L’invasione dei SUV

Una moda devastante e diseducativa

Chi inquina, paga. Chi più inquina, più paga. Regole sacrosante, ma mai rispettate. A volte, neppure proposte, perché contrarie al libero mercato… L’esempio dei «nuovi mostri» che hanno invaso le nostre città.

Dicembre 2007, «Dossier motori» de La Stampa: pagina 4 pubblicità SUV Honda; pagina 6 descrizione di un nuovo SUV Hummer; pagina 7 pubblicità SUV Citroën; pagina 21 pubblicità SUV Nissan; pagina 23 pubblicità SUV Suzuki; pagina 27 pubblicità SUV Jeep; pagina 33 pubblicità SUV Land Rover; pagina 47 descrizione del nuovo SUV Iveco.
Se un inserto di 52 pagine ne dedica così tante ai SUV, significa che siamo dinanzi ad un fenomeno rilevante, come d’altra parte dimostrano i dati delle vendite, da anni in continuo aumento. I SUV – letteralmente Sport Utility Vehicles  – sono automobili pesanti, spesso con finiture di pregio, con una linea e,  a volte, anche con un nome ed una immagine commerciale, che trasmettono l’idea di un atteggiamento minaccioso ed arrogante nei confronti delle altre vetture (ma – volendo dar credito alle asillanti pubblicità – rispettoso dell’ambiente e della natura!). Alcuni hanno paraurti alti, sporgenti e rinforzati, definiti bull bars (barre anti-bufali), che possono essere causa di gravi danni in caso di incidenti con altre vetture, ciclisti, pedoni.
Si direbbe che il guidatore di questi veicoli voglia presentarsi come un dominatore della strada, muscoloso, potente e, allo stesso tempo, elegante. Ha scritto il prof. Giampaolo Fabris: «Il SUV è un fuoristrada di lusso che consente all’automobilista di sentirsi padrone dell’asfalto. Di fare veramente tutto quello che vuole. Si può guidare comodamente in città, parcheggiare sui marciapiedi e, almeno con la fantasia, attraversare il deserto. Chi guida si sente protetto da una vettura considerata sicura, avvolto in un grande scudo protettivo. (…) L’impressione è di un maggior dominio sulla strada e nei confronti con gli altri automobilisti. Che si guardano letteralmente dall’alto in basso».
In realtà, un SUV è un veicolo che fa fatica a fare manovre banali, che si muove impacciato nelle vie strette, che non rispetta le precedenze e che, per parcheggiare, spesso sale sui marciapiedi.

Per quale motivo una persona che vive in città e non deve affrontare percorsi in savane o praterie, dovrebbe viaggiare su un veicolo con caratteristiche da fuoristrada di lusso? Per decenza, lasciamo perdere l’amore per la natura, anche se qualcuno (editoriale di Auto&fuoristrada, settembre 2006) tenta di metterla in poesia: «Siamo dei privilegiati: per noi è più facile mettere le ruote fuori dall’asfalto, con la gratificante sensazione di lasciarci alle spalle traffico, rumori, pensieri». Per semplicità, lasciamo perdere pure le ragioni di tipo socio-antropologico, anche perché, stando a quanto scrive un editoriale de La mia auto 4×4 (agosto 2007), «Ma chi sono i nuovi acquirenti di 4×4? Un po’ tutti».
La risposta più frequente (quella che, in teoria, consentirebbe di giustificare eticamente il possesso di un SUV) riguarda la volontà di viaggiare in sicurezza con la famiglia. Questi veicoli sono proprio così sicuri? Il Centro prove di Quattroruote, la fonte settoriale più autorevole d’ Italia, ha fatto dei test e, per quanto riguarda la tenuta di strada e la frenata, è giunto alla conclusione che il miglior SUV non riesce neanche ad eguagliare le prestazioni della peggiore berlina.
Il collaudatore di Quattroruote ha riferito che il comportamento di questi pesanti veicoli, che hanno un baricentro alto e pneumatici con fianchi alti e cedevoli, è spesso imprevedibile e non sempre facilmente controllabile dal conducente, soprattutto su fondo bagnato. Ne deriva che manovre improvvise, come quella di cercare di evitare un ostacolo imprevisto, possono portare anche al ribaltamento del veicolo. I ribaltamenti possono avvenire anche in caso di uscite di strada e di collisioni con ostacoli fissi, ad esempio i marciapiedi. Il ribaltamento è un tipo di incidente particolarmente pericoloso perché si associa spesso a gravi traumi della testa.
Oltre a non essere sicuri per gli occupanti, i SUV sono particolarmente pericolosi per gli altri utenti della strada, che non viaggiano su veicoli più pesanti: ad esempio, secondo Quattroruote, il guidatore di una berlina, che viene urtata lateralmente, ha una probabilità di perdere la vita 30 volte superiore se a urtarlo è un fuoristrada o un SUV. Bergamo, 26 dicembre 2007: «Tre persone, padre, madre e la loro figlia di 10 anni sono morte in un incidente stradale accaduto a Grumello del Monte (Bergamo). La loro auto, una Fiat Punto, è stata investita da un SUV Grand Cherokee guidato da un conducente ubriaco (italiano, ndr). Illeso il conducente del fuoristrada». Napoli, 1 gennaio 2008: «Stavano litigando sulla tangenziale di Napoli per un banale incidente, quando un SUV Bmw X5 è sopraggiunto e ha investito le auto ferme sulla strada. Il bilancio è drammatico: tre morti».

Premesso che ognuno è libero di comprare la vettura che più gli piace (mai vorremmo venire accusati di essere contro il «libero mercato», icona intangibile dei nostri giorni), viene da chiedersi cosa possiamo pensare di un guidatore cittadino o autostradale che ha un veicolo che pesa, consuma (una Porsche Cayenne fa in città 4,4 chilometri con un litro di benzina, secondo i dati ottimistici del costruttore) (1)  e inquina il doppio di una normale vettura, confortevole, veloce, che ha meno probabilità di ribaltarsi e che tiene la strada e frena in condizioni di maggiore sicurezza.
Dipenderà dal fatto di guidare un’auto con i paraurti contro i bufali oppure di poter comprare (a 15.900 euro, sottocosto) un SUV cinese all’ipermercato (Corriere della sera, 19 e 24 dicembre 2007). Oppure, come si  legge su www.suv.it, dipenderà dai sentimenti: «A cosa serve la Cayenne? A far invidia a chi è invidioso!».
Come scrive il già citato editoriale de La mia auto 4×4, «il mondo si muove sempre più in fretta». È vero. Peccato che si muova verso la follia più distruttiva (ed autodistruttiva).

di Roberto Topino e Paolo Moiola

(1) Una Volkswagen Touareg fa 4,4 chilometri con un litro; una Nissan Patrol 6,9 eccetera. I consumi ufficiali (già molto elevati) sono però ben distanti dalla realtà. Un’inchiesta del dicembre 2007 ha dimostrato che le case automobilistiche dichiarano consumi falsi, inferiori fino al 50% a quelli effettivi. Così facendo anche le norme relative alle categorie d’appartenenza (Euro 3, Euro 4, ecc.)  perdono gran parte del loro significato.

Roberto Topino e Paolo Moiola




Orizzonti accorciati

Un paese in bilico tra passato e futuro

Conciliare la modeità con la fedeltà alle radici islamiche: è questa la sfida dell’Algeria, disattesa dalla classe dirigente e funestata da rigurgiti di violenza di frange estremiste. In bilico tra le spinte al cambiamento e i segni di ritorno al passato, gli algerini si preparano alle elezioni del 2009 e si capirà quale direzione imboccherà il paese.

«L’Algeria deve dare l’esempio di un progetto di società, dove autenticità e modeità possano coniugarsi. Deve imparare a vivere in modo moderno, a iscriversi nel xx secolo, pur restando fedele ai suoi riferimenti e valori. Perché non è questione di dimenticare: non c’è futuro senza memoria. È questione di costruire un progetto di società e mi dispiace che questo sia insufficiente o addirittura assente nel mio paese».
Mustapha Cherif, intellettuale algerino, esperto di relazioni inteazionali e dialogo fra le culture e le religioni non è tenero con il suo paese. Anche se l’esperienza di ex ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica e di ambasciatore l’ha reso avvezzo a misurare scrupolosamente le parole. Soprattutto quando si tratta di questioni politiche. E, tuttavia, non si sottrae dallo stigmatizzare alcuni nodi cruciali della complessa e talvolta drammatica attualità algerina. Un paese in bilico tra passato e futuro, tra desiderio di apertura e «modeità» e spinte retrograde e oscurantiste. Un paese che deve ancora fare i conti con una storia di lotte e violenze e che continua a essere ferito da sanguinosi attentati, che colpiscono indiscriminatamente i simboli delle istituzioni e la gente comune. L’ultimo, quello dello scorso 11 dicembre, ha ferito al cuore la capitale, uccidendo 62 persone (tra cui tre stranieri). Due gli obiettivi: un simbolo del potere algerino, la sede del Consiglio costituzionale sulle alture di Ben Aknoun, e uno degli emblemi della presenza occidentale, la palazzina dell’Onu, a Hydra, nel quartiere dei ministeri e ambasciate, dove è presente l’Alto commissariato per i rifugiati (Acnur) e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp).
Non è che l’ultimo di una serie di attentati rivendicati dal Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento (Gspc), che dalla fine del 2006 si proclama braccio di Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e che si pretende impegnato a liberare la regione da tutti gli infedeli, mirando sempre più in alto.
Solo nel 2007 si è reso protagonista di una serie impressionante di operazioni terroristiche. Tra le più clamorose, il duplice attentato ad Algeri, l’11 aprile, che ha provocato almeno 30 morti e più di 200 feriti e che ha preso di mira il Palazzo del governo in pieno centro città e un commissariato alla periferia est della capitale. E poi, il 6 settembre a Batna, nell’est del paese, dove sono morte 22 persone e più di 100 sono rimaste ferite in un attentato-suicida contro il corteo del presidente Abdelaziz Bouteflika, vero obiettivo di un attacco, rivolto direttamente contro la più alta carica dello stato.
Uno stato che fa sempre più fatica a gestire non solo questo rigurgito di terrorismo islamico, ma che non ha ancora fatto pienamente i conti con il suo passato: prima la guerra di liberazione contro i colonizzatori francesi, una delle più lunghe e cruente, con una stima di oltre un milione e mezzo di morti algerini, quei mujahiddin (combattenti), che ancora oggi sono celebrati come eroi nazionali; e poi il decennio funesto del terrorismo, quegli anni Novanta, segnati da una follia sanguinaria impregnata di estremismo islamico, che ha spazzato via più di 200 mila vite umane.
E oggi, un presente in bilico tra pressioni e spinte spesso opposte e contraddittorie. «L’avvenire dei paesi arabi e musulmani – continua il professor Cherif – si gioca sulla definizione di un progetto di società adatto ai nostri tempi. Anche in Algeria. Noi siamo vicini all’Europa e all’Occidente, e allo stesso tempo gelosi delle nostre radici. È qui che questa congiunzione e questo rapporto devono realizzarsi. La maggioranza del popolo algerino desidera il progresso, ha sete di giustizia sociale e di sviluppo e, contemporaneamente, è fiera di essere musulmana. È questa combinazione che dobbiamo costruire e non possiamo permettere agli estremisti, di qualsiasi tipo, di impedirci di realizzarla, perché separarci dalle nostre radici da un lato, o dal resto del mondo dall’altro, sarebbe come finire in un’impasse senza vie d’uscita».

E ppure, quella che si presenta come una sfida ineludibile per l’Algeria, sembra oggi disattesa da più parti. A cominciare dai vertici dello stato, dove è in corso una lotta acerrima per il potere. All’orizzonte, le elezioni presidenziali del 2009, cruciali per il futuro del paese. Lo sa bene il presidente Abdelaziz Bouteflika, al termine del suo secondo e, teoricamente, ultimo mandato, ma che, nonostante la grave malattia che lo minaccia da tempo, non intende rinunciare a brigare per un terzo incarico. Anche se questo significa necessariamente un cambiamento della Costituzione.
Del resto, la posta in gioco è enorme e riguarda innanzitutto la gestione di milioni di barili di petrolio, il cui prezzo è impennato sino a sfiorare i 100 dollari l’uno. Una manna a cui nessuno vuole rinunciare e che rappresenta un altro dei paradossi dell’Algeria, paese potenzialmente ricchissimo, con una popolazione che vive in miseria o quasi.
Ma la classe dirigente – generali dell’esercito compresi – impegnata a garantire la propria sopravvivenza, non sembra in alcun modo intenzionata a promuovere cambiamenti e riforme. È vero che, negli ultimi anni, nel paese si sono moltiplicati i cantieri: strade, autostrade, ferrovie, dighe, la metropolitana di Algeri… Ma i lavori proseguono a rilento e, come per tutto, un sistema di corruzione e cattiva gestione ne ipoteca sin dall’origine i risultati. Recentemente ha fatto molto discutere e ha suscitato un mare di polemiche il progetto di una nuova immensa moschea ad Algeri – la terza per grandezza dopo quella della Mecca e di Medina – che costerà la bellezza di 3 miliardi di dollari. Uno spreco inconcepibile agli occhi di molti che faticano letteralmente a sopravvivere.

L a situazione economica e sociale, del resto, è alquanto precaria. Con un tasso di disoccupazione che tra i giovani supera il 50%, la mancanza cronica di alloggi, una burocrazia ammorbante e un costo della vita proibitivo, le prospettive di futuro, soprattutto per i giovani, sono praticamente bloccate. Non per nulla molti tentano in tutti i modi di andarsene. Li chiamano harraga, questi disperati che su barche di fortuna, cercano di attraversare il Mediterraneo, spesso senza riuscirci. Nel 2006, la guardia costiera ha intercettato e rispedito indietro 4.500 giovani algerini. Ma quanti altri siano morti in mare nessuno è in grado di dirlo.
«Non c’è lavoro, non ci sono alloggi, non c’è speranza che le cose cambino. Per questo i giovani se ne vanno!», denuncia con forza Baya Gacemi, giornalista e scrittrice. Uno dei suoi libri, Nadia, tragica storia della moglie di un emiro del Gruppo islamico armato (Gia), è stato tradotto e distribuito in Italia da Sperling & Kupfer. Il suo giudizio sulla situazione politica algerina è decisamente tranchant. «Abbiamo un potere politico falso e non democratico, persone senza competenza e credibilità, che impongono alla gente di tacere, che cercano di escludere la società civile da tutte le dimensioni della vita politica, economica e sociale. Per questo molti si scoraggiano e lasciano perdere e molti altri se ne vanno. Anche gente istruita e professionalmente preparata: circa 450 mila quadri hanno lasciato l’Algeria. E molti altri sono pronti a partire, perché vedono il loro orizzonte qui completamente chiuso. In questo modo, però, perdiamo tutta la parte più dinamica della società».
Secondo la Gacemi, la politica è un affare di «parassiti e corrotti. Per questo la gente se ne sta sempre più alla larga». Lo dimostrano anche le ultime elezioni amministrative dello scorso 29 novembre: ufficialmente si è recato alle ue il 44,09% degli aventi diritto; ma molti sostengono che la percentuale fosse ancora più bassa. Come del resto era successo per le legislative del maggio 2007 e per il referendum del novembre 2006.
«Questo potere ha scavato un fossato tra politica e società – sostiene la giornalista -. La gente si sente esclusa dalle decisioni di un governo che si impone con la forza. Il solo modo per far fronte alle difficoltà che vive questo paese e per evitare un ritorno alla violenza è scegliere la democrazia. E coinvolgere la società civile nelle decisioni politiche».

N on sono molte, tuttavia, le associazioni che riescono effettivamente a far sentire la propria voce o che sono realmente ascoltate. Molte sono quelle che si occupano dei diritti e promozione della donna, in un contesto islamico che, dopo una parziale apertura alla fine degli anni del terrorismo, sta richiudendosi di nuovo su se stesso. E anche in una città mediterranea e vivace come Algeri, il numero dei veli che sono ricomparsi sulle teste delle donne continua ad aumentare in maniera percettibile.
È solo un segno, tra i molti, che dicono della paura o incapacità di accettare un reale pluralismo e una differenza all’interno di una società che, specialmente nelle grandi città, sta progressivamente perdendo i riferimenti tradizionali, affascinata, ma anche spaventata, da modelli occidentali carichi di miraggi e contraddizioni.
E così anche la presenza, numericamente insignificante, di pochi cristiani, quasi tutti stranieri, provoca le reazioni spesso spropositate del potere che, in più occasioni, durante il 2007, ha tentato di espellere religiosi e laici presenti nelle quattro diocesi del paese. O che rende quanto mai problematico l’ottenimento di visti per i nuovi arrivi.
«La nostra presenza qui – commenta mons. Henri Teissier, arcivescovo di Algeri – si situa all’interno di una società, che è attraversata da difficoltà evidenti, ma dove continuano a esistere possibilità di incontro e collaborazione. Grazie soprattutto alle molte persone che cercano di superare certe chiusure per favorire una possibilità di conoscenza e arricchimento reciproco».
«La nostra chiesa – gli fa eco mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaïa, l’immensa diocesi del Sahara – condivide con il popolo algerino un’esperienza di vicinanza, solidarietà e fedeltà e, nello stesso tempo, introduce all’interno di questa società un elemento di “differenza”, che aiuta i nostri amici algerini a sentirsi, loro stessi, più aperti. Più capaci, vorremmo sperare, di vivere la loro stessa appartenenza all’islam in maniera più libera e “plurale”. Un islam che non può essere solo quello intollerante predicato da frange di estremisti o quello “socialista” imposto dal potere».
I prossimi mesi di avvicinamento alle elezioni presidenziali del 2009 saranno decisivi per comprendere in quale direzione vorrà incamminarsi questo turbolento paese che è l’Algeria. 

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Volontari «governativi»

Dal quartier generale del Peace corps (corpi di pace)

Prestano servizio in 67 paesi del mondo.  Sono giovani (e meno giovani) cittadini statunitensi. Sottoposti a regole ferree di comportamento e sicurezza. Li finanzia il governo americano, per promuovere l’immagine «buona» dello «Zio Sam». O anche qualcosa di più.

Manhattan, New York city, quartiere generale del Peace corps, letteralmente «corpi di pace». Le misure di sicurezza per entrare nell’edificio sono rigidissime. Mi accorgo subito che sto per entrare in un palazzo dove hanno sede gli uffici federali più svariati, la polizia sorveglia tutte le entrate e per i visitors, come me, il controllo è ancora più severo.
Finalmente mi fanno accedere all’ufficio del Peace corps. Ad accogliermi un’enorme bandiera americana e la faccia ben immortalata del presidente Bush. Mi presento, spiego che credo nei valori della pace e della democrazia e dico che voglio prestare servizio all’estero come volontaria. Mi chiedono se sono cittadina americana e non appena rispondo no, l’interesse della persona con cui stavo parlando svanisce.
Solo i cittadini americani possono partecipare. L’unica eccezione è se hai già presentato domanda per la cittadinanza e se sei in attesa di ricevere la green card (documento che permette di lavorare negli Usa, ndr). Mi offrono depliant e materiale informativo in abbondanza. L’organizzazione deve investire molto nella promozione del programma a vedere dagli opuscoli che producono. Slogan attraenti come «Ti sei mai chiesto cosa c’è dopo?» , «Un viaggio di speranza» o «La vita sta chiamando. Quanto lontano andrai?» ricoprono i muri e riempiono le pagine degli opuscoli. Continuo a chiedermi, (la stessa domanda la pongo all’impiegato che ho di fronte), perché se i Peace corps promuovono valori quali la pace e lo sviluppo, non può ammettere tutti coloro che vogliono contribuire a questa missione? Perché un movimento dallo scopo universale deve avere delle barriere nazionali nella propria struttura?

Voluti da J.F. Kennedy

Bisogna risalire la storia di 45 anni: è il 1 marzo del 1961 quando un ordine esecutivo istituì il Peace corps come agenzia federale indipendente degli Stati Uniti d’America. L’atto di fondazione fu approvato dal Congresso il 22 settembre 1961 con il «Peace Corps Act» che dichiarò la missione dell’ente.
Il Peace corps promuove la pace e le relazioni amichevoli tra gli stati mettendo al servizio di paesi e aree interessate uomini e donne degli Stati Uniti d’America. Persone qualificate e desiderose di prestare servizio, anche in condizioni di vita difficili, al fine di aiutare i popoli di tali paesi a soddisfare i loro bisogni e a crescere.
A monte dell’istituzione del movimento sono gli anni ‘50, il secondo dopo guerra e il delinearsi del bipolarismo. Vari senatori americani già in quel periodo avevano proposto la formazione di un esercito di giovani americani «missionari della democrazia». Alcuni tentativi portarono alla luce organizzazioni private non religiose che iniziarono a mandare volontari nei paesi in via di sviluppo.  Ma solo nel 1959 l’idea di creare un programma nazionale divenne realistica e soprattutto trovò l’appoggio di John F. Kennedy il quale fece stanziare dei fondi e coinvolse rinomati accademici per studiae la fattibilità e delineae gli obbiettivi. Nixon si oppose apertamente così come altri, che dubitarono dell’adeguatezza di far intervenire in contesti così rischiosi giovani collegiali, impreparati e spesso mossi solo dalla curiosità dell’esotico e ricerca dell’avventura.
Secondo Kennedy invece, il movimento dei Peace corps sarebbe servito a promuovere l’immagine positiva degli Stati Uniti nel «Terzo Mondo», così come veniva definito all’epoca l’insieme disomogeneo dei paesi in via di sviluppo. Gli americani non dovevano solo essere visti come i cattivi o come gli yankee imperialisti, in particolare nelle neonate nazioni dell’Africa o dell’Asia post coloniale.
La macchina organizzativa iniziò rapidamente a crescere, le selezioni avvenivano su tutto il continente americano e prevedevano un test attitudinale e uno linguistico (da capire quali lingue straniere potevano essere richieste considerando la varietà dei contesti geografici in cui i volontari avrebbero prestato servizio). In due anni dalla sua fondazione il movimento aveva raggiunto 7.300 volontari che servivano in 44 paesi. Nel 1966 il numero toccò i 15.000 volontari, il più elevato nella storia dei Peace corps. Con un pizzico di malizia viene da pensare che forse non è una coincidenza che tra il 1952 e il 1966, con lo sviluppo decisivo del movimento di decolonizzazione, la maggior parte dei paesi nel Sud del mondo raggiunse l’indipendenza e si delineò un nuovo assetto delle relazioni inteazionali.

propaganda o facciata?

Mentre il movimento cresceva si prefiguravano nuove prospettive di intervento. Se all’inizio i progetti si focalizzavano unicamente sul settore educativo e quello agricolo, a partire dagli anni ‘80, sotto la presidenza di Reagan, vennero sviluppati interventi nell’ambito della creazione di attività produttrici di reddito e del microcredito.
La composizione del movimento e dei suoi volontari sembra abbia sempre riflettuto l’evoluzione del contesto socio politico interno degli Stati Uniti e abbia subìto gli effetti dei tagli o degli aumenti di bilancio voluti dalla maggioranza in carica. Negli anni ‘80 ad esempio, i fondi furono drasticamente ridotti e il numero dei volontari scese a 5.000. Dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, invece, l’amministrazione Bush pensò fosse importante aumentare la presenza dei Peace corps per contrastare il sentimento antiamericano emergente in molte aree del pianeta. Rientra nella lotta al terrorismo proclamata dai conservatori l’approvazione per il 2004 di un bilancio di 325 milioni di dollari per sostenere il movimento e l’obiettivo di duplicare in 5 anni la dimensione dell’organizzazione.
«La reputazione americana non è mai stata così minacciata come in questo periodo – dichiara il politologo Joseph Kennedy – e la necessità dei Peace corps non è mai stata così urgente. Occorre mostrare al mondo la faccia migliore degli Stati Uniti d’America, la generosità della nostra nazione».
Risulta quindi importante agli occhi della direzione del movimento rinnovare l’immagine esportata in modo da riflettere al meglio lo spaccato buono della società americana.
Nel 2002  Gaddi Vasquez è il primo ispano-americano nominato direttore dell’agenzia. Il suo principale obbiettivo diventa quello di reclutare volontari che rappresentino tutti i gruppi etnici del melting pot americano. Campagne specifiche sono indirizzate a gruppi minoritari della società, quali afro-americani, latini, per arrivare anche ai nativi dell’Alaska e agli indiani della first nation. Si vuole cercare di coinvolgere le varie fasce d’età della popolazione e per questo vengono adottate misure per incentivare gli over 50 a servire nel corpo di pace.  Questi hanno una più lunga esperienza e maturità da mettere al servizio e possono contribuire in modo unico alla missione dei Peace corps. Circa il 5% dei volontari nel 2006 aveva più di 50 anni.
Nel 2007 quasi 8.000 volontari americani hanno prestato servizio in 73 paesi del mondo. L’età media è di 27 anni, il 59% dei partecipanti è di genere femminile e solo il 7% è sposato. Si può dire che la forza dei Peace corps è qualificata, con il 97% di membri laureati. Il bilancio del 2006 si chiude con 318 milioni di dollari.

Cosa offre in cambio

Viene spontaneo chiedersi cosa offra il Corpo di pace in cambio di 27 mesi vissuti lontani da casa in condizioni disagiate? Perché un giovane o un anziano americano dovrebbero essere incentivati a prendee parte? I vantaggi che l’organizzazione è in grado di offrire sono molti e spesso servono da incentivo per convincere classi della società emarginate a prendere servizio. Forse tali gruppi vedono il Peace corps non tanto come la possibilità per aiutare i bisognosi, ma piuttosto come l’opportunità per riscattarsi socialmente e per avere determinati benefit.
I volontari sicuramente possono rivendere sul mercato del lavoro l’esperienza che fanno all’estero, per cui il primo beneficio è in termini di formazione e di sviluppo di determinate competenze. I volontari rientrati ricevono assistenza per l’inserimento lavorativo e soprattutto hanno vantaggi diretti nell’assunzione federale. Possono infatti essere assunti dagli svariati uffici federali senza seguire l’iter di selezione ma su base discrezionale dell’agenzia che li assume. I volontari che hanno prestato servizio al loro rientro  ricevono una copertura sanitaria, che copre addirittura le spese dentistiche, per 18 mesi (è bene ricordare che l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti è totalmente privata). Inoltre possono beneficiare di speciali programmi di studio post universitario con agevolazioni a livello di tasse scolastiche e di iscrizione.
Infine, per meglio reintegrarsi al rientro a casa,  si riceve un fondo perduto di 6.000 dollari quale forma di supporto alla transizione.
Non stupisce a questo punto vedere alcune statistiche sui giovani che hanno prestato servizio nel Peace corps e notare come molti di loro abbiano proseguito la loro carriera in ministeri, uffici federali, Università o addirittura all’interno della stessa struttura sul territorio Usa.

Un’esperienza

Tory ha 27 anni e ne ha trascorsi più di due  in Kenya al servizio del Peace corps. I suoi genitori negli anni Ottanta avevano fatto domanda per entrare nel movimento ed erano stati accettati ma poi decisero di non partire. Lei è cresciuta in parte con il loro rimpianto e ha deciso di completare il percorso. Ci spiega come il programma negli Usa sia conosciuto da tutti e che rappresenti un sogno per molti. Le prime fasi della sua selezione sono avvenute nel campus universitario. Tory ha studiato psicologia e letteratura inglese.
Dopo la selezione è accettata e parte per Nairobi dove trascorre 10 settimane in cui riceve formazione riguardo il paese, le misure di sicurezza, nozioni di sopravvivenza, igiene e sanità. Una parte del training si concentra sull’apprendimento della lingua locale. Dopo questa prima fase viene assegnata ad un villaggio del paese dove vivrà per due anni insegnando inglese nella scuola locale e organizzando corsi di formazione per gli insegnanti sulla diffusione dell’Hiv. Ogni 4 mesi torna in capitale per una riunione con tutti i volontari e con i quadri locali dell’organizzazione.
I Peace corps sono inoltre tenuti a compilare rapporti dettagliati sul loro servizio e fornire informazioni sull’area in cui sono dislocati.  Le chiedo cosa pensa delle accuse che vengono mosse ai volontari di essere spie americane, pedine non consapevoli di un più ampio progetto di impronta neo-colonialista. Mi risponde solo che per lei l’esperienza è stata unica e meravigliosa. Non può immaginare di essere stata una spia del suo governo. Oggi lavora in Tanzania per una fondazione che finanzia progetti in ambito sanitario. Gran parte di quello che fa si basa sulla sua precedente esperienza in Kenya.

L’impatto che non c’è

Non è facile tracciare un bilancio conclusivo su un argomento così ampio e dibattuto quale quello del Peace corps. Chiunque abbia lavorato in un paese in via di sviluppo ha avuto modo di conoscere qualche rappresentante del movimento, di vederli ubriacarsi in capitale o affrontare lunghi tragitti nella savana in bici dotati di caschetto di protezione. Di alcuni non era facile cogliere lo scopo del loro intervento, altri invece erano preparati e professionali.
Le campagne di selezione in America così come la storia del movimento sembrano chiarire che al primo posto della missione dei Peace corps non vi è la promozione della pace o dello sviluppo ma piuttosto l’esportazione di un’immagine positiva degli Stati Uniti d’America, la faccia buona di una nazione che altrove condanna alla guerra e alla privazione di diritti fondamentali.
Tuttavia sembra legittimo quanto meno dubitare dell’impatto dell’azione dei Peace corps in termini di sviluppo e di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali. Non si tratta infatti di un approccio co-partecipato allo sviluppo, e neppure di progetti strutturati e sostenibili, ma della dislocazione capillare sul territorio di donne e uomini americani inquadrati da una sovrastruttura governativa che cura soprattutto i propri interessi politici. 

Di Ermina Martini

Voci dal campo

Quei giovani dal viso arrossato

Li ho visti impiegati in più settori: educazione, salute, promozione dei giovani, ecc… direi che in nessun caso hanno compiti operativi diretti: per esempio, quelli assegnati a un dispensario sono incaricati solo della sensibilizzazione (niente cure).
Tutto si riassume a due categorie: ci sono ragazzi che sanno fare qualcosa e ragazzi che non sanno fare niente.
I primi sono impiegati in modo efficace nei settori in cui c’è più bisogno: penso soprattutto a quelli assegnati a dei licei pubblici come insegnanti di inglese, chimica, fisica… Materie in cui il personale locale scarseggia e in cui la prestazione di un laureato americano si rivela molto utile. O penso anche al volontario che in Mali ha lanciato l’idea delle banche culturali (operazione volta a conservare e diffondere la cultura africana).
Quelli che non sanno fare niente: si ritrovano ad avere compiti di animazione e sensibilizzazione presso qualche dispensario, centro per giovani, ecc… Il risultato del loro lavoro è tutt’altro che scontato. Se una ragazza americana che non ha mai visto un verme e non sa dov’è la Guinea deve andare in giro a parlare del «verme di Guinea», è probabile che il risultato non sia un successone. Di sicuro l’operazione richiederà anche una mobilitazione abbastanza importante di altre persone in appoggio.
Poi c’è chi semplicemente non sa fare niente e non fa niente. In questi casi i danni sono limitati.

Mi sembra che questo illustri bene il principio del Peace corps. Ovvero poco importa che il volontario abbia qualcosa da apportare, da dire o da fare: il principio che anima l’istituzione è che questa permette di formare generazioni di giovani americani che attraverso l’esperienza in un paese povero rientrano più sensibili, informati, aperti. Il Peace corps serve al «terzo mondo» molto meno di quanto questo serva al Peace corps e, attraverso di lui, agli Stati Uniti. Credo che questo fosse uno degli obiettivi di John F. Kennedy, padre dell’istituzione.
Ma penso anche che questo rifletta tuttora un’idea che gli Usa hanno del resto del mondo: questo esiste in funzione di quanto può apportare all’America. I paesi poveri servono a far fare un’esperienza umana a dei giovani, di cui approfitteranno solo gli americani.
Il lato B di questo paradigma è che il semplice fatto di essere americani è una fonte di legittimazione della propria presenza. Soprattutto in un paese povero: io americano, per quanto ignorante, avrò sempre qualcosa da portare a te, africano magari multi laureato.
 
Alcuni dati confermano questa mia ipotesi:
1. Non esiste selezione: se di buona costituzione fisica, qualunque americano dai 18 anni in su è accettato.
2. I Peace corps godono di un forte riconoscimento sociale quando rientrano: facilitati sul lavoro e nell’ottenimento di borse per l’università. Molti ex fanno carriera in istituzioni inteazionali…
Fino a qui comunque stiamo parlando di un servizio globalmente innoquo. E al limite riuscito rispetto al primo obiettivo esposto sopra: è vero infatti che le condizioni molto rudi in cui vivono e lavorano i volontari permettono una grande prossimità alla popolazione e una conoscenza del contesto invidiabile. Per esempio parlano tutti le lingue locali, e questo fa loro onore.

Veniamo al sospetto che pesa sull’istituzione: che sia un’agenzia di informazione per il governo americano. Possibile, ma non direi che sia davvero un’agenzia.
La mia opinione è che l’istituzione dei Peace corps non sia in origine un’agenzia, ma che sia stato e sia tuttora molto semplice per la Cia usarla come copertura per un buon numero di suoi agenti.
Insomma il Peace corps non è una spia, ma una spia può facilmente essere mandata in un paese come Peace corps.
Dopo di ché, credo che i rapporti d’attività che loro inviano siano tutti registrati in qualche servizio di informazioni. Ma è difficile che il ragazzo che passa un anno sperduto nell’Africa profonda a fare poco o niente abbia delle informazioni interessanti per Washington. Immagino che con le tecnologie attuali gli Usa ne sappiano di più da un satellite che da un volontario.

Di sicuro i Peace corps non sono tutti spie, ma questo è evidente. Molto probabilmente alcuni di loro sono agenti che si passano per volontari. Difficile sapere il livello di connivenza tra la Cia e la direzione. Teniamo presente che i Peace corps dipendono dal Ministero dell’interno e non da quello degli esteri.
Il fatto che siano tenuti a rispettare delle procedure di comunicazione in codice e delle procedure di sicurezza quasi militare, non significa granché, si pensi che il personale delle Ong in situazione di emergenza fa la stessa cosa.
E che il ruolo di informazione del governo – tuttora probabilmente esistente – in realtà tocca un numero limitato di volontari consenzienti e inviati in alcuni punti caldi ben precisi.
Il resto sono ragazzi di buona volontà e spirito di avventura o solidarietà. Esistono molti siti e i blog fatti dai Peace corps. Che la Cia li utilizzi per aggioare i suoi archivi?                                      
  L.A.

Ermina Martini




AFRICA, UNITA?

La lunga strada verso gli Stati Uniti d’Africa

Per primo ci pensò Kwame Nkrumah, poi nacque l’Organizzazione degli stati africani, che divenne l’Unione africana. Oggi i capi di stato discutono sui tempi e modi per la creazione degli Stati Uniti d’Africa. C’è chi accelera e chi frena. Ma oltre all’unione degli stati occorre fare quella dei popoli. E l’identità
degli africani è ancora più legata al proprio clan che al continente.

«Un solo dito non può ammazzare un pidocchio» recita un proverbio africano. Ci ricorda che comunione e unità sono alla base della società sul continente. Basta entrare in un villaggio e subito, dopo i saluti, si comincia a cercare se esiste qualche collegamento famigliare, di consanguineità o matrimoniale. Trovato, non ci si chiama più per nome ma secondo il legame che esiste tra noi. Così è la mentalità africana in genere: ogni uomo o donna è collegato in qualche modo con gli altri.
Questo forte senso di comunità era però limitato, solo rivolto all’interno delle diverse tribù e gruppi etnici e dunque gli altri erano considerati estranei.  Con la colonizzazione e globalizzazione, gli africani si sono accorti che i loro vicini non erano dei nemici ma collaboratori per un mondo più grande e sicuro.  Dopo l’indipendenza, i diversi capi fondatori degli stati post coloniali sentirono il bisogno di unità per affrontare le sfide dello sviluppo insieme. Così nacque l’idea delle cornoperazioni regionali tra stati vicini. Ad esempio, il Mercato comune dell’Africa orientale e australe (Comesa), e la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao / Ecowas), e altre aggregazioni ancora. 
A livello continentale prima nella forma di Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), che diviene nel 2001 l’Unione africana (Ua). Ora si parla di Stati Uniti d’Africa e c’è chi vorrebbe un unico governo per tutto il continente il più presto possibile, scatenando non poche discussioni. L’uomo che spinge di più su questo è il presidente di Libia, Muhammar Gheddafi. Si dichiara «soldato per l’Africa» e sogna una confederazione di tutti gli stati africani senza aspettare troppo. Secondo lui, più si aspetta, più danni si fanno al continente.

«Africa must unite!»

Gheddafi sostiene che l’Unione africana ha fallito e che non c’è un futuro per i «micro stati» nel mondo odierno. L’unica salvezza per l’Africa è l’unità in un unico governo. L’antico slogan del dopo indipendenza torna attuale: «L’Africa deve unirsi!».
Alpha Oumar Konaré presidente della Commissione dell’Unione africana, è convinto che gli Stati Uniti d’Africa aiuterebbero lo sviluppo dei paesi più piccoli e deboli. Sostiene che una tale confederazione non minaccerebbe l’autonomia nazionale dei paesi, ma sarebbe un’opportunità per confrontare i problemi reali per l’autonomia, individuati nelle multinazionali e nell’economia mondiale.  Alcuni gruppi umanitari del continente appoggiano una tale proposta e sostengono che le barriere economiche tra gli stati dovrebbero essere tolte e che una cittadinanza africana sia una priorità. 
È stato il sogno dei padri fondatori dell’Africa post indipendenza, quegli uomini che hanno lottato contro il colonialismo. Un esempio fra tutti Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana. Sognava un unico governo per tutta l’Africa con una sola capitale. Suggeriva addirittura Bangui, nella Repubblica Centroafricana, o Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. Poi un unico sistema economico, e un programma di sviluppo economico e industriale, una moneta unica, così come una sola politica estera, un esercito e una cittadinanza africana.
Julius Nyerere, l’allora presidente della Tanzania affermava: «Lavoriamo per l’unità, con la convinzione che senza di essa, non c’è futuro per l’Africa».

Capi di stato riuniti

Così nella conferenza di Accra (Ghana) dei capi di stato africani, del luglio scorso, la questione è stata a lungo dibattuta.
Nella dichiarazione finale i capi di stato si dicono convinti «che l’ultimo obiettivo dell’Unione africana è la nascita degli Stati Uniti d’Africa, come previsto dai padri fondatori dell’Organizzazione di unità africana». Ma, come afferma il ministro degli esteri del Kenya, Raphael Tuju: «Il diavolo sta nei contenuti», ovvero: tutti sono d’accordo che l’unità è indispensabile, ma le modalità e i tempi con cui arrivarci fanno discutere. Per molti leader africani resta valido quel proverbio swahili che dice: «La strada per concretizzare questo sogno è disseminata di grandi ostacoli, tanto estei che interni». 
 Il piccolo gruppo di Gheddafi e del presidente senegalese Abdoulaye Wade, che vogliono un processo rapido con un singolo atto dai leader, sognano una rivoluzione che muterebbe i 53 paesi del continente dal mattino alla sera, in un unico stato, con un solo presidente e parlamento, sul modello statunitense.
Quelli che invece sostengono un approccio graduale sono: Thabo Mbeki del Sud Africa e Yoweri Museveni dell’Uganda. Quest’ultimo è molto categorico: «Mentre appoggiamo l’integrazione economica, siamo disposti all’integrazione politica solo con persone che sono simili a noi o almeno compatibili». La presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf si dichiara favorevole ma dice: «Ci vorrà tempo». Si fa sentire anche il capo del Mozambico, Armando Guebuza: «Prima si deve sapere dove andiamo e come arrivarci», ovvero si deve pensare con i piedi per terra.
La maggioranza dei leader africani dunque frenano e pur ritenendo di importanza capitale l’unità, pensano che la questione deve essere tema di confronto sereno.
Ecco i due punti fondamentali nella dichiarazione di Accra il 3 luglio 2007:
1. Accelerare l’integrazione economica e politica del continente, compresa la formazione di un governo unico e, come ultimo obiettivo, la creazione degli Stati Uniti d’Africa.
2. Razionalizzare e rinforzare le Comunità economiche regionali per armonizzare le loro attività…, in modo da condurre alla creazione di un mercato comune africano, con una tempistica rivista e più breve, per accordare l’economia con l’integrazione politica.
Si favorisce quindi l’integrazione delle strutture economiche regionali. L’idea di un passaporto unico africano non è inclusa nella dichiarazione finale.  

Con i piedi per terra

Prima si devono riconoscere le differenze enormi che esistono tra i paesi africani. Non solo politiche, economiche, ideologiche, ma anche sociologiche e culturali. Se c’è un filo comune nella maggioranza dei gruppi etnici africani, esiste anche un’enorme diversità.  La gente dovrebbe essere sensibilizzata a sentirsi più «africana», che membro di una specifica nazione o gruppo etnico o tribù. Si potrebbe fare un esempio del Marocco che prova a entrare nell’Unione europea pur appartenendo alla Lega Araba. Un punto importante sarebbe determinare cosa comporti l’«africanità» e che cosa unisce i popoli, prima di procedere ad un’unità politica senza alcun accordo tra la gente.
È vero che in questi ultimi anni sono diminuite le guerre civili, ma esiste ancora all’interno di molti stati una enorme polarizzazione e disuguaglianza tra gruppi etnici e tribali. Per esempio in Etiopia, Sudan, Zimbabwe, e altri ancora. Come potrà un paese diviso in se stesso fare parte di una più grande federazione? Forse hanno ragione quelli che spingono per un maggiore consolidamento all’interno degli stati stessi. 
La differenza è anche nel modo di concepire l’esercizio di potere. È anche vero che ci sono progressi di democrazia nei paesi africani e la libertà di espressione e diritti umani sono maggiormente rispettati, ma ci sono ancora forme di governo non democratiche come la stessa Libia e lo Zimbabwe. Ma allora quale stile di governo si vuole per gli Stati Uniti d’Africa? Un modello simile agli Usa? Si discute se questo tipo di approccio sarà appropriato per esercitare il potere sui popoli africani così diversi sul piano sociologico.
Quale sarà la sorte dei singoli stati federali e quale sistema per l’elezione del governo? Non è da sottovalutare l’attaccamento al potere dei capi di stato e politici attuali. Confederazione significherebbe la delega del loro potere a un livello superiore, e anche molte «poltrone» si perderebbero. Ma i problemi veri sono di tipo economico. L’Africa di oggi si presenta come un continente di miserie che dipende per sviluppo e sicurezza dai suoi «padroni coloniali» e dalle multinazionali. Questi non hanno interesse che la situazione migliori, anzi approfittano di debolezza e povertà per arricchirsi. Una dipendenza economica, finanziaria e dunque politica.

Ancora colonialismo?

Anche in Africa negli ultimi 20 anni le politiche inteazionali di aggiustamento strutturale hanno imposto la privatizzazione del settore pubblico.
Ma questa svendita ai privati delle imprese e servizi statali ha avuto come risultato il trasferimento dell’enorme patrimonio nazionale nelle mani degli stranieri, in particolare delle multinazionali. Insieme al debito estero, illegittimo e opprimente, questo fatto ha rinsaldato la dipendenza estea e ha aumentato il trasferimento di ricchezze del continente verso i paesi e le istituzioni multilaterali occidentali, come ha riconosciuto la «Commissione per l’Africa» nel 2005. Una commissione istituita da Tony Blair, allora premier britannico, nel 2004 e composta da 17 «saggi», di cui 9 africani, con il compito di elaborare un piano coerente e globale dei reali cambiamenti che avrebbero contribuito a realizzare un’azione energica e proficua per il continente africano.
Questa fuga di capitali, agevolata dalla liberalizzazione, ha raggiunto proporzioni allarmanti che ammontano a oltre la metà del debito estero, secondo i dati della stessa commissione. Secondo Christian Aid (grossa Ong britannica) la liberalizzazione commerciale da sola è costata alla regione più di 270 miliardi di dollari in un periodo di 20 anni.  Il vero problema, dunque, sta nel fatto che i leader africani dipendono dai paesi ex coloniali e dalle multinazionali.
Il peso economico e ideologico degli occidentali è ancora enorme.
Occorrono governanti che sappiano liberarsi da questi legami e possano, oltre a prendere decisioni rigorose, avere la determinazione di attuarle. La lentezza dell’integrazione e la mancanza di solidarietà, riflettono l’assenza di volontà, comune a molti leader africani, di mettere gli interessi fondamentali del continente davanti a quelli nazionali o personali, per avanzare in modo decisivo verso una vera unità. 
La partecipazione popolare alle decisioni e alle politiche pubbliche è importante per una reale unione. Questo significa che il successo degli Stati Uniti d’Africa dipende dagli africani stessi, ma allora il mandato deve venire dalle popolazioni.  Il documento pubblicato dall’Unione africana nel 2006 sembra aver compreso tale principio e dichiara che: «L’Unione deve essere degli africani e non soltanto degli stati e dei governi». Ma questo, per ora, sembra essere rimasto solo nella carta.

 Ricchezza di valori
 
Ma è proprio perché esistono questi problemi e sfide che l’Africa in un modo o nell’altro si deve unire. Ha molto da guadagnare. Mettere insieme tutte le sue risorse culturali, umane, naturali ed economiche darà un grande impulso allo sviluppo.  Le culture sono ricche di valori umani. Un incontro e dialogo di tutte le diversità che si trovano sul continente porterebbe ad un enorme vantaggio per tutto il mondo. Ma sembra che questo aspetto venga trascurato mentre dovrebbe essere sfruttato per determinare, ad esempio, il sistema educativo dell’unione.
Hanno ragione quelli che dicono che i singoli paesi d’Africa, nell’attuale sistema economico mondiale non hanno posto. Un’unione, in qualsiasi forma fosse realizzata, aiuterebbe l’Africa nelle negoziazioni con gli altri blocchi economici sui mercati inteazionali. È solo così che i prodotti africani avrebbero il valore che meritano. Quelli che fanno affari lo hanno capito da tempo. Si dice che oggi l’Africa è il grande mercato dei telefonini. Infatti le compagnie di telecomunicazione cellulare coprono ormai intere regioni del continente. Anche le banche commerciali stanno aprendo filiali sulla base delle unioni economiche regionali.
Ci sono alcuni segnali positivi: le guerre tribali e civili all’interno degli stati africani sono diminuite e si va verso una stabilità politica, con governi più o meno democratici.  Ma occorre del tempo e l’integrazione regionale, come base di una più grande federazione, è la risposta dei dirigenti africani riuniti alla conferenza di Accra nel luglio scorso. Forse una risposta evasiva, visto che i raggruppamenti regionali degli stati africani non sempre funzionano così bene.  

Di Nicholas Nyamasyo Muthoka

Nicholas Muthoka




La notte è troppo lunga

Reportage: tra i bambini di strada della capitale argentina (2.a puntata)

Ci sono quelli della stazione dei treni. Quelli della metro. Quelli che stanno sotto un porticato. Sono chicas y chicos de la calle che si arrabattano per sopravvivere nelle strade, tra droghe, pericoli e polizia. E poi c’è lui, Mario, insegnante di arti marziali e factotum, ma soprattutto ex bambino di strada. Oggi investe molto tempo ed energie per aiutare i bambini direttamente, senza intermediari. Assieme a Mario abbiamo trascorso una notte tra le ranchadas di Buenos Aires, nascoste dietro le luci della città, metafora di una società che, ad un tempo, abbaglia ed esclude.

Buenos Aires.  Barracas è un quartiere della capitale cresciuto lungo il Riachuelo, un fiumiciattolo (oggi inquinatissimo) che sfocia nel Río de la Plata. Il barrio non ha la notorietà dei confinanti San Telmo e Boca.  È un quartiere senza pretese, proletario.
Sulla via Salom le case sembrano abbandonate. La strada, poco illuminata, è praticamente deserta, sia di passanti che di automobili.
L’abitazione in cui entriamo è una vecchia casa in assi di legno. All’interno ci sono due stanze ammobiliate in maniera essenziale.

Il bambino con il rosario  al collo

Fisico possente, viso da indio, baffi e pizzetto, giaccone, cappellino con visiera alla rovescia, di prim’acchito Mario Julio Sotelo, 47 anni, incute un po’ di timore. 
Un passato in Costa Rica e Stati Uniti, una piccola attività di messaggeria (portare documenti e cose da una parte all’altra della città), Mario fa volontariato al Centro Miguel Magone: insegna arti marziali ai piccoli ospiti.  Proprio al centro gestito dai salesiani lo abbiamo incontrato per la prima volta. «Nel mio piccolo anch’io cerco di aiutare i bambini di strada» ci aveva detto, invitandoci a visitarlo.
«Questa è la mia umile casa. Un livello poco sopra della ranchada della strada», avverte Mario, quasi per scusarsi. Con il termine ranchada si indica l’estemporaneo rifugio dei bambini di strada: il luogo dove si ritrovano in gruppo, dove dormono, dove stabiliscono il da farsi.
Che fanno i bambini nelle ranchadas? «Decidono le loro attività», spiega Mario, senza cercare di abbellire la situazione. «Attività che spesso sono furti; sono pochi i gruppi che vivono con l’attività di cartoneros». Quindi, il nostro ospite, che parla con visibile partecipazione emotiva, aggiunge: «E poi nelle ranchadas si consumano droghe».
Mario Julio Sotelo non è un assistente sociale, non è un religioso, certamente non è ricco, ma da anni segue i bambini di strada. Perché?
«Ne sento la necessità, perché io fui della strada. Anzi, di più se possibile, dato che sono orfano e non ho mai conosciuto i miei genitori. Sono cresciuto in istituto e in istituto (che comunque era un luogo rispettabile) ho imparato a sopravvivere».
La casa di Mario è aperta a tutti. «Ripeto – insiste – : questa è una ranchadita, non una vera casa, dove ci sono letti e comodità. Io vivo la casa e non il contrario. Mi basta l’essenziale. Vivo con mio figlio. Ho 3 forchette: una per me, una per lui ed una per il visitatore di tuo, che adesso è Maxi».
 L’interessato ascolta ed annuisce. «Maxi – prosegue Mario – lo conosco da qualche anno, ma da poco vive qui con me. Mi aiuta nel lavoro di messaggeria, che è un lavoro libero perché si fa all’aperto».

Nelle ruvide mani della polizia

Cappellino, capelli ricci, maglietta calcistica, un rosario tenuto a mo’ di collana, occhi espressivi, labbro superiore un po’ gonfio: è Massimiliano detto Maxi.
«Quando ero piccolo, rimasi con mio padre per 7 anni. Poi con mia mamma per 2 anni, finché lei non morì di Sida. Non volevo stare con i miei parenti e scelsi la strada. Da 6 anni non vedo alcuno di loro e non ho nessuna voglia di vederli».
Maxi, come si vive in strada? «Si apprendono sia cose buone che cose cattive. Quelle buone sono che impari a convivere con altre persone; quelle brutte è che impari a drogarti e a rubare».
Tu quante volte sei stato nelle mani della polizia?, domandiamo. «Un paio di volte. Non posso dire che tutta la polizia sia cattiva. Ci sono alcuni che ti portano da mangiare, altri che ti tengono tutto il giorno senza un bicchiere di acqua».
Maxi continua a raccontare, con tranquillità, senza particolare enfasi, quasi fosse una cosa normale. Spiega la sua ultima disavventura con le forze dell’ordine, quella che si è conclusa con il suo affidamento a Mario. «Nel portafogli dell’amico con cui ero hanno trovato della marijuana, una piccola dose. Dato che io non avevo alcun precedente di droga, ho detto che era mia per mio consumo personale. Sono stato 11 ore nel commissariato senza neppure il permesso di andare al bagno. E senza la possibilità di fare una telefonata».
«Alla fine è venuto Mario, ma anche per lui non è stato semplice perché non sapeva i miei dati personali, dato che mi conosceva soltanto come Maxi».
Massimiliano conclude la sua storia: «Io non sono una cattiva persona. Anche se la gente pensa subito così, appena ti avvicini per chiedere una moneta. Cominciano a guardare la loro borsa, il cellulare. Ma non tutti siamo eguali, come sa Mario che ha accettato di farmi da tutore».

Una telefonata alla mamma

Mentre parliamo arrivano altri 2 ragazzi. Si accomodano sul divano, mentre il figlio di Mario e la sua ragazza preparano loro un tè caldo. Uno dei due ha un labbro spaccato, ma non è a causa di quello che parla biascicando.
Mario gli dice di telefonare alla mamma, che da giorni lo sta cercando. «Pronto, mamma», la conversazione prosegue, come tutto fosse normale. La mamma si preoccupa della sua salute e lui la rassicura: «Sì, ho un po’ di tosse, ma va già meglio». Poi promette: «Domani passo da casa».  Il padrone di casa si fa passare la cornetta del telefono per tranquillizzare la mamma: «Questa notte lo faccio dormire da me».

Estacion Constitución, una «corte dei miracoli»

Mario non possiede un’automobile. Lui si muove in moto. Per questa sera, però, ha chiesto al vicino di casa la sua auto in prestito. Vuole portarci a visitare alcune ranchadas del centro. Ci faremo accompagnare dai 2 bambini, che ben conoscono i luoghi e i loro frequentatori. 
Arriviamo a Constitución. La stazione dei treni è una sorte di «corte dei miracoli», soprattutto durante la notte. Qui si incontrano cartoneros, bambini di strada, malviventi. Mario vuole farci parlare con i bambini che nella stazione hanno la loro base. Li troviamo senza difficoltà e ci sistemiamo sui gradini di una scala per conversare. Ma siamo subito disturbati da alcuni ragazzi più grandi, visibilmente alterati, che non gradiscono la nostra presenza. Mario, pur molto conosciuto in questi ambienti, decide però che è meglio uscire dalla stazione.

La ranchada di Maria

Facciamo pochi minuti di auto. Ci fermiamo nei pressi di un porticato dove dormono molte persone e famiglie con bambini.  I giacigli sono improvvisati, ma almeno ci sono le coperte. Tutt’attorno borse e sacchi di plastica riempiti con le cose personali. Qualcuno ha raccolto del cartone, per venderlo o per usarlo come riparo. E poi ci sono vari carrelli di supermercato, usati come mezzo di trasporto dei propri averi.
Viso da adolescente, bel sorriso, una sigaretta in mano, Martin è un po’ timido davanti alla videocamera ma, dietro richiesta di Mario, si convince a dire qualche parola.
Che fai qui? «Niente. Dormo. Sono solo, per questo sono venuto alla ranchada di Maria, che è un’amica».  E durante il giorno che fai? «Il giocoliere nelle strade».
Quanti anni hai, Martin? «Tredici. Sono di Buenos Aires. Vivo in strada dall’età di 9 anni. Mia mamma vive con il mio patrigno e una sorellina, ma non li vedo da molto tempo».
Come si vive in strada? «Freddo, fame, problemi con la polizia. Tutti i giorni».
Mario gli dice di mostrarci le mani.  Un po’ titubante, Martin apre le mani: sono rovinate come quelle di un manovale di lungo corso. «Sono i segni che lascia il Poxiran», spiega Mario.
La ranchada di Maria è in un angolo del porticato, davanti alle serrande di un negozio. Maglione verde, capelli lunghi e neri, la troviamo con un neonato in braccio: è il figlio di sua figlia (minorenne). Il figlio maschio, Victor, è un consumatore di droga. Caduto dal treno, ha subito l’amputazione di un piede. Una serie impressionante di disgrazie che atterrerebbe chiunque.
Invece, Maria riesce ancora a sorridere, mostrando la bocca sdentata. Ma il suo è un sorriso stanco. Quanti anni hai, Maria?, domandiamo, ormai bloccati dalla crudezza della situazione, incapaci di fare domande che abbiano un senso e che non abbiano il sapore di un’inutile curiosità. Maria risponde «29». Ci guardiamo sorpresi, perché non può avere l’età che dice. «Non è un vezzo», ci spiega Mario. «Maria non ha realmente cognizione della sua età».
Arriva anche la figlia con un amico e tutti fanno festa a Mario. Ma per noi è ora di salutare Maria e la sua famiglia e andare a visitare un’altra ranchada.

Subte, linea «B», fermata «Florida»

Arriviamo in centro, a poca distanza dall’Obelisco e da Florida, la lunga via pedonale nota a tutti come paradiso dello shopping. E ai ragazzi di strada come un luogo dove si può «lavorare» bene, nonostante la presenza della polizia.
Ci fermiamo sulla scala della linea «B» della metro di Buenos Aires, a quest’ora della notte chiusa agli utenti. 
 Victor vive nella strada da 8 anni. Perché? «Mi piace», risponde alzando le spalle e ridendo. Un bambino, più piccolo di statura rispetto ai compagni, si fa avanti. È particolarmente vivace. Dice di avere 13 anni. Vive nella strada da poco, meno di un anno. Mario fa un cenno di conferma.
Dove dormite?, chiediamo. Invece di rispondere, due di loro ci mostrano come si rannicchiano sulle scale della metro durante la notte. Dormono sui gradini finché, al mattino, non si aprono le porte della metro o finché non passano i poliziotti a scacciarli.
«Chi sta fumando?», chiede Mario, con fare amichevole.

Pegamento, paco, o marijuana?

Il gruppo si è allargato ad altri, richiamati dalla presenza di Mario, una persona conosciuta ed affidabile. Tutti vogliono dire la loro. I ragazzi ridono divertiti e sventolano davanti alla videocamera una busta di pegamento e un sacchettino di marijuana. Mario li guarda, comprensivo ma non consenziente.  

Di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Dove osano le aquile

Viaggio nel Kelmend, la regione montuosa più settentrionale del paese

Il suo vero nome è Shqipëria (Paese delle aquile), dove per 46 anni
il regime comunista ha cercato di cancellare la presenza cristiana, togliendo di mezzo vescovi, preti e religiosi, perseguitando i semplici fedeli. Grazie all’opera di missionari italiani e all’aiuto di varie associazioni umanitarie, oggi le comunità cristiane stanno rifiorendo, anche nel Kelmend, regione dell’estremo nord del paese.

Sono arrivata in Albania al seguito di Anemon (acronimo di «aiutare nel mondo»), un’associazione di medici e volontari che si propone di sostenere il lavoro delle suore francescane di Susa e di padre Sergio, frate minore cui è stata affidata la regione montuosa del Kelmend, dove da molti secoli vivono isolate alcune tribù cattoliche.
Tirana ci sorprende, con il suo aeroporto moderno e luminoso, per l’ampia arteria che porta in città, fiancheggiata da nuove costruzioni commerciali e industriali. Chi tra noi ha già visitato questo paese si rende conto di un grande cambiamento. I nuovi edifici del centro si distinguono per la sobrietà e il colore. La gente pare molto cordiale; molti conoscono l’italiano. Come Migena, che significa «fior di melo», una giovane albanese cui mi rivolgo per un’informazione. «Ho imparato l’italiano da mio nonno, che aveva fatto il militare in Italia. Quando ancora non andavo a scuola, mi raccontava le fiabe in italiano».
Resta grave il problema dei contadini inurbati di recente, sistemati in case fatiscenti che non ricevono regolarmente né acqua né luce.
Piazze e viali del centro di Tirana ricordano le altre capitali dei paesi comunisti, ma i numerosi caffè all’aperto sono affollati e ci sono anche giovani donne, mentre in quelli dei villaggi che visiteremo gli avventori saranno solo uomini.

Scutari è una città molto antica. Un’antica fortezza domina la città e il lago, che in parte appartiene al vicino Montenegro. La sua storia testimonia la serena convivenza, da sempre, di cristiani e musulmani: dopo gli anni bui di ateismo e chiusura al mondo, hanno ricostruito la grande chiesa ortodossa e restaurato la moschea.
Scutari è la prima tappa del nostro viaggio umanitario: abbiamo promesso di ingrandire la casa che le suore hanno aperto per accogliere le studentesse provenienti dai remoti villaggi del Kelmend per proseguire gli studi nella città, rompendo così una tradizione che negava l’istruzione superiore alla donna.
Lasciamo le rive del grande lago e risaliamo la montagna punteggiata da ginepri e folti cespugli di melograno. La strada sale attraverso strette gole, supera pietraie e ripide scarpate sul fiume, sulle cui rive alcuni terrazzamenti alluvionali permettono le colture e l’allevamento. Le case di pietra hanno il tetto fatto di lamelle di legno, con i pagliai a forma di cono.
Nel villaggio di Stare le suore hanno la base per il loro lavoro nelle valli, evangelizzazione e assistenza sanitaria. Il dottor Veronese, un medico torinese in pensione, dopo una sua prima visita due anni fa, ha deciso di ritornare ogni due o tre mesi e collaborare con suor Anna, infermiera. Il piccolo ambulatorio richiama gente dalle valli più remote, ma sovente il medico si sposta nei villaggi di montagna, dove opera nelle sale di riunione o nelle cappelle.
Leggendo le sue relazioni ero rimasta colpita dal fatto che, dopo tanti anni in cui la gente di Albania pensava solo ad emigrare, pare sia nato tra i giovani un nuovo sentimento di orgoglio. Oggi chiedono di poter ricostruire il paese, evitando la fuga di massa, ma chiedono anche una vita più dignitosa.
A Fare incontriamo anche Iolanda da molti anni impegnata nel volontariato: ha trascorso alcuni anni nell’ospedale di Fogo in Capoverde. Da tempo in pensione, l’anno scorso accettò volentieri l’invito del dottor Veronese a seguirlo nella regione del Kelmend.
«Fui molto colpita dalle donne albanesi, che rappresentano la maggioranza dei pazienti. Sono donne che soffrono, abbandonate da uomini partiti per cercar lavoro o per delinquere, umiliate da una mentalità ferocemente maschilista che le ha sempre private di un minimo di cultura» racconta la volontaria.
Pare che la depressione sia la patologia ricorrente in queste creature, che dimostrano forte imbarazzo durante le visite, anche se al medico si affianca sempre suor Anna e un’altra donna. Iolanda mi spiega che le donne arrivano spesso accompagnate dalla suocera. La tradizione vuole infatti che le giovani, quando si uniscono a un uomo (e non sempre questa unione viene regolarizzata dal matrimonio), lascino per sempre la propria famiglia e vadano a servire quella del marito.

Proseguiamo risalendo la valle con difficoltà: il mezzo è vecchio, le gomme lisce e perdiamo pure la marmitta. Prima di arrivare a Tamare, dove padre Sergio ha avviato un allevamento di trote con buon successo, prendiamo una stretta deviazione che ci condurrà a Vukli, dove ci aspetta per la messa.
Dopo altre due ore di viaggio e strapiombi da brivido, la strada termina in un’ampia vallata. Una specie di paradiso perduto, con greggi di pecore, muli che trasportano il fieno e case dai tetti alti e spioventi.
Arriviamo quando la messa è già iniziata. Sotto il portico sostano i giovani maschi, la sigaretta tra le dita e l’aria sfrontata da guappi. Conoscono poco l’italiano, ma riescono a farsi capire: sognano di emigrare, per far soldi e non lavorare nei campi. Dentro la chiesa, le nonne hanno il velo nero da vedove, le rughe e il viso rassegnato. Le madri mi guardano e il viso si allarga in un sorriso. I lunghi capelli neri sono fermati da forcine in onde piatte sulla fronte, incoiciata dal foulard. Tra le ragazze ce ne sono di molto belle, sono vestite per la festa e si lasciano ammirare.
Dobbiamo partire, la strada per Vermosh è ancora lunga; facciamo una sosta a Nikc, dove troviamo la chiesa piena di fedeli che da ore aspettano il padre per la messa. Come sta avvenendo per tanti edifici di culto, anche questa chiesa è stata ricostruita sui resti di quella distrutta nel periodo della dittatura, con i soldi inviati dagli emigrati.

L’autista del nostro vecchio pulmino è molto abile, guida nel buio sulla strada impervia, che vedremo solo al ritorno, spettacolare. In meno di due ore arriviamo davanti al cancello della proprietà di due fratelli emigrati da anni in America. Padre Sergio è riuscito a farsi dare in comodato per 15 anni l’intera proprietà, da anni abbandonata. La casa è stata da poco restaurata con gli aiuti che il francescano raccoglie tra gli amici quando viene in Italia.
Ma il padre sta attuando un progetto più ambizioso: trasformare la proprietà in agriturismo; sono già arrivate prenotazioni di gruppi di austriaci e svizzeri per la prossima estate. A gestire il tutto sono Giovanili e sua moglie Mariana, che durante l’estate si trasferiscono nella casa e coltivano i campi della proprietà; mentre durante l’inverno tornano nella casa dei genitori, per affrontare l’isolamento che può durare a lungo.
La mattina partiamo a piedi per raggiungere il nucleo centrale di Vermosh, dove ci sono la scuola e la chiesa. Nei campi recintati pascolano cavalli e pecore. Ciò che maggiormente attrae l’attenzione sono le croci, poste dappertutto: sulle case, sui ponti, al collo dei bambini e delle donne, persino sui pali della luce.
Intanto, il signor Giovanili, la cui famiglia ha avuto un ruolo importante nella comunità della valle, ci racconta la sua storia, mentre camminiamo insieme lungo il torrente: «Abbiamo sofferto molto, prima sotto il dominio turco, poi sotto la lunga dittatura comunista, ma siamo rimasti fermi nella nostra fede. Mio padre e i miei zii, fratelli di mia madre, sono stati in carcere, a lungo». Uno di essi, uscito di prigione, fuggì in Belgio e a causa sua la famiglia venne perseguitata.
Dopo il 1990, quando si aprirono le frontiere, Giovanili volle raggiungere lo zio. Trovò lavoro per due anni a Bruxelles, in una pizzeria italiana; ma non riuscì a ottenere il permesso di soggiorno. Il francese imparato in quegli anni gli consente di comunicare con noi e con i rari visitatori.
Quindi prosegue: «Quando si decise la costruzione della chiesa, mio padre si recò in visita alle nostre comunità di New York e Detroit e riuscì a raccogliere i fondi necessari». Altri aiuti sono arrivati anche da Austria e Italia; così si spera di frenare l’esodo dei giovani con iniziative come quelle di padre Sergio, che vuole far conoscere queste montagne all’estero, creando basi di appoggio per un turismo sportivo e sostenibile in una natura selvaggia e incontaminata.
D’estate arrivano i cicloturisti dal Montenegro e già si pensa di predisporre un’area campeggio per ospitarli. Le idee sono buone, ma le difficoltà enormi. Il suo entusiasmo si confronta con le difficoltà di far capire i progetti alla gente, che tanti anni di sottomissione e chiusura ha umiliato e resa inerte.
Al tempo stesso, padre Sergio vuole incrementare l’artigianato locale: ha in programma un viaggio in Italia, con l’auto carica di tappeti tessuti dalle donne di Tamare. Lo accompagneranno anche Giovanili e Mariana, che saranno ospitati da famiglie di amici e potranno imparare l’italiano e l’arte dell’accoglienza.

Sulla via del ritorno, l’ultima tappa del nostro viaggio è Selce, un villaggio ai piedi di un’impressionante scarpata rocciosa. Ci accoglie Angelina, una bella donna, alta, elegante e vestita di scuro. Direttrice della locale scuola media, sta affrontando i problemi dell’educazione delle giovani e per questo ha fondato un’associazione femminile. Le iscritte sono già 50, alcune tra loro sono anziane. «Se vogliamo migliorare la qualità della nostra vita, dobbiamo cominciare con l’educazione delle donne. Il futuro del paese è nelle mani delle giovani madri».
Angelina parla con fervore, crede in quello che fa e le do ragione. Quando ci abbracciamo per lasciarci, la stringo e sento il calore delle sue gote arrossate. Le chiedo: «A casa tua, che educazione hai ricevuto, per avere una mentalità così aperta?». «Mia madre ha avuto sette figli, era un’educatrice meravigliosa» mi risponde. 

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Rivincita della storia

Secondo le ultime statistiche gli albanesi sono: 38% musulmani e 35% cristiani
(di cui 22,5% ortodossi e 12,5% cattolici), 16% agnostici o senza appartenenza religiosa.

La diffusione del cristianesimo in Albania risale al I sec. d.C., quando il paese faceva parte della provincia romana dell’Illiricum. San Paolo afferma di aver predicato il vangelo nell’Illiria (Rom 15,19) e la leggenda narra di una sua visita a Durazzo. L’evangelizzazione fu portata avanti da missionari provenienti da Roma e da Bisanzio, attraverso l’antica Via Egnatia. Con la divisione dell’impero romano tra Oriente e Occidente (395), la regione rimase legata amministrativamente a Costantinopoli, ma ecclesiasticamente dipendente da Roma. La maggioranza degli albanesi gheghi, che vivevano a nord del fiume Shkumbini, aderirono alla chiesa di Roma; a sud, gli albanesi toschi entrarono nella chiesa bizantina. Con lo scisma d’Oriente (1054) il sud dell’Albania mantenne i legami con Costantinopoli e la chiesa greca, mentre il nord rimase sotto la giurisdizione romana.
Per 47 anni la comunità cristiana resistette agli eserciti turchi, sotto la guida dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, detto Skanderbeg (1405-1468), definito dai papi contemporanei «atleta Christi». Ma con la sua scomparsa, l’occupazione ottomana ebbe il sopravvento (1479); terrorizzati dai metodi repressivi dei dominatori, forti nuclei di popolazione albanese emigrarono in Italia, insieme a prelati e ordini religiosi, eccetto i francescani. L’impossibilità di regolari relazioni con Roma lasciò le comunità del nord in balia di se stesse, mentre quelle del sud ebbero una sorte migliore, essendo legata al patriarcato di Costantinopoli, unica autorità civile cristiana riconosciuta dall’impero turco.
La crescente infiltrazione di colonie musulmane nel territorio, l’influenza religiosa dell’ambiente islamico, la persecuzione attuata da alcuni fanatici governatori e la politica ottomana, che concedeva carriere civili e militari agli albanesi purché musulmani, provocarono un graduale passaggio all’islam di individui, famiglie e interi villaggi; uno stillicidio cessato solo con l’avvento dell’indipendenza (1912).
A partire dal secolo xvii, riprese l’organizzazione della chiesa, la formazione del clero (in seminari «illirici» in Italia), l’avvio di missioni francescane. Tale ripresa culminò nel secolo xix, grazie all’indebolimento dell’impero turco e alla protezione dell’Austria, che garantiva la sussistenza del clero e delle opere cattoliche in Albania; i francescani aprirono scuole in varie città; altrettanto fecero i gesuiti: il loro collegio a Scutari foiva il clero a tutto il paese e con le «missioni volanti» raggiunsero i luoghi più montagnosi, promuovendo istruzione e fervore religioso.
Al momento dell’indipendenza, la chiesa cattolica godeva di prestigio eccezionale, sia per il sostegno dato alla lunga lotta di liberazione nazionale, sia per l’elevatezza culturale. Il cattolicesimo aveva dato un’impronta decisiva all’identità nazionale: i più grandi poeti, scrittori, giuristi albanesi sono cattolici e quasi tutti appartenenti al clero.

Non per nulla Enver Hoxha si accanì subito come una furia contro i preti cattolici, ritenuti i maggiori ostacoli alla nuova ideologia. Per 46 anni (1944-1990) una dittatura spietata e crudele, stupida e malvagia, ridusse il paese in un gigantesco lager. Una generazione di albanesi è cresciuta in un regime di terrore che ha messo gli uni contro gli altri, dividendoli tra vittime o carnefici: pare che metà della popolazione albanese fosse coinvolta con il «sigurimi», la famigerata polizia segreta del regime, con cui il dittatore controllava tutte le manifestazione di vita della società albanese.
Nel suo furore ideologico, Hoxha si è scagliato contro i credenti di tutte le religioni, ortodossi e musulmani compresi, ma la sua persecuzione si è accanita con inaudita brutalità soprattutto contro i cattolici: i campanili furono abbattuti in tutta l’Albania; molte chiese (e moschee) distrutte; gli edifici di culto risparmiati dalla distruzione vennero trasformati in sale di cultura, palestre, tribunali, prigioni, magazzini e stalle.
Fin dal 1945, bersagli preferiti diventarono il clero e i fedeli.  «Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo» diceva uno dei motti del regime.  Vescovi, preti, religiosi furono arrestati, malmenati in pubblico, torturati, fucilati, imprigionati, inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate a lasciare l’abito: quelle che rifiutavano venivano sottoposte al pubblico ludibrio, torture e inviate ai lavori forzati. Accusati di essere «fascisti» o «antisocialisti» clero e laici cristiani venivano sottoposti a processi farsa, diffusi via radio e riassunti in uno speciale la domenica mattina all’ora della messa; titolo della trasmissione era: «L’ora giorniosa».
All’inizio del 1967, il dittatore Enver Hoxha impose l’ateismo «ufficiale», emanando leggi che imponevano la chiusura di i luoghi di culto di tutte le associazioni religiose, proibiva ogni manifestazione di culto, la pubblicazione e vendita di materiale religioso, l’insegnamento di qualsiasi religione. Tali disposizioni furono confermate nella Costituzione del 1976 negli articoli 37 («lo stato non riconosce alcuna religione») e 55, in cui veniva sancito il divieto di qualsiasi associazione, propaganda e attività religiosa. Al tempo stesso la «rivoluzione culturale cinese» fu estesa negli angoli più sperduti del paese.
Ma poiché nel segreto della vita familiare i cristiani continuavano qualche tradizione religiosa, la repressione continuava, insieme alla propaganda, all’odio e al fanatismo anticattolico, senza che alcuno potesse contraddire. Nelle scuole gli alunni erano invitati a denunciare le pratiche religiose e «antisocialiste» dei loro familiari. I funzionari del «sigurimi» entravano nelle case, con le scuse più banali, e le perquisivano, frugando perfino nei bauli del corredo delle donne, per scoprire segni religiosi, e poi accusare gli inquilini come «antisocialisti». Il venerdì santo del 1967, per esempio, gruppi dell’associazione «Pionieri» entrarono nelle case dei quartieri cattolici di Scutari, per controllare la situazione e la pulizia; ma il vero scopo era quello di riferire alla polizia in quali case si stavano preparando dolci o si coloravano le uova di pasqua, oppure dove si trovavano rosari, croci e immagini sacre.
Ormai tutti i preti, nessuno escluso, erano stati tolti dalla circolazione. I gerarchi del partito comunista si vantavano di aver fatto dell’Albania «il primo paese ateo al mondo». Il triste primato non è l’unico. Il livello di repressione religiosa è stato superiore a quello di altri regimi rossi, sia per la durata che per la crudeltà, il sadismo e le perfide modalità orientali con cui la persecuzione veniva perpetrata. Il comunismo aveva affidato compiti e poteri per il lavoro più sporco ai musulmani. Riportiamo alcuni esempi.
A don Lazer Shantoja furono spezzati piedi e mani. A vederlo così ridotto, sua madre esclamò disperata: «Compro io il proiettile per ucciderlo, ma non lasciatelo più in queste terribili condizioni. Fu il primo martire, fucilato, nel 1945.
Padre Serafin Koda, francescano, spirò con la trachea strappata fuori dalla gola; papas Pandit, prete cattolico di rito bizantino, fu decapitato e la testa fu lasciata in mostra sul petto; papas Josif, anche lui prete di rito orientale, fu sepolto vivo nel campo di lavoro della palude di Maliq. A don Mark Gjini fu chiesto, sotto indicibili torture, di rinnegare Cristo; rispose invece: «Viva Cristo re!»: morì legato in modo da soffocare e il suo corpo fu gettato ai cani; i resti poi furono buttati nel fiume. Suor Maria Tuci, fu sottoposta a torture inumane: morì all’ospedale di Scutari poco dopo gli interrogatori. Padre Frano Kiri, francescano, rimase legato con un cadavere in decomposizione per tre giorni e tre notti. Il gesuita padre Gjon Karma fu chiuso vivo in una cassa da morto. Padre Beardin Palaj morì di tetano causato dai ferri con cui fu torturato. Don Lekë Sirdani e don Pjetër Çuni morirono immersi con la testa in giù nel pozzo nero. Don Mikel Beltoja fu a lungo torturato con punteruoli e poi fucilato.
C on la morte di Hoxha, nel 1985, finiva un incubo; ma anche sotto Ramiz Alia (presidente fino al 1992), non mancarono le forme subdole della dittatura comunista contro la chiesa cattolica, almeno fino al 4 novembre 1990. Quel giorno fu celebrata una santa messa nel cimitero cattolico di Scutari, la prima dopo decenni di terrore.
La chiesa cattolica poté cominciare a riorganizzarsi e, soprattutto, a raccontare la sua storia di martirio. Dei circa 200 perseguitati tra preti diocesani, religiosi e vescovi, solo in 27 erano sapravvissuti. Dei circa 170 martiri, molti erano caduti per morte violenta (5 vescovi, 60 preti diocesani, 30 frati francescani,13 gesuiti, 10 seminaristi e 6 suore), gli altri erano deceduti a causa di stenti e di fatica durante la lunga detenzione.
Ma la storia non è ancora finita: nell’elenco mancano soprattutto migliaia di laici, dal momento che, per affermarsi, il regime comunista ha dovuto sbarazzarsi anche di tutta la classe dirigente e intellettuale del paese, costituita in prevalenza da personalità del mondo cattolico.
Nel 2002 è stato avviato il processo di beatificazione di 40 martiri albanesi, 38 dei quali uccisi durante la dittatura comunista: sono vescovi, preti diocesani, religiosi francescani e gesuiti, laici, tra cui anche una donna. Il numero può sembrare esiguo, ma è sufficiente per stimolare il ricordo e la venerazione di tutte le altre vittime, conosciute e sconosciute, cristiani o appartenenti a altre confessioni religiose, il cui sacrificio ha permesso agli albanesi di ritornare a sentirsi uomini liberi.

Una cinquantina di anni fa, il montenegrino Milovan Djilas, sostenitore e poi oppositore del comunista iugoslavo Tito, scriveva: «Fra 40 anni il mondo si meraviglierà delle realizzazioni grandiose compiute dal comunismo e si vergognerà dei metodi usati per compierle». Ma in Albania del comunismo è rimasta solo vergogna. Simbolo inquietante e grottesco del regime di Hoxha sono gli orridi «bunker» che dominano il paesaggio in tutto il territorio: piccole fortificazioni di cemento, di cui emerge nei campi e prati solo un pezzo di superficie emisferica con due feritornie. Dicono che ce ne siano più di un milione. Dentro i bunker i soldati dovevano sparare contro chissà quale invasore; naturalmente non sono mai stati usati.
Oggi nei bunker più grandi, quelli allestiti per i carri armati, la gente si ritrova per la santa messa. È la rivincita della storia. 

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




PIEDRAS 1597

Reportage / Tra i bambini di strada della capitale argentina (1.a puntata)

Quasi tutte le metropoli del mondo vivono il fenomeno dei bambini di strada. Una tragedia fatta di droga, abusi sessuali, furti, violenze della polizia. A Buenos Aires abbiamo visitato un Hogar Don Bosco, dove volontari laici accolgono bambine e bambini cresciuti troppo in fretta. Un lavoro durissimo ma svolto con un entusiasmo straordinario. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Buenos Aires. L’indirizzo è Piedras 1597, ma l’entrata è su Avenida Caseros. Il barrio è quello di Constitución, noto soprattutto perché ospita la più grande e frequentata stazione ferroviaria del paese. L’ingresso è una porta in ferro, posta tra due finestroni protetti da grate metalliche di color giallo ocra. Daniel Blanco, giovane educatore salesiano, è un anfitrione entusiasta: «Benvenuti al Centro Miguel Magone».
Entriamo in un cortile interno, spoglio, ma funzionale. Da un lato, c’è una stanza con le docce, dall’altra un’aula scolastica e al centro un’ampio spazio per giocare a palla, protetti da spesse mura. 
Il Centro Miguel Magone (El Santa) è un centro di accoglienza per bambine e bambini di strada. O meglio, per attenersi alla terminologia usata da Daniel, per bambine e bambini in situazione di strada (chicas y chicos en situación de calle). A Buenos Aires, tra città e provincia, sarebbero parecchie migliaia, anche se non esistono dati certi.  Ma che età hanno?, chiediamo. «Ci sono anche bambini di 5 o 6 anni», risponde Daniel.
Provengono da famiglie povere, segnate dalla mancanza di lavoro o da un lavoro precario. Nel 90 per cento dei casi sono famiglie in cui la figura del padre è assente o negativa. Quando c’è un patrigno (padrasto), spesso questi non ha relazioni buone con i figli della donna. I motivi per preferire la strada sono dunque diversi, non ultimo quello della droga, che ha invaso Buenos Aires. I bambini fanno uso di colle e di paco, la pasta base di cocaina che dà subito assuefazione e che produce gravi danni fisici e mentali.
Il Santa è organizzato su due tui: uno per il giorno ed uno per la notte (Centro de día y de noche).  È un centro d’aiuto immediato. «Questo non è un centro residenziale – spiega Daniel -. Per chi vuole proseguire e costruire un progetto differente da quello della strada ci sono altri hogares, strutturati per una permanenza prolungata».
Al centro di Piedras 1597 i ragazzi trovano riparo, cibo, educazione. E quel po’ di affetto, che certamente a loro è mancato. Una scala in ferro porta al piano superiore. Qui ci sono i bagni ed alcune stanze. Sulla parete che precede la sala da pranzo e la cucina è dipinto il volto sorridente di Don Bosco, fondatore dei salesiani.
«Per camminare assieme – spiega Daniel -, occorre instaurare relazioni di fiducia reciproca tra bambini ed educatori». Una relazione di fiducia che chiunque può vedere osservando il comportamento degli educatori, tutti giovani ma motivatissimi e ricchi di entusiasmo.

Storia di Lisa, ex bambina di strada

Lalo ha 34 anni e da 15 lavora con i salesiani. Non ha competenze specifiche («Sono allenatore di calcio»), ma soltanto una predisposizione a lavorare con i bambini.  Mentre parla con noi, è abbracciato da due piccoli ospiti. «Io sono stato fortunato – racconta -. Anche se i miei genitori erano separati, la mia famiglia mi ha sempre seguito».
Non altrettanto può dire Lisa, occhi gentili, i capelli neri che le scendono lisci su un volto giovane. Ha soltanto 23 anni, ma è come ne avesse vissuti il doppio tante sono state le prove che ha dovuto affrontare. Papà mai conosciuto, mamma morta di Aids, quando lei era ancora una bambina. Poi la strada, la droga, un marito morto giovanissimo, due figli.
«Il Poxiran mi venne offerto per la prima volta a 8 anni. Cominciai a prendere di tutto. Mi ricoverarono più volte da tanta droga che avevo in corpo. Ma non ho mai provato il paco. Il paco è vizioso. Dura un secondo e subito ne hai ancora voglia. Ti viene l’ansia. Adesso nelle villas una dose costa un solo peso. In altre zone viene venduto a 5 pesos da gente che l’ha comprato nelle villas. Io vedo subito se i bambini sono fatti di Poxi o di paco».
In strada la vita è difficile, soprattutto per le ragazze, ma Lisa è riuscita a venie fuori. 
«Oggi sto bene. Sono tranquilla. Anche se la situazione che sto vivendo non è facile con due bambini. Non so immaginare come sarà il mio futuro. Ma non voglio che i miei figli crescano senza una madre. Non voglio che facciano le esperienze che ho fatto io».
«Vorrei stare qui al centro. Mi piacerebbe continuare ad aiutare le persone ad uscire dalla loro condizione, come ho fatto io».
Ci chiamano per il pranzo. Ci accomodiamo sulle panche, tutti – bambini, educatori, ospiti – attorno ad un grande tavolo di legno. È un pranzo comunitario, consumato con gusto e tranquillità.

La polizia, i vicini, i media

I bambini sono nell’aula al piano terreno, seduti dietro un banco scolastico per la lezione con due giovani insegnanti.  Ne approfittiamo per conversare con Hean, 23 anni, da 8 educatore.
Parla con calma, però le sue parole sono dure ed accusatrici.
«La polizia di Buenos Aires è molto violenta. Probabilmente ha mantenuto il modo di agire repressivo appreso durante il golpe militare del 1976. È aggressiva. Ad esempio, al mattino, quando alle 5 si apre la metropolitana, i bambini che dormono sotto vengono svegliati dai poliziotti a suon di botte». 
Chiediamo dei vicini di casa, che da tempo promuovono azioni – denunce, raccolte di firme, eccetera – per far chiudere il Miguel Magone.
«La cosa che dà più fastidio è avere questi bambini, mal vestiti e magari con una borsa di Poxiran tra le mani, vicino a casa. Se fossero lontani, non avrebbe importanza, ma sulla porta di casa non li sopportano. La verità è che la maggioranza dei vicini non conosce la situazione di questi giovani, non comprende i motivi della loro vita, non sa gli scopi di questo centro. Un giorno è venuta l’amministratrice di un palazzo a fianco. Era adirata perché diceva che la presenza dei bambini di strada faceva perdere di valore agli appartamenti del suo condominio».
Hean è durissimo anche con i mezzi di comunicazione. «Troppi programmi televisivi – spiega – mostrano il problema dei bambini di strada in modo distorto. Ad essi non importa nulla dei ragazzi:  mostrano le loro facce o quando si drogano. Si tratta di programmi sensazionalistici che cercano di suscitare emozioni nei telespettatori. Insomma, un giornalismo di m…».
Su istigazione dei vicini di casa questo giornalismo si è occupato anche del centro di Piedras 1597. Racconta Hean: «Un’importante rete televisiva – America Tv Canal 2 – ha filmato il centro durante il fine settimana, quando è chiuso. Ha fatto domande ai bambini che stavano fuori dalla porta. Non potendo entrare, hanno trasmesso immagini di altri luoghi. Hanno raccontato un mucchio di bugie: che il luogo non ha luce, che è sporco, che non c’è da mangiare, che non ci sono referenti. Una cosa incredibile! Alcuni bambini si sono sentiti responsabili, colpevoli per quel servizio televisivo. E noi educatori abbiamo provato un’arrabbiatura terribile, vedendo infangato in pochi minuti un lavoro in cui riversiamo fatica e cuore».

La notte picchia più forte

Piedras 1597, barrio Constitución, notte. La notte è più buia nel quartiere di Constitución.  I taxi passano veloci e per le strade è meglio stare accorti.  Il Centro Miguel Magone apre alle nove e mezza. La porta in ferro è il confine tra una notte all’addiaccio e una con doccia, pasto caldo, lezioni, materasso pulito e pareti protettive. Ma non tutti possono oltrepassare quel confine. Questa sera al varco c’è Adrian. Gentile ma fermo, Adrian si erge sulla soglia ed interroga i ragazzi che, da fuori, spingono per entrare: deve accertarsi del loro stato. 
«Non possiamo far entrare i bambini che sono sotto l’effetto del paco. Troppo alterati, troppo violenti. Purtroppo, non siamo attrezzati per affrontare quest’emergenza». Un’emergenza crescente, se si considera che il paco costa meno della marijuana e «sballa» di più.
Adrian è paziente. Ha studiato in una scuola pubblica, ma si considera un alunno salesiano. Conosce i bambini di strada e le loro problematiche. Conosce le dinamiche intee alle ranchadas.  «È il leader della ranchada – spiega – che decide cosa il gruppo deve fare. Può essere un capo positivo o negativo. Questo secondo abusa del suo potere, fa violenza sugli stessi membri del gruppo, non frena il consumo di droghe».  
Al Santa il tuo della notte è, più o meno, strutturato come quello del giorno: dopo l’entrata, i bambini si lavano, fanno cena, qualche attività di svago (lezioni di arti marziali o d’arte) e verso mezzanotte vanno a letto; al mattino, alle 8, viene servita la colazione e poi sono liberi.
Ci fermiamo a parlare con le bambine e i bambini che attendono la lezione. Le femmine, giovanissime ma già segnate dalla vita (anche fisicamente, qualche occhio pesto, qualche livido sul corpo), si atteggiano a «donne» con il rossetto sulle labbra e le movenze adulte. I maschi sono più bambini, anche se si comportano da bulli senza paura.  Mario, l’insegnante di arti marziali, chiama alla lezione e tutti corrono via.

Finalmente è mezzanotte

È passata la mezzanotte. Nelle due stanze – una per le femmine, un’altra per i maschi – la luce è stata spenta. Qualcuno già dorme, qualche altro ancora bisbiglia con il vicino di materasso. Adrian, Eduardo, Mario e il cuoco possono finalmente sedersi attorno ad un tavolo. 

Di Paolo Moiola

Le parole della strada
Il glossario  
paco: nome con cui si indica la droga più a buon mercato reperibile nelle strade di Buenos Aires. È pasta base di cocaina, mischiata con cherosene ed acido solforico (o altri agenti chimici). Viene fumata in rudimentali pipe di metallo. Lo smercio avviene nelle villas miserias più degradate.  Negli ultimi anni ha avuto una diffusione esponenziale, anche in ragione del suo basso prezzo: una dose costa da uno ad un massimo di 5 pesos. Il paco argentino è il bazuco diffuso in Colombia, il pitillo della Bolivia, il kete del Perù.

pegamento / pegar: è la colla inalata dai bambini di strada, di norma è racchiusa in un sacchetto da cui essi aspirano. Il termine «pegar» indica l’atto di inalare droghe. In Argentina, il pegamento più diffuso è il Poxiran.

ranchada: nel gergo della strada indica bambine e bambini che formano un gruppo. Si ritrovano in un luogo detto «rancho», che costituisce una sorta di rifugio dove dormono e si sentono teoricamente più protetti.  Ogni ranchada ha un proprio leader. Il termine deriva dal gergo del carcere.

villas miserias: si chiamano così i quartieri informali (cioè senza permessi e strutture) cresciuti nelle periferie delle città argentine, in particolare di Buenos Aires. Sono la versione argentina delle favelas brasiliane, dei pueblos jovenes peruviani, dei ranchitos venezuelani.
(a cura di Paolo Moiola)

Le droghe dei poveri
Gli inalanti 

Gli inalanti sono sostanze chimiche che producono vapori in grado di alterare l’umore. Vengono assunti per inalazione. Esistono più di 1.000 prodotti commerciali che rientrano in questa categoria. La maggioranza di essi è economica e facilmente reperibile, anche per questa ragione sono prodotti utilizzati più dai ragazzi che dagli adulti. I più diffusi sono le colle, le veici, i solventi.
Gli effetti degli inalanti sono simili a quelli dell’alcornol. A dosi basse negli utilizzatori si produce eccitazione, euforia, aumento della sicurezza, riduzione dell’ansia, comportamento disinibito. Poiché gli effetti di queste sostanze scompaiono in breve tempo, il soggetto tende ad assumere un’altra dose. Ciò determina un utilizzo pressoché continuativo, con rischi gravi per la salute, fino a mettere in pericolo la vita. I più pericolosi sono quelli contenenti toluene e nitriti.
Gli inalanti provocano mal di testa, nausea, vomito, disturbi dell’eloquio, perdita della cornordinazione motoria, riduzione dei riflessi, tremori, problemi respiratori. L’uso a lungo termine può provocare perdita di peso, disturbi cutanei, problemi cardiorespiratori, compromissione della memoria, danni al sistema nervoso, al fegato e ai reni.
È difficile stabilire a che livello inizia il pericolo di vita. La morte può sopravvenire quando si usano per la prima volta o dopo molto tempo. Va ricordato che il metodo di inalazione più diffuso – quello dal sacchetto – aumenta notevolmente la concentrazione delle sostanze e dunque i rischi per la salute.
Le inchieste suggeriscono che l’uso di inalanti nasce di norma in ambienti socioeconomici sfavoriti, dove sono presenti povertà, abusi sessuali infantili, abbandono scolastico.  
(a cura di Paolo Moiola)

Intervista – Padre Francisco De Rito, salesiano

Hogares Don Bosco
(e i guasti di una società diseguale)

Buenos Aires. In Calle Don Bosco tutto ha il marchio dei salesiani. Abbiamo appuntamento con padre Francisco De Rito, salesiano di origini calabresi, che dopo 10 anni in Patagonia da tempo ha iniziato a seguire il progetto degli Hogares Don Bosco.

Padre, come descriverebbe in poche parole il progetto degli Hogares?
«Delicato e di grande emergenza. A Buenos Aires ci sono almeno 4.000 bambine e bambini che vivono nelle strade. Molti di essi hanno famiglia, ma preferiscono la strada. Attraverso gli educatori noi li contattiamo offrendo case di accoglienza, scolarizzazione, recupero del rapporto con le famiglie d’origine. In una parola, un altro progetto di vita».

Dopo la spaventosa crisi del 2001, in questi anni  l’Argentina guidata dai coniugi Kirchner ha fatto dei passi in avanti, almeno a livello economico. È migliorato il problema dei bambini di strada?
«In questi anni la situazione è peggiorata. Molte famiglie sono arrivate dall’interno del paese, credendo di trovare qui la soluzione ai loro problemi economici. Ma non è andata così.  Oltre a ciò, sono aumentate le situazioni di violenza all’interno delle famiglie dove, tra l’altro, spesso ci sono patrigni o matrigne».

Perché tanta violenza?
«La causa prima è la società diseguale, con troppe differenze tra chi accumula e chi non ha nulla. La scelta liberista e di mercato ha prodotto questa frattura. Stiamo migliorando, ma l’Argentina rimane un paese diseguale».

Secondo lei, quali sarebbero le prime contromisure da adottare?
«Migliorare il mondo del lavoro. Offrire a tutti un’occupazione dignitosa con cui si possa affrontare la vita, provvedere alla salute e all’educazione dei figli. Sì, il peccato peggiore è non dare alla gente un lavoro degno.  Senza di esso si genera delinquenza e passività sociale».
(pa.mo.)

Paolo Moiola




Richiamo etico

Il rispetto della vita universale presuppone una profonda coscienza etica

Da Cartesio a Kant, da Schweitzer a Gandhi è sempre più attuale l’esigenza del rispetto per la vita umana e della pace nel mondo. È però indispensabile una concezione etica che induca ad una maggiore responsabilità nei rapporti interpersonali e della collettività.

Oggi più che mai il problema dei diritti umani acquista sempre più valore e considerazione, tanto da rievocare, ad esempio, gli scritti di Immanuel Kant (1724-1804), in uno dei quali egli si pose la domanda «se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio». Un interrogativo che potrebbe auspicare una risposta ottimistica, se non fosse per la continuità degli eventi che ormai quotidianamente turbano la serenità di tutti noi.
Ma io credo che l’argomento vada ulteriormente approfondito e più «attualizzato» ricordando il principio fondamentale del pensiero di Albert Schweitzer (1875-1965), ossia il «rispetto per la vita» applicato a ogni settore dell’attività umana che entri in contatto con esseri viventi. «L’uomo – sosteneva il grand docteur alsaziano – ha la possibilità di agire in favore della vita o di recarle danno, nei rapporti con il prossimo e nel suo atteggiamento nei confronti della natura, fino a toccare i grandi problemi del nostro tempo: la pace, la crescita sociale, la cultura, la ricerca scientifica, l’ecologia».
Nel corso della sua esistenza Schweitzer ha espresso questo principio applicandolo concretamente con il rispetto del diritto alla vita, la sua libertà e dignità, il suo sviluppo, il suo valore, intendendo per vita sia quella umana, sia quella della natura. Ha insegnato a mettere in pratica la propria idea di fondo: con l’impegno della propria vita di teologo, filosofo e medico ha impresso al proprio pensiero la rara forza del testimone, ponendo in primo piano e vivendo in prima persona la solidarietà con ogni forma di vita.
Considerazioni, suggerimenti e moniti a riguardo sono riportati nella pubblicazione del 1923 Cultura ed etica; ma soprattutto il suo contributo proviene dai testi relativi al discorso che fece in occasione del conferimento del premio Nobel per la Pace, a Oslo nel 1953, e in occasione del discorso «Appello all’umanità», trasmesso nel 1957 da Oslo attraverso diverse fonti radiofoniche. Ma anche dalla sua dissertazione sulla pace fatta nel 1963, toccando i grandi problemi fondamentali della salvaguardia della vita nella situazione attuale (relativa alla sua epoca, n.d.r.) del mondo.
Nei primi anni del secolo scorso, e anche in seguito, si dedicò a una lunga ricerca: voleva conoscere la posizione dei filosofi degli ultimi decenni nel campo dell’etica, per rilevare il nostro pensiero riguardo al comportamento nei confronti del creato.
Un giorno del 1915, mentre navigava sulle acque del fiume Ogoouè per recarsi al capezzale di un ammalato, doveva costeggiare un isolotto in quel tratto di fiume. Sopra un banco di sabbia quattro ippopotami si muovevano nella sua direzione. In quel momento gli venne in mente l’espressione «rispetto per la vita». Si rese conto che tale espressione aveva in sé la soluzione del problema che lo stava assillando. Gli venne in mente un’etica incompiuta e parziale che, per quanto lui sapesse, non aveva mai sentito né letto; ossia un’etica che prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto con altri esseri umani è un’etica incompiuta e parziale, e perciò non può possedere una piena energia.

Ma cos’è il rispetto per la vita, e come nasce in noi? «Se l’uomo vuol far luce su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo – sosteneva Schweitzer -, deve prescindere dalla congerie di elementi che costituiscono il suo pensiero e la sua cultura e rifarsi al primo fatto della sua coscienza, il più immediato, quello che è perennemente presente. Solo di qui può giungere a una visione ragionata del mondo… L’affermazione della vita è l’atto spirituale con cui egli cessa di lasciarsi vivere e comincia a dedicarsi alla sua vita con rispetto per elevarla al suo vero valore. Affermare la vita è approfondire, interiorizzare ed esaltare la volontà di vivere… Il rispetto per la vita, nato dalla volontà di vivere divenuta consapevole, contiene strettamente congiunte l’affermazione del mondo e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica dell’uomo e dell’umanità».
Tutta l’etica di Schweitzer deriva dal semplice e profondo pensiero che il «rispetto per la vita», di cui ci indica le possibili applicazioni: l’etica, a suo avviso, non ha nulla a che vedere con un’interpretazione del mondo; essa deve essere cosmica e mistica senza cadere nell’astratto… Egli fonda razionalmente il rispetto per la vita, come René Descartes (Cartesio 1596-1650) fondava razionalmente la certezza della propria esistenza. Mentre Descartes dice: «Penso, dunque esisto», e poi si perde nell’astratto, Schweitzer rimane sul concreto e afferma: «Io sono la vita che vuole vivere in mezzo a vita che vuole vivere. Bisogna dunque rispettare la vita. L’uomo morale possiede il coraggio di lasciarsi tacciare di sentimentalismo, ma rispetterà la vita universalmente. Ossia l’essere umano può chiamarsi essere etico soltanto se considera sacra la vita in se stessa, sia la vita umana sia quella di ogni altra creatura».

Ma con il passare degli anni, con gli avvenimenti bellici e altri eventi, constatò che la mancanza di umanità era aumentata rispetto alle generazioni precedenti. Da un’analisi dei due conflitti mondiali e delle relative conseguenze, Schweitzer si domandava come si potesse presentare a tutti il problema della pace; in modo del tutto particolare dato che la guerra di epoche precedenti, rispetto a quella attuale, ha a disposizione mezzi di distruzione e di morte enormemente più sofisticati di quelli del passato.
Un tempo si poteva considerare la guerra un male accettabile come utile, in qualche modo, se non addirittura necessario. Era diffusa l’opinione che mediante la guerra i popoli più forti si imponessero su quelli più deboli, determinando il corso della storia. E dai molti esempi che si potrebbero citare è possibile dedurre che una guerra favorisca il progresso, ma è anche possibile che conduca a un regresso.
Se già ai tempi di Schweitzer si potevano avere meno speranze che la guerra modea procurasse un progresso, oggi, tali speranze sono ancora più lontane, in quanto la modeità e le tecnologie più avanzate sono causa di una ben più ampia distruzione, e quindi di un immane regresso.
«È evidente – ammoniva il grande filosofo – che una guerra rappresenta una orribile calamità, e non bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nei due ultimi conflitti ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura».
Se nelle diverse manifestazioni la pace, che ben comprende il rispetto per la vita, è più che altro un fatto o la conseguenza di un conflitto, considerazioni diverse vanno fatte in riferimento all’ipotesi che essa sia considerata come un bene, e quindi come un valore da perseguire e, da questo punto di vista, diverse sono le inteazionalità e intensità. Ma ciò che è importante è l’individuazione di strade razionali e fattibili che portino alla pace: privando, in via minimale, gli eventuali contendenti dei loro strumenti di guerra (disarmo); intendere la pace come prodotto di intese politiche (più o meno libere), che si traducono quindi in accordi fondati sulla potenza, ritenere che la pace discenda da una scelta matura e consapevole (pacifismo), la cui forma più intensa è la non violenza (l’antesignano della quale fu Indira Gandhi, 1917-1984).
In decenni caratterizzati dalla grande incidenza del dibattito sui problemi della vita e sul rispetto della stessa, con il contributo di Schweitzer si è venuta a formare una concezione etica che richiama la nostra responsabilità per la vita dai rapporti interpersonali all’atteggiamento nei confronti del mondo e della natura. 

Eesto Bodini

Eesto Bodini




Aria di patriottismo

Paese geograficamente e culturalmente in bilico tra Europia e Asia

Una lunga successione di imperi, invasioni, guerre e massacri, ex repubblica sovietica, indipendente dal 1991, la Georgia è pervasa da forti tensioni intee (tra i vari gruppi etnici) e a livello internazionale (distacco dall’influenza russa e legami con gli Stati Uniti). Il vento del patriottismo si riflette anche
a livello religioso: la piccola comunità cattolica rivendica le proprie chiese, usurpate dalla maggioranza ortodossa, unica chiesa riconosciuta ufficialmente dallo stato.

I n nessuna delle repubbliche ex-sovietiche da me visitate ho mai avuto problemi a orientarmi, sia nelle città che nei villaggi, grazie alla mia conoscenza del russo. In Georgia, invece, la prima volta nel metrò di Tbilisi sono rimasta interdetta: tutte le indicazioni erano nel ricciuto alfabeto georgiano. Non c’era traccia né di cirillico né di latino. Come capire in che direzione andare, a quale fermata scendere?
Era dal mio ultimo viaggio nel nord della Cina che non provavo quella sgradevole sensazione d’isolamento; eppure la Georgia è molto più vicina a noi, in tutti i sensi: è quasi Europa, o perlomeno aspira a diventarlo.
La sera, dopo aver assistito a uno spettacolo di balli nazionali georgiani, a vedere la gente che si accalcava all’uscita, sulle prime mi ero chiesta cosa ci facessero tanti italiani in quel luogo. Poi avevo sorriso della mia ingenuità: non mi ero ancora abituata alla straordinaria somiglianza di tratti tra i nostri due popoli; e mentre camminavo per le vie di Tbilisi, tutti si ostinavano a volermi parlare in georgiano. Di tale somiglianza ero cosciente dai lontani tempi degli studi a Mosca, dove venivo sistematicamente scambiata per una «gruzinka».
Raramente in un paese ho respirato un’aria tanto patriottica. I balli folcloristici appena visti, eseguiti con maestria e virtuosismo eccezionali, erano tutti un’esaltazione dello spirito nazionale georgiano; giornali e televisione inneggiavano alle qualità delle tradizioni, carattere, prodotti georgiani; nelle parole della gente risuona spesso l’orgoglio per il proprio passato eroico, le virtù guerriere, i martiri per la fede cristiana, abbracciata da questo popolo fin dal iv secolo.
«La Georgia è la nuova terra promessa. Vedrà, la rinascita del cristianesimo partirà da qui!» mi diceva una donna incontrata mentre salivo alla gigantesca cattedrale della Santa Trinità, finita di costruire nel 2004 su una collina che domina la capitale.
UNA TERRA TORMENTATA
Il Caucaso è una cerniera tra Asia ed Europa; è terra di montagne, ma anche di fertili piane e passi, attraverso cui dall’antichità sono passati popoli ed eserciti. La Georgia si distende tra le due catene del Grande e del Piccolo Caucaso, di qui occupa la parte centro occidentale.
Per buona parte montagnosa, ha al suo centro i due bacini idrici del Rioni, che corre a occidente verso il Mar Nero, e del Kura, molto più lungo, che forma la depressione transcaucasica e degrada a oriente verso il lontano Caspio. Il loro basso spartiacque divide le due antiche regioni della Colchide e dell’Iberia.
Il Caucaso costituisce un confine naturale sia per la pianura russa a nord, sia per gli altipiani iranico, a sud, e anatolico, a est: è il punto in cui sono venuti a cozzare i grandi imperi che li hanno di volta in volta dominati.
È lungo l’elenco delle potenze che si sono contese questo lembo di terra, rendendo la vita assai difficile ai popoli che lo abitavano: medi, persiani, sciti, cimmeri, parti, romani, sasanidi, bizantini, arabi, selgiuchidi, mongoli, ottomani, e, da ultimi, i russi, cui è riuscito di riunire in un unico stato cristiano le terre georgiane, dalla metà del xv secolo divise in piccoli regni soggetti ai persiani o ai turchi.
Furono i sovietici a tracciare i confini dell’attuale repubblica di Georgia. Al suo interno i georgiani costituiscono la stragrande maggioranza, più del 70%; il rimanente 30% è costituito da altre etnie: abkhazi, osseti, armeni, russi, azeri, greci.
Dal momento in cui è entrata in crisi la compagine sopranazionale dell’Urss, la presenza di queste minoranze, esigue ma territorialmente concentrate, ha reso assai tormentata la vita della repubblica. Dal 1990 essa ha vissuto due guerre civili, le cui conseguenze perdurano tutt’oggi: tra georgiani e osseti nel 1990-92, tra georgiani e abkhazi nel 1992-93. Se gli ultimi avvenimenti lasciano sperare in una distensione nei rapporti con l’Ossezia, la possibilità di ricomporre la frattura con l’Abkhazia rimane assai remota.
Altre due regioni inquiete sono l’Agiaria, abitata da georgiani etnici, ma di fede musulmana, e il Giavakheti, a maggioranza armena. Una ex-minoranza è quella dei turchi meskheti, deportati in massa in Asia Centrale da Stalin durante il secondo conflitto mondiale: fino a poco tempo fa, il governo georgiano ha negato il permesso di ritornare, ma ora stanno rientrando alla spicciolata.
Problemi non da poco per un paese che è meno di un quarto dell’Italia.
OCCUPAZIONE SOVIETICA
I georgiani hanno sempre manifestato un forte senso d’identità. Nel 1978, ancora in pieno totalitarismo sovietico, estese manifestazioni popolari costrinsero Mosca a modificare la nuova costituzione repubblicana, che stabiliva il russo come lingua di stato, e a riconfermare la priorità del georgiano. Essi furono tra i primi e più convinti sostenitori della secessione dall’Urss. Con l’indipendenza e l’erompere dei nazionalismi uguali e contrari di abkhazi e osseti, il patriottismo dei georgiani si è ulteriormente acuito. A fae le spese è stato anche il vicino russo, cui viene attribuita la causa di tutti i mali che affliggono la repubblica.
«I russi, che brutta razza» sono le prime parole udite sul loro conto al mio arrivo in Georgia, durante uno degli ormai ricorrenti conflitti tra i governi dei due paesi. Tbilisi da anni accusa Mosca, e non senza fondamento, di sostenere il separatismo abkhazo e osseto; Mosca accusa Tbilisi di dare rifugio ai guerriglieri ceceni. Quella volta sembrava che dovesse finire peggio del solito e l’esercito georgiano aveva già avuto l’ordine di mobilitazione. 
L’occupazione sovietica è sempre stata mal digerita dai georgiani. Subito dopo la rivoluzione del 1917 la Georgia si era resa indipendente e solo nel febbraio del 1921 fu riconquistata dall’armata rossa e costretta ad aderire all’Urss. In seguito, tuttavia, i georgiani diedero un considerevole contributo al regime sovietico, i cui crimini non si possono imputare ai soli russi. Georgiani erano Stalin e Berija, dal 1942 capo dell’Nkvd e della polizia politica: la Georgia non può certo chiamarsene fuori.
Ai tempi dell’Urss la repubblica godeva di un tenore di vita alto rispetto ad altre parti dell’Unione, crollato rapidamente dopo l’indipendenza con la chiusura delle fabbriche e lo scatenarsi dei conflitti sopra accennati. Eppure, a differenza di altre repubbliche ex sovietiche, qui non ho sentito nessuno lamentarsi che, almeno dal lato economico, si stava meglio prima.
Patriottismo… indolenTE
L’amor di patria non è certo un cattivo sentimento; ma, allora, perché tutte quelle braccia giovani e forti pendono inerti dalle spalle, perché tutti quegli uomini seduti ai bar o appoggiati al muro di una casa? Perché le buche nelle strade non vengono colmate, i campi rimangono incolti, gli edifici cadono a pezzi senza che nessuno li ripari?
Appena si lascia la Georgia e si entra in Turchia, attraverso il remoto posto di frontiera tra le montagne del Samtskhe, sembra di essere catapultati in Svizzera, tanto è stupefacente il contrasto tra le due parti del confine. D’improvviso l’auto prende a scivolare su un asfalto lucente, ovunque si vedono i segni del lavoro dell’uomo nei campi ordinati, nelle case, nei paesi.
Qualche ora prima, in territorio georgiano, la nostra jeep arrancava su una strada tutta buche, con un pallido ricordo dell’antico fondo asfaltato; si attraversava paesi decrepiti e campi incolti. Nella cittadina di Vale, il maggiore centro urbano prima della frontiera, il luogo più animato era la fontana, dove la gente veniva di continuo ad attingere acqua, che le tubature rotte ormai non portano più nelle case. Seduti sulle panche sistemate lì accanto o appoggiati agli alberi della via, c’erano diversi giovani in attesa, di che cosa? Forse, di un autobus che non passa mai. Di scene simili in Georgia se ne possono osservare a ogni passo, nelle città come nei villaggi.
Il conte polacco Jan Potocki, che viaggiò nel 1797 da Mosca al Caucaso, così scriveva nel suo diario: «Ho attraversato ancora un villaggio cosacco e sebbene non fosse più giorno festivo, ma feriale, non ho visto nessuno che si occupasse di alcuna opera e il far niente mi sembra in gran favore presso questo popolo». Almeno sotto quest’aspetto russi e georgiani sono fratelli. Anche a chi viaggia in terra georgiana viene da pensare che la cultura del lavoro non vi sia molto sviluppata, se non altro nella sua parte maschile, perché le donne sembrano avere un ruolo più attivo nell’economia.
Non se ne può dare tutta la colpa al periodo sovietico, che ha inibito la libera iniziativa, o alla mancanza di lavoro, che ha spinto i più intraprendenti ad andarlo a cercare in altri paesi, soprattutto in Russia. Padre Carlo, della missione stimmatina di Kutaisi, così spiega l’indolenza degli uomini: «Nel passato il loro compito era difendere la famiglia e la terra dagli aggressori, la casa non interessava perché poteva andare distrutta. Anche oggi l’uomo presidia il territorio, lo tiene sotto controllo, ed è pronto a prendere le armi in qualsiasi momento per difenderlo. Partirebbero tutti quanti alla riconquista dell’Abkhazia, che considerano terra loro, se il governo non lo impedisse».
È vero, i georgiani erano famosi e apprezzati per le loro doti guerresche, sviluppate in secoli di lotte contro invasori e razziatori d’ogni sorta. Nel xiii secolo i mongoli li utilizzarono addirittura nelle campagne contro Baghdad e l’Egitto, con ottimi risultati. Oggi, però, l’abilità nel guerreggiare purtroppo non è sufficiente a fare andare avanti il paese.
TRA RUSSIA E OCCIDENTE
La Georgia era il frutteto dell’Urss. Le condizioni climatiche vi permettono la coltivazione di una gran varietà di colture, non solo frutticole. Nella piana del Rioni, che ha un microclima subtropicale, crescono grano, riso, tabacco, cotone, tè; la Kakhetia, a ovest, è il regno della vite. Sono scarse, invece, le risorse del sottosuolo, se si esclude il manganese. Per questo, mentre l’industria vi era relativamente poco sviluppata, sulle tavole di tutta l’Urss si gustavano i prodotti della terra georgiana: vino, acque minerali, agrumi, tè.
Il fatto d’avere la sua maggiore ricchezza nell’agricoltura è stata una fortuna per il paese. Con la fine dell’Urss, mentre molte fabbriche, qui come in altre repubbliche ex sovietiche, erano costrette a chiudere per l’interrompersi di un ciclo economico atto a funzionare solo all’interno del gran corpo dell’Unione, la Russia ha continuato a consumare i prodotti georgiani, di cui è rimasta il maggior importatore. Ora, però, la politica apertamente russofoba del nuovo governo ha compromesso rapporti commerciali consolidati, causando ingenti perdite al settore agricolo.
Questo nuovo corso si è inaugurato all’inizio del 2004 con l’elezione alla presidenza di Mikhail Saakashvili, un giovane avvocato di 35 anni. Egli ha fatto una scelta decisamente filo-occidentale, rivolta in primo luogo agli Stati Uniti. Non ha, però, abbandonato gli slogan nazionalisti. Oltre a guardare a ovest, oltre alla lotta alla corruzione, il suo Movimento nazionale ha come obiettivo quello di ripristinare il controllo centrale sulle regioni secessioniste. Un programma ampiamente condiviso, se gli ha permesso di conquistare il 97% dei voti.
Questo governo dei «ragazzini» – come qualche georgiano lo definisce con condiscendenza, riferendosi alla squadra di trentenni e quarantenni di cui il presidente si è circondato – qualche risultato l’ha ottenuto. Tbilisi è riuscita a spodestare dall’Agiaria il governatore Aslan Abashidze, che dagli anni ‘90 l’aveva retta come un feudo personale, e sta ora cercando di riprendersi l’Ossezia con una politica di divide et impera e di allettamenti economici.
Anche la lotta alla corruzione ha dato qualche esito, per lo meno tra le forze dell’ordine. Da un giorno all’altro sono stati licenziati tutti i poliziotti. «Per tre mesi non se ne è visto uno in giro – ricorda padre Carlo -; poi, al posto dei vecchi agenti, tronfi e panciuti, ne sono comparsi di nuovi: tutti in perfetta tenuta, magri, puliti, rasati, educati e, soprattutto, che non chiedono soldi. Bisogna dire che adesso la polizia funziona».
Dopo l’arrivo al potere di Saakashvili gli aiuti occidentali sono più che raddoppiati: si calcola che, in rapporto alla popolazione, la Georgia sia la maggiore beneficiaria delle elargizioni americane, dopo Israele. Il presidente, e con lui la maggioranza dei georgiani, ha scelto di stare con l’Occidente, ignorando i russi. Ma, a meno che il paese non intenda vivere di sussidi, permane un ragionevole dubbio su quanto tale scelta sia compatibile con i suoi reali interessi.
Dal punto di vista economico la Georgia interessa all’Occidente soprattutto come terra di passaggio del gas e petrolio del Caspio. È in questo settore che si concentrano gli investimenti esteri. Ma quella legata agli idrocarburi è ricchezza volatile, che dura tanto quanto dura il greggio e che tende a finire nelle mani di pochi.
Lo sbocco naturale per l’economia georgiana rimane la Russia, e non solo come mercato di beni, ma anche di forza lavoro. Le rimesse di coloro che vi lavorano costituiscono da sole il 5% del bilancio della repubblica.
In ogni caso, a dispetto di sussidi e investimenti la Georgia continua a vivere in povertà. Ciò è evidente perfino nella capitale Tbilisi, dove non sembra che molto sia stato fatto dai tempi sovietici. Negli ultimi anni alcuni edifici sono stati ristrutturati, altri sono stati costruiti, qualche cantiere è aperto. In centro sono state rimesse a posto un paio di vie pedonali, dove hanno aperto ristoranti, caffè e negozi alla moda; ma appena ci si allontana di pochi metri ci si trova tra case semidiroccate, balconi sbilenchi, muri pericolanti, cortili ingombri di macerie. È un peccato. Delle tre capitali caucasiche Tbilisi è di gran lunga la più interessante.
PRIMO STATO CRISTIANO
Forse gli edifici che hanno maggiormente beneficiato della fine dell’Urss sono quelli religiosi. Sono tante le chiese a Tbilisi e in tutta la Georgia scampate alla furia del bolscevismo e in questi anni ritornate in possesso del Patriarcato; molte di esse sono state restaurate. Abituata alle pareti spoglie, severe delle chiese in Armenia, l’altro paese cristiano del Caucaso, che nell’architettura sono molto simili a quelle georgiane, la prima volta che sono entrata in una chiesa di Tbilisi sono rimasta a bocca aperta: le pareti erano coperte da affreschi in cui predominavano le tinte allegre e luminose, l’azzurro negli sfondi, il rosso, il giallo e il bianco nelle figure. Le figure erano disegnate con tratti ingenui, occhi grandi, facce buffe e buone. Una vera gioia per gli occhi.
In Georgia le chiese raramente sono vuote; in qualsiasi giorno e a qualsiasi ora c’è sempre un via vai di fedeli che si fermano a pregare davanti a un’icona, mettono una candelina ed escono segnandosi devotamente. Anche per la via o durante un viaggio, molti nel passare accanto a una chiesa si segnano con larghi gesti.
La conversione della Georgia al cristianesimo avvenne intorno al 330. La tradizione la fa risalire al battesimo del re d’Iberia Mirian a opera di santa Nino, una giovane prigioniera della Cappadocia. Da allora il cristianesimo fu accettato come religione di stato e formò l’identità nazionale dei georgiani, contraddistinguendoli dagli altri popoli della regione, dove, col passare dei secoli, la presenza dell’islam si andava facendo sempre più soverchiante.
La Georgia ha una lunga lista di martiri per la fede cristiana. Si ricordano anche episodi di martirio collettivo, come quello dei 100 mila abitanti di Tbilisi, uomini, donne, bambini, che nel 1227, durante l’invasione del turco Jelal ad-din, si rifiutarono di calpestare le icone della Vergine e del Salvatore e furono decapitati. Stessa sorte toccò nel 1616 a 6 mila monaci del monastero di Davit Garegia ad opera dei soldati dello scià di Persia Abbas I.
Il sentimento religioso ha raggiunto in Georgia espressioni altissime soprattutto in architettura e lavorazione dei metalli. Dopo secoli di invasioni e saccheggi, è ancora molto grande la quantità di opere d’arte sacra che oggi possiamo ammirare. Basterebbe una visita al Tesoro, custodito all’interno del Museo dell’arte di Tbilisi, dove sono esposti alcuni dei capolavori dei maestri orafi: oggetti liturgici, icone, croci di grande valore artistico testimoni della storia del cristianesimo georgiano.
La Georgia è stata nei secoli un raro esempio di tolleranza religiosa, vi hanno vissuto insieme ortodossi e musulmani, ebrei e cattolici. Queste comunità, tutt’ora presenti nel paese, hanno una lunga tradizione di convivenza pacifica e hanno tutte ugualmente sofferto durante i 70 anni di regime sovietico. Ma negli anni ‘90, con l’indipendenza, il vento del nazionalismo ha cominciato a soffiare anche in campo religioso.
CATTOLICI DIMEZZATI
Kutaisi, al centro della fertile piana del Rioni, è la seconda città della Georgia. Qui si sente la vicinanza del mare, il caldo è umido e la vegetazione lussureggiante. Un tempo capitale del regno d’Imereti, sede di alcune delle vestigia più care al cuore dei georgiani, oggi la città dà un’impressione di sordida miseria. Nel periodo sovietico era un importante centro industriale, ma ora le fabbriche sono chiuse e il lavoro manca.
Mia destinazione a Kutaisi era il Centro cattolico, tenuto da tre padri stimmatini e tre suore della congregazione delle Piccole figlie di san Giuseppe. Il Centro ha sede nel quartiere ebraico, in una palazzina ristrutturata da padre Gabriele, il primo ad arrivare in Georgia. Al piano terra è stata allestita una cappella, unico luogo di preghiera per la comunità locale, perché la chiesa cattolica è stata presa dagli ortodossi e da anni se ne chiede inutilmente la restituzione.
Ad accogliermi ho trovato padre Carlo, suor Annamaria e suor Josephina. A cena, naturalmente, si è parlato della situazione in Georgia. Mi era rimasta impressa una frase detta quella mattina da padre Rolandas, della nunziatura, dopo la messa celebrata nella chiesa dei santi Pietro e Paolo a Tbilisi: «La chiesa cattolica non ha status ufficiale nel paese. Non è mai stata riconosciuta dal governo e funziona solo come associazione privata». La cosa mi era sembrata strana, perché perfino in Russia, dove notoriamente i rapporti tra Patriarcato e Santa Sede non sono facili, la chiesa cattolica è ufficialmente riconosciuta. Ero convinta di avere inteso male.
«Proprio così – mi diceva padre Carlo -. Però siamo in buona compagnia. Qui di ufficiale c’è solo la chiesa ortodossa, nessuna delle altre comunità religiose è riconosciuta. Per motivi nazionalistici. Eppure gli ebrei, per esempio, non sono arrivati ieri: nel 2000 a Kutaisi hanno celebrato i 2.500 anni di permanenza».
I padri stimmatini sono qui da 14 anni. «Siamo arrivati nel 1994, perché i cattolici di Kutaisi, attraverso la nunziatura aperta nel 1992, avevano chiesto di avere dei preti – ha spiegato padre Carlo -. L’ultimo prete cattolico era morto nel 1943. Gli italiani sono più bene accetti dei polacchi, che tradizionalmente servono i territori della Russia e dell’ex Urss. Italiano è stato anche il primo rettore del seminario di Tbilisi. Ai tempi dell’Urss c’erano, tra georgiani e armeni circa 50 mila cattolici, ma dagli anni ‘90 in poi questo numero si è dimezzato».
Era un’altra notizia di cui facevo fatica a capacitarmi: come è possibile che il numero dei cattolici si sia dimezzato, rispetto al periodo sovietico, quando non c’era libertà di culto, le chiese quasi tutte chiuse e senza preti, mentre adesso si può liberamente professare la propria fede? «La faccenda non è semplice. Domani vai a trovare padre Gabriele a Batumi: è lui la persona più indicata a spiegartela» mi disse suor Annamaria.
Dopo cena, insieme a suor Annamaria, ho dato un’occhiata a una delle sinagoghe di Kutaisi, a pochi passi dalla casa dei missionari. Il prospiciente giardinetto, risistemato in occasione del 2.500° anniversario della comunità, mostrava già segni di degrado. Poco lontano s’intravedeva la grande mole dell’ormai ex-chiesa cattolica, proprio di fronte al promontorio dove spiccano le rovine dell’antica cattedrale di Bagrat, lasciate a memoria della furia turca che la distrusse nel 1692.
Al mattino siamo partite presto, io per Batumi, suor Annamaria e suor Josephina per la regione impervia a sud della Georgia dove vivono alcune comunità di cattolici armeni. Meno male che guidavano una solida jeep perché, come ho già detto, le strade georgiane mettono a dura prova ruote e sospensioni. «I preti cattolici georgiani sono solo due, quindi dobbiamo trottare parecchio per raggiungere tutti coloro che hanno bisogno di noi» mi spiegavano le suore.
A Batumi ho trovato padre Gabriele nella sua «nave», così padre Carlo mi aveva descritto l’architettura della nuova chiesa cattolica, costruita nel 2000, al posto della cattedrale in centro città, passata ora agli ortodossi. Il paragone è tanto più appropriato in quanto la chiesa si trova proprio di fronte al porto.  Padre Gabriele non poteva fermarsi molto a lungo, ma mi ha concesso tutto il tempo necessario per rispondere alle mie domande. È stata una conversazione cordiale, ma che ha lasciato l’amaro in bocca (vedi riquadro).
La giornata termina con la visita alla nuova chiesa, anch’essa, come la cappellina di Kutaisi, progettata da padre Gabriele. Sebbene molto più piccola della vecchia cattedrale cattolica, è pur sempre spaziosa, atta a ospitare una discreta assemblea di fedeli, che però, se trovassero conferma le parole del vescovo di Batumi, presto potrebbe non esserci più. 

Di Bianca Maria Balestra

L’ECUMENISMO CHE NON C’È

Padre Gabriele mi aveva ritagliato uno spazio fra i suoi tanti impegni. Il tempo era poco e tante erano le cose che avrei voluto chiarire, così ci siamo messi subito al lavoro.

Se la chiesa di Roma non è riconosciuta, come si spiega la visita di Giovanni Paolo ii nel novembre 1999?
«Il papa è venuto come capo di stato e come personaggio storico che ha contribuito alla fine dell’Urss. È stato invitato dall’allora presidente Shevaadze; il patriarca non ha potuto opporsi, l’ha accolto a denti stretti. Però la chiesa ortodossa ha chiesto che la messa non si facesse in piazza, così si è celebrata allo stadio. Nel frattempo alla televisione veniva detto che chi vi avesse partecipato sarebbe stato scomunicato».

Come mai tanta acrimonia verso i cattolici? Forse per ragioni storiche?
«Niente affatto. I georgiani hanno sempre avuto rapporti con la chiesa di Roma. La Georgia è rimasta lontana dalle vicende legate allo scisma, non ci sono rotture ufficiali con Roma. Domenicani e francescani sono arrivati su invito dei re locali, qui avevamo scuole, chiese e monasteri. Nel tempo ci sono stati diversi scambi di lettere tra i re georgiani, il Patriarcato e la Santa Sede. Tra le nostre chiese c’è una storia di bellissimi rapporti fratei. Quando, ad esempio, nel 1918 fu ricostituito il Patriarcato, che era stato sostituito da un sinodo dopo l’arrivo dei russi alla fine del xviii secolo, la prima chiesa a congratularsi fu quella di Roma. Fino a 20 anni fa i cattolici che venivano in Georgia partecipavano alla messa e venivano ammessi alla comunione; ciò valeva anche per le delegazioni ufficiali inviate dal Vaticano. Durante il comunismo i preti cattolici erano sostenuti dai preti del Patriarcato. Ci si aiutava a vicenda per l’amministrazione dei sacramenti. Ci si faceva battezzare o sposare da preti ortodossi e cattolici indifferentemente».

Ma, allora, cos’è successo?
«È successo che all’ideologia comunista è subentrata quella nazionalista, secondo la quale il georgiano deve essere ortodosso. Adesso l’ortodossia georgiana è la più chiusa di tutte. Non per caso una delle colpe che ci rimproverano è l’ecumenismo. E non soltanto a noi. Quando nel 2003 il patriarca di Costantinopoli è venuto a Kutaisi, ha fatto un discorso sull’unità delle chiese. Ciò non è piaciuto ad alcuni gruppi fanatici, che lo hanno duramente contestato. Anche una mia conferenza ad Akhaltsikhe è stata interrotta da gruppi estremisti. I giovani che vogliono essere ortodossi entrano in questi gruppi. Ufficialmente la chiesa non li sostiene, ma, di fatto, se ne serve».

E come spiegare che il numero di cattolici oggi si è dimezzato rispetto ai tempi dell’ateismo di stato?
«Non è poi così strano. I cattolici sono sottoposti a mille pressioni. Sui mass media c’è un bombardamento in favore dell’ortodossia. Alla televisione, ad esempio, è stato trasmesso il matrimonio di un cattolico diventato ortodosso. Gruppi fanatici hanno distribuito viveri ai villaggi cattolici perché passassero all’ortodossia; mentre la Caritas viene tacciata di fare proselitismo. E poi c’è la dolorosa questione delle chiese.
Nel 1988-89 i cattolici di Kutaisi hanno chiesto di poter riaprire la loro chiesa. Essa è stata sì riaperta, ma per essere consegnata agli ortodossi. Il processo che ne è seguito non ha portato alla restituzione, nonostante che i documenti prodotti dimostrassero senza possibilità di dubbio la sua appartenenza alla comunità cattolica. La Santa Sede non ha voluto insistere per non creare contrasti. A Batumi è successo qualcosa di simile; qui, però, siccome siamo in Agiaria, che è regione autonoma, abbiamo potuto almeno costruire un’altra chiesa. Sono cinque le chiese cattoliche prese dagli ortodossi: a Kutaisi, Batumi, Gori e due nel sud. Sembra che siamo noi ad averle rubate un tempo e che adesso gli ortodossi se le stiano giustamente riprendendo.
Roma chiede di far silenzio per l’unità dei cristiani, come se qui la giustizia non contasse. Il Vaticano ha detto: non preoccupatevi delle chiese, il dialogo è più importante. Va bene, non parliamo delle chiese. E del fatto che la gente viene ribattezzata? Neanche. È un fenomeno iniziato negli anni ‘90. Ci sono stati anziani ottantenni ribattezzati, perché il prete aveva detto loro che altrimenti non sarebbero entrati in paradiso con la moglie o il marito. Si riesce a immaginare che trauma è stato per quelle persone? Piangevano mentre lo raccontavano.
La chiesa di Roma non sta aiutando quei georgiani che hanno sofferto per rimanerle uniti. In questo modo si sta facendo morire il cattolicesimo. Il vescovo di Batumi lo ha detto: costruite pure la vostra chiesa, tanto fra poco sarà mia, perché non ci saranno più cattolici. Prima intorno alla chiesa di Kutaisi abitavano cattolici, adesso non più. Si sta perdendo la memoria del passato e le nuove generazioni non hanno più il riferimento di un luogo fisico.
In compenso per i giovani ortodossi quella chiesa è loro, perché vi sono stati battezzati. Andrebbe ancora bene se ci considerassero fratelli, ma quando ci dicono che siamo figli di satana… Qui mi sono sentito chiamare eretico, mi hanno anche buttato fuori dalle chiese.

Eppure il dialogo tra la chiesa cattolica e quella ortodossa sembra procedere bene, più che con le altre confessioni cristiane.
Non in Georgia. Purtroppo qui l’evoluzione è in negativo, ma in Europa non lo si percepisce. I bei discorsi del patriarca restano tra le quattro mura. Il pubblico georgiano non sa che è venuto il cardinale Kasper; che la chiesa ortodossa georgiana partecipa agli incontri ecumenici a Belgrado o al funerale del papa. Tali notizie non vengono date sul giornale del patriarcato. Si scrive di una delegazione andata a Bari a vedere le reliquie di san Nicola, si omette che quella è una chiesa cattolica, dove i georgiani hanno celebrato una messa. Infatti, all’estero i georgiani celebrano nelle chiese cattoliche.
Adesso ha preso il via una commissione mista cattolica-ortodossa. Nel 2004 si era detto: se voi smettete il processo per la chiesa cattolica di Kutaisi ne parliamo attorno a un tavolo. Ebbene, il primo incontro si è tenuto nel 2007. Noi abbiamo espresso la nostra posizione, ma finora nessuna risposta è arrivata da parte degli ortodossi. D’altronde, cosa ci aspettiamo, se di questi problemi non riusciamo a parlarne neanche tra noi cattolici?».                                            

Bianca Maria Balestra

Biancamaria Balestra