invece, era concentrata nella provincia di Korgan Tube, sempre a sud, in quella di Garm, al centro, e nel Goo-Badakhshan, la regione del Pamir, a maggioranza ismailita. Sebbene la guerra sia ufficialmente finita nel 1997, con l’entrata nel governo dei partiti d’opposizione, per alcuni anni la situazione ha continuato a essere di estrema incertezza, perché l’esercito regolare non riusciva a controllare tutto il paese e non tutti i signori della guerra avevano deposto le armi.
La guerra ha dato il colpo di grazia a un’economia già molto fragile, messa in crisi dai rivolgimenti che hanno accompagnato il crollo dell’Urss e dall’esodo dei russi che, con l’indipendenza, furono emarginati e spinti a lasciare il paese. Il Tagikistan si ritrovò non solo a dover ridisegnare il proprio sistema economico in una coice politica completamente diversa, ma anche privo dei quadri tecnici e direttivi, quasi sempre russi, che avevano fino allora fatto muovere l’industria. Quasi tutte le fabbriche furono chiuse. Lungo le strade si vedono campeggiare le loro moli abbandonate. Alla fine del 1996 il Pil era appena il 40% di quello del ’91, il salario medio inferiore ai 10 dollari.
GUARDANDO… LE STELLE
Pur rimanendo assai critica, la situazione negli ultimi anni è andata lentamente migliorando, soprattutto grazie al sostegno delle organizzazioni inteazionali. Qui c’è tantissimo da fare, perché il governo, che manca di una strategia a lungo termine, è di fatto latitante e lascia che la gente provveda da sé (chissà poi come) alle proprie necessità.
A risentirne non sono solo le strade. La struttura sanitaria non funziona: le cure, o un’eventuale operazione, sono a carico del malato. Chi non può permetterselo si arrangia.
Stipendi statali e pensioni non consentono neanche di sopravvivere; le acque non vengono depurate e nei villaggi la mortalità infantile è alta, a causa della dissenteria; l’elettricità è razionata, perché, nonostante la grandissima abbondanza d’acqua – una delle maggiori risorse del paese – le centrali funzionanti sono poche e insufficienti al fabbisogno. L’illuminazione pubblica è così scarsa, che perfino nella capitale di notte si possono vedere le stelle. Ma la loro luce non è sufficiente per salire le scale di un condominio, per chi non ha l’occhio abituato. Difatti, mancano le lampadine, che, da quando si sono rotte o portate via, nessuno le ha più sostituite, perché sparirebbero subito.
Quando ho percorso la valle di Garm si era nel periodo della trebbiatura. Il fondo stradale era a tratti cosparso di spighe, distribuite in modo tale che i rari veicoli di passaggio fossero costretti a passarci sopra: è così che i contadini trebbiano il grano. Prima delle macchine agricole, i nostri padri utilizzavano i buoi; ma, con la guerra, ai tagiki non sono rimasti nemmeno quelli.
RIMPIANTI E NOSTALGIE
Sangin lavora alla stazione turistica di Iskanderkul da circa 20 anni. Il villaggio di spartani cottages, in tipico stile sovietico, si trova sulle rive di un lago (kul), dove la leggenda vuole che abbia sostato Alessandro il Macedone (Iskander) mentre era diretto in India. Il suo fedele cavallo Bucefalo aveva bevuto l’acqua fredda del lago e si era ammalato, così non era potuto ripartire insieme al padrone. Si dice che, il giorno in cui Alessandro morì, il cavallo abbia cominciato a nitrire disperato e si sia lanciato nelle acque del lago, scomparendovi. Ancora oggi nelle notti di luna piena lo si vede uscire dal lago, pascolare e giocare sulle rive, o saltare da una parte all’altra della valle, da una cima all’altra, per rituffarsi nell’acqua sul far del mattino.
Il lago è meritatamente famoso, incastonato com’è tra le aspre cime di due diverse formazioni montane. Un tempo la bellezza dei luoghi richiamava turisti da tutta l’Unione Sovietica e dall’estero. Nel villaggio c’era sempre una grande animazione e la sera il ristorante era pieno di gente, c’era la musica, si ballava fino a tardi. Ma dal ’93 i turisti hanno cominciato a disertare il posto. Ora il villaggio è in palese decadenza, come tante altre cose nel paese, i cottages fatiscenti e semivuoti.
Non ho incontrato nessuno, giovane o vecchio, che non rimpianga i tempi sovietici. Una signora, madre di sei figli, nella sperduta Girgatel, quasi al confine con la Kirghizia, non la finiva più di cantarmi l’apologia della vita sotto il passato regime, quando c’era la possibilità di andare a studiare in Russia, magari a Mosca, e di restarci, se si trovava qualcuno da sposare. «Ma perché mai non l’ho fatto anch’io?», si chiedeva.
Anche Sangin ricorda con nostalgia i vecchi tempi. Dopo la scuola era andato a studiare a Kiev. Poi era venuta l’ora del servizio di leva, per un disguido non era stato inserito nel contingente inviato in Afghanistan; era finito, invece, prima in Kazakistan, poi sull’Enisej, da ultimo oltre il circolo polare artico. Aveva, così, spaziato da un capo all’altro dell’Unione, aveva incontrato coetanei provenienti da tutte le repubbliche e insieme avevano formato, a suo dire, una compagnia multietnica e affiatata. Insomma, era tornato a casa con un prezioso bagaglio di esperienze.
NON RESTA CHE EMIGRARE
In Russia circola una barzelletta su simili sentimenti nostalgici. «Che cosa rimpiange del passato sovietico, dell’epoca di Breznev, per esempio?», chiede un giornalista a un anziano signore, seduto ai piedi del monumento a Marx. «Per lo meno due cose: la vodka costava meno; e poi le donne erano più giovani» spiega il signore.
La nostra memoria è selettiva: ritiene i ricordi piacevoli e tende a disfarsi di quelli brutti. Eppure, si deve ammettere che, a confronto del presente sfacelo, la vita di allora non può non apparire desiderabile.
Sebbene anche ai tempi dell’Unione il Tagikistan fosse la più povera delle repubbliche, la meno industrializzata, con il più basso livello d’istruzione e il peggiore servizio sanitario, la grande retorica dei popoli fratelli aveva avuto in queste lande un risvolto concreto e nei villaggi era arrivata l’acqua potabile, periodicamente passava il medico, la farina si acquistava a prezzi modici, i giovani di talento potevano andare a studiare nelle altre repubbliche.
Adesso queste possibilità sono sfumate. Spostarsi, non dico fuori dei confini nazionali, ma all’interno dello stesso Tagikistan, è diventato un lusso che non tutti si possono permettere: fare poche centinaia di chilometri costa quanto uno stipendio.
Per molte famiglie la salvezza è avere un marito, o un fratello, che lavora all’estero. Circa un milione di tagiki lavorano stagionalmente fuori del paese, principalmente in Russia e in Kazakistan. Si calcola che la valuta straniera che portano a casa ecceda il bilancio dello stato.
In Russia i tagiki sono considerati il gruppo etnico più derelitto tra quelli dell’ex-Urss. Sono disposti a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo; sono lavoratori illegali, quindi soggetti a soprusi, ricatti e ogni genere di umiliazioni. Eppure, tutto è preferibile alla miseria di casa.
TANTA… OSPITALITÀ
La guida del Tagikistan elenca un numero esiguo di alberghi: qualcuno a Dushanbe, uno qua, uno là nei centri principali, e poi basta. Eppure il turismo potrebbe essere una grande risorsa per il paese; invece è quasi inesistente, né pare si stia facendo alcunché per incoraggiarlo.
A parte la mancanza di infrastrutture, la necessità di ottenere un permesso speciale per il Pamir (più della metà del territorio nazionale) e la difficoltà per avere un visto fanno il resto. Per i funzionari, da cui le formalità dipendono, il turista è un’occasione per arrotondare lo stipendio. Il console a Mosca mi ha rilasciato il visto come se mi facesse un favore personale; alla fine me lo ha fatto pagare una cifra esorbitante, senza rilasciarmi alcuna ricevuta.
Per fortuna, quando, superati tutti gli ostacoli, finalmente si arriva a destinazione, si è ricompensati dalla benevolenza della gente e dal sentimento di genuina meraviglia che la tua apparizione suscita. In città, come nei villaggi, è facile trovare ospitalità.
Khadisa, incontrata durante il lungo viaggio in treno da Astrakan a Dushanbe, è una grande conoscitrice di piante ed erbe medicinali. Le raccoglie nelle montagne vicino a casa e ne fa dei preparati per i suoi pazienti. Saputa della mia passione per la montagna, mi ha invitato ad andare con lei durante una delle sue spedizioni. Con mia meraviglia, non abbiamo portato con noi né cibo, né sacco a pelo.
La sera, dopo aver camminato tutto il giorno, entravamo in una casa, venivamo fatte sedere per terra, intorno all’unico, grande piatto di patate e verdura cotta, dal quale tutti attingevano, aiutandosi con fette di pane; poi ci preparavano il giaciglio in una stanza, o sull’aia, al riparo di una tettornia. Al mattino, prima di ripartire, ci offrivano latte, miele e tè. Si può forse desiderare di più?

Bianca Maria Balestra




Ti amo da morire

Amore materno e figlicidio: intervista

Sempre più casi di genitori che uccidono i propri figli. Un «contrasto» psicosociale  in evoluzione ma prevenibile. E curabile. Un fenomeno moderno o una pratica antica? Come individuare la patologia, prima che sia troppo tardi. La parola alla specialista.

Da tempo si parla, più o meno con competenza, di disagio mentale grave e delle conseguenze sociali che comporta, come gli omicidi in famiglia in generale. Una realtà ancora più allarmante considerando il fatto che i riflettori sono puntati sul reato di figlicidio, ossia delle madri (o padri) che sopprimono la loro creatura in tenera età. Storie di dolore e sofferenza a cui la società non è ancora pronta (o non è in grado) di farvi fronte, nonostante tale «fenomeno» tenda ad aumentare, sia per numero di casi che per la molteplicità delle cause che sono all’origine del problema. Per sapee di più abbiamo intervistato la dottoressa Alessandra Bramante, psicologa, specialista in criminologia clinica ed esperta in psicodiagnostica forense. È pure consulente del Centro Depressione Donna all’ospedale Macedonio Melloni che fa capo al Fatebenefratelli di Milano. Autrice della recente pubblicazione Fare e disfare… dall’amore alla distruttività. Il figlicidio materno (ed. Aracne); inoltre membro e socio fondatore dell’associazione (onlus) Progetto Panda, che si occupa di prevenzione e trattamento del disagio psicosociale della donna in gravidanza, della puerpera e della mamma con bambini piccoli.

Dottoressa Bramante qual è la differenza tra infanticidio e figlicidio?
Infanticidio è un termine giuridico e si riferisce all’articolo 578 del nostro codice penale che prevede una pena diminuita per la madre che cagiona la morte del figlio durante il parto o subito dopo la nascita, in condizioni di abbandono materiale e morale. Quando si parla dell’uccisione di un bambino appena nato è quindi preferibile utilizzare il termine criminologico neonaticidio, che non ha valenza giuridica come il termine figlicidio, con il quale si intende l’uccisione di un figlio dal giorno di vita in poi.

In ogni caso si tratta di una realtà dal notevole impatto sociale. Quali le origini?
Sicuramente la notizia che una madre ha tolto la vita al proprio bambino suscita sgomento e profonda ansia collettiva, sia perché la vittima è un bambino sia perché viene ucciso nel luogo in cui dovrebbe essere protetto (la casa), e da chi più di ogni altro dovrebbe prendersi cura di lui. Ma le origini del fenomeno sono lontane: è un reato «vecchio come il  mondo», sempre esistito e addirittura in qualche periodo accettato o incentivato.

Cosa spinge una mamma a compiere un gesto così contro natura?
Sono molteplici le motivazioni che portano una madre a commettere figlicidio. Le più frequenti sono la presenza di una grave patologia psichiatrica, il neonaticidio, che ha motivazioni tutte sue, il troppo amore (sindrome di Munchausen per procura) e la sindrome di Medea.

Cos’è la sindrome di Medea?
La sindrome è un complesso di sintomi che caratterizzano uno stato morboso. In questo caso è riferito a quelle madri che uccidono il figlio per punire il vero oggetto d’odio e cioè il partner, proprio come fece Medea con Giasone. Tale sindrome, è nata per definire la madre figlicida, e oggi sembra essere più frequente nei padri che, incapaci di sopportare il dolore della separazione, uccidono il figlio per punire chi li ha abbandonati.

Il maggior numero di figlicidi riguarda più le madri o i padri?
Si tratta più o meno dello stesso numero di casi ma ben sappiamo che colpisce molto di più la notizia di una madre che uccide la propria creatura. In primo luogo perché le mamme uccidono bambini piccoli al contrario dei padri che uccidono giovani adulti. In secondo luogo perché spesso quando i padri uccidono non si parla di figlicidio ma di stragi famigliari, in quanto nel reato vengono coinvolti più membri della famiglia.

Tra le cause di figlicidio non meno importante sembra essere la depressione post-partum. In cosa consiste questa patologia? E in quanti casi si manifesta?
È una forma di depressione che colpisce il 10 per cento delle neomamme, ed è caratterizzata da sintomi ben precisi e riconoscibili quali: disturbi del sonno (non solo legati al pianto notturno del bambino), tristezza, perdita di interesse, isolamento sociale, senso di inadeguatezza, disturbi dell’alimentazione e trascuratezza di sé.

Perché la depressione post-partum è considerata il «lato oscuro» della mateità?
Perché è difficilmente riconosciuta dalle donne, in quanto è un aspetto negativo dell’essere mamma: piange, non dorme la notte, si sente insicura e crede che non sarà mai una buona madre per il suo bambino. La depressione post-partum è un «ladro che ruba la mateità», un qualcosa che fa paura. Ma se si prende coscienza del fatto che anche la mente si può ammalare senza vergogna, e si accetta di essere aiutati, è possibile uscie e godere appieno della propria mateità.

È una patologia prevenibile e curabile?
È una malattia troppo spesso non riconosciuta e sovente è sottovalutata, ma che se individuata in tempo è curabile. Ecco allora l’importanza di intervenire preventivamente soprattutto perché vi sono fattori di rischio già presenti durante la gravidanza come la familiarità psichiatrica, una gravidanza non desiderata, la vicinanza tra due gravidanze, la presenza della sindrome premestruale, oppure un rapporto di coppia conflittuale.

Nel nostro paese ci sono strutture socio-sanitarie preposte all’assistenza di queste donne considerate «a rischio»?
A Milano è sorto il Centro (primo in Italia) dedicato allo studio e al trattamento della psicopatologia della gravidanza e del post-partum. La struttura, denominata Centro Depressione Donna, ha compiuto due anni il 21 dicembre scorso, si trova all’interno dell’ospedale Macedonio Melloni e fa capo al Fatebenefratelli. L’équipe, guidata dal professor Claudio Mencacci e dalla dottoressa Roberta Anniveo, responsabile del centro. È uno staff in «rosa» formato da psichiatre e psicologhe, il cui lavoro si basa su colloqui psichiatrici, psicoterapia individuale e di gruppo, corsi di rilassamento, valutazione della relazione madre-bambino in collaborazione con la neuropsichiatria e lezioni ai corsi di preparazione al parto.

In alcuni casi dopo il parto la donna prova un senso di vergogna o addirittura di rifiuto al punto da dover sopprimere la propria creatura?
Può capitare che una neomamma non abbia fin da subito quello che viene detto «istinto materno» e che non senta quella forte attrazione verso il neonato. Ma sappiamo che non è vero che fare la madre è un’attitudine innata: si impara ad allevare un figlio giorno dopo giorno. Tuttavia, esistono casi estremi in cui la madre rifiuta totalmente il neonato o addirittura si vergogna di averlo generato, casi in cui si può arrivare all’abbandono oppure all’omicidio.

Cos’è la mateity blues?
È quella tristezza che accomuna il 70% delle neomamme, ed è caratterizzata da umore depresso (che non dura per tutto il giorno), ansia, crisi di pianto e senso di inadeguatezza che tende a risolversi nel giro di una o due settimane ma che se non sparisce rischia di trasformarsi in depressione post-partum.

In queste donne particolarmente fragili e «a rischio», quanto incide la solitudine o la poca attenzione nei suoi riguardi prima e dopo il parto?
Ha una grande importanza per tutte le donne, soprattutto nel post-partum, avere l’appoggio non solo materiale ma anche psicologico delle persone che gli stanno intorno, ancor di più ciò è importante per quelle donne più fragili e a rischio.

Quanto sono coinvolti il marito o i famigliari della neo madre che ha commesso il figlicidio?
Studiando questo fenomeno ma anche occupandomi di depressione post-partum, mi sono resa conto di come si tratti di donne sole, incomprese nella loro sofferenza che, se pur spesso manifestata, viene minimizzata e in certi casi anche negata dal partner e dai famigliari.

Che ruolo ha un padre nell’equilibrio di madre (moglie) durante la gravidanza e dopo il parto?
Nei corsi di preparazione al parto insegniamo alle future mamme l’importanza di essere aiutate e di coinvolgere il futuro padre in tutto ciò che riguarda la cura del bambino. Quello di un padre presente e accudente, non solo con il bambino ma anche con la neomamma, è un ruolo di basilare importanza al fine di prevenire la psicopatologia così come gesti estremi.

In quali casi, e perché, la memoria dell’accaduto viene rimossa? E dopo quanto tempo la madre che si è privata del proprio figlio «ritorna» coscientemente alla realtà e con quali reazioni?
Capita a tutti noi nella vita di accantonare quei pensieri o eventi che più ci spaventano e feriscono. Tale meccanismo di difesa si chiama rimozione ed è utilizzato dalla nostra mente per allontanare ciò che ci fa male. Ma nulla è dimenticato e il rimosso prima o poi riaffiorerà. In questo senso è importante il lavoro psicoterapeutico per accompagnare queste donne nel cammino di elaborazione di ciò che hanno commesso, dal momento che la donna quando realizza di avere lei stessa tolto la vita alla propria creatura, si trova a dover affrontare un dolore lacerante. In questo momento il rischio di atti autolesivi è elevato e da lì in poi la donna dovrà affrontare la vita con dentro di sé una ferita che mai potrà essere sanata ma con la quale dovrà imparare a convivere.

Cosa fa oggi la società per stare accanto alla donna che si appresta a diventare madre?
Purtroppo la società fatica ancora a muoversi in tal senso, anche se in quest’ultimo periodo c’è un po’ di attenzione a tutto ciò che riguarda la mateità. Rimangono comunque da sfatare quei miti sulla mateità che la società ci propone sotto diversi aspetti, come ad esempio il fatto che avere un bambino sia esclusivamente fonte di gioia, quando sappiamo che non sempre è così e che esistono fattori che possono impedire alla donna di vivere serenamente la mateità.

I mass media nel dare notizia di questi eventi sono sempre responsabili tanto da creare quell’impatto mediatico che potrebbe, in alcuni casi, compromettere il rispetto della privacy e della dignità della persona?
Troppo spesso accade che la privacy venga violata dall’accanimento mediatico e che resti la grave infrazione di essersi intromessi, non solo gli addetti ai lavori ma noi tutti spettatori, nella vita e nel dolore dei protagonisti di queste tragedie famigliari. Se una madre è innocente la sua immagine sarà infangata e, al contrario se colpevole, il suo atto deve riguardare la giustizia e la medicina, e senza ombra di dubbio sarebbe necessario spegnere i riflettori su di lei lasciando, a lei e alla famiglia, il tempo e lo spazio per elaborare il loro dolore. 

a cura di Eesto Bodini

Eesto Bodini




Tra gli ismaliti del Pamir

Una delle Ong più attive in Tagikistan è la Fondazione Aga Khan (Fak), arrivata nel 1993. L’origine di tale presenza è da ricondurre al sostegno che la Fak offre in tutto il mondo alle comunità dei musulmani ismailiti di cui l’Aga Khan è il capo spirituale.
È la seconda comunità sciita, staccatasi dagli sciiti duodecimani. Lo scisma risale al 760 circa. I duodecimani sono così chiamati perché riconoscono nella storia l’autorità di 12 santi imam, discendenti in linea diretta dalla famiglia del profeta. Alla morte del sesto imam, Giafar, tra gli sciiti si produsse una spaccatura: alcuni seguirono la linea dinastica che faceva capo al primogenito Ismail, morto prima del padre; gli altri riconobbero come imam il figlio minore Musa.
Nel XX secolo gli imam ismailiti, che da metà ’800 portano il titolo onorifico di Aga Khan ricevuto dallo scià di Persia, cominciarono a promuovere istituzioni per lo sviluppo economico e sociale delle loro comunità. L’attuale Aga Khan, Karim, diventato il 49° imam nel 1957, ha proseguito sulla stessa strada e nel 1967 ha costituito la Fondazione che porta il suo nome e opera nei paesi in cui vivono le comunità ismailite, ma estende i propri interventi anche agli altri abitanti, senza distinzione di razza e religione.
Concentrati soprattutto in Iran e paesi vicini, gli ismailiti si sono diffusi anche in Africa Orientale, Europa e Nord America.

È un principio che ha subito voluto puntualizzare Dovlatjar, uno dei responsabili della Fondazione in Tagikistan, da me incontrato nella sede di Dushanbe. Egli è un pamiri, appartiene a quelle popolazioni iraniche che, abitando le impervie regioni del Pamir, non furono toccate dalle invasioni turco-mongoliche e convertitesi all’islam ismailita all’inizio del secondo millennio.
Dovlatjar segue il programma della Fak per lo sviluppo delle comunità montane proprio nel Pamir. «Quando la Fondazione vi arrivò nel 1993, dovette fronteggiare l’emergenza cibo, causata dalla guerra civile e dall’isolamento della regione. Qui vivevano 250 mila persone, cui si aggiunsero i profughi provenienti da altre parti del Tagikistan. Passata l’emergenza, dal 1995 si è potuto pensare a uno sviluppo a lungo termine, con un programma di riabilitazione e costruzione di infrastrutture: strade, ponti, scuole, infermerie, canali d’irrigazione. Dal ’98 abbiamo incominciato a istituire le organizzazioni di villaggio».
A questo punto Dovlatjar ha dovuto darmi qualche spiegazione aggiuntiva. «In Asia Centrale c’è sempre stata la consuetudine di eleggere un capo villaggio, l’aksakal (barba bianca): persona autorevole e da tutti ascoltata, con il compito di guidare la comunità. Molti lavori erano fatti da tutto il villaggio: l’aksakal assegnava i compiti, stabiliva i tui per lo sfruttamento dei pascoli, che erano in comune; a lui ci si rivolgeva per un consiglio e dirimere una lite».
Gli abitanti di un villaggio si riuniscono, elencano le cose da fare, stabiliscono le priorità; poi le comunicano alla Fondazione che cerca di trovare il necessario contributo finanziario. Così le comunità sono responsabili nell’individuare le necessità, pianificare gli interventi, costruire e mantenere le infrastrutture.
Dopo un’ora di colloquio con Dovlatjar, cominciavo a capire come il sistema funzionava in teoria, ora desideravo vederlo in opera. L’ho visto a Garm, il centro principale della valle Rasht, dove la Fondazione opera in sette province. Qui ho conosciuto Azam, che tiene i contatti con le 43 organizzazioni di villaggio della provincia e che mi ha invitato a visitae qualcuna.
I l nostro primo villaggio è Shulmak. Vi scorre un torrente cristallino dove si pescano delle trote piccole e saporitissime, «ma anche molto difficili da acchiappare», aggiunge Azam. Si chiamano gol mâhi (pesce fiore), perché la loro pelle è cosparsa di puntini rossi, come minuscole corolle.
All’inizio della collaborazione con la Fak c’è sempre un’assemblea, in cui si stabilisce quanti intendono costituire una propria organizzazione di villaggio. Se almeno l’85% degli abitanti è d’accordo, si elegge un presidente, vicepresidente, contabile e la responsabile del gruppo delle donne. La Fac tiene a che le donne costituiscano un loro gruppo, perché in un ambito tutto femminile, senza la presenza dei mariti e altri uomini, hanno più agio di discutere e formulare le loro richieste.
A Shulmak quasi tutte le famiglie hanno aderito. Il presidente Rakhimov lo spiega così: «Ci siamo accorti che ognuno per sé non poteva risolvere i suoi problemi; così abbiamo deciso di metterci insieme e chiedere aiuto alla Fondazione. Ci siamo riuniti per decidere quali erano le cose da fare. Ne è venuto fuori un lungo elenco: infermeria, strada, scuola, canali d’irrigazione, ripetitore televisivo rotto, vasca per pulire il bestiame, centro per i giovani, ponte, generatore (abbiamo l’elettricità solo per due ore il giorno). Abbiamo scelto di cominciare con l’infermeria».
La stanno costruendo lì accanto. La Fondazione fornisce i materiali, ma il lavoro lo fanno gli uomini del villaggio. Nel frattempo sono stati avviati anche altri programmi: una piantagione di alberi per legname da costruzione, difficile da reperire; microcrediti per le donne, che possono così sviluppare la loro economia domestica e ricavae ortaggi e animali da vendere al mercato.
Arrivata l’ora del pranzo, sul tavolo sotto gli alberi, dove il presidente aveva disteso le sue carte e io prendevo appunti, sono arrivati piatti con anguria, melone, biscotti, pane. Pensavo si trattasse di una merenda veloce; ma di lì a poco è comparso un grosso piatto di carne, poi una montagna di pescetti grigiastri, con dei puntini rossi (i gol mâhi), da ultimo la minestra.
Capivo che non era cosa semplice per questa gente mettere insieme un pranzo del genere; ma alle mie rimostranze è venuta fuori la frase classica, che chiude ogni discussione: «Lei è un ospite!». La legge dell’ospitalità in questi luoghi è ferrea. All’ospite si offre tutto quello che c’è in casa, per accoglierlo si uccide anche l’ultima bestia. Non si può fare altro che accettare con riconoscenza.

D opo pranzo abbiamo visitato il villaggio di Loyoba. Il presidente ci ha ricevuto in casa sua. In questo villaggio c’è il problema dell’acqua. «Non ce n’è a sufficienza per irrigare i campi – spiega il presidente -; la falda acquifera è profonda e i pozzi normali non ci arrivano. Una volta c’era una piccola centrale che pompava l’acqua dal fiume, ma adesso non funziona. Con l’aiuto della Fondazione abbiamo costruito un pozzo profondo. La situazione è migliorata, però non basta. Dovremmo costruire una pompa, ma i macchinari sono costosi». Più della metà degli uomini del villaggio lavorano all’estero. Da una parte è un bene, perché a casa arriva qualche soldo; dall’altra non ci sono braccia a sufficienza e molti lavori ricadono su donne e bambini. Peggio di tutto, però, quando di uomini in famiglia non ce ne sono affatto: una vedova fa fatica a provvedere a sé e ai figli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Annuncio in profondità

Aprirà a Dar es Salaam un nuovo Centro di animazione missionaria

Evangelizzare «in profondità» è l’imperativo dato dalla Conferenza Episcopale del Tanzania ai cristiani del paese.  Come? Serve un «faro di missionarietà» per orientarsi fra le tante sfide che il mondo contemporaneo propone al continente africano e alla fede della sua gente. I missionari della Consolata ne hanno individuato uno e confidano sia quello giusto.

Dar es Salaam è una città costiera che si affaccia sull’Oceano Indiano. Sulla costa i fari abbondano. Non lontano dal mare, su un territorio rubato alla steppa e suddiviso dal governo in migliaia di lotti, si aggiunge un faro nuovo ma diverso. La sua luce non è per aiutare i pescatori a giungere a riva. La sua luce è per condurre al largo, al mondo: un faro di missionarietà!
La lettera apostolica Novo Millennio Ineunte di papa Giovanni Paolo II ci invitava ad iniziare il terzo millennio nella contemplazione del volto di Cristo. Una contemplazione che fluisse in santità di vita, entusiasmo rinnovato, annuncio fervoroso, testimonianza cristallina, fantasia di carità, e iniziative concrete per la missione… in profondità ed estensione. Difatti, il biblico Duc in altum, più volte ripetuto nella lettera, ha nel vangelo di Luca un duplice significato: avanzare in acque profonde e prendere il largo. Si tratta, quindi, di una missione all’interno della chiesa, sempre discepola e serva della Parola, che ha come scopo quello di far vivere la fede in profondità e con coerenza. Ma è pure una missione rivolta ai popoli, affinché riconoscano nel Cristo il Salvatore, perfezionamento di tutti i valori religiosi e culturali. La doverosa stima per questi non deve far dimenticare il mandato evangelico dell’universalità, pur lasciando che i semi di vangelo sparsi nel corso dei secoli maturino secondo i  tempi di Dio.
Per carisma i missionari e le missionarie sono votati alla missione ad gentes, cioè a testimoniare ed annunciare il vangelo nelle situazioni prive o povere del Verbo di Dio, parola che salva e nobilita l’umanità. Dove è possibile lo fanno in cooperazione, affinché la missione sia più ricca e assuma il volto paterno e materno di Dio. Annunciare, difatti, è sempre un partorire, come afferma l’apostolo Paolo parlando di se stesso nelle lettere scritte  ai Galati e ai Corinzi.
Con lo spirito e le caratteristiche ereditate dal Beato Allamano lo fanno i missionari della Consolata, attraverso molteplici attività che mirano ad educare, formare e trasformare. Lo fanno inserendosi in situazioni di estrema indigenza e accompagnando minoranze trascurate o in contesti che hanno ragion d’essere nella sola testimonianza silenziosa o nel dialogo interreligioso. La missione ad gentes, a tutti i popoli, non è univoca, ma ha più volti e più vie, che mutano con la storia e le sue sollecitazioni. Una cosa è certa: che la missione è obbedienza al comando esplicito del Risorto, e ha valore perenne. La staticità è morte, mentre il pellegrinaggio per le vie del mondo è vita. La chiusura è suicidio, mentre il dono rigenera. L’ardere della contemplazione… diventa illuminazione: «Voi siete la luce del mondo!».
Tuttavia, non si può dare per scontato che la tensione missionaria sia sempre incandescente e presente ovunque. Essa va generata e rafforzata in continuità, poiché è facile lasciarsi prendere dal torpore e, dalle necessità proprie, chiudersi nella miopia. Apertura e solidarietà vanno radicate in una spiritualità e nutrite con un processo di informazione e formazione. Tutto ciò prende il nome di: animazione missionaria. Essa tende a fare di ogni persona, famiglia, comunità e chiesa un punto luce e di irradiazione universale. Tale compito educativo rientra nella specificità della missione stessa.
È il compito che i missionari e le missionarie della Consolata si sono assunti anche in relazione alla chiesa che è in Tanzania. La cosa non è nuova. Già ci sono espressioni missionarie della chiesa locale – come pure in altri paesi d’Africa – che può vantare di avere inviato missionari, uomini e donne, in più nazioni. Ma sono necessarie una cultura e una spiritualità missionaria. Sono queste l’humus che garantiscono cattolicità e che permettono di essere una chiesa missionaria a se stessa e per il mondo, come si esprimeva Paolo VI in Uganda. La chiesa che è in Africa, con le sue ricchezze di umanità, solidarietà, gioia, pazienza, né può, né deve mancare all’appuntamento del donare e ricevere, che riconosce ad ogni chiesa pari dignità, vocazione e missione. Questo è pure l’imperativo che Giovanni Paolo II rivolge alle chiese giovani nell’enciclica Redemptoris Missio.

Per favorire questo processo, vicino a Dar es Salaam sta nascendo (inizierà le attività a partire dalla fine di quest’anno) il «Consolata Mission Centre»: faro di missionarietà. La costruzione di un centro di animazione missionaria in Tanzania corona un sogno che i missionari operanti in questo grande paese dell’Africa Orientale hanno nutrito per molti anni e che risponde anche alla «provocazione» lanciata dalla Conferenza Episcopale del Tanzania  a tutti gli agenti pastorali di lavorare per un’evangelizzazione che scenda il più possibile in profondità. Per dirlo in swahili: Uinjilishaji wa kina. Una prima evangelizzazione che tenga soprattutto conto della promozione umana e che si definisca in base alla dimensione delle opere di sviluppo e carità non può e non deve assolutamente tralasciare l’aspetto spirituale se non vuole vedere vanificati i frutti della sua azione. Per rendersi conto del rischio causato da un’evangelizzazione che si fermi alla superficie e non tocchi in profondità il cuore delle persone basta fare un giro per le strade di Dar es Salaam e notare il grande numero di chiese appartenenti alle sètte più disparate presenti ormai in ogni angolo della città e alla loro capacità di richiamare proseliti.
Proprio Dar es Salaam è stata scelta come sede del nuovo centro di animazione missionaria, e questo non a caso. La città costiera, porto marittimo, da sempre importante sede di scambi e commerci per tutta l’Africa Orientale è ormai una metropoli di circa 4 milioni di abitanti. Qui convergono genti di tutte le tribù, provenienti da ogni angolo del Tanzania, che fanno della città un luogo estremamente vivace e vario. L’ubicazione precisa sarà in una delle tante nuove periferie della città, Bunju, e dovrà servire anche come centro propulsore di attività e integrazione per il quartiere.
La dotazione del centro prevede una cappella, cuore dell’edificio e delle attività. Due spazi riservati all’ospitalità, con 48 camere a doppio letto, il refettorio, un salone conferenze e salette più piccole per incontri di gruppo. Il centro ospiterà anche l’abitazione e gli uffici dei missionari addetti all’attività di animazione missionaria. Accanto alla costruzione sorgerà anche la casa delle suore della Consolata che collaboreranno direttamente nella stesura dei programmi e nella conduzione delle attività di animazione e formazione.
Il Centro pubblicherà l’unica rivista missionaria in swahili di tutto il Tanzania: Enendeni (vedi box). Inoltre, pubblicherà vari sussidi di carattere pastorale-missionario.

Questa nuova iniziativa desidera avere una finalità educativa e formativa, orientata secondo una prospettiva squisitamente missionaria. I programmi dovranno avere un raggio molto vasto, in modo da cogliere la persona nelle sue varie dimensioni: umana, spirituale, apostolica e missionaria. Essi prenderanno in considerazione i vari aspetti della chiesa, della società e del mondo: vocazione missionaria di ogni persona e comunità, servizio, inculturazione,  dialogo interreligioso, ecumenismo, giustizia, pace e armonia del creato, promozione della donna, giovani. Inoltre, si approfondiranno argomenti come la pandemia Hiv-Aids e altri temi di scottante attualità in contesto africano, che richiedono risposte chiare da parte di animatori e operatori missionari ben formati.
Le attività del centro avranno come destinatari sacerdoti, religiosi, catechisti, leader comunitari, membri di associazioni e gruppi ecclesiali, i giovani e le famiglie. I programmi verranno preferibilmente condotti in modo partecipativo, «stile laboratorio», così da ottenere un maggior coinvolgimento personale di chi vi prende parte. Avranno inoltre una forte componente spirituale, in modo da offrire ai partecipanti le motivazioni e la forza per l’azione che deve seguire l’attività formativa. Il desiderio è quello di offrire qualità e profondità, in modo che i partecipanti trovino nel centro una fonte spirituale a cui abbeverarsi e contenuti solidi che ne appoggino l’azione pastorale e di testimonianza.
Attingendo al loro carisma e all’esperienza maturata sul campo, i missionari e le missionarie della Consolata si propongono di rendere questa iniziativa una scuola di universalità e di missione. Sarà necessaria la creatività degli artisti, la pazienza dei coltivatori, l’umiltà dei poveri e il coraggio dei profeti. Non sappiamo quale risonanza e risposta attingeranno i programmi offerti e le attività svolte. Sappiamo però che questo è il nostro dovere: animare, perché la chiesa che è in Tanzania viva l’ardore della Pentecoste, evento di missione per tutti i popoli. 

Di Giuseppe Inverardi e Gianni Treglia


ENENDENI
Gazeti la Kimisionari
(ANDATE – Rivista Missionaria)


«Andate… ammaestrate tutte le nazioni». Queste parole, comando di Gesù prima di ascendere al cielo, hanno caratterizzato l’attività missionaria della chiesa fin dal suo principio e animano ancora oggi i missionari sparsi per il mondo a portare il suo annuncio di pace e di liberazione ai popoli. Sono state anche il motivo per cui i missionari della Consolata in Tanzania hanno dato vita ad una rivista missionaria, uno strumento che, assieme a tante altre opere missionarie, portasse a tutti l’annuncio della «Buona Notizia».
La rivista Enendeni ha iniziato ad essere pubblicata nel 2003 ed è la più giovane fra le riviste pubblicate dai missionari della Consolata. Ha scadenza bimensile ed una tiratura di circa tremila copie. Alla base della riflessione che ha dato il via a questa rivista c’è sicuramente il fatto che le pubblicazioni cattoliche in Tanzania sono pochissime, tanto che si possono contare sulle dita di una mano. Tra queste, però, Enendeni si distingue per il desiderio di animare missionariamente la chiesa locale tanzaniana.
Impostata in modo molto semplice, la rivista si rivolge alla gente comune e ai giovani in modo particolare. Esperienze ed attività missionarie compiute in Tanzania e nel resto del mondo, messaggi della chiesa locale ed universale per occasioni particolari, riflessioni di natura biblico-missionaria, argomenti di vocazione missionaria costituiscono l’ossatura della rivista e il contenuto della maggior parte dei suoi articoli. Di grande impatto sui lettori sono le testimonianze dell’ormai buon numero di giovani missionari tanzaniani sparsi per il mondo, i quali, raccontando la loro vita spesa “per la missione”, contribuiscono al risveglio missionario e all’apertura di nuovi orizzonti.
Enendeni, pur essendo fondata e diretta dai missionari della Consolata, ha voluto, sin dal suo inizio, coinvolgere anche le altre forze missionarie del paese, altri istituti missionari, le diocesi, i laici. In questa linea, molto importante, e determinante per la sua divulgazione, è stata la collaborazione creatasi tra la rivista e le Pontificie Opere Missionarie del Tanzania. Ogni nuovo numero contiene un inserto gestito direttamente dal direttore delle Pontificie Opere Missionarie del Tanzania che spiega le attività svolte da questo ufficio nell’intero paese. Questa collaborazione ha fatto sì che la rivista raggiungesse tutte le diocesi del Tanzania e da tutti sembra essere molto apprezzata.
Con l’apertura del nuovo Centro di animazione missionaria a Dar es Salaam, la sede della rivista avrà una nuova casa. Non è certo uno spostamento di ordine pratico! Centro e rivista lavoreranno in stretta collaborazione in modo che, «essendo la Chiesa per sua stessa natura missionaria», possano proporre e promuovere insieme una sensibilità alla missione al servizio della chiesa tanzaniana.

Giuseppe Inverardi e Gianni Treglia




Proibito … sognare

Ricordi del passato e realtà presente … a confronto

A 10 anni di distanza non sono molte le cose cambiate in Eritrea. Anzi, sotto alcuni aspetti la situazione è peggiorata. Rimangono intatti i ricordi dell’ospitalità goduta e le amicizie intessute nei precedenti viaggi.

Avevo un certo timore nel ritornare in Eritrea dopo 10 anni di assenza, dal momento che più volte, rivisitando alcuni paesi a distanza di tempo, ho visto aumentata la povertà e, di conseguenza, diminuita la dignità delle persone. Questa volta l’impatto è stato forte, per il numero dei mendicanti e per l’aspetto macilento e sofferente delle persone, soprattutto anziani e donne.

PER LE VIE DI ASMARA

All’Asmara sono rimasta interdetta: qualcosa è cambiato, ma non molto. La città ha conservato il fascino dell’architettura italiana del primo Novecento, anche se in periferia sono stati costruiti alti edifici in cemento.
Sui gradini delle chiese la notte si vedono dormire i bambini, ammucchiati uno sull’altro  per riscaldarsi, come fanno i gatti. Sono loro, i bambini di strada, che soffrono l’abbandono e la fame. Poi gli anziani, quelli soli, che hanno perso i figli morti in guerra; donne che restano per ore accoccolate lungo il muro della chiesa, avvolte nel velo bianco, il viso rugoso e stanco. Una di esse ha le mani rose dalla lebbra.
Nei quartieri centrali della capitale, invece, un tempo riservati agli italiani,  passano gruppi di giovani ben vestiti e studenti con le uniformi delle scuole di stato. Sono stati aperti nuovi locali,  caffè e pasticcerie; l’atmosfera è serena e anche la notte si gira per le strade in tutta sicurezza.
La polizia è sempre presente, anche in borghese. Sono più volte fermata, mentre cerco di fotografare gli edifici d’epoca coloniale, rimasti intatti, ora passati allo stato e utilizzati come uffici pubblici.
Nei nuovi negozi di elettronica e di elettrodomestici, come pure nelle farmacie, c’è abbondanza di prodotti impensabili 10 anni fa. I numerosi  internet café sono affollati, anche se per avere una connessione ci vogliono ore. Ho aspettato inutilmente in fila per inviare un messaggio a casa; ho anche provato con difficoltà a collegarmi  per telefono. Questo paese mi pare il più isolato e chiuso: la gioventù sogna di aprirsi e comunicare col mondo e il regime blocca ogni aspirazione e movimento. Gli stranieri, poi, sono sorvegliati speciali: per muoversi da una città all’altra occorre il permesso della polizia.
Il settore indigeno di Asmara è rimasto intatto, con i mercati e il caravanserraglio denso di attività, rumori e odori. Sono salita  sulla collina di Nda Mariam: la cattedrale ortodossa al tramonto è un trionfo di luce e colori. Vecchie grinzose, sedute contro il muro della torre, si godono l’ultimo sole, curiose di vedermi tra loro. Rimango incantata, come tanti anni fa, osservando i fedeli  prostrati davanti il portale e quelli che pregano col capo appoggiato al muro. Passa un sacerdote e una donna si inchina a baciare la croce.
Le ombre si allungano e il vasto piazzale è un’oasi di serenità, con i muri fioriti, il via vai di fedeli tra i vari edifici, ideati da un italiano, ispirato, nella sua opera di architetto,  dai motivi tradizionali eritrei.

FRANCO RITORNA

Franco è appassionato di internet, di fotografia e della Dankalia, regione estremamente inospitale, situata in una depressione tra il Mar Rosso e l’Etiopia; terra di vulcani e laghi salati, che conosce molto bene. Sta preparandosi alla prossima spedizione, con un gruppo di antropologi toscani che da anni studiano e ricercano le tracce di uomini primitivi.
Italiano naturalizzato eritreo, Franco è nato e vissuto qui fino al 1973, quando gli italiani vennero espulsi. «Mio nonno, originario  della provincia di Lecco, giunse in Africa nel 1890 con l’intenzione di raggiungere il Congo. Sbarcato a Massawa, si arrampicò a dorso di mulo fin sull’altopiano e in Congo non ci arrivò mai, perché decise di stabilirsi qui, all’Asmara». Franco parla arabo e tigrigno, ha frequentato le scuole italiane e conosce quasi tutti in città. Appena ha potuto è ritornato in Eritrea, per nostalgia del paese e anche perché in Italia aveva trovato difficile inserirsi.
Con internet ora si può collegare con gli amici italiani e lavorare sulle impressionanti foto prese nella depressione dancala.
Parte della casa di famiglia è stata venduta; ora gli rimangono poche stanze; ma il piccolo giardino è un orto botanico, curato da Franco con vera passione in questo bel clima di eterna primavera. Piante endemiche e altre esotiche come l’araucaria e la ginko, che non so come potranno trovare spazio per svilupparsi. La jacaranda è stata potata drasticamente, perché copriva tutto il tetto, che dovrebbe essere riparato. Durante la stagione estiva delle piogge, la lamiera arrugginita lascia filtrare l’acqua, che gonfia pareti e soffitti.

SUOR ZAUDI

Le ho telefonato e lei ha subito deciso di raggiungermi all’Asmara, prendendo la prima corriera da Keren, dove lavora con le orfane. Ci eravamo conosciute proprio a Keren, nel ’95, durante il viaggio che avevo fatto con i padri cappuccini per raggiungere il bassopiano e seguire le feste tradizionali di Tesseney e Barentu.
L’anno successivo ero ritornata per restare più a lungo con queste meravigliose suore di Sant’Anna e apprezzare il loro prezioso lavoro. Mi ero anche presa la malaria, un’esperienza forte, che  mi aveva fatto capire il paese e la sua gente meglio di tanti viaggi. Quando pochi anni dopo  suor Zaudì venne mandata a Roma per studiare, mi raggiunse a Torino per un periodo di vacanza.
Abbiamo tante cose da dirci e da ricordare. Le bambine di casa Foca,  le orfanelle di Keren che avevo conosciuto allora, sono sposate con figli e Zaudì ha sempre lo stesso sorriso dolcissimo. Parliamo di Akrur, il remoto villaggio con la bella chiesa di san Giustino, che avevo visitato con le sue consorelle e dove avevo deciso di costruire un pozzo per portare l’acqua. Pare che la situazione sia molto migliorata per gli abitanti, ma è difficile poterlo raggiungere, non ci sono mezzi pubblici e occorre un fuori strada.

VIAGGIO A MASSAWA

Alganesh  mi ha tenuto un posto accanto a lei, in prima fila sul pulmino di fabbricazione giapponese che ci porterà a Massawa. Ha 24 anni e l’aspetto di una donna forte e indipendente. Il viaggio dura poco più di tre ore, con la sosta a Ghinda per un tè.
Sono scomparse le vecchie corriere, importate dall’Italia e molto malandate, e lontano è il ricordo del mio primo viaggio, nel 1995, durato 11 ore a causa di lavori in corso. La strada è stata allargata e consente di andare veloci, lungo i tornanti che scendono ripidi tra i monti aridi e pietrosi. Babbuini curiosi ci osservano tra le acacie; passano piccole carovane con cammelli e capre. Donne ricurve trasportano sul dorso mucchi di legna, taniche d’acqua riempite alle rare fonti.  Intanto sul pulmino vedo salire e scendere contadini e pastori, che approfittano di brevi passaggi. 
Alganesh è felice di raccontare la sua vita. Due anni e mezzo di duro servizio militare le hanno consentito di accedere poi alla facoltà di economia, laurearsi e ottenere un posto di lavoro statale.
Domani è domenica, 7 gennaio, natale per gli ortodossi. Alganesh, come gli altri viaggiatori, sta ritornando a casa dai suoi per festeggiare e mi invita a unirmi alla sua famiglia, per il pranzo tradizionale. Pochi saranno in grado domani di uccidere l’agnello, i prezzi sono saliti troppo, ci si accontenta di shirò e ngera, con contorno di verdure.

MASSAWA

Ho trovato l’antica città silenziosa e melanconica. Nel ’95, terminata la guerra con l’Etiopia, ero rimasta affascinata da quest’isola, duramente colpita dai bombardamenti. Era piena di calore, di odori, di gente affaccendata. Si iniziava allora a restaurare le preziose case di madrepora, in stile arabo-turco. Ora vedo che gran parte delle case è in uno stato penoso di abbandono e alcune stanno per crollare.
Hanno spianato la zona del lungomare, dove sorgevano i capannoni delle barche e alcune belle case. Molta gente deve essersi  spostata in terraferma, dove è sorta una vasta zona di baracche, fatte di assi, corde e lamiere.
Questa sera c’è la luna piena, momento magico per questa città. La luce bianca fa risaltare i merletti dei palazzi, nascondendone le ferite.
Trovo un solo uscio aperto sulla via, con una donna intenta a preparare la cerimonia del caffè. Ricordo il profumo dell’incenso che riempiva i vicoli, ancora pieni di vita. Io sostavo, invitata a gustare il caffè, seduta su piccoli sgabelli accanto a mamme occupate a dare l’ultima poppata al loro piccolo.
Brhane non lavora più al bar Savoia, che trovo già chiuso. Ci incontriamo al molo, dove ora fa il guardiano, la notte. Fatica a riconoscermi, poi ci abbracciamo. Chiedo della figlia, allora era una ragazzina bella e gentile, unica superstite della famiglia. La moglie e i quattro figli di Brhane furono uccisi dalle bombe etiopi.
«Portala in Italia con te!» mi aveva supplicato allora, questo vecchio malconcio, i denti guasti e gli occhi malati. È magrissimo, sotto gli abiti logori da far paura. Ora ci sono quattro bimbi da crescere e il marito della figlia è scappato in America e non si fa più sentire.
Situazione che pare essere comune oggi nelle giovani famiglie, dove gli uomini sono costretti a fare il servizio militare e appena possono scappano. Chi riesce a raggiungere il Sudan e successivamente la Libia, si dirige verso le coste italiane. Disperati, ma decisi a fuggire da un paese che non vuole ancora parlare di pace.  La frontiera con l’Etiopia non è definita e la guerra incombe. Dovevano esserci libere elezioni, dieci anni fa. Il presidente è sempre lui, combattente eroe di guerra, che ora si può definire un dittatore.
 Taulud è  l’isola degli edifici eleganti, dove gli italiani avevano le ville più belle. Quella dei Melotti, proprietari della famosa fabbrica di birra, è stata rasa al suolo solo l’anno scorso. Un dispetto? Direi un gran peccato, era opera di un bravo architetto, in stile africano, sul mare, con molo privato e parco. Accanto c’è la villetta dove il presidente trascorre i fine settimana e le vacanze, ma non mi posso avvicinare, la polizia mi ferma.
Il palazzo del sultano ha squarci nelle cupole e lo scalone va in rovina. Il degrado pare irrimediabile, ma qualcuno ha autorizzato un’impresa coreana a costruire non lontano due orribili edifici a sei piani, in cemento armato grigio.
Una piacevole sorpresa è stato il pronto soccorso dell’ospedale, dove ho trovato assistenza gratuita in un ambiente moderno e pulito per un piccolo incidente avuto sulle isole. Sono stati costruiti ospedali nuovi di stato anche all’Asmara, Ghinda e Keren. Bisogna riconoscere che per la sanità, come per i trasporti pubblici,  c’è stato un grande sforzo da parte del governo. Le spese militari sono comunque molto pesanti e condizionano l’economia del paese.

L’ISOLA VERDE

«Il mio paese ha sempre fatto una politica imperialistica, di aggressione: dalle Filippine al Sud America, poi il Vietnam e ora l’Iraq». Michel viene da Berkley, Califoia, e ha le idee chiare in fatto di politica. Esperto in energia alternativa, lavora per il governo eritreo nell’installazione di  pannelli e collettori solari per portare l’elettricità nei villaggi più remoti.
Ci siamo incontrati sull’Isola Verde, un lembo di sabbia che affiora nel mare di fronte a Massawa. Un luogo magico, dove numerose colonie di uccelli marini vivono e nidificano indisturbate.
Il rudere di un’antica moschea è circondato da dense mangrovie e si specchia sul mare che racchiude le meraviglie della barriera corallina. Siamo sbarcati qui dopo aver attraversato in pochi minuti il canale che ci separa dalla città, ancora ingombro di relitti della guerra. Michel e i suoi colleghi sono felici di essere in Eritrea, un paese così diverso dagli altri paesi africani, affascinante per i ritmi sereni di vita e per l’atmosfera ancora italiana delle città.

ISOLE DAHALK

È un arcipelago al largo di Massawa, con una lunga storia: contese a lungo tra abissini e arabi, le isole furono nei secoli un importante scalo per le navi dirette in India, luogo di confino per gli avversari dei califfi e successivamente centro di studi coranici.
Il tempo è molto brutto, tira vento, il mare è mosso, tanto che anche il cuoco, un anziano sottile dal viso rugoso, soffre il mal di mare. Arriva da Assab e ha sempre lavorato su grandi bastimenti.
La nostra è una piccola barca a motore. Portiamo con noi tende e rifoimenti per poter trascorrere quattro giorni sulle isole, che emergono di pochi metri dalla superficie del mare, banchi di sabbia corallina, circondate da barriere ricchissime di vita.  Il plancton è molto abbondante e  i pesci colorati hanno dimensioni enormi. Trigoni, squali e tartarughe sono frequenti da osservare, ma bisogna sapere bene dove immergersi.
Ci fermiamo a Dissei, l’unica delle isole Dahlak di origine vulcanica.  Un minuscolo villaggio di poche capanne è abitato dagli afar, gente proveniente dalla Dankalia.
Ho portato con me la foto scattata qui dieci anni fa. Barbarossa, il capovillaggio,  era seduto davanti alla capanna e mi offriva polipo fritto in una ciotola. Ora non c’è più, è morto due anni fa; ma sua figlia mi vuole vedere e mi invita nella sua casa, fatta di pali di acacia contorti. La cucina è separata dalla camera, dove ci sono due letti alti, in legno e stuoia, con le leggere coperte bianche ricamate a punto croce; letti identici a quelli visti nelle case di Zebid e Hays, nello Yemen. La regione yemenita della Tihama e l’Eritrea si affacciano sullo stesso mare e da sempre hanno avuto rapporti culturali e commerciali.
Gli uomini parlano italiano: da piccoli erano stati mandati a studiare a Massawa, nelle scuole elementari delle suore di Sant’Anna.
Dall’altra parte dell’isola si intravede un villaggio turistico in costruzione, fatto da capanni in cemento. Forse il turismo potrebbe aprire la società eritrea, ma la gente del luogo è sospettosa: si dice che tale progetto appartenga a un eritreo, arricchitosi in Italia con la gestione di una larga rete di venditori ambulanti, e sia appoggiato dal fratello di un politico italiano, amico del presidente eritreo.   n

Claudia Caramanti




Con un tika sulla fronte

Reportage dal paese himalayano

Sebbene stretto tra due giganti come Cina e India, il regno del Nepal si è sempre mantenuto indipendente, a lungo difeso dalle montagne più alte del mondo. Paese povero, ma dignitoso, il Nepal è un esempio di tolleranza religiosa. Induismo e buddhismo, le religioni nettamente maggioritarie, non si sono mai combattute. Anzi, i fedeli hanno trovato molti elementi in comune. Intanto, il tempo è passato. Sono arrivati i turisti occidentali e le lotte politiche.

Bhaktapur. Appena superato l’arco della porta cittadina, sembra di entrare in un altro mondo. Un tiepido sole illumina la pavimentazione in mattoncini rossi di Durbar Square, la piazza del palazzo (durbar) reale. Sono le prime ore della giornata e per questo le strade, sempre interdette al traffico automobilistico, non sono ancora affollate.  Ma i nepalesi non mancano. Uomini, ma soprattutto donne si fermano davanti ai vari altari e tempietti induisti che sorgono ai lati della piazza. Fanno la prima puja quotidiana, l’offerta alla divinità. I fedeli sfiorano la statua con la mano, si toccano il capo e se ne vanno. Le donne portano piccoli vassoi con grani di riso, polvere di rosso carminio e soprattutto petali di fiore, che depongono sulle statue delle divinità. Il tutto è svolto singolarmente e in rispettoso silenzio.
Per questo suo carattere religioso Bhaktapur è chiamata anche Bhadgaon, che significa «città dei devoti». Fu fondata dal re Ananda Deva nell’899, ma la sua bellezza è dovuta principalmente ai sovrani della dinastia Malla, che a partire dal 1400 regnarono sulla città per alcuni secoli, fino alla conquista gurkha del 1769. La popolazione appartiene al gruppo newar, i più antichi abitanti della valle di Kathmandu, una minoranza (attualmente sarebbero circa 630 mila, ovvero il 3% della popolazione nepalese) famosa per le capacità organizzative e soprattutto per le innate doti artistiche. I sovrani di Bhaktapur poterono costruire i magnifici palazzi e templi della città soltanto grazie alle abilità dei newar. A loro si devono finestre, colonne, tetti in legno finemente intarsiato; sculture in pietra, legno, terracotta e bronzo; i progetti stessi di pagode (templi a più piani) e palazzi. Inizialmente buddhisti, oggi i newar sono in maggioranza induisti, ma, come in tutto il Nepal, le differenze religiose non hanno mai costituito un problema.
Percorrendo i vicoli, andiamo verso l’affascinante Taumadhi Tole,  dominata dal tempio di Nyatapola, a 5 tetti sovrapposti. Taumadhi è la piazza (tole) del mercato. I venditori stanno arrivando con la mercanzia sulla bicicletta o nella gerla (dhoko) che mantengono sulla schiena con una bretella di juta (namlo) che cinge il capo (così da mantenere libere le mani). Trovato il proprio spazio, sistemano tutto per terra. Al centro della piazza, ci sono i commercianti di vestiario, con articoli per la maggior parte di produzione indiana o cinese; su un lato, stanno invece i contadini, con i loro prodotti agricoli. Dai vicoli circostanti arriva sempre più gente. Tra poco la piazza sarà affollata e vociante.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              
Sempre a piedi, raggiungiamo Potters’ Square, la piazza dei vasai. Nome appropriato: sotto le tettornie sono raccolti centinaia di pezzi. In mezzo alla piccola ma affascinante piazza, gruppi di donne dispongono al sole le terrecotte ancora fresche.
Sotto un porticato in legno,  disposti in circolo su delle stuoie, un gruppo di uomini con il topi, il tradizionale copricapo dalla forma conica tronca, sono seduti a confabulare e a controllare alcuni strumenti musicali (tamburi e piatti). In mezzo al gruppo, anche un paio di lunghe pipe di legno (hookah). Parte la musica, ritmata e ripetitiva.
Intanto, in una via vicina, su un altare di pietra, si sta svolgendo un sacrificio animale, rituale comune nella religione induista. Accanto alla figura della divinità, ci sono piatti di frutta e ghirlande di fiori. Due persone, con gesti sicuri, su gradini già macchiati di sangue, tagliano la testa ad un capretto.  Poi lo sventrano. L’intestino viene estratto con cura e pulito con acqua. Alcune parti andranno sul fuoco,  altre verranno distribuite. Tutto è svolto con grande naturalezza sulla pubblica via. Dietro all’altare del sacrificio, un gruppo di soli uomini, dopo il saluto con le mani giunte, è pronto a suonare e cantare.     

La scoperta della dura realtà

Bhaktapur è storicamente una città di contadini, come si capisce girando per le stradine dove le pannocchie di mais e i peperoncini rossi sono appesi ai balconi di legno o distesi nei cortili, davanti alle porte di casa.                                                                                                                 Ma Bhaktapur è anche una città di artigiani. Entriamo in una piccola fabbrica tessile. Siamo accolti dal tipico suono dei telai in legno. Al lavoro ci sono soltanto donne dai vestiti sgargianti, che, scalze, pigiano sui pedali e con una rapidità impressionante muovono le mani sui fili del telaio. Ci accompagnano nella sala adiacente dove il suono diventa rumore. I macchinari, rudimentali, stridono e gracchiano per le operazioni di filatura. Le donne si sono distratte, ma non sembrano dispiaciute dell’interruzione.
«C’è qualcosa d’irreale negli edifici nei quali ci si trova. Ci si sente come comparse sul palcoscenico di un teatro, in mezzo alle quinte. Ci si aspetta di sentire un fischio e di vedere emergere gli operai che improvvisamente smonteranno questi palazzi e questi templi fantastici».  Così scriveva Alexandra David-Néel, scrittrice ed esploratrice francese (1868-1969). L’atmosfera non viene intaccata neppure dagli inevitabili simboli della modeità: il Namaste Cyber Cafe, un bar con postazioni internet, o il Money Exchange, una casa di cambio. Eppure, neppure Bhaktapur, città dall’affascinante aspetto medioevale e dalle atmosfere particolarissime, ha potuto fermare il tempo. La realtà quotidiana non può rimanere fuori dalla porta soltanto per il piacere di visitatori e turisti.  O magari per girare le scene di qualche film, come infatti fece il regista Beardo Bertolucci per  Il piccolo Buddha.

Il re c’è, Prachanda anche

Bhaktapur ha i problemi di tutte le città dei paesi poveri e per essi c’è chi propone soluzioni politiche diverse. In Nepal sono attivi vari partiti di filosofia comunista. Anche nella «città dei devoti» i manifesti (abusivi) dei maoisti sono attaccati sui muri di case e palazzi. I più raffigurano il volto del leader Prachanda, con baffetti, occhiali da intellettuale e, alle sue spalle, una bandiera rossa sventolante la falce e il martello.  Ma neppure il leader maoista rinuncia al tika induista sulla fronte. «Prachanda è un nome di battaglia, che significa più o meno “il più forte”», ci spiega Jeevan Nayabhari, giovane manager di un piccolo hotel cittadino.  Tanto è comprensivo con il leader maoista, quanto è duro con re Gyanendra, del quale dice: «Non è stato amato dalla popolazione fin dalla sua salita al trono, avvenuta nel 2001 in circostanze drammatiche. Nonostante la versione ufficiale, in pochi ritengono che lui non sia il responsabile del massacro di re Birendra e della famiglia reale». Un anno dopo quella tragedia, Gyanendra ha sciolto il parlamento e nel 2005 anche il governo. «Gyanendra – spiega Jeevan – ha violato la costituzione e si è preso tutto il potere. Soltanto dopo le rivolte di piazza ha fatto un passo indietro e ha riaperto il parlamento».
Re e bandiere maoiste, sacrifici animali e fedeli induisti: il puzzle sembra formare un disegno troppo astratto per essere vero. Vedremo a Kathmandu, la capitale nepalese, verso quale futuro si muove il paese himalayano.
(fine prima puntata – continua)

Paolo Moiola

Nepal, tra induismo e buddhismo

NEL PANTHEON NEPALESE

Nel paese himalayano non si sono mai viste guerre di religione. 
Sarà dipeso dalle religioni o dagli uomini?

Il Nepal è un paese che non ha conosciuto «guerre di religione». Anzi, secondo i professori nepalesi Chandra e Kumar, tutte le religioni si sono sviluppate in perfetta armonia, senza lotte ed intolleranza. Il paese himalayano ha tuttavia una particolarità assoluta: è l’unico paese al mondo ad essere una monarchia induista. Anche per la nuova Costituzione (datata 1990) la religione del paese è l’induismo. Tanto che, fino a metà del secolo scorso, il sovrano nepalese era considerato una incarnazione di Vishnu (che, con Shiva e Brahma, forma la Trimurti hindù). Oggi, in seguito ai recentissimi accadimenti politici (si veda la cronistoria), il re rischia di dover addirittura lasciare il paese.
 Il Nepal è dunque induista, nonostante abbia dato i natali al principe Siddhartha Gautam, chiamato «Buddha» (il risvegliato, l’illuminato) dopo che ebbe raggiunto l’illuminazione. Il fondatore del buddhismo nacque nel 566 avanti Cristo (ma la data è incerta) a Lumbini, un villaggio dell’India nord-orientale, che oggi è parte del paese himalayano. Secondo il censimento del 2001, l’80.6% della popolazione nepalese è induista e il 10,7% buddhista. Esistono inoltre alcuni esigui gruppi di musulmani (4,2%) e cristiani (0,4%).
Il buddhismo si divide in due scuole principali: quella dell’Hinayana («piccolo veicolo») e quella del Mahayana («grande veicolo»). La prima, avendo norme di comportamento molto rigorose e un’etica severa, consente a pochi di raggiungere il Nirvana, cioè la salvezza, l’armonia con il cosmo, la fine della vita materiale, la pace interiore, la felicità senza sofferenza. La seconda, al contrario, è più permissiva e dunque molti di più possono giungere alla salvezza. In generale, il buddhismo enfatizza la rinuncia alle cose del mondo, l’introspezione, la meditazione; il destino dell’uomo sta nelle sue mani, attraverso scelte e stili di vita adeguati. I monaci e le loro comunità fanno della realizzazione della dottrina del Buddha il contenuto esclusivo della loro vita. In Nepal, si è diffuso il buddhismo mahayana, ma con grandi influenze provenienti dal buddhismo praticato in Tibet (lamaismo) ed anche dal tantrismo di origine indiana. Il buddhismo è seguito dalle popolazioni nepalesi che vivono nella regione himalayana, tra cui gli sherpa, i gurung e i tamang, oltre che dai molti profughi tibetani che vivono nel paese.

Il termine «induismo» – avverte il Dizionario delle religioni – non può indicare (come originariamente si credette e tutt’oggi si continua erroneamente a credere) una determinata religione indiana, bensì va visto come un nome collettivo indicante un gruppo di religioni affini, ma tra loro diverse, che sono nate nell’Asia  meridionale (India, Pakistan, Bangladesh). L’induismo non è opera di un fondatore e non è costituito in chiesa. Esso ammette l’esistenza di un grande numero di divinità, molte con figura antropomorfa (ovvero con sembianze umane), altre con figura teriomorfa (ovvero con sembianze completamente o parzialmente animali). Ma – spiega il Dizionario delle religioni non cristiane – oltre alla fede in un mondo politeistico, l’induismo rivela anche tendenze inequivocabili verso il monoteismo, espresse dall’idea che molti déi sono in sostanza soltanto le maschere di un unico dio, denominato spesso Ishvara, cioè semplicemente «il Signore», un dio creatore a cui i buddhisti invece non credono. L’induismo non ha comunità monastiche come il buddhismo, ma prevede i brahmani, membri della casta sacerdotale, gli unici autorizzati a recitare i mantra vedici durante i riti sacrificali. Inoltre, mostra grande considerazione e rispetto verso coloro che hanno fama di vivere in santità e di possedere saperi segreti, come i guru (maestri spirituali, guide) e gli sadhu (asceti).

In Nepal, induismo e buddhismo convivono a tal punto che, soprattutto agli occhi degli occidentali, a volte risulta difficile distinguerle. E, d’altra parte, tra le due religioni esistono effettivi elementi di contatto. Entrambe parlano del karma, l’atto, l’azione del singolo individuo. Nell’induismo tuttavia il concetto è più complesso perché il karma si prolunga su più esistenze, cioè sia prima della nascita che dopo la morte. Entrambe, inoltre, prevedono la metempsicosi, ovvero la rinascita, la reincarnazione. La differenza forse più gravida di conseguenze pratiche è la non accettazione, da parte del buddhismo, della suddivisione in caste, che in Nepal (come in India) sopravvive nonostante sia stata ufficialmente abolita.

a cura di Paolo Moiola

Cronistoria essenziale

2007, l’anno del nuovo nepal

Dal IV al XVIII secolo:
Le dinastie più importanti sono quelle dei Licchavi (IV e V secolo) e dei Malla (X-XVIII secolo). I Malla edificano i palazzi e i templi più significativi di Kathmandu, Patan e Bhaktapur.
1768:
Il dominio della dinastia Malla viene chiuso da Prithivi Narayan Shah, re dei gurkha, che riunisce il Nepal. 
1846-1951, regno dei Rana:
Nel 1846, con una sanguinosa rivolta, i Rana, una dinastia di primi ministri, si impadroniscono del potere ai danni degli Shah, che divengono figure formali, recluse nel palazzo reale. I Rana si alleano con gli inglesi, colonizzatori della vicina India, riuscendo a mantenere indipendente il Nepal, ma accentuando anche il suo isolamento. Kathmandu fornisce milizie gurkha all’esercito anglo-indiano. 
1950-1959:
Il vicino Tibet è invaso dalla truppe della Repubblica popolare cinese (ottobre 1950). Inizia un esodo di massa della popolazione tibetana verso il Nepal e l’India. Nel marzo 1959 il Tibet è definitivamente annesso alla Cina e si verifica una seconda ondata migratoria.
1951, febbraio:
Finisce dopo 104 anni di dominio, il regno della famiglia Rana.
1961-1990:
Nel paese vige il sistema detto Panchayat, che attribuisce tutti i poteri al sovrano e non consente l’esistenza di partiti politici.
1990, novembre:
La nuova Costituzione nepalese trasforma la monarchia in una monarchia costituzionale e multipartitica.
1996, 13 febbraio:
Con l’attacco al posto di polizia di Holleri (Rolpa), in Nepal inizia la ribellione maoista. Durerà 10 anni e farà quasi 14.000 morti.
2001, 1 giugno:
Massacro nella famiglia reale. Vengono assassinati a colpi d’arma da fuoco il re Birendra e la regina Aishwarya, assieme ad altri 6 membri della famiglia reale. Il presunto assassino, il principe ereditario Dipendra, tenta di togliersi la vita ed entra in coma. Viene nominato re, ma muore dopo 3 giorni. Tocca allo zio Gyanendra, fratello di Birendra, essere incoronato re. Sulla sua estraneità alla tragedia rimangono però molti dubbi.
2002, maggio-ottobre:
Re Gyanendra scioglie il parlamento (22 maggio). Pochi mesi dopo (4 ottobre), licenzia il primo ministro Deuba.
2004, aprile:
Scioperi ed incidenti contro la politica del re.
2005, 1 febbraio:
Re Gyanendra assume poteri assoluti, giustificandosi con la necessità di combattere i ribelli maoisti.
2006, 10 aprile:
Re Gyanendra decide di riaprire il parlamento, chiuso nel maggio 2002.
2006, 21 novembre:
Pushpa Kamal Dahal detto «Prachanda», leader dei ribelli maoisti, firma un accordo di pace con il governo nepalese, guidato da Girija Prasad Koirala. In base all’accordo, esercito governativo e ribelli deporranno le armi sotto la supervisione dell’Onu. Entro giugno 2007 si terranno le elezioni per creare un’assemblea costituente che dovrà scegliere tra monarchia e repubblica. Intanto, nel parlamento ad interim entrano i rappresentanti degli ex-ribelli maoisti. Sono 83 su 330 parlamentari.
2007, 19 gennaio-26 febbraio:
Violente proteste antigovernative nella regione meridionale del Terai, al confine con l’India. Il popolo madhesi chiede più considerazione e autonomia.
2007, 27 febbraio:
In attesa della nuova costituzione, il governo decide di sequestrare le proprietà ereditate (dopo il massacro del 2001) da re Gyanendra.

Fonte:
Prakash A. Raj, «The Dancing Democracy. The Power Of the Third Eye», Rupa, New Delhi 2006.

Paolo Moiola




Quale spiritualità per un altro mondo possibile?

Forum mondiale di teologia e liberazione

In che condizioni versa oggi la teologia della liberazione? 250 teologi, professionali e non, si sono incontrati a Nairobi per tastarle il polso e valutae l’impatto che ha oggi sul mondo contemporaneo.

La teologia della liberazione è ancora capace di produrre riflessioni che puntano a sovvertire uno status quo iniquo e ingiusto per milioni di persone? Può infiammare i cuori di tanti cristiani e spingerli a lottare a colpi di parola di Dio contro questo sistema, o si è anch’essa ridotta a pura conversazione accademica, tomba di tante teologie?
È ancora capace di chiamare «amici» o «fratelli» le vittime della storia o tende ad analizzarle asetticamente, mettendole in provette da laboratorio? Si alimenta ancora del sogno di Dio? Si lascia sfidare, assumendole come proprie, dalle provocazioni che vengono dai «grassroots movements» (movimenti di base), o ha perso lo slancio delle origini? In altre parole: è ancora viva la teologia della liberazione?
Queste e altre domande sottostavano alla celebrazione del secondo «Forum mondiale di teologia e liberazione», che si è tenuto presso il Carmelite Centre di Langata,  quartiere di Nairobi che ospita un alto numero di congregazioni religiose e centri di studio teologici importanti come il Tangaza College e l’Università cattolica dell’Africa Orientale (Cuea).
Dal 16 al 19 gennaio si sono riuniti circa 250 partecipanti provenienti da tutto il mondo, pronti a ribadire la vitalità della teologia che, senza dubbio, ha rappresentato una delle più evidenti novità della chiesa post-conciliare, una chiesa che si vuole incarnare nelle sofferenze di tutte le genti che attendono, già in questo mondo, un segno di liberazione.

DA PORTO ALEGRE A NAIROBI

La prima edizione si era tenuta due anni fa a Porto Alegre (Brasile) e, come in questo caso, la riunione dei teologi aveva preceduto la celebrazione del World Social Forum. L’idea di fondo era la seguente: se il motto «un altro mondo è possibile» ispirava la riflessione e l’azione di tanti gruppi e movimenti che operano nel sociale, tanto più doveva animare coloro che, per fede, credono veramente che questa utopia possa realizzarsi.
Il titolo che il comitato organizzatore aveva scelto per l’incontro di Porto Alegre era: «Teologia per un altro mondo possibile». Lo sforzo era stato, allora,  quello di riunire insieme un panel di teologi della liberazione di prim’ordine che potessero offrire un quadro il più possibile esauriente dello stato della riflessione teologica a livello mondiale. Molte conferenze, quindi, e poco spazio era stato riservato al contributo dei partecipanti.
Quest’anno si è cercato di dedicare buona parte del tempo a seminari e gruppi di discussione e limitando così lo spazio dedicato alle esposizioni degli esperti. Il tema, inoltre, si prestava maggiormente alla condivisione delle esperienze di tutti, essendo dedicato alla individuazione di una «spiritualità per un altro mondo possibile».
Altra nota positiva è stato organizzare questo secondo Forum in Africa e in modo particolare a Nairobi. Innanzitutto per l’importanza che la capitale del Kenya riveste oggi a livello teologico, grazie alla presenza di tante istituzioni accademiche e di ricerca, non soltanto cattoliche; ma anche perché Nairobi è in grado di offrire utilissimi spunti di riflessione a una teologia che vuole far partire la sua riflessione dal basso, da quegli anfratti del mondo che rimangono inesplorati a causa della miseria e del disagio che li invade. Non vi è città al mondo, oggi, che vive il dramma di un’urbanizzazione selvaggia, forzata e rapida, come quella che riempie quotidianamente le già traboccanti baraccopoli della capitale kenyana.
TEOLOGIA AFRICANA
Un altro punto positivo è rappresentato dallo spazio che la teologia africana ha avuto all’interno del Forum. Le presentazioni degli studiosi del continente hanno seguito due cornordinate principali: l’incontro del mondo africano e della sua religiosità con le grandi religioni e il dialogo che con esse può nascere.
La seconda cornordinata era orientata al sociale e soprattutto alle domande alle quali la teologia è chiamata a dare risposta oggi in Africa. La difesa dell’ambiente, il cappio del debito estero, la pandemia Hiv/Aids, il perdurare di situazioni di grave conflitto, come in Sudan o nel Coo d’Africa, sono veri e propri «luoghi teologici» che interpellano la teologia e la sfidano sul piano della coerenza e del senso.
Come ha sostenuto il sociologo e intellettuale belga Francois Houtart, l’Africa è il continente più intrinsecamente connesso con la globalizzazione e con il modello capitalista neoliberale imperante, proprio in ragione dei benefici che tutto il mondo trae dallo sfruttamento della sua gente e della sua terra.
Come unire queste due cornordinate in un unico flusso di pensiero, fedele alle radici culturali, aperto alle sfide di un mondo in perenne cambiamento e nello stesso tempo attento alle esigenze di chi soffre?
Laurenti Magesa, sacerdote cattolico e teologo tanzaniano di fama, autore fra l’altro di un recentissimo saggio sul modo di ripensare la missione in Africa ai nostri giorni (Rethinking Mission: Evangelization in Africa in a New Era, Aamecea, Eldoret-Kenya, 2006), ha ribadito come il cristiano africano di oggi debba imparare a dissetarsi nuovamente alla fonte di una spiritualità propria. È questo il primo passo di un viaggio verso un vero e proprio esodo mentale ed emozionale, dalla situazione attuale di schiavitù spirituale, sfruttamento e miseria, verso una nuova terra promessa. Un cammino di liberazione integrale verso la giustizia, la libertà, una patente di «credibilità» anche spirituale cui l’Africa anela.

GUARDARE LA VERITÀ

Il punto centrale del Forum (e in una certa misura anche il suo nervo scoperto) è stato il tentativo di individuare punti di contatto tra ricerca e prassi. Più volte è stato ribadito uno dei principi basilari della teologia della liberazione, cioè che il punto di partenza è la realtà vista da un’angolatura particolare: il mondo degli oppressi. Lo ha rimarcato con forza uno dei suoi padri storici, il gesuita salvadoregno Jon Sobrino, ricordando come «le vittime e solo le vittime aprono gli occhi alla realtà», una realtà spesso ovattata, camuffata da chi vuole difendere privilegi usurpati.
Giovanni nel suo vangelo scrive che il maligno è assassino e bugiardo. Se si vuole costruire un mondo alternativo e se si vuole affermae davanti a tutti la sua possibilità occorre vincere questo modello di menzogna e ricorrere a chi ti può presentare un quadro della realtà veritiero e affidabile. La vittima appare per quello che è, con il suo bagaglio di povertà, crudeltà e morte, incapace di nascondere una realtà che la umilia e la ferisce.
Uno dei momenti più importanti del Forum è stato il pomeriggio dedicato alle visite di alcune realtà significative di Nairobi: gli slums di Kibera e Korogocho, alcuni ostelli per l’accoglienza dei bambini di strada e, infine, un progetto di sviluppo comunitario, iniziato e portato avanti dalla comunità della parrocchia St. Joseph the Worker. Kibera, quartiere dormitorio di Nairobi in cui vivono, ammassate come formiche circa 800 mila persone, è lo slum più grande dell’Africa. Le vittime appaiono nude ai nostri occhi, sono lì, basta avere il coraggio di guardarle.

DALLA VERITA’ ALLA CON-PASSIONE

Ma guardare non è sufficiente. Bisogna passare dalla contemplazione della verità, resa manifesta dalle vittime, a una prassi che le liberi dalle catene che le opprimono. «Se il maligno – ricorda Sobrino – non solo è bugiardo, ma anche assassino, alla verità che smaschera la menzogna deve accompagnarsi allora una prassi di compassione capace di generare vita».
Nella compassione, intesa come una condivisione nel dolore e, quindi, una forza generatrice di giustizia e liberazione, può incontrarsi, secondo il teologo latinoamericano, il terreno per costruire una spiritualità per un mondo alternativo. Una spiritualità che deve essere comune, in dialogo con fedi e culture diverse, con le teologie delle grandi religioni, come quelle delle religioni tradizionali che cercano con decisione il loro spazio anche perché espressione di culture marginalizzate o oppresse.
Il discorso vale per le teologie tradizionali africane come per la teologia afro e quella india, tutte presenti con loro rappresentanti al Forum di Nairobi.
Sebbene il tema generale del Forum verteva sull’individualizzazione di una spiritualità per il mondo «altro», che si sta cercando di costruire, ciò che alcuni hanno notato e rimarcato è stato il carattere poco «religioso» del Forum, come se invece di camminare nel dialogo rispettando le proprie differenze, si cercasse di costruire una spiritualità senza religione, a-confessionale. Uno degli appunti fatti dalla platea al Forum è stato: «Qui si sta facendo molta teologia e poca liberazione», criticando così l’incapacità di liberarsi da schemi teologici fissi, vincolanti, senza immaginazione e profezia.
In realtà, a parere di chi scrive, non si è fatta neppure tanta teologia. Si è parlato di movimenti, si è disquisito di organizzazioni, di coscienza e di lotta, di chiesa e di religione, ma si è parlato poco di Dio. E una teologia che lasci Dio ai margini non solo non può esistere, ma è una contraddizione in termini.
L’intento di dare più spazio a laboratori di gruppo e seminari, sullo stile applicato al World Social Forum, è stato lodevole, ma le conclusioni sono risultate molte volte scollate dalle riflessioni presentate nelle conferenze e, spesso, dal tema generale del Forum. Anche l’apporto dei teologi professionali si è limitato in massima parte alla presentazione di un elaborato che non teneva conto degli spunti che arrivavano dai lavori di gruppo e che avrebbero meritato una più attenta lettura teologica.
Forse, per la prossima occasione, bisognerà pensare a qualche cosa di diverso, magari a organizzare questo Forum di teologia dopo il Social Forum, in modo da attingere spunti e provocazioni provenienti dal basso, dal mondo delle organizzazioni, dei movimenti, delle chiese o, soprattutto, da coloro che soffrono sulla loro pelle una forma di oppressione che non aspetta altro che di essere rimossa e chiedersi: «Dio, a questo grido, come risponderebbe?».
Non è una domanda che prevede una facile risposta. Tanto meno un Forum, proprio per le sue caratteristiche, poteva offrie una. Ne è prova la difficoltà che si è avuta nel redigere una dichiarazione conclusiva da presentare al World Social Forum.
In realtà, un tentativo lo aveva fatto la professoressa Mary Getui, presidente del comitato di organizzazione locale, suggerendo quello che poi è diventato il motto della manifestazione: «I am somebody and I can do something» (sono qualcuno e posso fare qualche cosa).
Restano profetiche, a questo riguardo, le parole con le quali Desmond Tutu ha chiuso il Forum, ricordando la sua esperienza in Sudafrica e la lotta senza tregua di un popolo oppresso per ottenere la propria libertà. Lo ha fatto comparando quei tempi con la situazione del Sudafrica odierno e delle sue chiese, che hanno perso la freschezza, la spontaneità e la genuinità della testimonianza, frutto della persecuzione e della lotta.
Il cammino della liberazione era chiaro negli anni dell’apartheid; oggi lo è molto meno, in Sudafrica come altrove. Forse troverebbe nuovamente il suo senso, se la teologia venisse nuovamente fatta a partire da Kibera e dagli altri innumerevoli luoghi che umiliano milioni di persone in tutto il mondo.

Di Ugo Pozzoli


Intervista con Maricel Mena Lopez

UNA TEOLOGIA DAI TANTI VOLTI

Terminati gli studi teologici di base presso l’università Javeriana di Bogotà (Colombia), hai proseguito il tuo iter accademico in Brasile, dove hai conseguito il dottorato in sacra scrittura. Da un po’ di tempo sei tornata alla Javeriana, questa volta come insegnante. Sei afro-colombiana e ti dedichi con passione alla ricerca nell’ambito della teologia etnica e all’accompagnamento pastorale di comunità afro-discendenti. Ti ho presentato, adesso raccontami qualcosa di questo tuo amore per la teologia afro.
Mi interesso delle teologie afro e della liberazione dagli anni ’80; da quando,cioè, ho iniziato a lavorare più direttamente con gruppi giovanili e comunità di base. Ma l’inizio delle mie inquietudini «teologiche» è coinciso con il lavoro nel barrio San Martín, un quartiere molto povero di Cali, popolato per il 95% da persone afro-discendenti. La maggior parte della gente veniva dalle comunità negre del Pacifico, esattamente come la sottoscritta. Insieme abbiamo iniziato a pensare come recuperare canti, tradizioni delle comunità di origine. La domanda che sottostava a tutto questo lavoro era: «Sarà possibile esser negra e cristiana nel medesimo tempo?».

E che risposta vi siete dati?
È stato l’inizio di una ricerca, di un lungo processo. Nei nostri paesi dell’America Latina abbiamo assunto un cristianesimo di stampo molto europeo. Si trattava di vedere come. Noi abbiamo solo cercato di dargli un volto e un corpo più afro; siamo partiti dall’esperienza di fede, che trascende il puro discorso teologico. L’esperienza è aperta, mentre la teologia tende a chiudersi dentro un linguaggio molto dotto, per addetti ai lavori; così facendo, ha finito con il rinchiudere l’esperienza che la gente aveva di Dio dentro una determinata tradizione. In Colombia, per esempio, la maggioranza degli afro-discendenti è cristiana. Nonostante in passato il cristianesimo abbia cercato di fare piazza pulita delle religioni tradizionali africane, noi ci troviamo nei ritmi, nei canti, nel modo di celebrare degli afro discendenti della costa pacifica che tiene molte radici comuni con la Madre Africa.

Come viene recepita in ambiente accademico questa nuova sensibilità religiosa e teologica?
L’impatto sui seminaristi è buono. Vi sono quelli più aperti al dialogo, altri più radicati su posizioni conservatrici. In tutti, però, l’interesse è alto e c’è dibattito, il che è positivo. È una sfida non facile. È una ricerca che va portata avanti con serenità e senza forzature, ma chiedendosi onestamente: «Perché dopo secoli e secoli di evangelizzazione la gente afro o quella indigena vivono facendo coesistere senza nessun problema la fede in Gesù con quella nelle proprie divinità? O partecipano con ugual fede a un candomblé e a una celebrazione eucaristica?». La nostra ricerca punta a dare alla nostra fede un volto latinoamericano, con tutte le sue diverse sfumature. Chiaramente sono temi che creano dibattiti anche accesi, soprattutto con parte dell’istituzione accademica e gerarchica, che si rifiuta di ammettere che possa esistere un altro tipo di teologia. Eppure, passi in avanti possono essere fatti. Per esempio, in maggio vi sarà ad Aparecida, in Brasile, la v edizione della Conferenza dell’episcopato latinoamericano. Non che nutra molte speranze, ma una piccola aspettativa ce l’ho: che ci si interroghi seriamente sul tema del dialogo fra le religioni. A Santo Domingo ci fu un’apertura verso le culture, ad Aparecida spero che emerga invece l’aspetto più spiccatamente religioso del dialogo, soprattutto con le tradizioni religiose afro e indigene. È importante sottolineare questo aspetto, perché a volte anche tra membri della stessa cultura vi possono essere casi di chiusura o di rigetto. Per esempio, alcuni afro-discendenti appartenenti a certe frange pentecostali sono molto ostili verso un lavoro di recupero delle tradizioni proprie. Senza contare che in molti è forte la difficoltà del sentirsi nero e di riconoscerlo con orgoglio davanti agli altri, soprattutto in un paese come la Colombia, in cui il razzismo è molto più diffuso di quanto si possa pensare.

Come vedi l’impegno pastorale della chiesa latinoamericana nei confronti delle minoranze etniche (che però in alcune regioni del continente sono numericamente delle «maggioranze» assolute) come quella afro o indigena? La teologia della liberazione è ancora viva?
Manca un lavoro più profondo e continuo a livello di comunità. Direi che la teologia della liberazione è viva, ma stiamo vivendo in un tempo totalmente diverso rispetto a quando è nata. È forte l’opzione per i poveri, non tanto quella verso le culture differenti. Dobbiamo imparare a dare al povero il volto che gli compete: afro o indio che sia.

Intervista con suor Jane Muguku

Teologia… della strada

Sister Jane, ho visto parecchie suore della Consolata al Forum… Tre di voi hanno anche guidato altrettanti workshops. Complimenti.
È stata una scelta mirata, essere lì dove la gente discute, organizza e soprattutto pensa teologicamente.

Cosa ti è piaciuto di più di questo Forum?
Il metodo. I molti workshops hanno aiutato a incarnare gli spunti teologici nella vita di tutti i giorni. È stato un bell’incontro fra teologi professionisti e noi, poveri teologi jua kali, come diciamo noi in Kenya, teologi «sotto il sole», della strada.

Qual è stato il messaggio più importante di questo Forum, quello che ti porti via in valigia?
Senz’altro la necessità di creare dialogo fra le nostre religioni. Se vogliamo veramente immaginare un mondo diverso e creare una spiritualità che possa animare questo mondo, dobbiamo renderci conto che il dialogo è un’esigenza imprescindibile. Allo stesso tempo,mi ha molto colpito, durante l’ultima assemblea plenaria, quanto ha detto un partecipante dell’India, cosa ribadita anche da una donna africana, che, cioè, se vogliamo creare un mondo diverso, fondato sul dialogo interculturale e religioso, dobbiamo iniziare dalle scuole. Soprattutto a livello religioso è fondamentale avere uno studio comparato serio delle altre religioni, almeno nelle linee fondamentali, condizione indispensabile per iniziare un dialogo su basi di parità.

Qualche elemento negativo?
Uno soltanto, a livello di percezione. Mi è sembrato che nell’assemblea si tendesse troppo a fare l’inchino al «dio» della liberazione sociale, dimenticandosi che l’uomo ha bisogno di essere liberato integralmente. Forse le altre dimensioni non hanno avuto uguale spazio e attenzione. Si vuole costruire una spiritualità per un mondo alternativo, ma se il rapporto con Dio viene limitato soltanto alla dimensione orizzontale e non si esplora sufficientemente quella verticale, sarà poi molto difficile trovare dei punti che ci accomunano, che ci rendano «fratelli e sorelle».

Ugo Pozzoli




Tra cielo  e … acqua

Nabasanuka: nuova missione alle foci dell’Orinoco

Nella missione di Nabasanuka, tra gli indios warao, nel delta del Río Orinoco, i padri Josiah K’okal (ugandese) e Vilson Jochem (brasiliano), hanno cominciato a sognare in grande, nonostante le sfide lanciate dalle difficoltà logistiche, studio della lingua e cultura indigena, povertà della gente… Stanno inseguendo lo stesso sogno di Dio.

Il 20 di giugno 2006,  festa della Consolata, abbiamo aperto ufficialmente la nuova missione di Nabasanuka, lungo il Río Adentro, uno degli innumerevoli rami che formano l’immenso delta del Río Orinoco. La scelta di questa nuova missione è avvenuta dopo un periodo di riflessione e di studio del luogo, a partire dalla fine del 2005, quando abbiamo iniziato a visitare il territorio, spendendo a più riprese alcune settimane con la gente.
Per avere un’idea di dove ci troviamo, basta dire che, partendo da Caracas o Barlovento dove lavoriamo da vari anni, occorrono 24 ore di viaggio: 17 sulla terra ferma per arrivare a Tucupita, sede dell’omonimo vicariato apostolico, e altre 7 per fiume, su barca a motore, per essere a destinazione. Ancora 40 minuti e si è in alto mare, in pieno Oceano Atlantico.
Naturalmente, per rispettare la tabella di marcia tutto deve filare liscio, il che non sempre accade. Nei primi viaggi, infatti, avevamo a disposizione una curiara (barca, canoa) con un motore vecchio di 30 anni: per la sua età faceva ancora miracoli, ma non sempre ci riusciva. Più di una volta ci ha lasciati in mezzo al fiume. Come quella volta che, partiti alle 2,30 della notte per andare a Tucupita, il motore cominciò a bloccarsi dopo un’ora di viaggio… e arrivammo in città alle 4,30 del pomeriggio.
Ma non sono esperienze che ci scoraggiano. Anzi, diventano occasioni per gustare la bellezza del creato. Ci sentiamo immersi in un altro mondo, un paradiso terrestre, tra cielo e… acqua, circondati dalla lussureggiante vegetazione della fitta foresta tropicale, popolata da miriadi di uccelli e altri animali acquatici e terrestri: siamo nell’immenso delta del fiume Orinoco (vedi riquadro).

Il territorio della missione di Nabasanuka misura oltre 15 mila kmq (pari all’Abruzzo e Molise messi assieme), in buona parte coperto di acqua; la terra ferma, in quanto tale, è molto scarsa.
Tutto il delta dell’Orinoco è abitato dagli indios dell’etnia warao, che vivono sparsi nel vasto territorio in piccole comunità, 63 delle quali sono comprese nei confini della nostra missione.
Tradizionalmente i warao si dedicavano alla caccia, pesca e raccolta di frutta e vegetali commestibili, offerti dalla natura circostante. Col tempo, però, i mutamenti climatici e geografici li hanno costretti a cambiare alcune abitudini di vita; hanno incrementato la pesca, principale fonte di alimentazione, e si sono dedicati anche all’agricoltura. Si tratta di agricoltura di sussistenza: unico prodotto coltivato è l’ocumo, una pianta erbacea con tuberi commestibili.
Anche nell’ambito dell’artigianato, la produzione è limitata alle necessità immediate della vita: amache, ceste, utensili vari.
Sotto l’aspetto materiale, quindi, i warao sono gente povera; vivono in fatiscenti palafitte di legno, piantate lungo le sponde dei fiumi. Eppure la scarsità delle risorse li ha portati a  sviluppare, fin dai primi anni di età, tutte le doti necessarie per la sopravvivenza. Basta guardare i bambini che, a 4 anni, nuotano come pesci e solcano le correnti dei fiumi in canoa con estrema maestria. Sembrano nati nell’acqua.
Ancor più ricco e sorprendente è l’aspetto umano e sociale dei warao. Anche se, come missionari, ci consideriamo stranieri, ospiti e pellegrini, fin dai primi incontri essi ci hanno accolto con tale semplicità e schiettezza da farci sentire subito in famiglia. Sorprendente è il modo con cui si riferiscono a noi: non ci chiamano «preti» o «missionari», ma fratelli. I giovani si rivolgono a noi con il termine «daje» (fratello maggiore), gli anziani con la parola «daka» (fratello minore). Questo ci fa sentire la missione come costruzione di legami di fratellanza.
Altrettanto stupenda è l’espressione usata per indicare il regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Anche questo ci fa vedere come Dio è in azione anche in questa sperduta parte del globo e, soprattutto, ci indica la natura della missione appena iniziata: trasformare il mondo per fae una casa, una famiglia dove tutti possono appendere il proprio chinchorro (amaca) e condividere il poco e il molto che si ha.

Costruire la Dioso a Janoko è, quindi, la grande sfida della nuova missione tra le 63 comunità warao che ci sono state affidate. E abbiamo già cominciato a stendere i progetti e fissare le priorità, tenendo conto della situazione religiosa della gente. Le comunità della missione, infatti, possono essere suddivise in tre gruppi: quelle già evangelizzate, dove la fede cristiana è radicata; quelle che hanno avuto contatti sporadici con i missionari, per cui la vita cristiana non è ancora impiantata; quelle che non hanno ancora avuto alcun contatto con il vangelo.
Per rispondere alla sfida, ci siamo gettati a capofitto nell’apprendere la lingua dei warao: senza di essa è impossibile entrare nel loro mondo culturale e trasmettere il messaggio del vangelo; anche perché buona parte delle comunità parla solo il warao e non conosce lo spagnolo.
Di pari passo con lo studio della lingua procede la visita alle comunità, intrattenendoci con loro per meglio conoscerle e farci conoscere. È una sfida che assorbe molto tempo, non solo per raggiungere le varie località, ma anche per l’approvvigionamento del carburante. In Venezuela la benzina costa poco, ma il rifoimento più vicino si trova a Tucupita: ciò significa sette ore di curiara nell’andata e altrettante nel ritorno.
C onsiderando il numero di comunità e le distanze da percorrere per raggiungerle, ci è impossibile visitarle con frequenza e svolgervi un lavoro in profondità. Per questo abbiamo scelto come priorità assoluta la preparazione di animatori e catechisti, i quali, in nostra assenza, assicurino l’assistenza religiosa ai gruppi cristianamente già formati e promuovano l’annuncio del vangelo in quelli ancora da evangelizzare.
Tale priorità fa parte anche del programma pastorale del vicariato apostolico di Tucupita. Non ci resta che inserirci nel progetto. Anzi, abbiamo già iniziato con la formazione di catechisti in tre comunità: Nabasanuka, Bononia e Araguabasi. Abbiamo circa 40 persone, uomini e donne, che frequentano il centro di Nabasanuka, che stiamo attrezzando con computer, fotocopiatrice e materiale didattico vario. Ma il problema più grande rimane quello del trasporto: abbiamo creato un piccolo fondo per fare fronte ai viaggi dei catechisti, senza pesare sulle loro tasche vuote. E fino ad ora la Provvidenza non vi ha fatto mancare nulla per coltivare i nostri sogni.
Altri sogni nel cassetto riguardano la promozione umana. Alla povertà economica, infatti, si aggiunge quella scolastica e sanitaria: il governo venezuelano ha praticamente lasciato gli abitanti del delta in uno stato di abbandono.
Sotto l’aspetto sanitario il discorso è molto breve: in tutta la regione (15 mila kmq) c’è un solo dispensario, con un solo dottore residente, che si è offerto volontariamente di prendersi cura di questa gente.
Per quanto riguarda l’istruzione, in tutto il territorio ci sono solo due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani si fermano alle elementari, senza la possibilità di completare il ciclo della scuola secondaria, che qui chiamano liceo.
Per di più,  anche l’insegnamento nella scuola elementare non eccelle per serietà e rendimento, per la mancanza di insegnanti professionalmente qualificati. Ed è comprensibile: quale insegnante o professore (e dottore) è disposto a vivere su una palafitta, isolato dal resto del mondo, in piccoli villaggi privi di ogni comodità e in un ambiente totalmente estraneo alla propria cultura?
Il vicariato apostolico di Tucupita ha dato vita a una bella iniziativa, in collaborazione con l’Università pedagogica Libertador (Upel) di Maracay di Caracas: due volte al mese, durante il fine settimana, alcuni professori di questa università vengono a Nabasanuka per svolgere un programma di formazione professionale per insegnanti warao. Nel giro di tre anni essi dovrebbero essere preparati per assumere la responsabilità di tutti i settori della scuola.
Intanto, a partire da ottobre 2006, con l’inizio dell’anno scolastico, anche noi missionari siamo coinvolti nell’insegnamento nelle classi del liceo di Nabasanuka, l’unico in tutto il territorio della missione, dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Ce lo ha chiesto la comunità e abbiamo accettato volentieri. La presenza nella scuola secondaria, oltre all’opportunità di contribuire alla loro preparazione accademica, ci offre l’opportunità di entrare nel mondo dei giovani warao e di accompagnare la loro crescita umana, culturale e religiosa.
Tale formazione sta diventando un problema sempre più preoccupante. Il bombardamento dei canali televisivi riversa sui giovani warao i nuovi modelli di vita dalla globalizzazione, erodendo i loro valori culturali e provocando un senso di inferiorità di fronte alla cultura dominante.
Per noi è un compito in più, che si aggiunge a quello prettamente di evangelizzazione, ma siamo convinti che anche questo contribuisce al processo di autornaffermazione e di sviluppo della popolazione warao. I giovani mostrano molto entusiasmo e voglia di imparare; ma, anche in questo ambito, mancano spesso gli aesi del mestiere: cioè i libri di testo. Per questo anno abbiamo bisogno di 800 testi, e ci stiamo organizzando per raccattarli, sempre confidando nella Provvidenza.

Alla fine del 2006 sono arrivate a Nabasanuka quattro suore della Consolata, completando così il quadro del personale programmato per questa nuova avventura missionaria. Ma siamo in contatto anche con alcuni laici, che un giorno potrebbero venire a condividere la nostra avventura.
Oltre a dare nuovo impulso alle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, continuiamo a sognare nuovi progetti. Uno dei quali riguarda la costruzione di un salone multiuso, per facilitare la formazione degli agenti di pastorale, il cui numero continua ad aumentare, e dare vita a nuove iniziative per accelerare il processo di recupero della cultura della popolazione warao.
Il progetto è ambizioso e costoso; ma abbiamo pazienza. In queste terre del delta, terre di pura acqua, continuiamo a coltivare il sogno di Dio: «Che tutti giungano alla conoscenza della Verità» senza perdere i valori della propria cultura. 

Di Josiah K’okal

Il Delta dell’Orinoco

Il più grande del Venezuela e terzo dell’America del Sud, l’Orinoco è uno dei fiumi più ricchi d’acqua del mondo, con una porta media di 38 mila litri al secondo. Nasce vicino al confine con il Brasile nella parte meridionale del Venezuela e scorre per 2.150 km; attraversata Ciudad Guayana, si dirige verso l’Oceano Atlantico, trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami, canali, lagune, che s’intrecciano tra loro fino a raggiungere, dopo oltre 200 km, l’Oceano Atlantico, con una superficie approssimativa di 22 mila kmq.
Gli ecosistemi terrestri e acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area terrestre è coperta da una fitta foresta tropicale che conta circa 2 mila specie  di piante, poi: ricchezza di uccelli (464 specie), rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410 specie). Una grande quantità di invertebrati.
Le terre del Delta del RÍo Orinoco sono abitate da tempi remoti da una etnia indigena, i warao, che significa «gente di curiara» (canoa). Sono oltre 100 mila. Vivono in villaggi, formati da famiglie unite fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La direzione e il controllo della comunità è affidato al più anziano, chiamato «aldamo».
I warao sono esperti pescatori con varie tecniche e metodi di pesca, la quale costituisce la principale fonte della loro alimentazione. Sono poi cacciatori, esercitando una caccia di sussistenza. L’agricoltura è esercitata in piccole aree (conuchi) e si basa sulla coltivazione dell’«ocumo», una pianta erbacea con tubercoli commestibili, che rappresentano attualmente il «pane» dei warao.

Giuseppe Bono

Josiah K’okal




Miracoli feriali

Presenza delle suore Marcelline nel «Paese delle aquile»

Sono arrivate nel paese quando molti albanesi si davano alla fuga; hanno aiutato famiglie e profughi negli anni di emergenza; e continuano a lavorare a fianco dei più bisognosi: cinque suore Marcelline raccontano le loro storie di amore a fianco di gente dimenticata e senza voce.

Ci sono luoghi nel mondo dove i miracoli hanno nomi, volti e raccontano storie. Storie bellissime, speciali, ma allo stesso tempo semplici, quasi «normali». Perché vissute ogni giorno e rinnovate con l’amore verso il prossimo, soprattutto se questo è indifeso, dimenticato, senza voce.
Saranda, cittadina del sud dell’Albania, è uno di questi luoghi e il miracolo che vi si compie ha il volto di cinque donne, tre italiane e due messicane: tutte appartenenti alla congregazione delle suore Marcelline. Suor Daniela e suor Lucia sono quelle che hanno aperto la strada della nuova missione, nel 1995. Suor Maricruz e suor Betty hanno lasciato Città del Messico qualche anno dopo, mentre suor Anna, giovanissima, è arrivata nel 2005.
Cinque donne e una grande storia da raccontare: quella che le ha portate, passo dopo passo, ad aprire un asilo, un centro medico, una mensa scolastica, un centro di formazione. Ma soprattutto, a guadagnare la fiducia della gente d’Albania, un popolo schivo e all’apparenza duro, dal passato oscuro e dal presente difficile, dove povertà e progresso sono due facce di una stessa medaglia.
Oggi le suore sono conosciute, rispettate e apprezzate da tutta Saranda. Autorità comprese: la loro presenza e il loro parere in consiglio comunale sono sempre ben accetti; la loro esperienza è sinonimo di affidabilità e saggezza.

STORIE DI EMERGENZA

Ma come si è arrivati a tutto questo? Piccoli miracoli di ogni giorno, si diceva. Con il volto e la storia di suor Daniela, che è arrivata in Albania quando tutti, anche gli stessi albanesi, si davano alla fuga. «Nei primi anni  ‘90 vivevamo a Lecce – racconta la suora, milanese di origine -.  Vedevamo passare centinaia di disperati in cerca di nuove speranze».
Erano gli anni delle navi mercantili sulle coste pugliesi, piene di albanesi in fuga dal proprio paese, dopo la caduta del rigido regime comunista. «Allora ci siamo dette – prosegue suor Daniela -: anziché aiutarli dando loro accoglienza, perché non andare nel loro paese e convincerli a rimanere?».
Detto fatto. Così nacque la prima casa delle Marcelline a Valona, appena 60 chilometri di mare da Brindisi. «Eravamo tre suore in una casa molto piccola – continua la suora -, ma da subito abbiamo attivato un piccolo asilo con 20 bambini, e l’aula era la nostra camera da letto». Un ricordo che ancora oggi le fa abbozzare un sorriso, assieme a quello dell’ambulatorio, «posto all’entrata dell’abitazione: un salottino senza finestre».
Ma erano tempi d’emergenza, che si sono poi aggravati nel marzo 1997, all’indomani della crisi finanziaria, che gettò sul lastrico migliaia di famiglie albanesi. In quel momento le suore si erano già trasferite a Saranda, dove la presenza internazionale era pressoché inesistente.
Suor Daniela ricorda il 1997 come un inferno, dal quale, però, non è voluta scappare. «Anche la polizia aveva abbandonato la città; tutti rubavano tutto; i ragazzini giravano in bande con i kalashnikov – racconta la suora -. Noi vivevamo rinchiuse nella nostra casa, ospitando più bambini possibile».
La normalità sarebbe tornata solo molti mesi dopo, ma un’altra emergenza era già alle porte: migliaia di sfollati dalla guerra del Kosovo inondavano l’Albania con le loro angosce. Siamo nel giugno 1999. Le Marcelline si rimboccarono subito le maniche e un altro miracolo si faceva strada, giorno dopo giorno. «Siamo riuscite ad accogliere 1.500 profughi – ricorda suor Daniela -; 600 di loro erano nell’hotel Butrint, che ancora oggi è l’alloggio più famoso della città».
Le suore erano aiutate dall’operazione Arcobaleno, ovvero decine di volontari che scaricavano container pieni di beni di prima necessità raccolti dal governo italiano. Alla fine, le suore ce l’hanno fatta. I kosovari sono poi rientrati nelle loro case e, con l’inizio del secolo xxi, una sorta di normalità ha preso piede in tutto il «paese delle aquile» (o Shiqperia, nome ufficiale dell’Albania; la bandiera nazionale è infatti una grande aquila nera su sfondo rosso).
Govei meno corrotti di un tempo, più relazioni paritarie con l’estero e lo sviluppo di un commercio interno hanno gettato le basi di una fragile, ma decisa democrazia, quella che tuttora vige nel paese.

NELLA GIUNGLA DI CEMENTO

L’Italia è il primo partner dell’Albania per tutto: import-export, aiuti umanitari residui, progetti di sviluppo. L’attività principale è ancora oggi quella che esisteva già ai tempi di Mussolini: la costruzione di strade. Appena fuori dalle città si possono leggere su enormi cartelli le scritte: «Strada realizzata grazie al contributo della Cooperazione italiana».
Così, chilometri e chilometri di asfalto rendono più veloci i collegamenti del paese; ma l’asperità del terreno fa di ogni viaggio una piccola odissea, permettendo, però, una lenta scoperta dell’Albania più profonda, quella dei piccoli paesi collinosi, dediti all’agricoltura e pastorizia, dove il tempo è fermo e lo rimarrà per chissà quanto ancora.
Tale è, per esempio, il paesaggio attraversato dalla strada che dalla capitale Tirana porta a Saranda: solo 120 chilometri, che con un maneggevole pulmino si coprono in «sole» sette ore. Dopo decine di colline, valli mozzafiato e quasi nessuna presenza umana (a parte alcune splendide cittadine come Argirocastro e il suo centro medievale, oggi sede di una grossa università), Saranda ti accoglie con la sua freschezza di città costiera, affacciata sul mar Mediterraneo e sull’isola greca di Corfù, meta migratoria agognata dagli albanesi tanto quanto l’Italia.
Grazie a Corfù e alla Grecia in generale, Saranda sta vivendo negli ultimi cinque anni un boom turistico senza precedenti: i 30 mila abitanti invernali triplicano d’estate. Molti rientri vacanzieri in famiglia di lavoratori albanesi, ma anche una crescente mole di turisti greci, che trovano alloggio in alberghi e appartamenti che spuntano come funghi in tutta la città.
Progresso, ma anche nuovi problemi, a cominciare dallo spazio. Non ditelo alle Marcelline e a Rocco, volontario italiano che da cinque anni vive con loro. Quando le suore sono arrivate nel quartiere, la loro casa era circondata da campi, e si vedeva il mare. Oggi tre dei quattro lati (il quarto dà sulla strada) sono coperti da palazzoni, due dei quali costruiti a metà. 
«Qui non c’è un piano regolatore e tutti costruiscono dove gli pare» dice Rocco, che si occupa dell’educazione di adolescenti albanesi tramite lo sport . «Poco tempo fa abbiamo avuto problemi con uno dei proprietari qui a fianco – continua il ragazzo pugliese – perché voleva che accorciassimo il campo di calcio per farci stare il suo appartamento».
Rocco e le Marcelline hanno dovuto accontentarlo, vista la sua prepotenza e l’assenza di regole. Lo stesso avviene nell’edificio dove le suore hanno adibito la mensa per bambini, che si trova a lato di un albergo che si espande sempre più, nonostante i pochi clienti che lo frequentano.

I SEGRETI DI SUOR LUCIA

Nonostante l’abusivismo edilizio, che sta trasformando e abbruttendo Saranda, la casa delle suore Marcelline rimane ancora oggi un punto di riferimento per tutta la città. Dal 2000, grazie al contributo economico della fondazione Pierfranco e Luisa Mariani, tutta la struttura ha subito un rinnovamento totale, e oggi risplende per ordine e semplicità.
All’interno del recinto in muratura si apre un mondo chiamato «Qendra sociale Santa Marcellina», un centro sociale composto da due grandi edifici, giardino con giochi per bambini, e un piccolo campo di calcio. Qui centinaia di persone si recano ogni giorno, per svariate ragioni.
La giornata al Qendra comincia prestissimo. Non sono ancora le otto, infatti, quando 150 bambini, accompagnati dai genitori, riempiono di colori e schiamazzi il cortile: ha così inizio l’asilo, la principale attività delle suore, aiutate da sei insegnanti albanesi, che ricevono regolare stipendio grazie all’impegno della stessa fondazione Mariani. Grazie all’asilo, le suore vengono a contatto con decine di famiglie in difficili condizioni economiche, che poi cercano di aiutare attraverso la condivisione dei loro problemi.
Suor Lucia è risoluta nel tracciare una profonda analisi della società albanese e non risparmia le critiche: «Violenza familiare, pregiudizi verso le persone con problemi di handicap, assenza quasi totale delle istituzioni, corruzione ancora molto viva: questi i maggiori problemi con cui abbiamo a che fare» enumera la suora, originaria di Tricase, paesino in provincia di Lecce.
Suor Lucia, oltre ad abile cuoca, è anche infermiera; è lei a gestire l’altra grossa attività del Qendra, l’ambulatorio di neurologia pediatrica, dove ogni pomeriggio arrivano le famiglie i cui bambini hanno problemi legati alle terminazioni nervose. «Esaurimenti ed epilessia sono le malattie più frequenti, e si presentano già dai primi anni di vita» spiega la suora.
Nell’area attorno a Saranda almeno 5 mila persone hanno problemi di natura epilettica, dicono gli ultimi studi. Una delle percentuali più alte d’Europa, superiore anche alle zone dove è alta la concentrazione di radiazioni. «A questi problemi se ne aggiungono altri, di natura psicologica, legati a quello che è successo nel 1997» continua suor Lucia.
Nell’ambulatorio, ad accogliere le centinaia di piccoli pazienti, lavorano vari pediatri ed esperti di neurologia; alcuni arrivano direttamente da Tirana almeno una settimana al mese. L’ambulatorio è l’ambito in cui la fondazione Mariani ha dedicato i suoi sforzi maggiori nell’aiuto alle suore. Per un semplice motivo: lo scopo principale della Mariani, da oltre 20 anni, è il sostegno a chi si dedica alla neurologia infantile, in Italia e nel mondo.
Quello delle Marcelline è l’unico centro medico specializzato del sud dell’Albania, anche perché l’ospedale cittadino è fatiscente e poco attrezzato, a cominciare dai medicinali.
Suor Lucia questo lo sa bene. Ciò che pochi sanno è che la religiosa ha il suo segreto-miracolo: una stanzetta, chiusa ermeticamente, adibita a dispensario medicinale. Centinaia di medicine diverse, di vario tipo, non solo neurologico, arrivate da varie donazioni italiane ed inteazionali. «Questo piccolo tesoro è vitale per molti albanesi – confessa la suora – anche perché molti di loro non si fidano a comprare medicinali fabbricati nel proprio paese».
La ragione? «A volte quello che c’è scritto sulla confezione non corrisponde alla realtà – spiega suor Lucia -. Le farmacie, forse approfittandosene un po’ troppo, consigliano alla gente di comprare quelle inteazionali, che però costano dieci volte tanto». Molte famiglie non ce la fanno, per questo la suora ha il suo «forziere», al quale attinge con molta cautela.

IL COMPUTER DI MARICRUZ

Anche suor Anna e le due suore messicane sono infermiere e sono un valido aiuto a suor Lucia. Ma oltre all’asilo e all’ambulatorio, le Marcelline a Saranda si occupano di formazione e promozione umana: corsi di artigianato, tessitura, turismo e informatica riempiono i pomeriggi al Qendra. Suor Maricruz è la responsabile e, da come si muove sul computer, si può dedurre la sua abilità d’insegnamento informatico. «Cerchiamo di dare ai giovani strumenti per trovare lavoro» dice la suora.
I risultati dei primi anni di corsi fanno ben sperare. Ad esempio, grazie al corso di operatore turistico, la 25enne Emirjeta Roboci lavora oggi come guida alle vicine rovine romane di Butrinto. La ragazza ha inoltre avviato la prima esperienza di turismo responsabile nella zona, ricevendo alcuni turisti italiani e portandoli nei luoghi che il turismo tradizionale non contempla.
Tra questi vi è il piccolo villaggio di Shendelli, situato in un lembo di terra vergine, tra due enormi laghi naturali, una visuale a 360 gradi, dalla quale si vedono le case di Corfù.
La particolarità di Shendelli, però, è nella sua gente: almeno cento famiglie rom, originarie del nord dell’Albania, arrivate in queste terre nel 1996.  Vittime di pregiudizi da parte dei locali, queste persone hanno vissuto per anni in baracche, fino a quando le suore Marcelline, tramite aiuti inteazionali, hanno dato loro quella dignità che era negata.
Ora, con case in muratura, piccole attività commerciali legate all’agricoltura e all’artigianato, riescono a vivere senza patire la fame. «Ma ora bisogna insegnare ai loro bambini a leggere e a scrivere», dice suor Daniela. Un altro piccolo miracolo da compiere. Un’altra bella storia da raccontare, un giorno non lontano.  

Di Daniele Biella

Daniele Biella