Piccoli uomini, grandi inquietudini

Pigmei: la difficile via dell’integrazione

I pigmei sono stati tenuti per secoli in stato di emarginazione e servaggio dalle popolazioni bantu. Negli ultimi decenni è cominciato il loro inserimento nella società congolese, grazie anche a organizzazioni non governative (ong) locali. Un processo lento, che richiede il riconoscimento della cultura e maggiore rispetto dei diritti umani di più abitanti delle foreste equatoriali africane.

Goma, estremo est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Rwanda. Il nome della città evoca disastri, dalle ondate di profughi in fuga dal genocidio rwandese alla terribile eruzione del vulcano Niyragongo, che nel 2002 rase al suolo il centro abitato. I suoi segni sono tutt’ora visibili nello spesso strato di lava nera che ricopre tutto e su cui la gente ha ricostruito le proprie povere abitazioni.
Difficile fare un elenco delle priorità, in questo angolo di Congo: le numerose ong si occupano di povertà, istruzione, sanità, recupero delle vittime di guerra. Passa così in secondo piano un’altra realtà, di cui pochi si interessano: la situazione delle popolazioni pigmee, poveri tra i poveri e spesso discriminati dalle popolazioni bantu.
Esistono tuttavia alcune piccole ong locali che tentano interventi in favore dei più antichi abitanti di questa parte d’Africa: attività gestite da congolesi bantu che cercano di contrastare la mentalità dominante che emargina i pigmei. Certo, mancano i mezzi, ma soprattutto a volte manca una reale conoscenza della cultura pigmea. Con il rischio di fare danni, pur con le migliori intenzioni.
la Uefa
I ncontriamo l’associazione Union pour l’Emancipation de la Femme Autoctone (Uefa) nella propria sede, una piccolissima stanza in un edificio sull’unica strada asfaltata di Goma. Il personale si mostra un po’ titubante, ma qualcuno accetta di raccontarci delle loro attività.
Le parole della segretaria (che non vuole darci il nome) sono molto significative e rivelano il loro tipo di approccio: «Lavoriamo in sei luoghi nei dintorni di Goma. Il nostro obiettivo principale è l’integrazione: quella pigmea è una popolazione miserabile, che vive di elemosina. Non vogliono più fare la vita nomade, quindi insegniamo loro l’agricoltura e spieghiamo come lavorare con i non pigmei. Abbiamo assistenti sociali sul terreno e ci adoperiamo anche per le donne vittime di violenza, che accompagniamo al centro più vicino di salute».
La Uefa sopravvive con finanziamenti dal Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) per i progetti sull’agricoltura e dall’Irc (Italian Resuscitation Council) per la parte medica. Con questi fondi, foiscono alle donne violate anche un aiuto economico, comprando loro maiali e vacche, in modo che possano avviare un’attività. La sede principale dell’ong è nella città di Bukavu, più a sud. A Goma le loro attività sono iniziate tre anni fa, dopo l’eruzione.
Tanta buona volontà e spesso anche con buoni esiti, ma la mentalità di fondo non si discosta troppo dalla cultura generale. Prosegue infatti la donna: «Non è facile lavorare con i pigmei, sono primitivi. Ora che vivono coi non pigmei, cominciano a integrarsi, ma non vogliono studiare. Grazie al lavoro di alcuni educatori popolari che si occupano di alfabetizzazione degli adulti, cerchiamo di far loro capire che l’istruzione è importante».
E conclude notando che i pigmei cominciano a perdere la loro cultura tradizionale, perché non possono più mantenere il loro stile di vita, basato sulla caccia e la raccolta dei frutti. Ad esempio non possono più entrare nel parco nazionale del Virunga: troppo alti i rischi legati all’insicurezza, come dimostrano i pigmei sfollati presso il Lago Verde. «Lo stato ha da tempo deciso che non possono più vivere come animali: sono persone e devono vivere come gli altri» conclude la donna.
Il Cidopy
Sulla strada che attraversa Goma da nord a sud sorge la sede del Centre d’information et de documentation pygmees (Cidopy), un’altra ong locale. Qui l’atteggiamento è diverso. Ci spiega Achille Biffumbu, il responsabile: «Collaboriamo con una fondazione olandese, che dal 1989 lavora coi pigmei della regione settentrionale dell’Ituri: con la guerra loro sono stati obbligati a sospendere le loro attività dirette e hanno preso contatti con noi. Qui a Goma lavoriamo dal 2005. Statistiche sui pigmei non ce ne sono; esistono delle stime che parlano di 15 mila pigmei qui nel Kivu e 60 mila in Ituri. Abbiamo cominciato il nostro lavoro dalla salute, dalla scolarizzazione dei bambini e da attività agricole; ma incontravamo molte difficoltà. È così che siamo arrivati a comprendere che la cultura pigmea si sta perdendo non per il contatto con i bantu, ma per il modo che si ha di lavorare con loro».
Gli esempi non mancano: più a nord un missionario ha costruito piccole case in tolla per loro; ma, dietro la casa, i pigmei costruiscono ugualmente le loro capanne. O ancora: i pigmei sfollati presso il Lago Verde hanno chiesto legno per costruire delle case, ma poi l’hanno venduto.
«È difficile capire – prosegue Achille -. Per questo preferiamo lavorare con loro, adattandoci alla loro cultura e facendo un’analisi antropologica dei loro bisogni».
Lo stesso vale anche per il lavoro coi bambini, che hanno un modo diverso di studiare: quando è il periodo della caccia o della raccolta del miele, vanno in foresta con la famiglia. Allora, bisogna adattare il calendario scolastico ai loro bisogni.
In questo il Cidopy si è avvalso di un programma di scambio con altre ong che lavorano coi pigmei in Camerun e l’anno scorso hanno organizzato una sessione di aggioamento per gli insegnanti delle scuole in cui ci sono bimbi pigmei. Nel Kivu la composizione delle classi è mista: il 25% dei bambini sono bantu e molti non sono facilmente distinguibili, segno di una commistione tra bantu e pigmei.
«Il problema fondamentale di cui ci siamo resi conto – prosegue Achille – è che molta gente lavora con loro senza conoscee la cultura. Prendiamo il settore sanitario: i pigmei hanno difficoltà a frequentare i centri di salute, per vari motivi: se non li capiamo, pensiamo che siano refrattari. Se dite a un pigmeo di andare all’ospedale, ci andrà tutto il villaggio. Un pigmeo non passa la notte in un letto. Allora, noi costruiamo una casa in tolla o in foglie di fianco all’ospedale, dove possono trascorrere la notte facendo il fuoco. Abbiamo pensato di creare piccole équipes mobili per la sensibilizzazione sanitaria e da alcuni mesi è in funzione una clinica mobile».
Attualmente non esistono direttive politiche; ma durante la dittatura Mobutu ne aveva deciso l’integrazione forzata: tutti i pigmei dovevano lasciare le foreste e vivere ai margini della strada. Dunque, la mentalità che ancora esiste nelle popolazioni bantu che vedono i pigmei come «primitivi» da «normalizzare» è un’eredità di Mobutu.
Oggi che la situazione politica del paese è cambiata e si sono finalmente avute le prime elezioni multipartitiche dal 1960, qualcosa è mutato anche per i pigmei. In occasione della giornata mondiale delle popolazioni autoctone, è stata resa pubblica una loro dichiarazione nei confronti del governo: sono senza terra e non protetti dalla legge; vengono cacciati perché nessuno se ne occupa.
In un paese come il Congo, con tante emergenze, non vengono considerati una priorità. Così il Cidopy, grazie a un finanziamento olandese, ha steso un progetto per ottenere il riconoscimento formale delle terre dei pigmei e ha approntato l’accompagnamento giuridico necessario.
Quanto alla politica, Achille spiega: «Esistono rappresentanti pigmei, ma c’è un problema di leadership tra di loro. In Rwanda i pigmei sono ben organizzati; in Burundi una di loro, Liberate Nichayenzi, è diventata deputata e si sta dimostrando in gamba. Qui invece ci sono molti opportunisti, sia bantu che pigmei, che cercano di trarre profitto personale da una posizione di leadership. Resta aperta la questione di come trovare rappresentanti validi: non abbiamo ancora una risposta, ma ci stiamo lavorando, perché sappiamo quanto sia importante dar loro voce nelle istituzioni democratiche che stanno nascendo». 

Di Giusy Baioni

Giusy Baioni




Banche e traffici nel paese del canale

Panama: reportage dal paese centroamericano

Paese piccolo ma importante per la sua posizione di cerniera tra nord e sud America, Panamá era conosciuto soprattutto per il suo canale (per lungo tempo affittato agli Stati Uniti) e per le banane. Oggi il paese possiede una delle flotte mercantili più grandi del mondo (ma in mani straniere) ed è una piazza finanziaria rilevante (ma molto discussa). In questo contesto, siamo andati a vedere come vivono le popolazioni indigene sopravvissute all’invasione bianca.

Abbondanza di farfalle, alberi e fiori: questo il significato di Panamá, nome indigeno del piccolo paese situato in posizione strategica tra il nord e il sud America. Un luogo speciale, dove è avvenuto l’incontro non soltanto di culture indigene ma anche di specie animali e vegetali.
La popolazione di Panamá comprende, oltre alla maggioranza di mestizos, un 10% di origine cinese, una comunità nera che vive sulla costa caraibica e alcune tribù indie.
La capitale, che è stata la prima città fondata da europei sull’oceano Pacifico, si presenta come una modea metropoli con un grosso nucleo di alti edifici in cemento, parchi, monumenti e chiese. Famoso centro finanziario internazionale, accoglie circa 400 banche, dove pare venga riciclato il denaro proveniente dal traffico della droga. I colombiani sono coinvolti in numerose attività, dagli alberghi ai casinò, ma soprattutto nell’impresa edile, in forte espansione in città e anche sulle coste del pacifico, dove sorgono centri turistici per i nordamericani in vacanza.
Tutti i complessi di lusso sono protetti da muri e guardie armate, ma il filo spinato e le inferriate alle finestre le notiamo anche sulle modeste case dei quartieri poveri. Questa è una costante nei paesi dell’America Latina, che dimostra quanto gravi siano i problemi della violenza metropolitana.
Dell’antica città fondata dagli spagnoli nel 1519 (come avamposto per i traffici con le ricche colonie del Pacifico) rimane un complesso di ruderi circondato dalla foresta e dal mare, che durante la marea si ritira lasciando un vasto spazio fangoso. I vascelli carichi dell’oro peruviano si fermavano al largo e il prezioso carico veniva immagazzinato sull’isola di Perico, una delle 4 che chiudono il golfo e che ora sono unite da una strada costruita con il materiale estratto dal canale. La città, ricca di palazzi e conventi ma non protetta da mura,  venne rasa al suolo dal pirata Morgan nel secolo successivo. Gli spagnoli ricostruirono la città dall’altra parte della baia, in posizione più difendibile e oggi è un giorniello di architettura coloniale, in via di restauro. In uno dei palazzi più belli, costruito dai francesi a fine ‘800, visiteremo il museo del Canale di Panamá, dedicato alla sua tormentata storia, dai primi progetti fatti dai francesi, fino alla sua realizzazione da parte degli statunitensi, avvenuta tra il 1903 e il 1914, anno dell’apertura.

Il canale delle Americhe:
una risorsa contesa

Ci imbarchiamo sul battello che da Gamboa percorre il canale e attraversa le chiuse che permettono alle navi di scendere dal lago Gatun, un invaso artificiale riempito dalle acque del rio Chagres, al livello del Pacifico. Navighiamo seguiti da un grosso bastimento, in un contesto naturale di fitte foreste. I lavori di mantenimento e allargamento del canale continuano senza sosta per rendere più agevole il passaggio delle navi, che a volte devono attendere giorni per passare. ll nuovo progetto di allargamento del canale, del costo di 5,25 miliardi di dollari, sarà anche finanziato dai cinesi, interessati all’espansione del loro commercio. Una terza corsia sarà costruita con chiuse più grandi, in grado di contenere i giganteschi cargo da 12.000 containers, che superano le misure Panamax (con questa sigla si indicano le navi le cui dimensioni permettono il passaggio attraverso le chiuse del canale di Panamá, ndr).
Prima di uscire in mare aperto passiamo sotto il ponte delle due Americhe, percorso dalla Panamericana (la strada che parte dall’Alaska e corre per migliaia di chilometri fino a raggiungere i fiordi cileni) presso il quale i cinesi hanno costruito un monumento in memoria dei connazionali morti durante i lavori di costruzione del canale. La metà dei 45.000 lavoratori, reclutati in tutto il mondo, anche tra i neri delle colonie caraibiche, morirono per incidenti e malattie, febbre gialla e malaria.

Gli emberá del Darién:
da cacciatori a guide

A Panamá la Panamericana si ferma davanti a una foresta impenetrabile. Una regione selvaggia, il Darién, percorsa da canali, paludi, montagne,  fiumi e cascate, abitata dagli indigeni e conosciuta solo da narcotrafficanti e guerriglieri colombiani. Il Tapòn del Darién è un tappo che chiude ogni comunicazione via terra tra nord e sud America. Chi vuole  raggiungere la Colombia, deve prendere l’aereo. Il Darién è anche una preziosa riserva della biosfera, la più vasta area protetta del Centro America con una biodiversità eccezionale. Alcune tribù di indigeni emberá, che vivevano isolati in questa regione (conducendo una vita durissima, data l’impossibilità di commerciare i loro prodotti) una trentina di anni fa chiesero di essere trasferiti a Panamá. La difficoltà di inserimento in un contesto urbano spinse il loro capo (cachique) a chiedere al governo di potersi installare nella regione del fiume Chagres, ricca di foreste e acqua, lo stesso fiume che fornisce l’acqua al canale. Gli emberá continuarono a condurre così la loro vita di cacciatori, con arco e frecce,  vivendo anche grazie alla pesca, alla semina di yucca, fagioli e mais e a qualche animale da cortile. Da quando il Chagres è diventato parco protetto tutto questo è interdetto, per cui sono stati aiutati dal governo a prepararsi ad accogliere i turisti curiosi di avvicinare le popolazioni indigene.
Ora la loro vita sta cambiando, hanno scuole primarie e sanità, ma cercano di mantenere il più possibile le tradizioni. Anche noi facciamo l’esperienza emberá, risalendo il fiume sulle loro primitive imbarcazioni, guidate da uomini seminudi, col perizoma rosso. Veniamo ospitati in un villaggio di case costruite su palafitte, condividendo il pranzo con le loro famiglie. Parlando col capo villaggio, vengo a sapere che suo nonno era quell’Emiliano che lasciò il Darién per lavorare nel cantiere del Canale. La sua storia sta scritta nel museo di Panamá: era uno degli indigeni che lavorò alla costruzione delle canoe espandé (a un solo albero) usate durante i lavori. Fu lui che negli anni ‘70 scelse di trasferire la tribù in questa regione, sul sito dove sorgeva una base scientifica americana. Morì in questo villaggio a 96 anni.
L’artigianato che viene offerto in vendita è molto raffinato. Si tratta di lavori in un legno pregiato, il cocobolo, preziosi intagli in avorio vegetale, dato dalla  noce di una specie di palma. Lavorando una rafia molto soffice e lucida, tinta con colori vegetali,  gli emberá fanno un tipo di cesteria e di maschere molto belle. Queste sono usate dagli chamán (il personaggio più importante, che sovrintende alla salute della tribù) per le guarigioni. Nel villaggio vi è la scuola, costruita dagli indigeni sulla base della struttura donata dal governo. Nascoste dagli alberi sono  due chiese protestanti, frequentate dagli abitanti, che comunque rimangono animisti. Nella foresta dove tutto è sacro si trovano cibo e medicamenti e il botanico è un personaggio importante, di supporto allo chamán.
La nomina a chamán viene fatta nei primissimi anni di vita di un bambino. Segni premonitori lo indicano come il futuro chamán del villaggio, sin dalla nascita. La luna piena, un terremoto, un avvenimento speciale durante la gestazione, il modo in cui è venuto alla luce, i primi movimenti. Sovente il fanciullo tenta di rifiutare questo ruolo impegnativo, vorrebbe essere un bambino normale, come tutti. Dopo una lunga, impegnativa preparazione, a 15 anni viene  mandato nella foresta, dove dovrà passare 5 anni solo e nudo. Si unirà profondamente alla natura, utilizzando le conoscenze acquisite dagli anziani, approfondendole e vivendo in stretta comunicazione con il mondo selvaggio.

I kuna di San Blas:
una società matriarcale

Hanno dovuto fare guerra al governo, negli anni ’20, per ottenere l’autonomia della loro Comarca (distretto). I kuna sono indigeni  provenienti dalla Colombia che trovarono rifugio nei secoli scorsi sulla sottile striscia di terra che si affaccia sul mare dei Caraibi e sulle isole che gli spagnoli chiamarono di San Blas.
Piccoli di statura ma molto forti e determinati, hanno un loro governo autonomo e cercano con fermezza di mantenere i loro costumi e le tradizioni. La società dei kuna è matriarcale, anche l’eredità passa per via femminile. Quando una ragazza si sposa è il marito a trasferirsi nella casa dei suoceri e in caso di divorzio deve andarsene. Le donne sono molto laboriose e forti come i loro uomini e oggi riescono a guadagnare  denaro dalla vendita dei molas, ricami tradizionali usati per decorare le loro camicette. Sono intagli e applicazioni in stoffa colorata, dal disegno naturalistico ma anche geometrico, molto raffinato, stilizzato e simile a un labirinto, in cui si riescono ad identificare forme di uccelli, animali, angeli…
Le isole abitate sono solo 40 su circa 400. Ogni villaggio ha il suo sahila, eletto dal popolo, che dirime le controversie,  convoca le assemblee e in alcuni giorni chiama all’alba gli uomini al lavoro nei campi di terraferma. I kuna si sono finora difesi molto bene dall’aggressione del turismo di massa. La terra non si vende, gli operatori stranieri non sono accettati e chi vuole godere della magnifica natura delle loro isole  deve pagare una tassa alla famiglia che li ospita e adattarsi ad abitare strutture molto semplici. Ci fermiamo alcuni giorni in un’isola abitata da circa trecento persone e dormiamo nell’unico albergo, una modesta capanna, uguale alle loro, fatta di legno e bambù, con leggeri tramezzi che separano le camere.
Con una imbarcazione scavata nel tronco di un albero e munita di motore ogni mattina raggiungiamo altre isole, piccole lingue di sabbia corallina coperte da palmeti. Alcune disabitate, altre abitate da una sola famiglia, cui dobbiamo un dollaro per il permesso di sostare, bagnarsi e ammirare i coralli e i pesci colorati.
Durante questo soggiorno, a stretto contatto con la gente dell’isola, abbiamo  tempo per capire che le cose stanno lentamente cambiando anche per i kuna.

Le paure (giustificate)
del pastore Attilio

Ne abbiamo conferma parlando con Attilio, pastore della Iglesia de Christo che mi riceve nella sua chiesa, una tettornia con vista mare, con le panche e il leggio, accanto alla capanna della scuola biblica e al recinto dove grugniscono i maiali coi loro piccoli. Attilio è nato qui, 42 anni fa. Da ragazzino era rimasto affascinato dal racconto delle scritture fatto dai missionari americani giunti sull’isola.  Nella loro tradizione religiosa, i kuna hanno sempre creduto in un unico Dio creatore e in un profeta inviato per annunciare la buona novella, per cui la parola del Vangelo venne accolta bene.
Era un ragazzo studioso e dopo le elementari fu mandato a Panamá a frequentare il liceo, poi in seminario per approfondire lo studio che più lo interessava. La sua chiesa lo inviò poi in alcune regioni del paese (Bocas del Toro, Chiriguì, Veraguas) per un periodo di formazione durato un anno e mezzo.
Da 19 anni Attilio regge questa parrocchia, abita una casa come le altre, una capanna con il tetto di paglia, dove si trovano il fornello  e le amache per dormire. La moglie è una donna bella e gentile, di cui posso ammirare il lavoro preciso e raffinato del ricamo delle sue camicette,  ben superiore come qualità ai pezzi che ho visto in vendita presso altre case del villaggio.
«I giovani non hanno più voglia di lavorare – ci spiega Attilio -. Un tempo le barche andavano solo a remi o a vela e gli uomini lavoravano la terra che abbiamo sulla costa, piantavano manioca, yucca, fagioli e banane. Oggi a lavorare sono rimasti solo i più anziani, tra i quali è comune il vizio dell’alcornol». Attilio crede che molti si avvicinino alla chiesa solo per farsi aiutare, specialmente con i  missionari battisti,  arrivati da due anni dagli Usa con molto denaro. «Noi della Iglesia de Christo ci aiutiamo in caso di bisogno, ma io ci tengo ad avere fedeli con una fede sincera», insiste Attilio. Pare che anche la figura del sahila si sia sbiadita. Nessuno vuole avere la responsabilità che comporta la posizione di capo villaggio. «Abbiamo dovuto ripiegare su una persona di poco valore, che ama troppo bere e la vita comoda. D’altra parte nessuno voleva accettare l’incarico».
Oggi gli studenti migliori delle elementari sono mandati a studiare a Città di Panamá, dove trovano alloggio in casa di parenti, nelle periferie della capitale, pericolose per la delinquenza.
Passeggiando per la via Central, la più commerciale e animata, avevamo notato molte donne kuna in costume, con le braccia e le gambe fasciate da file di perline colorate, il fazzoletto rosso e giallo in capo e l’anello d’oro al naso. Vengono in città per comprare i tessuti per i loro «molas», ma anche per guadagnare qualcosa in più e mantenere i figli agli studi.
Anche Attilio ha due dei suoi 4 figli a Panamá e deve ammettere che il suo mondo, quello che ha sempre cercato di preservare e difendere, è destinato prima o poi a scomparire. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




«Le changement»

La rivoluzione guineana e l’uomo nuovo

Un anziano presidente in carica da 23 anni. L’inflazione al 50%, mancanza di acqua ed elettricità perfino nella capitale. Nonostante la varietà climatica, il suolo fertile e la ricchezza in minerali. Come un paese entra in profonda crisi economica e sociale e come cerca di uscie. Anche grazie alla società civile.

Conakry. Nel corso dei primi due mesi del 2007, la Guinea ha vissuto l’apice di una crisi economico-sociale che da molti anni attanagliava il Paese.
La causa principale è stata la pessima gestione dello stato e il crollo delle entrate minerarie, che hanno portato le casse del paese a una situazione insostenibile. Inoltre, a partire dal 2000, i donatori inteazionali hanno pressoché bloccato tutti gli aiuti alla Guinea, data l’impossibilità di garantie una gestione trasparente.
In questa situazione il governo è stato costretto a una politica economica basata sull’indebitamento e questo si è ripercosso sui prezzi (il tasso d’inflazione nel 2006 era del 50%) e quindi sulla popolazione. Il prezzo del sacco di riso, alimento di base per la popolazione, nel corso dell’anno è passato da 60.000 a 150.000 franchi guineani (circa 22 euro), che corrisponde al salario medio mensile nel paese.
Anche il corso della valuta locale ha seguito lo stesso cammino (da 2.500 franchi per 1 euro a inizio 2005 a 5.200 franchi per 1 euro all’inizio del 2006 a circa 7.900 ad aprile 2007), un colpo pressoché mortale per un paese che importa quasi tutto quello che consuma.
Lo stato non arriva a garantire i servizi di base neanche nella capitale (dove l’elettricità e l’acqua sono distribuiti per qualche ora al giorno, ma con, talvolta, giorni di interruzione completa). Il panorama è, ovviamente, ancora più desolante nelle regioni intee, dove questi servizi non sono assolutamente presenti,  la rete stradale è formata, per lo più, da sconnesse piste in terra battuta, impraticabili nella stagione delle piogge (tre, quattro mesi l’anno).

paese ricco per gente povera

Questa situazione disastrosa si ripercuote anche sul sistema sanitario e quello scolastico, che sono tra i peggiori dell’Africa dell’Ovest.
Questo quadro è ancora più difficile da accettare se si pensa alle potenzialità del paese: la diversità climatica (dalla foresta pluviale, alle zone secche, alle mangrovie lungo le coste) permette di coltivare una grande varietà di prodotti tutto l’anno. La Guinea è attraversata dai più grandi fiumi della regione, e bagnata da piogge abbondanti. Tutto quello che si coltiva cresce con facilità: riso, pomodori, patate, caffè, cacao, banane.
Nonostante ciò, anche l’agricoltura guineana è moribonda (è passata dal 90% del Pil negli anni successivi all’indipendenza al 20% di oggi). Uno dei segnali più evidenti di questo fenomeno è la «scomparsa» della banana come fonte di entrate della Guinea (mentre era il primo paese esportatore di questa frutta ai tempi delle colonie). 
In più, il suolo guineano è talmente ricco di minerali da essere definito uno «scandalo geologico» (secondo produttore di bauxite al mondo, vi si trovano anche oro, diamanti, ferro, ecc.). Ma anche queste risorse sono poco e male sfruttate (gran parte dei guadagni non restano in Guinea o finiscono nelle mani dei pochi).

la voce dei movimenti

In questo quadro fosco, i due principali sindacati dei lavoratori (l’Unione sindacale dei lavoratori di Guinea, Ustg e la Confederazione nazionale dei lavoratori di Guinea, Cntg) insieme al Collettivo nazionale delle organizzazioni della società civile (Cnosc), si sono fatti portavoce del malessere della popolazione.
Negli ultimi tre, quattro anni, la società civile guineana ha cominciato a organizzarsi in maniera più strutturata in tutto il paese. Si parla di movimento associativo di «seconda generazione», poiché in Guinea sino al 1984 (cioè alla fine del regime «socialistico-autoritario» di Sekou Touré) l’associazionismo non esisteva, tranne nelle forme organizzate dallo stato.
Questo fenomeno appare oggi molto giovane, ma dinamico e sostenuto anche da numerosi partners allo sviluppo.
Il Cnosc è nato nel febbraio 2002 con l’obiettivo di essere la struttura nazionale che potesse raggruppare tutti gli attori della società civile. Oggi si può dire che questo obiettivo sia stato in gran parte raggiunto e lo dimostra la forte adesione alle diverse fasi dello sciopero (tra fine 2006 e inizio 2007) indetto da loro e dai due principali sindacati.
L’adesione allo sciopero è stata infatti da subito massiccia: circolazione dei mezzi di trasporto pubblici quasi assente, rifoimento di benzina e gasolio nullo, banche e servizi chiusi, porte dei principali negozi sbarrate.
Nell’ultima fase della protesta le richieste del movimento popolare non erano più unicamente economiche, ma anche politiche tra cui la nomina di un «governo di unità nazionale» formato da tecnici esperti che potesse portare il paese fuori dalla crisi e una riduzione del costo della benzina e del sacco di riso.

cambio o non cambio?

Per svariate settimane (tra gennaio e febbraio 2007) in tutto il Paese si sono registrate manifestazioni popolari guidate dai sindacati e dal Collettivo della società civile che chiedevano «le changement et le départ» (il cambiamento e la partenza) del presidente Lansana Conté, al potere da 23 anni. Manifestazioni spesso represse violentemente da parte della polizia e della guardia presidenziale, provocando centinaia di morti e feriti. Il tutto nel silenzio pressoché totale della comunità internazionale.
La popolazione indignata e ferita, ha vissuto questo calvario con sentimenti di frustrazione, ingiustizia e  rivolta. Le numerose vittime vengono martirizzate e i giovani continuavano a dirsi pronti a morire per il proprio paese.
Quando a inizio febbraio il presidente Conté accettò la richiesta dei sindacati di cedere parte del suo potere ad un primo ministro di largo consenso, la crisi sembrava essersi risolta.
Dopo alcune settimane di attesa, il presidente tenta un colpo di mano. Il 9 febbraio nomina alla primatura Eugene Camara, suo fedele alleato e da tempo al suo fianco anche nei precedenti governi già contestati.
È subito indignazione. I giovani invadono le strade in quasi tutto il paese per manifestare il loro sdegno: pneumatici bruciati, negozi razziati, creazione di barricate per impedire l’ingresso e l’uscita ai veicoli.
Gli edifici pubblici sono stati saccheggiati e completamente distrutti e molti prefetti e governatori sono stati costretti alla fuga.

scontro generazionale

Atti di violenza unica, senza il minimo controllo sociale, in cui anche i sindacati e la società civile hanno perso il controllo della situazione.
I giovani agivano irrazionalmente, spinti da un’incontrollabile voglia di distruggere qualsiasi simbolo del governo, cercando di ricavare anche un minimo beneficio dalla situazione.
Inutile il difficile compito degli anziani (i saggi) e dei capi religiosi che cercavano di dialogare con i rivoltosi, nel tentativo di far capire loro che ciò che stavano distruggendo erano dei propri beni.
El Hadji Barry, segretario della lega islamica di Mamou (città dell’interno), ci ha detto:  «Ho vissuto giorni veramente difficili, vedevo i miei “figli” distruggere quel poco che abbiamo e nonostante le innumerevoli ore passate in moschea nella speranza di dissuaderli, loro continuavano. La sera ci avevano promesso di non attaccare l’edificio del comune e il mattino seguente tutto era distrutto. Ci dicevano che noi non li capiamo, che anche noi siamo stati corrotti dal governo». «Siamo stati di fronte ad una profonda crisi politica e sociale», continua El Hadji «non c’era né religione, né ragione che tenesse. Questo che abbiamo vissuto è anche uno scontro generazionale, i giovani vogliono un cambiamento totale poiché nel quadro attuale non vedono alcuna possibilità d’inserimento per loro nella gestione dello stato e del suo futuro».
Dopo questi avvenimenti i diversi attori hanno cercato di riprendere in mano la situazione, ognuno con le proprie modalità. Il governo è intervenuto nuovamente con le armi e poi con la dichiarazione dello «stato d’assedio» (12 febbraio) per i successivi dodici giorni, periodo in cui il pieno potere era passato nelle mani dei militari al fine di riportare l’ordine e la tranquillità nel paese.
Durante questo periodo sono stati registrati saccheggi e violenze a opera delle forze armate, che avendo piena autorità ne approfittavano per «vendicarsi» della sommossa popolare, con il bene placito dei loro superiori (tutti entourage del presidente Conté).
Questa situazione di grande instabilità con un grave rischio di guerra civile ha portato la comunità Internazionale a reagire attraverso alcune missioni della Cedeao (Comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale) per fare pressioni sul  regime di Lansana Conté.
Sindacati, società civile, autorità religiose  e rappresentanti del governo si sono più volte incontrati, finché questa complessa fase di negoziazione ha portato il presidente  a cedere alla volontà popolare.

L’uomo della soluzione?

Il primo marzo Lansana Kouyaté, un tecnico di grande esperienza internazionale proposto dagli attori della società civile, ha preso ufficialmente funzione a Conakry come primo ministro.
Kouyaté ha ricoperto cariche diplomatiche di alto livello: da ambasciatore in Egitto a rappresentante della Guinea all’Onu, e poi sotto segretario generale delle Nazioni Unite per l’Africa, l’Asia dell’ovest e il Medio Oriente dal ‘94 e segretario esecutivo della Cedeao dal ‘97 (posto questo che gli ha permesso di tessere legami con tutti i capi di stato della regione).
Dal 2003 era rappresentante dell’Organizzazione della Francofonia nella mediazione della crisi in Costa d’Avorio.
A un mese dalla sua nomina, il primo ministro ha formato un governo di largo consenso in un clima di gioia manifestata da tutta la popolazione.
Ecco uno stralcio del suo discorso introduttivo alla nazione: «Cari compatrioti, io prometto di consacrare tutte le mie energie e la mia piena volontà al fine di rimettere la Guinea in piedi, in un clima di pace dopo un’esplosione sociale senza precedenti (… ) che il sangue versato durante i giorni di crisi serva come seme per la nostra speranza e la nostra giustizia…».
La nuova équipe governativa si è messa subito all’opera cercando di dare all’opinione pubblica dei segnali di cambiamento. Queste azioni vanno dalle piccole cose, come quella di un maggior controllo sull’utilizzo dei beni dei ministeri (ad esempio le auto che precedentemente erano utilizzate a scopi privati) a degli impegni di grande spessore di politica economica.
Tra questi sono da sottolineare il blocco dato alle esportazioni di prodotti agricoli (tra cui il riso, alimento principale per i guineani) con lo scopo di fae abbassare il prezzo sul mercato nazionale e la volontà di rivedere tutte le concessioni date alle imprese multinazionali per sfruttare le risorse minerarie guineane.
Oggi si possono già constatare piccoli cambiamenti, soprattutto la diminuzione dei prezzi dei beni di prima necessità.
La Guinea sta vivendo un momento «storico», nel quale la volontà di cambiamento della popolazione ha potuto prevalere sul presidente e sul suo clan, seppur pagandolo con il sangue di centinaia di vittime. 

Di Fabio Ricci e Monica del Sarto

Geppetto di Guinea

Non avevo mai pensato che un giorno sarei arrivato in Africa. Quando dopo sei mesi di anno sabbatico nella comunità cattolica San Giovanni vicino a Vienna, il priore mi ha fatto la proposta di andare in Guinea, dovevo cercare sulla carta geografica questo paese a me sconosciuto. La comunità San Giovanni è stata fondata in Francia negli anni Settanta dal domenicano Dominique Philippe, docente di filosofia a Fribourg in Svizzera, e un gruppo di suoi allievi.
La nuova congregazione è cresciuta velocemente e nel 1993 è stata chiamata da monsignor Robert Sarah, in quei tempi arcivescovo di Conakry, per aprire un’attività missionaria in Guinea. Alcuni anni fa monsignor Sarah si è trasferito in Vaticano, alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Robert Sarah continua a essere una personalità molto stimata e rispettata in Guinea, anche da parte dei musulmani, per il suo coraggio e la sua voce incorruttibile nel denunciare le ingiustizie nel paese.
La chiesa cattolica della Guinea è da tempo quasi completamente africanizzata e il numero di  sacerdoti stranieri nel paese è molto ridotto. La chiesa cattolica in generale è molto rispettata da tutti  e la convivenza con l’islam è buona. La comunità San Giovanni in Guinea ha aperto una missione vicino a Coyah, una piccola città a 60 km di distanza dalla capitale Conakry. È stata chiamata Mariamayah, che in lingua sussu, l’etnia locale, significa «là dove abita Maria».  Avevano bisogno di un falegname e quindi ho accettato la proposta del priore in Austria. L’ho accolta nella fede, non senza timori, come una chiamata del Signore, con spirito di curiosità e voglia di vivere un’avventura.

Arrivai in Guinea da solo alla fine del mese di novembre 1998. Conakry era tutta nascosta nel buio della notte appena cominciata. Ma il primo impatto rimane indimenticabile: l’umidità dell’aria calda e piena di profumi e odori mai sentiti e l’attività caotica nel piccolo aeroporto. C’era John Jesus, un frate irlandese, ad accogliermi. Questo frate meraviglioso, molto amato dalla popolazione per la sua giorniosa semplicità e umiltà, sarebbe poi diventato il mio punto di riferimento, nei primi sei mesi, prima del suo trasferimento nel Camerun.
I primi mesi furono difficili, anche perché non sapevo ancora parlare bene il francese. Mi diedero subito la responsabilità della falegnameria, che faceva parte di una società di costruzioni gestita dai frati. Tutti gli edifici della missione – chiesa, i conventi – erano stati costruiti con l’aiuto di artigiani locali. Alla fine dei lavori i frati avevano deciso di creare una ditta per garantire a questi artigiani un lavoro, ma anche fornire formazione artigianale ai giovani. All’inizio dovetti gestire otto persone, numero che crebbe fino a 25 artigiani.
La Guinea è in grande maggioranza musulmana e i cristiani si trovano soprattutto nella zona forestale nel sud del paese. I falegnami erano quasi tutti di fede musulmana. Il rapporto con loro fu uno dei modi migliori per conoscere le difficoltà della gente. Una volta conquistata la loro fiducia, venivano spesso da me per chiedere aiuto, per esempio piccoli prestiti  per comprare farmaci in una situazione di emergenza familiare o solo per  arrivare a fine mese. Una scuola di ascolto, certo, ma dovetti anche imparare a dire «no».

Il lavoro in falegnameria ogni giorno era una sfida. Di fronte alla continua mancanza di attrezzi o ai guasti dei macchinari era spesso necessario improvvisare o avere pazienza, talvolta perché il lavoro andava a rilento oppure non si riusciva a far nulla.
Un concetto importante da capire è che in generale, per l’africano il lavoro è sempre secondario agli impegni familiari, anche nell’ambito della famiglia allargata.
Alla comunità San Giovanni sono state affidate anche due parrocchie, Coyah e Forecariah. La vita parrocchiale era una buona occasione per creare contatti con la gente e amicizie con altri giovani. Prendevo l’abitudine di fare regolarmente visita a diverse famiglie, godendo della loro calorosa accoglienza e gentilezza. Dopo un anno e mezzo di presenza in Guinea queste amicizie facevano parte delle esperienze più preziose che ho portato con me al momento del ritorno in Italia.

Particolarmente importante sarebbe stata l’amicizia con Odilon, il mio assistente falegname, un uomo di più di quarant’anni con moglie e figli. Era cristiano, di etnia guerzé e originario della Guinea forestale. È stato nell’occasione del viaggio con lui nel suo villaggio natale Gouécké, vicino a Nzérékoré, che ho conosciuto l’orfanotrofio St. Kisito. Qui vengono accolti bimbi che hanno perso la madre durante il parto.
Nella mentalità della popolazione della zona questi bambini sono maledetti e quindi abbandonati. In generale nella famiglia allargata africana gli orfani sono sempre accolti da un parente, ma in questo caso la paura è troppo grande. Dopo il mio ritorno in Alto Adige le suore africane, che gestiscono l’orfanotrofio, in un momento di emergenza (diffusione di malattie mortali) si sono rivolte a me per chiedere aiuto. È così che ho organizzato una piccola rete di donatori per appoggiare St. Kisito, in particolare nella prevenzione sanitaria.
Sono tornato nel 2002 e poi nel 2006 per fare visita all’orfanotrofio. La cosa più bella del viaggio era l’essere tra amici dal primo fino all’ultimo momento. Già all’aeroporto mi ha accolto un’amica che subito mi ha fatto riposare in una stanzetta riservata, grazie a sue conoscenze nella guardia doganale.

Il viaggio da Conakry a Gouécké dura normalmente circa 22 ore in taxi brousse, ma l’ultima volta ne abbiamo impiegate 30. La ragione fu un guasto al motore dopo dieci ore di viaggio. Per fortuna il guasto si è verificato in una città, quindi anche alle dieci di sera è stato possibile trovare un meccanico. Il resto fa parte delle esperienze incredibili, che ti lasciano stupefatto per la capacità di improvvisare e di arrangiarsi con i mezzi più semplici: un bastone di legno, appena sufficientemente solido, e una corda per smontare il motore dalla macchina, una decina di attrezzi di base per ripararlo, sotto l’illuminazione debole di una torcia scadente, e rimontarlo, infine, alle cinque di mattina! 
A Nzérékoré assieme a suor Cathérine Thea, la responsabile dell’orfanotrofio, ho fatto una visita al vescovo monsignor Vincent Kouroumah. Mi ha spiegato la situazione delicata degli orfani. È difficile integrarli nella famiglia di provenienza o anche trovare famiglie coraggiose per accoglierli. Il vescovo è riuscito a far nascere un’attività di accoglienza di questi bambini.

Ogni viaggio in Guinea e l’incontro con gli amici mi fa partecipare alle sofferenze di un paese totalmente assente dai nostri media. Da anni l’inflazione crescente continua a schiacciare la popolazione in modo pesante. Ad esempio il prezzo del riso, alimento base, è aumentato enormemente. Le infrastrutture stradali continuano ad essere scadenti e il costo del trasporto influisce  sull’attività economica, anche per il prezzo del carburante.
La Guinea è circondata da paesi che negli ultimi anni hanno vissuto crisi violente e guerre civili terribili: Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau. La Guinea ha generosamente accolto numerosi rifugiati da questi paesi, dove spesso vivono le stesse etnie.
La popolazione della Guinea ha accettato per anni, con pazienza e un certo fatalismo, il governo forte e autoritario di Lansana Conté, arrivato al potere nel 1984 e tuttora in carica. «Poveri, ma almeno  in pace», era ed è un pensiero comune.
Solo recentemente, di fronte al continuo peggioramento della situazione economica e la vecchiaia del presidente, attraverso ripetuti scioperi generali il popolo ha cominciato a rivendicare dei cambiamenti. Nel paese vivono più di trenta diversi gruppi etnici, (alcuni maggioritari, vedi scheda), ma spero nel sentimento di unità e orgoglio nazionale, che i guineani hanno fatto loro dopo il radicale distacco dalla Francia, con il governo autoritario di Sekou Touré. Regime segnato da oppressione e terrore, ma che ha esaltato e valorizzato la tradizione e la cultura africana.
Non so quanto io abbia potuto aiutare durante il mio soggiorno in Guinea, ma so che per me questa esperienza è stata un grande privilegio e una tappa fondamentale per la mia crescita personale, professionale e spirituale. Infatti, ho poi deciso di riprendere gli studi e mi sto laureando in Studi europei e inteazionali con l’obiettivo di lavorare nella cooperazione allo sviluppo.

di Andreas Lochmann

Come ti riconverto il debito

Dal settembre 2005 un consorzio di due Ong Italiane (Lvia e Cisv) ha accettato la sfida di contribuire attivamente allo sviluppo di una vera partecipazione della società civile guineana al processo di lotta contro la povertà. Questa presenza è stata avviata in appoggio all’azione del Foguired (Fondo Guineo-Italiano per la riconversione del debito).
L’azione del Foguired nasce dalla «Campagna per la riduzione del debito estero dei paesi più poveri» (promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2000, anno giubilare) e dalla firma, avvenuta nell’aprile 2003, di un accordo bilaterale tra governo italiano e governo guineano.
Le due Ong avevano già attivamente collaborato alla campagna di sensibilizzazione in Italia sul problema del debito, promossa dalla chiesa italiana, in occasione del Giubileo del 2000.
Dopo una missione congiunta Cisv, Lvia, Foguired realizzata nell’aprile 2005, le due Ong hanno elaborato un progetto di appoggio alla società civile nell’ambito del fondo per la riconversione del debito.

Per l’azione del Foguired sono state individuate, le cinque prefetture «più povere» della Guinea come zone privilegiate. In queste zone si è puntato ad appoggiare le popolazioni direttamente alla base, mediante la promozione di opportunità di accesso ai finanziamenti per un ampio ventaglio di organizzazioni della società civile, anche quelle poco strutturate, soprattutto organizzazioni contadine. Questa strategia ha portato al finanziamento di quasi 600 microprogetti.
Uno dei bisogni primari di queste piccole associazioni, che hanno ricevuto il finanziamento è quella di un accompagnamento per realizzare il proprio progetto e garantie la sostenibilità, garanzia di prosecuzione nel tempo dell’azione di lotta alla povertà.
Per svolgere questo ruolo di accompagnamento e monitoraggio delle azioni, il Foguired, (sempre nell’ottica di appoggio alle realtà della società civile guineana), ha scelto tre «giovani» Ong locali originarie delle zone d’intervento.
Questa scelta ha messo in luce il bisogno di appoggio e formazione delle Ong locali.
È in questo quadro che si è inserita l’azione del consorzio Cisv-Lvia. Azione che ha avuto come obiettivo quello di rafforzare, con percorsi di formazione, e accompagnare le tre strutture incaricate di monitorare i progetti gestiti dalle associazioni di base, affinché questi diventino delle esperienze forti e durature di sviluppo locale.

Il progetto ha previsto la creazione di strumenti per il monitoraggio (schede e rapporti), ma anche l’organizzazione di occasioni di incontro e confronto nelle prefetture, sulle tematiche importanti per la popolazione che beneficia dei progetti Foguired (come si gestisce un progetto, incontri «filiera», cioè tra tutti i gruppi di produttori con problematiche simili, l’analisi partecipativa del territorio e delle priorità necessarie per il suo sviluppo).
Inoltre, l’azione del consorzio formato dalle due Ong italiane ha permesso di promuovere la creazione di reti tra gruppi che si occupano dello stesso settore, con particolare attenzione alle associazioni di agricoltori e allevatori. Di grande importanza, nella realizzazione di questo progetto, è stato, anche l’avvio di una fruttuosa collaborazione con la Cnop-g (Confederazione nazionale delle organizzazioni contadine di Guinea), la più importante organizzazione di agricoltori del paese.
L’obiettivo finale è stato quello di stimolare delle dinamiche «virtuose» nelle quali gli attori della società civile possano, a partire dall’aiuto ricevuto grazie alla conversione del debito estero, prendere in mano il difficile cammino della lotta alla povertà.
L’esperienza del progetto Foguired è stata molto positiva per le Ong italiane. Essa ha permesso di avviare un percorso di collaborazione con alcuni attori della società civile guineana, con i quali sono stati sviluppati nuovi progetti.

Fabio Ricci e Monica del Sarto
www.cisvto.org
www.lvia.it

Fabio Ricci e Monica del Sarto




L’ombelico del mondo

Reportage dall’isola di Pasqua

Rapa Nui (grande roccia, in lingua nativa) o Isola di Pasqua (così fu ribattezzata dal primo scopritore europeo) è una delle isole abitate più isolate del mondo, sperduta nel Pacifico meridionale a 3.750 km dal Cile e 5.000 km da Tahiti. I nativi, arrivati dalla Polinesia verso il x secolo, hanno conservato buona parte della loro cultura originaria, ricca di fascino e di mistero.

Gioo di pasqua, anno 1722. La nave del capitano olandese Jacob Roggeween, dopo giorni di navigazione in mare aperto, s’imbatte in un’isoletta in mezzo al Pacifico, apparentemente disabitata. Sbarcati al tramonto, gli uomini dell’equipaggio cadono in un sonno profondo sulla spiaggia.
Al loro risveglio, ciò che si trovano davanti agli occhi li lascia senza parole: in un’alba infuocata, decine di uomini, con i lobi delle orecchie lunghissimi, si muovono in danze sfrenate, adorando il sole che sta per nascere, ma soprattutto gettandosi ai piedi di gigantesche creature di pietra con volto umano e in testa uno strano cappello di pietra rossa. Il capitano Roggeween e la sua ciurma avevano trovato Rapa Nui, ribattezzata col nome di Isola di Pasqua; le statue non erano altro che i moai, figure oggi in lizza per diventare una delle «nuove» sette meraviglie del mondo.
Rispettosi, e forse spaventati dai costumi dei nativi, i marinai fecero ritorno a casa, e solo nel 1774 qualcun altro ritoò sull’isola: era il famoso avventuriero James Cook, con l’obiettivo di conoscere i segreti di quella popolazione, che già allora era oggetto di più di una leggenda. «Sono bassi, magri, hanno sguardo deciso e pelle che sembra pergamena» diceva Cook.

Gioo di pasqua, anno 2007. I nativi dell’isola ricalcano alla perfezione il ritratto tracciato dall’avventuriero. Sono rimasti in 1.500 sull’isola, tanti quanti gli «stranieri», arrivati dall’Oceania, Europa e America Latina. Sì, perché oggi l’isola di Rapa Nui batte bandiera cilena e solo con un volo dal Cile ci si può arrivare, nonostante che per la sua posizione in mezzo al Pacifico assomigli più alla Polinesia che non al continente sudamericano.
Non si tratta di una dipendenza inumana, come quella dei secoli passati, tutt’altro. Schiavizzati in massa dai conquistadores  e ridotti a soli 110 abitanti a metà secolo xix, i nativi hanno potuto portare avanti le loro tradizioni grazie all’annessione cilena, avvenuta nel 1888.
Oggi Rapa Nui, isolotto brullo, a forma triangolare, con un’estensione di poco più di 160 kmq, prospera grazie a un turismo attento, non di massa, che preserva le sue bellezze. Gli abitanti originari, concentrati in un’unica cittadina, Hanga Roa, vivono di pesca e artigianato.

Tra gli aspetti più significativi della vita e della cultura degli indigeni dell’isola c’è soprattutto la tradizione religiosa da loro conservata, anche se caratterizzata da un sincretismo senza eguali. «Il culto del sole, professato fin dal secolo iv, sotto il regno del re Hotu-Mata, è ancora vivo» dice Riccardo, studioso dell’isola e uno dei gestori del piccolo museo antropologico, pieno di reperti, posto in riva all’oceano.
«Però – prosegue Riccardo – colui che nel corso dei secoli è stato più venerato rimane il Tangata-Manu, l’uomo uccello. Ancora oggi viene ricordato con canti e balli solenni nel Tapati, una festa che dura 10 giorni a febbraio e coinvolge tutta l’isola».
Il Tangata-Manu era un semidio, che prendeva sembianze umane ogni anno differenti: colui che nel giorno prestabilito trovava un uovo della specie locale di gabbianella diventava uomo uccello per dodici mesi e comandava l’isola. Di pietre raffiguranti il Tangata-Manu ce ne sono a decine sparse in tutta l’isola, tante quante le statue dei moai. Queste ultime, rovesciate a terra da terremoti e lotte intestine, sono state rimesse al loro posto, grazie al lavoro di archeologi di tutto il mondo.
Il sincretismo religioso, caratteristica dell’Isola di Pasqua, ha raggiunto il culmine con l’arrivo dei primi cileni e della religione cristiana, soprattutto cattolica. A Rapa Nui cristianesimo e religione ancestrale si sposarono da subito, senza alcun contrasto o prevalenza dell’uno sull’altra. L’esempio che meglio rappresenta tale connubio è la celebrazione della messa, soprattutto nei riti della settimana santa e della pasqua.
Padre Andrés, cileno ma con la pelle indigena, per quasi tutta la durata della celebrazione rimane in mezzo ai fedeli, provocandoli a intervenire durante l’omelia e stimolandoli a proporre intenzioni di preghiera. La liturgia è bilingue, ma i due idiomi, castigliano (spagnolo) e rapanui, si alternano e s’intrecciano con naturalezza, provocando un effetto sorprendente e affascinante anche nelle persone di passaggio sull’isola, facendole sentire a proprio agio fra culture così diverse, eppure così compenetrate.
La domenica delle palme è un tripudio di colori e suoni: tutti cantano, portando con sé lunghe foglie prese dalle palme, banani, alberi di papaia e altre piante della locale vegetazione tropicale.

«La festa è per noi un momento in cui ricordiamo i nostri antenati» dice Wilma, signora tanto anziana quanto energica, mentre sorseggia un bicchiere di vino rosso nel piccolo bar a fianco della chiesa. «Anche se, in realtà, non si sa bene come siano finite le prime civiltà dell’isola» sussurra la donna in uno spagnolo tanto zoppicante quanto divertente.
Ciò che dice Wilma è vero: l’Isola di Pasqua è piena di misteri, il primo dei quali riguarda la sua popolazione originaria, quella che costruì gli stessi moai, prima dell’arrivo dell’olandese Roggeween.
Secondo quanto gli studiosi sono riusciti a ricostruire, attorno al 1100 d.C. la cultura originale dell’isola s’interruppe bruscamente: scomparvero gli adoratori del sole; furono rovesciati a terra tutti i giganteschi moai e rimasero a metà quelli che si stavano costruendo ai piedi del Rano Raraku, uno dei tre grossi vulcani dell’isola. In tale stato furono trovati dai turisti: immersi nella vegetazione e da essa in parte ricoperti.
Cosa è successo? Forse una catastrofe naturale, come un’eruzione vulcanica o un terremoto. Qualcuno sostiene che le decine di tribù dell’isola, trovatesi in soprannumero rispetto alle possibilità di cibo offerto dall’isola, cominciarono a farsi guerra tra loro, e in questo modo si estinsero quasi del tutto.
A tale estinzione contribuirono di certo anche gruppi di «orecchie corte» (gente proveniente dalle isole occidentali), che, dice la leggenda, sterminarono tutti gli uomini dalle «orecchie lunghe» (i rapanui), tranne uno, Ororoina, che così riuscì a conservare la specie.
«Anche se abbiamo perso l’usanza di allungare i lobi delle orecchie e di incidere le nostre leggende nelle tavolette ronga-ronga, siamo i diretti discendenti di Ororoina» afferma Cesar, artigiano che abita con la moglie e i due figli in un grande casolare all’estremità di Hanga Roa. «Come i nostri antenati, siamo esperti pescatori» aggiunge Ana, la moglie dell’artigiano. «Cesar, dimostraglielo» aggiunge la donna.
Detto fatto. L’uomo esce di casa, sale sulla piccola barca ormeggiata a pochi metri dall’abitazione, s’inoltra nell’oceano per una buona mezz’ora e torna con due bianchissimi tonni, una delle specialità dell’isola, esportata in tutto il mondo. Roba da non credere, anche per la squisitezza.

Cesar, Ana e la maggior parte degli abitanti di Rapa Nui sono orgogliosi di quello che hanno, anche se sembrano arrabbiati al punto giusto con la madrepatria. «I generi alimentari, che arrivano una volta alla settimana con i container dalla terra ferma, hanno i prezzi raddoppiati rispetto al Cile» lamenta Cesar; ed è vero. Tuttavia sono ben contenti di essere legati al continente, soprattutto per l’indotto derivante dal turismo. Inoltre, la distanza dalle coste americane permette di mantenere salda la propria identità, di cui sono orgogliosi. E non ne fanno mistero nei loro discorsi.
«Siamo l’ombelico del mondo» dice Huki, effervescente archeologo che, oltre a far conoscere la cultura dell’isola nei vari incontri inteazionali in cui viene invitato (è stato più volte ospite anche della Biennale di Venezia), gestisce il Kona Tau, uno degli alberghetti più affascinanti dell’isola.
Huki, comunque, dice sul serio: Te-Pito-Te-Henua, in lingua rapanui, significa proprio «ombelico del mondo». «Su una spiaggia dell’isola – spiega Huki – c’è una grossa pietra tonda che, secondo la leggenda, è caduta dal cielo all’inizio dei nostri giorni, mandata dalla divinità ancestrale dei nostri antenati, il Make-Make, il creatore del mondo».
La particolarità della pietra, a cui si può accedere liberamente, risiede nel fatto che, in ogni momento della giornata e in qualunque condizione atmosferica, emana un calore costante. Per questo motivo, è considerato, non solo dai nativi ma anche da vari studiosi stranieri, uno dei centri di energia del pianeta, a conferma del suo nome.
Huki si sofferma poi su un altro grande mistero di Rapa Nui: il trasporto dei moai. È certo che essi furono «fabbricati» alle pendici del vulcano con pietra nera per il volto e pietra rossa per l’eccentrico cappello; ma come sono arrivati e installati sulle coste del mare? «È opera degli alieni – scherza Huki sorridendo, per poi riprendere il discorso seriamente -. Non si sa con certezza. L’ipotesi che noi studiosi diamo per favorita è questa: ogni moai è stato scolpito con le rocce del vulcano, poi è stato deposto su grossi tronchi d’albero e fatto rotolare a valle fino al luogo desiderato».
Un’opera ingegnosa, soprattutto se si pensa a quante persone dovevano lavorare all’unisono. «Diverse centinaia, forse migliaia» aggiunge l’archeologo.
Ma chi rappresentavano queste figure dal volto lungo e stretto e le orecchie da gigante? «Sono gli antenati delle varie famiglie – spiega Huki -. Alla loro morte, le statue, fatte a loro sembianza, venivano poste a poche decine di metri dal mare, rivolte verso l’interno, per essere venerate e come strumento di protezione dal mare e dagli attacchi estei».

Moai, Tangata-Manu, Te-Pito-Te-Henua e, soprattutto, sincretismo religioso: l’Isola di Pasqua è un luogo magico; metterci piede significa percorrere secoli di storia in pochi chilometri quadrati. Lo sa bene il sindaco dell’isola, Pedro Paoa, che da anni lotta con il governo cileno per garantire all’isola un riconoscimento maggiore rispetto all’attuale. «Non vogliamo l’indipendenza, ma una maggiore autonomia – afferma Paoa -; dopotutto, per cultura e tradizioni siamo diversi dalla madrepatria; anzi, direi che siamo quasi più polinesiani».
La sfida lanciata dal sindaco ha di recente lasciato il segno nelle alte sfere cilene: il 2 maggio 2006, il Senato ha iniziato un iter legislativo per riconoscere a Rapa Nui uno status particolare, simile a quello delle regioni italiane a statuto speciale. «Che facciano in fretta; non vogliamo più dipendere così tanto dal Cile» dice Paoa rivolto ai politici cileni.
A prima vista, il sindaco dell’ombelico del mondo ne avrebbe tutte le ragioni. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Tra petrolio e povertà

Intervista a Desiré Ename, giornalista gabonese

Ricco di petrolio e legname pregiato, il Gabon ha poco più di un milione di abitanti, ma non riesce a sconfiggere la povertà. Tra automobili da centomila euro e ristoranti di lusso non mancano baracche
in lamiera e gravi violazioni delle libertà personali. Intervista a un gabonese contro: il giornalista Desiré Ename
.

Una quantità di petrolio da far impallidire l’Arabia Saudita, giacimenti di gas apparentemente senza fine, diamanti, oro, uranio e ferro da mettere in ginocchio le grandi miniere del mondo e il legname pregiato della foresta pluviale a totale disposizione delle segherie e delle industrie. Il Gabon ha tutte le carte in regola per essere uno dei paesi più ricchi dell’Africa e, in assoluto, il più stabile. Mai una sola guerra nella storia e un solo tentativo di colpo di stato, peraltro fallito. Un record assoluto per il continente nero.
Ma dietro gli edifici modei che ospitano i ministeri e i palazzi lussuosi della capitale gabonese Libreville, lungo la splendida costa oceanica, appaiono, dimenticate, le baracche di lamiera, dove vive circa metà della popolazione, quella che non ha accesso alla ricchezza e che non può godere dei frutti del petrolio e delle miniere.
Le auto da centomila euro che attraversano le quattro corsie del Boulevard Triomphal Omar Bongo, dedicato all’attuale presidente gabonese, stonano al passaggio della gente a piedi, che torna nei quartieri poveri dove spesso mancano luce e acqua. E anche se i gabonesi ricchi sembrano girarsi dall’altra parte, qualcuno ancora vede le ingiustizie.
Il Gabon è «un’enorme contraddizione e un regno dell’ipocrisia» dice Desiré Ename, direttore di Les Echos du Nord, l’unico giornale d’opposizione del paese. E per questo lo abbiamo intervistato.

Il Gabon era ed è uno dei paesi più ricchi dell’Africa e indubbiamente uno dei più stabili, ma non è riuscito a sconfiggere la povertà e nemmeno a garantire i diritti più basilari a quasi metà della sua popolazione. Quali sono i problemi del Gabon?
«Il Gabon è un vero e proprio scandalo geologico. Nella foresta pluviale intorno al bacino del fiume Congo si trovano i materiali necessari ai complessi industriali di mezzo mondo e fonti energetiche di primaria importanza. La miopia della classe dirigente, però, ha impedito che si impiegassero le ricchezze in modo lungimirante. Le ricchezze del Gabon non sono adeguatamente sfruttate e il governo si è accontentato dei guadagni immediati, senza pensare al futuro e senza investire in infrastrutture o in industrie di trasformazione.
Il presidente Omar Ondimba Bongo è al potere dal 1967 e nei suoi 40 anni di governo ha eliminato tutte le forme di opposizione, spartendosi le ricchezze con le famiglie più influenti del paese. Per capire la situazione del Gabon basta pensare alla storia di un vostro connazionale: un italiano che venne a investire qui qualche anno fa. Lui non voleva accettare il sistema di corruzione che vige nel paese, non so se per onestà o perché gli avevano chiesto troppi soldi. Però una cosa è certa: si è rifiutato di pagare e, nel giro di pochi mesi, l’amministrazione statale ha iniziato a creare problemi con i permessi, ha moltiplicato i vincoli burocratici, fino a che la polizia ha sequestrato l’hotel che l’impresa italiana stava costruendo. Alla fine l’impresa se ne è andata dal paese, lasciando anche i macchinari e i computer negli uffici».

Che le amministrazioni africane siano corrotte non è una novità. Spesso sono eredità del periodo coloniale: i governi occidentali hanno più o meno direttamente appoggiato governi corrotti in tutto il continente per avere dei tornaconti economici. Chi c’è dietro Bongo?
«Il fatto che la sicurezza nazionale del Gabon sia garantita dall’esercito francese dovrebbe dare qualche suggerimento. Nel 1964, l’unico caso di tentativo di colpo di stato, ai danni del presidente Leon Mba, predecessore di Bongo, fu sventato dall’armata francese. Nonostante ciò, la presenza occidentale è determinante fino a un certo punto: anche altri paesi hanno subito il colonialismo, ma poi si sono sviluppati e non hanno condizioni di povertà così gravi.
Il colonialismo e le influenze dall’estero sono spesso una scusa: il problema del Gabon sono i suoi governanti, non i governanti degli altri. L’attuale governo manca di intelligenza e visione del futuro. Basta guardarsi intorno: nel primo periodo dell’indipendenza sono stati distrutti i simboli del colonialismo, le case e i palazzi costruiti dai coloni. Ma questo non è servito a far rinascere una cultura africana; è servito solo a cancellare la storia e far crescere l’ignoranza dei gabonesi.
E questo ha anche creato dei problemi a livello internazionale: la mancanza della conoscenza del passato ha provocato delle tensioni con la Guinea Equatoriale a proposito delle acque territoriali. In pratica, è stato scoperto un giacimento di petrolio nei pressi di un isolotto, giusto al confine tra i mari dei due paesi, e nessuno è in grado di ricostruire a chi appartenga storicamente quella zona».

I confini africani sono delle linee rette disegnate dai governi delle potenze coloniali durante il Congresso di Berlino nel 1884. Ci sta dicendo che nessuno ha i documenti che provino le reali linee di confine?
«Non posso parlare per l’intero continente. Io conosco il Gabon, come immagino che voi italiani conosciate bene l’Italia, ma non siate contemporaneamente esperti di Germania, Francia o Gran Bretagna. Il caso dell’isolotto di Mbane è un po’ particolare: nessuno si era interessato ai confini, fino a quando non si è scoperto che la zona è ricca di petrolio. L’isolotto storicamente appartiene al Gabon. La Guinea Equatoriale lo ha ceduto al nostro paese circa 60 anni fa, durante il periodo delle indipendenze. La miopia del governo, però, è tale che la nostra amministrazione non è in grado di produrre il contratto originale, perché pare che si sia perso nei meandri della burocrazia.
Il mio giornale, Les Echos du Nord, ha dedicato una prima pagina a questo problema, anche perché sono anni che le Nazioni Unite fanno pressioni per risolvere la controversia. Ma il risultato che ho ottenuto è stata la chiusura del giornale per attività antipatriottica».

La stampa gabonese sembra libera, ma da quello che dice lei, anche questa è un’illusione. Qual è la situazione delle libertà di espressione?  
«Nonostante la nostra capitale si chiami Libreville, le libertà sono limitate a quello che non infastidisce il governo di Omar Bongo. I giornali sono controllati dallo stato e le intimidazioni sui giornalisti sono continue. La maggior parte delle pressioni non sono di carattere violento: sono anni che Bongo compra i suoi oppositori. Ogni anno i giornalisti che si comportano bene verso il governo vengono in qualche modo premiati e a ogni elezione ci sono brogli elettorali, fino a che uno dei partiti dell’opposizione non passa con il governo. Quest’anno siamo arrivati a 53 ministeri.
Bongo è ricco e usa i suoi soldi per comprare gli avversari. L’unica cosa che non divide mai è il potere. E infatti, quando il mio giornale ha pubblicato un articolo critico nei confronti della politica estera del Gabon a proposito dell’isolotto di Mbane, siamo tutti stati sospesi. Il giornale è stato riaperto quasi un mese dopo, solo in seguito a un mio sciopero della fame, ma su di noi le pressioni sono continue, al punto che anche il deputato dell’opposizione a cui facevamo riferimento ha gettato la spugna. Oggi è uno dei vicepresidenti del governo e non conta quasi nulla a livello decisionale. È solo molto più ricco di prima».

Sembra di ascoltare la descrizione di un sistema di poteri mafiosi. Chi è dentro ci guadagna e chi è fuori ha paura di protestare. Ma è possibile che nessuno di quelli che vivono nelle baracche insorga nei confronti dei gabonesi ricchissimi?
«Il lassismo è diventato un tratto del carattere dei gabonesi. La storia e le libertà politiche sono state soppresse per così tanto tempo che non ricordiamo più quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Siamo passivi: non troviamo il senso in quello che facciamo e ci siamo affacciati alla politica da troppo poco tempo per supplire con l’esperienza. Le libertà non sono limitate solo dalla politica del governo, ma soprattutto dall’ignoranza. Anche in Europa o negli Usa c’è ancora tanta ignoranza; ma se si pensa che a un gabonese povero l’istruzione costa tre-quattro volte tanto che a un europeo o a un americano povero, si capisce che la situazione qui da noi è decisamente più difficile. Basta pensare al fatto che in Gabon non ci sono trasporti pubblici e chi abita lontano dalla scuola o si paga un taxi o non ci va proprio. In una situazione come questa è facile capire che non può crescere una coscienza politica e tutti pensano al tornaconto personale. E in Gabon, negli ultimi 30 anni, non ci sono stati cambiamenti. Anzi».

La situazione del Gabon potrebbe essere senza dubbio migliore, ma a vedere questo paese, non sembra che le condizioni siano tanto peggio di quelle in cui vivono gli europei o gli americani. Anche in Occidente c’è degrado. In Italia meridionale ci sono quartieri popolari dove non arrivano la luce e l’acqua; nella periferia di Milano sono comparse le baracche. Sicuramente il Gabon sta meglio rispetto alla media dei paesi africani. Cosa ne pensa?
«È normale che la prima impressione sia quella di un paese che va a gonfie vele. Nei ristoranti di lusso che sorgono sul Bord de Mer  (la strada costiera di Libreville) i neri e i bianchi sembrano mescolati. Sembra che tutti abbiano la loro fetta di ricchezza. Purtroppo però nella realtà non è così. Tutto questo è uno spettacolo voluto dal presidente Bongo. L’intera capitale è una facciata di carta, a uso e consumo dei clienti dell’Hotel Atlantic o dell’Intercontinental che vengono a stringere accordi o a firmare contratti.
La stabilità di questo paese si fonda sulla paura. Contrasti e idee non sono stati armonizzati. Sono stati soffocati. Faccio un esempio: nel 1994 il governo ha firmato un accordo con alcuni paesi occidentali per lo smaltimento dei rifiuti tossici. Bongo non ha informato né il parlamento né tanto meno la cittadinanza. I rifiuti nucleari sono stati trasportati di notte nella foresta e seppelliti da qualche parte verso il nord-est del paese. Recentemente si è constatato che nella zona sono morti tutti gli animali e, quel che è peggio, la gente dei villaggi ha iniziato ad ammalarsi, perché le scorie radioattive hanno contaminato le falde idriche. Se il Gabon fosse un paese libero come si dice, di fronte a una situazione simile dovrebbe scoppiare uno scandalo. E invece si è sparsa la voce che c’era una epidemia di ebola per tenere lontano dalla foresta pluviale i giornalisti e gli osservatori inteazionali. Anche questa volta non si riesce a capire cosa è vero e cosa è falso. Nessuno infatti ha avuto il coraggio di andare a vedere di cosa si trattasse veramente».

Anche se questa storia è orribile, purtroppo non sarebbe la prima volta che viene data dai governi una visione distorta della realtà. Questo succede anche nei paesi a cosiddetta alternanza democratica. Può fare altri esempi?
«Parliamo allora delle elezioni e del peso della religione tradizionale nella vita politica di questo paese: ogni volta che ci si affaccia al periodo elettorale aumentano gli omicidi di ragazzini a scopo rituale. Gli uomini di potere sono spesso superstiziosi e ci sono forti sospetti che abbiano fatto sacrificare delle persone con la speranza di aumentare la loro ricchezza e le loro probabilità di vittoria. Generalmente si tratta di dicerie e di cose su cui è difficile fare chiarezza; ma poco tempo fa, qui a Libreville, è stata fermata una coppia di anziani che uccideva dei ragazzini per poi fae essiccare il corpo in posizione fetale. Quando i due furono arrestati, dissero solo che stavano portando il feticcio, questo corpo essiccato tenuto in un sacco, a un ricco cliente. Poi non si è saputo più nulla, perché le autorità preferiscono sempre negare.
Detto questo, ci tengo a sottolineare, che la religione tradizionale è praticata da quasi l’80% dei gabonesi e nella maggior parte dei casi non si tratta di riti cruenti. Rimane il fatto che, chi ricorre alle pratiche di omicidio, lo fa per aumentare il suo prestigio sociale e questo è quello che hanno imparato i gabonesi guardando il loro presidente. Le nuove generazioni capiscono solo il potere fine a se stesso».

Insomma, il problema del Gabon è sostanzialmente la sua classe dirigente. A sentire lei la situazione internazionale non c’entra quasi nulla. Eppure il Social forum tenuto a Nairobi incolpa l’Occidente dei problemi dell’Africa. Sono manie di protagonismo dei paesi occidentali anche queste? Ci sentiamo così determinanti nel bene e nel male, che abbiamo fatto un’analisi sbagliata?
«L’Africa ha tutte le risorse che servono per svilupparsi senza bisogno di aiuti estei. Molti africani lavorano o hanno lavorato nei grandi organismi inteazionali o hanno studiato negli Stati Uniti o in Europa. Io ho studiato in America e in Francia; altri miei colleghi adesso lavorano per grandi multinazionali e sono stati in Giappone, Russia e Cina. Molti di noi sanno cosa sarebbe necessario fare, ma il mondo politico è chiuso e il potere è gestito da due o tre famiglie che prendono le decisioni per tutti. Anche le industrie cinesi e malesi che stanno disboscando la foresta pluviale, per rifornire di legname le industrie asiatiche, e che adesso occupano le pagine dei vostri giornali, si muovono in Africa grazie agli appoggi dei governi locali. Il problema, in generale, non sono gli “altri”, quanto la mancanza di coraggio e di visione del futuro dei nostri governanti». 

A cura di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




L’altra faccia di Pechino

A spasso negli ultimi vicoli del gigante asiatico

La Cina ha indici di crescita da capogiro. L’immagine che si sta diffondendo è la modeità e l’efficienza. Ma non la sua millenaria cultura.  E neppure le disuguaglianze intee, che si stanno inasprendo. La capitale è il simbolo di tutto ciò. Racconto di un’osservatrice privilegiata.

Ormai quasi tutti i giorni si sente parlare della Cina. Da telegiornali, riviste e quotidiani riceviamo sempre notizie interessanti su una nuova scoperta, un ulteriore passo avanti compiuto dal gigante orientale. La Cina è continuamente descritta con aggettivi positivi e grandiosi. Ma la realtà non è sempre questa.
Studiando la lingua cinese, la sua millenaria cultura e avendo vissuto a Pechino per un breve periodo, posso dire che la Cina è anche costituita da una realtà ben più triste e poco sviluppata.
I passi da gigante compiuti negli ultimi decenni sono evidenti, ma non bisogna dimenticare che l’ingente sviluppo economico e culturale sta quasi esclusivamente coinvolgendo le grandi città. Il paese rurale, in gran parte escluso da questi grandi mutamenti, è ancora una realtà presente. Le stesse grandi città appaiono come un mix tra vecchio e nuovo, arretrato e avanzato, miseria e nuova emergente ricchezza. Pechino, Beijing significa letteralmente «Capitale del Nord». La sua municipalità ha le dimensioni del Belgio e conta 14 milioni di abitanti. Ho avuto la possibilità di scoprire questa città più da vicino. Di andare oltre quanto consigliato dalla guida turistica, inizialmente mia fedele consigliera, e di conoscere abitudini e usanze dei suoi abitanti. Aspetti non sempre piacevoli, ma che fanno parte della cultura cinese e che per questo vanno rispettati e apprezzati.

Le «tappe obbligatorie»
Prima della partenza avevo letto con scrupolosa attenzione la guida, evidenziando tutti i nomi dei luoghi che meritavano di essere visitati. Il primo mese del soggiorno è stato quindi dedicato alle cosiddette «tappe obbligatorie». Mi sono recata in piazza Tian’anmen (la più grande al mondo) per ammirare la sua maestosità, poi sono entrata nella «città proibita», dove ho trascorso diverse ore a visitare i padiglioni, i giardini e i cortili un tempo dimora dell’imperatore. Un’altra giornata è stata interamente dedicata al palazzo d’Estate, residenza estiva del «Figlio del Cielo» (l’imperatore), dove mi sono lasciata trasportare dall’atmosfera poetica del suo lago artificiale, dei ponticelli e dei salici piangenti scossi da una leggera brezza.
Ma Pechino piace ai turisti occidentali non solo per queste mete, anche per i suoi magazzini multipiani, dove si può comprare di tutto a cifre irrisorie. Così anch’io sono stata letteralmente travolta da questa febbre di «shopping estremo» visitando il famoso mercato dell’antiquariato e quello delle perle. Passeggiando per alcune delle vie più lussuose ho potuto ammirare negozi di sete con clientela esclusivamente straniera, dove venivano confezionati qipao (tipico abito cinese) su misura. Tutti questi posti avevano un non so che di affascinante, però si avvertiva chiaramente che non rappresentavano la vera cultura cinese, per lo meno non completamente. Ben presto mi sono resa conto della necessità di spingermi oltre. Incitata dalla curiosità, forte del fatto di avere una certa dimestichezza con la lingua, ho deciso di provare a uscire dai percorsi prestabiliti. E proprio allora il soggiorno è diventato molto più avvincente.
L’altra faccia di Pechino, quella estranea ai musei, alle visite guidate, alle vie lussuose e alle traduzioni in un inglese maccheronico, mi stava aspettando.

Tra i vicoli di Beijing
Un giorno mi trovavo, forse per la seconda o terza volta, ad osservare la grandiosità di piazza Tian’anmen sotto l’imponente effige dominatrice di Mao. Le mie gambe, spinte dall’interesse, mi condussero senza neanche accorgermi in una vicina via, trafficatissima di biciclette e risciò, troppo stretta per permettere il passaggio delle macchine.
L’impatto con questa «altra» realtà è stato notevole. Gente che spingeva, che mi tirava per invitarmi a entrare nel suo negozio a comprare, ragazzine che mi circondavano per farmi assaggiare il loro tè. Se mi dimostravo interessata all’acquisto di qualcosa, subito altri piccoli commercianti facevano capolino per assistere alle estenuanti trattative dei prezzi. Qua e là si vedevano gruppetti di uomini intenti a giocare a mah jong (l’equivalente della nostra dama). Purtroppo apparivano anche scene raccapriccianti di persone dal viso rovinato dall’acido, senza braccia o gambe. Dopo un’ora avevo già mal di testa. Ma ben presto mi resi conto che quella realtà mi affascinava e così, da quel momento, decisi di addentrarmi sempre più nei vicoli di Pechino.
I vicoli, sono proprio loro i veri protagonisti di questa città. A parte piccole zone create apposta per i turisti, strapiene di bancarelle e negozietti, il resto sono gli hutong, letteralmente «vicoli di case a corte». Si dice che questo termine sia apparso nel XIII secolo, dopo che la dinastia Yuan aveva stabilito la capitale a Pechino. Visto che la dinastia era di origine mongola, hutong deriva dal mongolo huto, pozzo. Infatti all’inizio la costruzione degli hutong seguiva la distribuzione dei pozzi; solo in seguito questa parola ha acquisito il significato attuale. Costruzioni basse e grigie, che a un occhio inesperto come il mio erano tutte uguali, si affacciano sulle strette viuzze. In questa distesa di casette la comunità pechinese trascorre le sue giornate, la sua quotidianità. Proprio qui vivevano (e vivono ancora) molti pechinesi, che attraverso i secoli hanno diffuso in tutti gli angoli della vecchia zona urbana questo tipo di abitazione.
Camminando senza meta sono entrata in contatto con un altro mondo, altre abitudini. La vita comunitaria è molto attiva, la privacy sembra quasi inesistente. Le porte delle case sono aperte, i bagni in comune si riconoscono dallo sgradevole odore che si avverte parecchi metri prima. Per strada si possono incontrare persone che si lavano i capelli sopra i tombini, uomini che si fanno la barba, chi mangia accucciato per terra.  Vecchi che fanno una siesta davanti alla porta di casa e bambini intenti a giocare in mezzo alla sporcizia. Lasciandosi trasportare dal fascino di questi vicoli, tutti e cinque i sensi vengono riattivati. Da certe case o da piccole botteghe provengono odori di piatti tipici e spesso la tentazione mi ha portata a comprare queste specialità, non sempre apprezzate.
Interessante è la reazione della gente. Era evidente che non sono abituati alla vista di occidentali in quelle zone. Mi guardavano come se fossi stata un’extraterrestre. Alcuni si mostravano un po’ scocciati per quell’invasione di territorio, mentre altri erano ben disposti a scambiare qualche parola, consigliare alcuni luoghi da visitare e indicare la strada per uscire da quel groviglio di viuzze. E così ho finalmente potuto constatare l’effettiva verità di un detto cinese che recita: «Se non si entra negli hutong, non si conosce Pechino».

«Sviluppo» inarrestabile
Frequentavo un corso di cinese all’università, con sede in un campus molto grande. La prima settimana mi ero addirittura comprata una cartina per potermi orientare. All’inizio, avevo scoperto nei dintorni un minuscolo ristorante (locali che i cinesi chiamano xiao chi, ovvero spuntini) dove venivano cucinati deliziosi ravioli al vapore. La prima volta ero riluttante ad entrare, perché l’igiene del locale lasciava un po’ a desiderare, ma poi la tentazione ebbe nuovamente la meglio. Così a volte, dopo lezione, mi recavo lì e poi passavo da una signora che vendeva frutta e verdura e  cercava sempre di propormi un frutto a me sconosciuto. Infine facevo tappa dal «signore dei pesciolini». Un allegro vecchietto che preparava sul momento dei dolcetti a forma di pesciolino ripieni di cioccolato per soli 10 centesimi l’uno. Azioni semplici e banali, che però hanno contribuito a farmi scoprire un’altra faccia di Pechino, quella che purtroppo nessuna guida descrive.
Questa quotidianità lenta, fatta di gesti, odori e sguardi appare spesso nella mia mente. Rimarrà un ricordo indelebile, perché spesso sono le cose più banali a rimanere impresse. E spero di poterle trattenere nella mia mente il più a lungo possibile, visto che questa città sta subendo un cambiamento repentino.

A rischio scomparsa
Proprio a causa dell’inarrestabile sviluppo, anche il volto di Pechino è in fase di stravolgimento. Già da anni sono stati eretti molti grattacieli, tanto che alcuni quartieri ricordano molto le metropoli americane. Ma adesso, con l’avvicinarsi dei giochi olimpici del 2008, si sta assistendo a un’impennata nella costruzione di casermoni. Edifici che non hanno nulla a che vedere con la Pechino degli hutong sorgono come funghi. Molte zone costituite da fitte reti di vicoli vengono abbattute per fare spazio alle costruzioni del futuro. Sulla mappa degli antichissimi hutong compare sempre più spesso l’ideogramma chai (demolire). Un’indagine dell’Istituto pechinese di ingegneria civile ha preso in esame 1.320 vicoli, rilevando come il 15% sia stato distrutto per far spazio a nuovi edifici, il 52% abbia subito seri danni e che solo un terzo ha mantenuto il carattere originale.
Basta visitare il sito di Amnesty Inteational per leggere le denunce rivolte alla municipalità di Pechino. La gente è brutalmente sfrattata dalle sue case ed è costretta a trasferirsi in questi nuovi appartamenti. Se da un lato si può pensare che queste abitazioni permetteranno condizioni di vita e igieniche migliori, dall’altro bisogna riflettere sul modo in cui questa operazione è condotta.
Tutte queste persone non solo vengono private della loro casa, ma soprattutto della loro quotidianità e dello spirito di comunità.
Purtroppo questo è il prezzo che deve pagare la Cina per poter diventare sempre più importante a livello mondiale e per reggere la competizione con l’Occidente. La popolazione cinese non è stata adeguatamente preparata a questo sconvolgente balzo in avanti e l’impressione è che tutto stia avvenendo troppo velocemente creando enormi squilibri.
Allarmato dalla possibilità che non resti nulla della vecchia Pechino, il governo ha approvato delle linee guida per il restauro degli hutong. Ma molti conservazionisti credono che ormai il danno sia irreparabile. Forse fra qualche decennio questi aspetti unici della quotidianità pechinese saranno solo un ricordo. 

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




NOSTRA COMPAGNA DI GALERA

20 giugno, festa della Consolata

La curiosa storia di un quadro della Consolata, oggi venerato nella cappella della Casa regionale
dei missionari della Consolata a Nairobi (Kenya), di un «magico» coltellino milleusi e di dodici monete d’argento. Il tutto sullo scenario della II guerra mondiale.

Un giorno indimenticabile quel 10 giugno 1940. Gli italiani avevano appena ricevuto dalla radio la notizia che la nazione era formalmente entrata in guerra, contro Inghilterra e Francia e già il giorno seguente, in Kenya, volavano ordini tassativi di imprigionamento e deportazione di tutti i missionari e missionarie di nazionalità italiana presenti nel paese.
Quel mattino, inaspettati, gli inglesi giunsero fino alla missione del Mathari e, senza tante cerimonie, dissero: «Tutti i membri di nazionalità italiana sono da questo momento sotto arresto. I padri missionari hanno venti minuti di tempo per raccogliere le loro cose e presentarsi a questo comando. Le suore dovranno restare nei loro conventi fino a nuovo ordine».
Venti minuti di tempo per raccogliere le proprie cose… Nel cuore dei missionari scese un gelo di sconforto. Venti minuti per impacchettare il materiale di una vita di lavoro. Che fare, cosa poter scegliere, cosa abbandonare in venti minuti? Ognuno corse alla sua stanza e cominciò a mettere in sacche e vecchie valige quel poco di roba e libri personali ritenuti utili…
A un missionario venne subito in mente che quel giorno era il primo giorno della novena della Consolata. Nella chiesetta del Mathari c’era il quadro della Vergine; come si poteva lasciarlo solo, abbandonato?
Si trattava di un’immagine speciale, uno di quei quadri che il beato Allamano aveva consegnato ai componenti delle varie spedizioni che partivano da Torino. «Portatelo con voi, custoditelo, perché vi protegga sempre», sembravano ancora echeggiare le parole del Fondatore. Il missionario si precipitò in chiesa. Tentò di armeggiare per vedere di togliere dalla coice quella tela, ma si rese presto conto che sarebbe occorso troppo tempo.
Aveva un coltellino in tasca, quel coltellino milleusi sempre così utile quando si trattava di  cavar spine e pulci penetranti. Con decisione e precisione il coltello si insinuò lungo la linea della coice e la tela ne uscì fuori in poco più di un minuto. Il Santissimo Sacramento venne tolto dal tabeacolo e portato al sicuro dalle suore. L’icona della Consolata, ben arrotolata, andò a far compagnia ai pochi libri e calzini puliti e sporchi del «padre salvatore».

LA LUNGA PRIGIONIA
«Dove si va?» era la domanda sulla bocca di tutti. Purtroppo la risposta non lasciava molte speranze. La meta era la prigione di Nairobi-Kabete, dove i missionari italiani vennero condotti in attesa che arrivassero i loro confratelli, arrestati nelle altre missioni del Nyeri e del Meru quello stesso giorno.
Dalla prigione temporanea di Kabete (oggi un grande sobborgo di Nairobi), dove in totale vennero radunati ben 419 missionari, incluse alcune suore, ben poco riuscì a trapelare. Le poche notizie che si hanno di quei giorni, le raccogliamo da una lettera scritta l’anno successivo, in cui l’autore, padre Giuseppe Maletto, pur misurando con attenzione le parole per paura della censura, dà un breve resoconto di quei giorni. L’autore, raccontando di quei giorni, scrive che dall’11 giugno i missionari «furono inteati fino al 4 ottobre, quando partimmo per il Sudafrica, via mare… Alcuni missionari dello Spirito Santo e di Mill Hill ci sostituirono nelle missioni. Le reverende suore furono dapprima tutte radunate nella fattoria di Nyeri; in seguito alcune furono lasciate ritornare in 4 o 5 stazioni di missione, soltanto del vicariato di Nyeri…».
La lettera di padre Maletto venne scritta da Koffiefontein, località del Sudafrica, oggi famosa per le miniere diamantifere, ma in quei giorni sede di un grosso campo di prigionia. In esso, nel frattempo, erano stati inviati anche i missionari italiani provenienti dal Kenya.
Lo stesso padre Maletto fornisce, anche qualche particolare su come viene vissuta la vita di preghiera all’interno del campo: «Abbiamo una cappellina che può contenere 10 persone inginocchiate e 20 in piedi e pigiate…» (da lettera del giugno 1941).
Anche se le rassicurazioni date da padre Maletto in merito alle condizioni dei missionari della Consolata in prigionia consolò i superiori di Torino, una seconda lettera, inviata il mese successivo, dava una visione meno ottimistica della vita in cattività: «Noi stiamo relativamente tutti bene. Per noi, fatti i due appelli giornalieri, la pulizia delle camerette e personale, lavatura e cucitura, il resto è tempo libero. Come però desidereremmo di poterci sgranchire le gambe con qualche passeggiata o almeno quattro passi fuori dei reticolati spinosi. In Kenya, a Kabete, ci si conduceva a spasso una, due o tre volte la settimana, come i collegiali, sorvegliati da assistenti. Era una gran festa. Qui nulla di nulla. La nostra minuscola cappella con il Santissimo è un grande conforto per noi. Altri non ne abbiamo…» (lettera del 24/3/1941, giunta in Italia nel luglio 1941).
A commento del breve brano della lettera di padre Maletto, in cui si ricordano i «tempi della prigionia di Kabete», il sottoscritto ricorda una breve conversazione avuta con un missionario compagno di prigionia, il padre Merlo Pick. Parlando dei «quattro passi fuori dei reticolati», pur sorvegliati dagli assistenti, Merlo Pick ricordava come due o tre padri riuscivano sempre, avvalendosi della conoscenza della lingua kikuyu, ad avere notizie delle missioni del Nyeri da parte di finti e occasionali viandanti.
La situazione risultava essere un po’ una comica: la comitiva dei «collegiali prigionieri» sembrava andare a passeggio, ma qualcuno, con la voce un pochino più alta, chiedeva notizie in kikuyu ai passanti che sembravano divertirsi di quei prigionieri in casacca da galeotti. «Come stanno le suore a Nyeri? Come vanno le missioni abbandonate? Salutateci tutti…».
Nessuno dei sorveglianti, del resto ignari del kikuyu e tanto più dell’italiano, riuscì mai a scoprire lo stratagemma. Al massimo, qualcuno pensò che nel gruppo dei galeotti ci fosse il «solito buontempone», in vena di sollevare il morale alla truppa!

LA CONSOLATA SI FA BELLA
A Koffiefontein la vita di prigionia scorreva monotona, senza troppi sussulti.
Però, si sa, il missionario non ama starsene con le mani in mano. Molti, infatti, occuparono questo lungo periodo di inattività forzata con l’apprendimento di lingue utili per il futuro: qualcuno si dedicò con dedizione allo studio del kiswahili, del kimeru, altri ancora si cimentarono addirittura con il tedesco. Alcuni dimostrarono interesse alla pittura, scultura, musica e altro ancora. Ci fu persino chi scoprì che tra le sabbie e pietruzze del campo di concentramento c’erano minuscoli diamanti e rubini…
A un certo punto, alcuni missionari decisero di cimentarsi con l’oreficeria! L’icona della Consolata, trafugata e messa in valigia di tutta fretta, faceva la sua bella figura nella cappelletta di fortuna che i missionari avevano ricavato nel campo di prigionia. Perché non abbellirlo? In fin dei conti la Consolata aveva accompagnato i «suoi» missionari addirittura in galera. Si meritava davvero un po’ di attenzione. Si iniziò con il produrre una bella coice per rimpiazzare quella originale, rimasta nella missione quando la tela fu tagliata e asportata.
A parte qualche rustico attrezzo, recuperato tra i rottami del campo di concentramento, non si poteva contare su struomenti adatti per lavorare il legno. L’arte, però, non conosce ostacoli e la coice venne scolpita con il solito e indispensabile coltellino milleusi.
Guardando l’immagine della Consolata nella sua nuova sede, saltò anche fuori la proposta di riprodurre le stelle che incoronano la Madonna, come nel quadro originale venerato nel santuario di Torino. «Bellissima idea – concordarono i più -. E perché non costruire le stelle in metallo prezioso?».
Già, proprio una bella idea! Ma dove si sarebbero potuti trovare dei metalli preziosi in una prigione? Oro? E chi ne aveva con sé? Argento? Alla parola «argento» qualcuno inizió a sussultare: la moneta del Sudafrica, il rand, era d’argento, forse la soluzione era stata trovata. Molti prigionieri accettarono, di buon grado di mettere a disposizione la «cinquina» che il governo inglese passava ai prigionieri: uno scellino al giorno. Al cambio risultavano circa 12 rand.
Dopo vari tentativi, l’orefice autodidatta riuscì a ottenere 12 belle stelle d’argento, con un piccolo punteruolo che permettesse di applicarle alla tela dell’icona. L’effetto fu sorprendente. Che emozione, la Consolata sembrava più bella… Anzi, meno triste, nonostante fosse anche lei in galera insieme a tutti i suoi missionari, dove resterà fino al mese di settembre del 1944.

RITORNO A CASA
Fu la voce della Radio Vaticana ad annunciare, il 20 settembre di quell’anno, che «i padri e le suore del Kenya erano tutti tornati alle loro missioni!».
L’anonimo «salvatore» della Consolata si era riportato in Kenya, tra le sue poche cose, anche il prezioso quadro. Per prudenza staccò le stelle d’argento, mettendole al sicuro. Incredibilmente, il quadro trovò ancora la sua vecchia coice, anche se, ahimé, fu necessario restringerla un pochino, dopo il taglio della tela praticato al momento dell’arresto.
Non ne uscì un capolavoro; anzi, a ben guardare, la squadratura non risultava delle più perfette. Nessuna paura! Era come avesse fatto la guerra! Purtroppo, però, nel trambusto del ritorno dalla prigionia, delle 12 stelle d’argento ne restavano solo nove.
Quando, nel processo di africanizzazione della diocesi di Nyeri, i missionari affidarono la missione al clero locale, pensarono di lasciare il quadro di questa «famosa» Consolata alle suore missionarie della Consolata di Nyeri. Ma dopo alcuni anni, le sorelle restituirono gentilmente il cimelio ai padri missionari, che ora lo conservano nella cappella della loro Casa regionale di Nairobi.
Ma quelle tre stelle mancanti…
Un giorno mi feci coraggio e raccontai questa curiosa storia a un amico indiano, ottimo orafo del Kashmir. Mi stette ad ascoltare per un po’ e poi, d’impulso, disse: «Mi porti una stella, padre, e io farò quel che devo fare».
Gli portai una stella di campione e dopo tre giorni mi chiamò a ritirare tre altre bellissime stelle d’argento, più lucenti delle prime.
«Voglio anch’io onorare la vostra Vergine – mi disse – perché benedica anche me e la mia famiglia. Anche se sono indù, apprezzo il vostro lavoro di missionari».
Oggi il quadro è tornato ad avere le sue 12 stelle. E la Vergine Consolata, prigioniera con i suoi missionari per tre anni nei campi di concentramento del Sudafrica, continua a presentarci il suo Bambino, a benedirci e accompagnarci in Kenya e in altre parti del mondo.  

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Per un pugno di pesos

La rivolta dei maestri di Oaxaca… non è ancora finita

Per oltre 5 mesi, a Oaxaca, stato del Messico centrale, lo sciopero dei maestri ha paralizzato 12 mila scuole pubbliche, ricevendo il sostegno di 350 organizzazioni civili di base e resistendo alla repressione violenta del governo centrale, Ulises Ruiz, finché il nuovo presidente del Messico ha firmato un accordo con il sindacato degli insegnanti. La scuola è ripresa, ma la tensione continua.

«Fino a quando non pagheranno un po’ di più mio papà, non me ne andrò da questa piazza». Adriana ha 9 anni ed è già una messicana decisa e senza timori. Con il sorriso ammaliante dei bambini e due occhioni luccicanti, mi viene incontro guardandoti fisso in volto e cercando la tua approvazione. «È quasi quattro mesi che dormo qui nello zócalo, la piazza principale della città, e lo faccio assieme a loro», mi dice la bambina indicandomi con il dito le centinaia di persone che, sotto tendoni di fortuna e striscioni di ogni tipo, vivono barricati in una sorta di campeggio cittadino.
Ma dove siamo?
«Bienvenidos en Oaxaca – continua Adriana – il luogo in cui i diritti umani non esistono più». Fa impressione sentir parlare una bambina in questo modo. Per capie di più, mi avvicino al gruppetto di donne più vicine a lei: sono la sua mamma, la zia e due cugine, anche loro ragazzine. Sguardo fiero e un’aria distesa, nonostante la situazione precaria, espongono Adriana come un piccolo trofeo. «Sono orgogliosa di lei – dice – per come mostra amore e solidarietà a suo padre, che si trova in una situazione bruttissima: è un maestro».
«Che male c’è ad essere un insegnante?» penso. Ma la donna mi anticipa: «Mio marito è uno dei 70 mila maestri pagati una miseria dallo stato, che ora è in sciopero permanente assieme a tutti gli altri».
L’equivalente di quasi 100 euro al mese, ecco quello che guadagna un maestro di Oaxaca. Uno stipendio da fame. Che lo porta a cercare un doppio, triplo lavoro, con il quale non riesce più a passare del tempo in casa e a crescere i propri figli. La situazione a Oaxaca e nello stato omonimo (il Messico è una federazione) è insostenibile da anni, ma solo il 14 giugno 2006, esasperati, i maestri sono scesi in piazza, per una marcia pacifica in cui chiedevano un aumento di salario.
Il governatore statale, Ulises Ruiz Ortiz, non ha badato a mezze misure nel reprimere la sollevazione popolare: gas lacrimogeni, proiettili di gomma, manganelli in aria hanno seminato il panico tra i manifestanti, bambini compresi. La violenza della polizia statale, anziché zittire il movimento di protesta, ha scatenato l’indignazione della società civile di Oaxaca e di tutto il Messico. Il capo della polizia si è dovuto dimettere, ma il governatore, la vera mente dell’assalto, è rimasto al suo posto, diventando così il bersaglio popolare.
Invitato ad andarsene anche dal governo centrale di Città del Messico, «Uro» (così chiamato per le iniziali del suo nome) non ha fatto alcun passo indietro, anzi: «Non cederò ai ricatti di questi sobillatori» ha detto, riferendosi ai maestri. I quali, decisi ad andare fino in fondo nella loro rivolta, si sono organizzati in una assemblea permanente, la Appo: Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca.
La Appo è diventata da subito un esempio a livello mondiale per la radicalità della sua lotta: in decine di parti della città, ma anche nei piccoli centri dello stato, sono sorti dei plantón, cioè occupazioni di piazze, edifici pubblici, emittenti radiotelevisive. Sono state messe auto, pullman di traverso per le strade, e sassi giganteschi hanno impedito il passaggio di qualsiasi veicolo. Proprio quando stava per arrivare il flusso di turisti nordamericani, canadesi ed europei, Oaxaca è diventata una città fantasma, sconsigliata da tutti gli operatori turistici mondiali.

La gente del posto, all’inizio, era divisa in due pensieri: da una parte, con l’occupazione, perdeva i guadagni del turismo, che permettevano un’esistenza dignitosa a migliaia di persone; dall’altra, le veniva spontaneo appoggiare la lotta dei maestri, la cui soddisfazione lavorativa avrebbe garantito un’adeguata educazione ai propri figli, in una zona dignitosa ma in cui la povertà non è mai stata completamente cancellata. Alla fine i commercianti, a parte qualcuno vicino al potere, ha appoggiato la protesta.
Dopo la violenza iniziale delle autorità, per 160 giorni, da giugno a ottobre 2006, il conflitto che si è creato ha conosciuto solo botta e risposta attraverso i mezzi di comunicazione. Le forze di polizia, accusate di corruzione e brutalità, sono state costrette ad abbandonare la città, mettendosi in periferia.
Dentro, la sicurezza era garantita dalla gente della Appo, che, organizzata in tui, manteneva l’ordine pubblico in un modo a prima vista facile, senza grandi problemi: la coscienza collettiva era ai massimi livelli; si sapeva che bastava veramente poco per generare un caos in cui le prime vittime sarebbero state i civili e il messaggio pacifico che portava con sé la protesta. In città tutto continuava a funzionare, compreso il coloratissimo mercato cittadino, in cui decine di donne industriose vendevano i loro prodotti fabbricati a mano: vestiti, oggetti in legno, e molti generi alimentari, soprattutto cibo prodotto in casa, come lo squisito pizatl, una sorta di pollo cotto al vapore, immerso nella polenta e racchiuso in una foglia di pannocchia o di banana. Erano funzionanti anche i locali in cui scorrevano fiumi di mezcal, la famosa bevanda alcolica messicana, quella del guisanito, il vermicello messo a riposare sul fondo della bottiglia per dare più sapore alla storica bevanda.
Per tutto questo tempo, centinaia di persone, come Adriana e la sua famiglia, hanno abbandonato le proprie case e sono andate a dormire in piazza. Soprattutto donne, mentre i mariti (più del 90% dei maestri è di sesso maschile) discutevano in accese riunioni sui passi successivi da compiere.
«C’è qualcuno che vorrebbe passare a un’azione più diretta – racconta José, insegnante elementare padre di quattro bambini -. Meno male che poi si convince a continuare la protesta in forma nonviolenta». Per far capire alla gente le loro intenzioni, decise ma contrarie all’uso della violenza, José e gli altri maestri hanno tappezzato la città di gigantografie di Gandhi, il padre della nonviolenza.
Anche i comuni della zona, imitando in piccolo Oaxaca, hanno organizzato forme di resistenza popolare, sospendendo le attività, scendendo in piazza con i gonfaloni, offrendo appoggio e mezzi alla campagna informativa della Appo. «Ci diamo da fare per far conoscere a tutti la situazione – dice Marcela, giovane attivista -. In molte piazze abbiamo allestito punti di informazione che, con video e assemblee, spiegano quello che sta accadendo».
I l luogo più suggestivo è la piazza di San Francisco, dove sorge la chiesa più bella e meglio conservata della città: qui, subito fuori l’imponente struttura dei francescani e all’inizio di una delle vie dove si vende artigianato e il famoso cioccolato locale, si è installato il Campamento por la dignidad y contra la represion en Oaxaca (Accampamento per la dignità e contro la repressione a Oaxaca). Marcela parla a decine di cittadini e ai pochi viaggiatori che entrano in città, raccontando la vita disperata di migliaia di maestri e delle loro famiglie. «Riceviamo appoggio e solidarietà da tutto il Messico e dall’estero – dice -: è una grossa spinta ad andare avanti».
E come hanno reagito i religiosi all’occupazione simbolica della piazza? «Sostenendoci anche loro – rivela con un sorriso Marcela -. Qui la chiesa è vicina alla gente, ne vive problemi e sfide, cercando di offrire il massimo appoggio».
Proprio così. Dai pulpiti delle decine di chiese di Oaxaca i sacerdoti invitano la gente a tener duro, senza cedere alla tentazione dello scontro diretto. Una mensa popolare è stata aperta proprio nei locali attigui alla cattedrale, nella piazza principale. La chiesa stessa rimane aperta giorno e notte per le preghiere dei fedeli, qui come in tutto il Messico molto devoti. «Non possiamo non sentire l’ansia della gente in questo momento» dice padre Andres, cappellano della cattedrale.
In effetti, a fine ottobre la tensione è alle stelle. Giravano voci di un avvicinamento di soldati dell’esercito alla città, in arrivo dalla capitale. Si era in alerta roja, allarme rosso. Ma senza farlo troppo vedere. «Da fuori, Oaxaca sembra una città in preda alla guerriglia» dice Sandra, che gestisce una pensione nel centro città, a pochi passi dallo zócalo. «La realtà, invece, mostra una città tranquilla, troppo tranquilla; chissà quando tutto si sistemerà e come andrà a finire» continua la donna preoccupata.

I timori di Sandra sono risultati profetici: il 28 ottobre, a 160 giorni dall’inizio del conflitto, la polizia di Uro ha fatto sgombrare con la forza la piazza principale; nella settimana successiva si è scatenato il finimondo: dieci persone sono rimaste uccise, tutti civili, tra cui un ragazzino 14enne e un giornalista freelance statunitense, William Bradley. Altre 70 persone almeno sono state arrestate, in maggioranza maestri e leader della Appo.
Grande è stata l’indignazione mondiale per il modo in cui è stata affrontata la situazione: il governatore si è dimostrato un mandante di assassini feroci, a volte travestiti da cittadini comuni, come nel caso dell’uccisione del maestro Fidel Garcia: è stato colpito alle spalle da una raffica di proiettili, mentre tornava a casa dopo una riunione della Appo.
L’arcivescovo di Oaxaca, Wilfredo Mayren, ha dato asilo politico a decine di maestri, tra cui Flavio Sosa, uno dei massimi dirigenti della Appo. «Esiste un terrorismo di stato e una persecuzione schizofrenica» affermava l’arcivescovo, accusando duramente le forze armate statali.
Per qualche giorno tutto è stato zittito e, quando la polizia se n’è andata, Oaxaca è tornata una città fantasma; ma per poco. La voce popolare, nonostante i morti, i feriti e i detenuti, si è rifatta viva quasi subito, con nuove occupazioni, nuovi scioperi, ed eclatanti denunce verso le autorità penitenziarie, ree di usare contro i maestri incarcerati violenza e torture, documentate dalla Ccdoih, Commissione civile internazionale per l’osservazione dei diritti umani, creata con l’avvallo di Amnesty Inteational.
Il famigerato Uro è rimasto al suo posto e lo è ancora oggi. Ma la situazione è cambiata, complice il cambiamento avvenuto il primo dicembre 2006 a livello di governo centrale: Vicente Fox, che si era mostrato indifferente verso la protesta dei maestri, viene sostituito alla presidenza del paese da Felipe Calderón, compagno di partito (del Pan, Partito di azione nazionale, conservatore), ma, almeno in apparenza, più deciso a risolvere la crisi di Oaxaca, tenendo conto delle richieste della gente.
Calderón è salito al potere nel mezzo di scandali e accuse di brogli elettorali: ha vinto per poche migliaia di voti, battendo il favorito della vigilia, il progressista Manuel Lopez Obrador, che non ha mai riconosciuto l’esito del voto. Nonostante ciò, il nuovo presidente ha concluso un accordo con la Appo per un aumento dei salari e un miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto risolto, quindi? «All’apparenza sembra risolto – dice Berta Muñoz della Ccdoih -. Il 9 marzo 2007 c’è stato l’ultimo arresto ai danni di una professoressa, Yolanda Ramirez, portata via dalla polizia mentre camminava per strada, senza alcuna spiegazione né accusa specifica». Berta, la Appo e tutte le persone di Oaxaca si chiedono quale sarà la prossima mossa di Uro. Perché alla fine, come spesso succede in America Latina, le efferatezze vengono ideate da chi dovrebbe difendere il popolo, anziché attaccarlo.
Il nuovo presidente dice di volere la pace sociale, ma la gente gli crede poco. Nel frattempo, a Oaxaca qualche piazza rimane occupata, soprattutto in periferia e nei quartieri più popolari, dove le forze dell’ordine non riscuotono alcun successo.
I turisti sono tornati. Questi sono interessati alle spoglie ma affascinanti rovine di Monte Albán (poste su un’alta collina a 15 minuti dal centro), ai 42 metri di circonferenza di El Tule, l’albero più grande al mondo, alla natura incontaminata di Ixtlán e ai lavoratissimi palazzi della civiltà mixteca di Mitla.
Il commercio è ripreso, le scuole anche. Ma quello che manca all’appello, come spesso accade, è il rispetto dei diritti umani, soprattutto dei «senza voce». Chissà se Adriana, un giorno, vorrà seguire le orme del padre e diventare maestra. Forse no. 

Di Daniela Biella

Daniele Biella




SAMBA VIOLENTA

Le metropoli brasiliane nella morsa del crimine organizzato

Statistiche e sondaggi d’opinione rivelano come la gente in Brasile si senta ogni giorno meno sicura. Narcotraffico, miseria e corruzione sono il cocktail esplosivo che impensierisce la vita quotidiana degli abitanti del colosso sudamericano.

I l problema della violenza è una realtà con cui individui e società hanno sempre dovuto fare i conti nel corso dei secoli. Anche in Brasile l’opinione pubblica rimane ripetutamente scioccata di fronte a episodi violenti compiuti da organizzazioni criminali, a cui rispondono le forze dell’ordine con azioni altrettanto violente. Per non parlare di chi, come gli squadroni della morte, si arroga il diritto di «fare un po’ di pulizia» per proprio conto (o per conto terzi), contribuendo così a fare impennare le statistiche degli omicidi e a riempire le pagine di cronaca nera.
Nella società contemporanea, grazie soprattutto al potere dei media, la violenza viene trasformata in spettacolo e, attraverso questo processo, viene giorno dopo giorno banalizzata. È impressionante vedere la forma con la quale alimenta le pagine dei giornali e guadagna spazi televisivi.
Crimine, paura, violenza, sofferenza, dolore e morte sono elementi imprescindibili dell’esperienza umana, che vorremmo veder rimossi, cancellati, ma che non riusciamo a eliminare totalmente. Servirebbe una cultura della pace, la quale dipende dalla promozione di valori positivi e dalla vigilanza che persone e istituzioni riescono a mantenere sulla dimensione contraria, ugualmente presente, fatta di rivalità, egoismo, esclusione.
Senza un equilibrio stabile nella coesistenza dei due opposti sarà sempre impossibile costruire una società che possa garantire una convivenza minimamente accettabile fra gli esseri umani. Se le istituzioni sono assenti, le organizzazioni criminali hanno buon gioco a conquistare il vuoto lasciato da esse.

CIFRE INQUIETANTI
Il Brasile non fa eccezione. In questi ultimi tempi sono stati diffusi nel paese svariati sondaggi, aventi come tema la violenza. L’ultimo di essi in ordine di tempo, realizzato dalle Agenzie CNT e Sensus e divulgato lo scorso 10 aprile, indica come il 90,9% degli intervistati noti un aumento significativo della violenza nel paese. Soltanto il 5,2% ha affermato di non avvertire nessun incremento in materia di violenza, mentre il 4% non ha saputo esprimere la propria opinione.
La povertà e la miseria sono indicate dal 24,1% delle persone intervistate come le cause principali della criminalità; il 19,1% la attribuisce alla cronica mancanza di giustizia; un altro 19% ritiene che il narcotraffico sia la causa principale; il 15% ha colpevolizzato un sistema legislativo ritenuto troppo garantista; l’11% ha puntato il dito contro l’endemica corruzione della polizia; il 7,6% dà la colpa alla debolezza e disorganizzazione delle forze dell’ordine. La percentuale mancante, infine, non ha saputo che cosa rispondere.
Il sondaggio, realizzato in 24 stati della federazione e fondato su più di duemila interviste, ha anche riportato ciò che la popolazione pensa essere la causa principale dell’insicurezza in cui vive il cittadino brasiliano. Il risultato è inquietante, in quanto se il 71,7% ha attribuito la responsabilità della violenza nel paese ai criminali, ben il 20% ha indicato come colpevole della situazione l’azione violenta della polizia.
I cittadini intervistati hanno indicato nella violenza urbana la causa numero uno di insicurezza, invocando un’azione congiunta di tutti gli organi preposti a difendere il vivere comune e la tranquillità della popolazione, partendo dal governo centrale, per scendere a quello federale e via via toccando più capillarmente la società con azioni che partano dalle stesse amministrazioni comunali.
La grande copertura mediatica che i fatti criminali hanno nel paese ha contribuito a creare nella gente una sensazione diffusa di insicurezza, che si unisce alla rabbia che scatta di fronte ai tanti casi di impunità goduta da chi delinque. Questa sensazione fa sì che l’opinione pubblica esiga pene sempre più severe per tutti coloro che infrangono la legge.
Oggi, più della metà dei brasiliani è favorevole alla pena di morte, nonostante venga riconosciuto il rischio di possibili errori giudiziari. A tanto portano la frustrazione e il senso di impotenza avvertito dalla maggior parte della popolazione.
Nella valutazione del sondaggio presentata dal direttore dell’agenzia Sensus, Ricardo Guedes, la percezione che la gente ha della violenza in genere è maggiore della violenza reale. Questo dato è rafforzato dal fatto che, sebbene il 90,9% della popolazione riconosce un aumento significativo della violenza, solo il 16,8%, in realtà, ritiene di vivere in una città violenta. Infatti, un individuo può vivere degli anni o tutta una vita in città come Rio de Janeiro o San Paolo senza vedere o subire personalmente nessun tipo di violenza. I mezzi di comunicazione si incaricano di creare uno scenario di violenza più grande, dando ampia copertura ai fatti delittuosi.
Visto dal di fuori, si ha l’impressione che basti che il turista metta il piede in una città per essere attaccato da qualche bandito.

RIO: UNA LUNGA STORIA
DI VIOLENZA
Paura e violenza a Rio de Janeiro hanno percorso insieme un lungo cammino nella storia della città, attraversato secoli, guadagnando nuovi scenari e scatenando vecchie reazioni. Ciò non deve stupire: la violenza è alle radici del processo di formazione nazionale del Brasile. Pensiamo, ad esempio, all’epoca del commercio illegale del pau-brasil (un legname pregiato destinato al mercato europeo), quando si è dato inizio alla decimazione dei popoli indigeni nativi; oppure alla corsa all’oro, causa di avidità e violenza anche in Brasile. Per non tacere del traffico di schiavi. Tutto entrava, partiva e veniva trafficato nel porto di Rio.
Il senso di insicurezza nella città di Rio de Janeiro pervase tutto il periodo coloniale, cominciando proprio dagli inizi. Nella seconda metà del 16° secolo, la regione era stata invasa dai francesi, occupazione destinata a durare poco tempo, visto che già nel 1565 i portoghesi riuscirono a scacciarli dalla colonia.
Costante era, soprattutto, il timore del pericolo «esterno»: paura delle malattie portate dal traffico degli schiavi, delle invasioni straniere, di essere attaccati dai nativi. Questa angoscia, presente nella popolazione «carioca», scatenava reazioni di panico e paura anche in situazioni apparentemente innocue, come il semplice avvicinarsi di imbarcazioni sconosciute alla baia di Rio.
Anni più tardi, i francesi pianificarono nuovi attacchi contro la città e nel 1711 riuscirono a sconfiggere i portoghesi. Durante questi avvenimenti, grande parte della popolazione urbana si rifugiò in altre regioni, mentre le autorità, non potendo resistere, si arresero agli attacchi nemici.
Anche il traffico degli schiavi contribuì a creare grande preoccupazione alla popolazione urbana di Rio. Molti schiavi rimanevano esposti in vetrine per essere venduti; ma coloro che non avevano acquirenti potevano rimanere in città per giorni, settimane e anche mesi.
Gli abitanti, che già dovevano convivere con il disordine e l’insicurezza causati dalla mancanza di ordine pubblico, avevano anche paura di essere contaminati da malattie provenienti dalla povertà di igiene, che accompagnava il commercio degli schiavi venduti in città. Delinquenti comuni, schiavi, schiavi liberati, schiavi fuggitivi, zingari… tutto rappresentava una minaccia agli occhi degli abitanti di Rio, soprattutto della componente bianca.
Infine, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, con la crescita rapida e disordinata della popolazione urbana, si iniziarono a formarsi le favelas, quartieri di insediamento spontaneo, talvolta forzato, quasi sempre abusivo. In alcune di queste aree le istituzioni dello stato non si sono mai rese presenti, facendo di conseguenza mancare all’immensa popolazione di questi settori i servizi più elementari.
Vista l’assenza dello stato sul territorio, con l’andare del tempo gruppi mafiosi, legati al traffico degli stupefacenti, hanno occupato lo spazio lasciato vacante dallo stato, istituendo un vero e proprio «governo-ombra» a base criminale. I trafficanti stessi si sono da sempre incaricati di mantenere l’ordine all’interno delle favelas, facendo di tutto per non attirare l’attenzione della polizia.
Non sono però mancate vere e proprie guerre fra gruppi rivali per il controllo delle aree strategiche come i morros, le cime delle colline, le parti più alte delle favelas, da cui è facile tenere tutto e tutti «sotto mira».
La polizia e l’esercito entrano periodicamente in queste aree per tentare di non perdere completamente il controllo della situazione e «far vedere i muscoli». Queste guerre tra bande di narcos, la polizia e in alcuni casi le milizie di vigilanti, terminano quasi sempre con la morte di qualcuno: siano essi criminali, poliziotti o civili innocenti.
Il numero di giovani morti nelle favelas a causa della violenza urbana supera quello offerto dai bollettini di molte zone di guerra. Secondo il B’tselem, un gruppo israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2006, sono morti 729 minorenni israeliani e palestinesi a causa della violenza in Israele e nei territori occupati. Durante lo stesso periodo, secondo i dati foiti dall’Istituto di sicurezza pubblica brasiliano, nella sola Rio de Janeiro sono stati assassinati ben1.857 minorenni.
Recentemente, il governatore dello stato di Rio de Janeiro, Sergio Cabral, ha chiesto al presidente Lula «l’uso delle forze armate per il periodo di un anno, al fine di garantire la legge e l’ordine nello stato, nella regione metropolitana e nella città di Rio de Janeiro». Nella dichiarazione pubblica resa dal governatore, si rileva come, «nonostante i ripetuti sforzi svolti in quest’area dal servizio pubblico, sia stato finora molto difficile, con le risorse disponibili, far fronte all’avanzata della criminalità che minaccia l’ordine pubblico e l’incolumità delle persone e del loro patrimonio».
L’appello è più che mai urgente in questo periodo in cui Rio si prepara ad essere la sede dei giochi panamericani, che avranno luogo nella metropoli «carioca» dal 13 al 29 luglio prossimo. L’avvenimento, che avrà per giunta un’attenzione speciale da parte dei media, esigirà un rinforzo significativo della pubblica sicurezza.
Si può dire che la Rio di oggi sia una miscela paradossale. Se da un lato fa sfoggio di bellissimi paesaggi e spiagge che portano in città milioni di turisti ogni anno, dall’altro assiste all’aumento esponenziale delle favelas, ubicate soprattutto sulle colline che circondano la città. La più famosa di esse è la Favela de Rocinha, la più grande e popolosa del paese. La gioia e il colore della samba, presenti ogni anno nella sfilata del carnevale, si armonizzano con le storiche partite di calcio nello stadio del Maracaná, con la statua del Cristo Redentore, ma si scontrano con le tragiche conseguenze prodotte dalle attività della criminalità organizzata.
Soprannominata la «città meravigliosa», Rio convive oggi con la sfrontatezza di un’organizzazione mafiosa comandata da fazioni criminali come quella del «Terceiro comando» o del «Comando vermelho», organizzazioni criminali responsabili di delitti efferati e dello stato di permanente insicurezza della popolazione.

DALLE CARCERI
DI SAN PAOLO
In Brasile, il crimine organizzato si infiltra fra le maglie della società civile, approfittando della poca intesa politica fra i governanti e della corruzione diffusa, che ammorba e indebolisce le istituzioni che dovrebbero combattere il crimine. Se a Rio sono attive le milizie criminali, a San Paolo agiscono pressoché indisturbati (e quasi sempre con la connivenza della polizia) gli squadroni della morte.
Secondo l’avvocato Ariel de Castro Alves, cornordinatore del Movimento nazionale dei dirittti umani, per capire meglio i conflitti a Rio e la violenza quotidiana che colpisce oggi il paese, è importante ricordare quanto è capitato a San Paolo negli ultimi anni con l’avvento del gruppo criminale «Primeiro comando da capital» (Pcc), nato nel 1993 nei pressi della Casa circondariale di Taubaté.
L’idea originaria dei fondatori del gruppo era quella di organizzare i detenuti attraverso un partito o movimento politico, avente il fine di lottare contro gli episodi di ingiustizia e violenza che avvenivano quotidianamente all’interno delle prigioni brasiliane: torture, umiliazioni e assenza di diritti elementari nel sistema carcerario. Il Pcc chiedeva anche che venisse resa giustizia ai 111 prigionieri uccisi dalle forze speciali della polizia militare nell’episodio conosciuto come il «Massacro del Carandiru», del 1992.
Con il tempo, l’organizzazione si è fatta più complessa e ha deviato dalle finalità originarie postulate dai suoi fondatori, rafforzandosi rapidamente a causa della precarietà che caratterizza il sistema carcerario brasiliano e dalla mancanza di volontà politica di voler affrontare di petto il problema. Nello stesso periodo, le autorità hanno limitato la presenza delle organizzazioni umanitarie nelle strutture carcerarie, impedendo l’ingresso di molti loro rappresentanti all’interno delle prigioni.
Senza più controllo e monitoraggio di alcun tipo e facendosi forza della corruzione vigente a tutti i livelli del sistema carcerario, il Pcc si è presto trasformato in una potente organizzazione criminale. Il suo dominio si è venuto via via affermando grazie a crimini compiuti dentro e fuori le mura carcerarie, sfruttando e ricattando altri prigionieri e loro familiari, accumulando ricchezza grazie al traffico di droga, imponendo terrore e morte a coloro che li avversavano o che tradivano. Non è neppure mancato l’aiuto benevolo di avvocati, funzionari dello stato, membri delle forze dell’ordine e altre figure «utili» arruolate in svariati settori della società.
Invece di agire con fermezza, lo stato ha preferito procedere al riconoscimento di leader e portavoce del movimento, mantenendo aperto con il Pcc un dialogo fatto di negoziati e accordi reciproci. Era sembrata una buona strategia quella di negoziare con pochi esponenti del gruppo, in grado di esercitare un controllo sugli altri membri dell’organizzazione.
Questo sistema ha funzionato soltanto per qualche anno. Il crimine organizzato nelle prigioni è cresciuto rapidamente, sfuggendo totalmente al controllo delle istituzioni. La prova di forza più importante del gruppo criminale si è avuta con la ribellione del febbraio 2001, che ha coinvolto 29 stabilimenti carcerari nello stato di San Paolo. Il trasferimento di prigionieri dallo stato paulista in altri istituti di pena del Brasile ha contribuito a far sì che l’organizzazione creasse ramificazioni e avesse appoggi in tutto il paese.
Nel corso degli anni 2001-2003, svariati attacchi contro poliziotti e tribunali sono stati attribuiti al Pcc. Tuttavia, il fatto di cronaca più eclatante risale al 12 maggio dell’anno scorso, quando il crimine organizzato ha dato inizio alle esecuzioni sommarie di agenti dello stato. Tra maggio e agosto, l’organizzazione avrebbe ucciso ben 59 persone in 3 ondate di attentati (poliziotti, guardie civili, agenti di custodia e civili) e si sono contate ribellioni e sommosse in gran parte degli istituti di pena, inclusi vari carceri minorili.
Sebbene lo stato di San Paolo sia stato quello maggiormente colpito da questi avvenimenti di violenza e panico, si sono contati disordini anche in altri stati del paese, come Espírito Santo, Paraná e Mato Grosso.
Dopo l’ondata di attacchi del 12 maggio, si è assistito alla «ritorsione» orchestrata dalle forze dell’ordine e degli squadroni della morte, in un insieme di violenze che ha portato a vere e proprie esecuzioni sommarie e massacri. Secondo i risultati delle autorità, tra il 12 e il 20 maggio 2006 sarebbero morte in totale ben 492 persone.
Altri dati foiti dalla «Segreteria di pubblica sicurezza» hanno dimostrato che nel secondo trimestre del 2006 sono state assassinate a San Paolo 1.888 persone: una cifra che corrisponde a più del doppio delle vittime avutesi in Iraq nello stesso periodo. Il terrore ha invaso la più grande metropoli dell’America Latina. La polizia ritiene che, in almeno 82 episodi, gli squadroni della morte si siano resi responsabili di omicidi e sparizioni, ma nessuno di questi casi è stato ufficialmente chiarito da polizia o magistratura. Le notizie sono negate dalle autorità e il Pubblico ministero ha finora avuto grandi difficoltà a reperire dati ufficiali e informazioni.
I testimoni temono ritorsioni e non credono nelle istituzioni, ragione che favorisce l’impunità di chi delinque. Oggi, un anno dopo gli attacchi da parte del crimine organizzato e la reazione sconsiderata di forze dell’ordine e squadroni della morte, la situazione è ancora propizia per nuovi scontri e altri massacri. Il sistema carcerario continua ad essere fuori controllo, la polizia non riesce a far fronte all’emergenza, la maggioranza delle famiglie degli agenti uccisi durante gli scontri non sono ancora stati indennizzati.

BABY CRIMINALI
Negli ultimi tre mesi, si sono verificati crimini che hanno generato un dibattito nazionale su violenza e realtà minorile. Il Congresso brasiliano sta pensando di applicare sentenze più dure per crimini che coinvolgono bambini e possibilmente ridurre l’età minima per poter giudicare i criminali adolescenti. Attualmente più di 300 progetti di legge sono stati presentati al Congresso nazionale, con proposte tendenti a ridurre la maggior età penale da 18 a 16 anni. Altri due progetti arrivano a proporre la riduzione dell’età rispettivamente a 14 e addirittura a 12 anni.
Enti come la Conferenza episcopale brasiliana e l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) si oppongono duramente a queste proposte, che non vengono viste come soluzioni adeguate al problema della criminalità minorile. Anche due avversari politici come il governatore dello stato di San Paolo, José Serra, e il presidente Lula sono d’accordo che la diminuzione dell’età perseguibile non risolverebbe il problema della violenza causata da ragazzini e adolescenti.
La questione è annosa e controversa, perché una qualsiasi soluzione deve tenere in conto i parenti delle vittime della violenza minorile che esigono giustizia e, con indignazione, rifiutano tutto ciò che tutela i giovani che si macchiano di crimini anche orrendi. Alcuni casi in particolare suscitano vivaci dibattiti in seno all’opinione pubblica. Uno di questi, particolarmente odioso, si è verificato di recente a Rio de Janeiro e ha riguardato la morte del bambino João Helio, di appena 6 anni, rimasto impigliato nella cintura di sicurezza dell’automobile di sua madre, alla quale alcuni banditi stavano rubando la vettura. Tutti gli occupanti del veicolo erano riusciti a scendere, mentre il piccolo João non ce l’aveva fatta ed era stato trascinato per 7 chilometri.
Uno dei banditi aveva 18 anni al momento dell’aggressione: la pena detentiva che lo attende può variare da 20 a 30 anni di reclusione; il suo complice sedicenne, invece, potrà rimanere detenuto al massimo per 3 anni, secondo quanto prevede l’attuale legislazione.
Movimenti per i diritti civili e Ong continuano a fare pressione, esigendo che alle misure repressive in ambito di ordine pubblico, vengano associate misure preventive in ambito sociale. Il 10 aprile scorso si è realizzata una mobilitazione nazionale che ha attirato l’attenzione della società brasiliana e dei mezzi di comunicazione sulla necessità di migliorare il «Sistema nazionale di promozione socio-educativa» (Sinase) e di procedere a investimenti immediati e urgenti di politica pubblica.
La violenza, in Brasile come altrove, è un problema complesso, che presenta molte sfaccettature e dipende da innumerevoli cause. Una di queste è la proliferazione delle armi da fuoco, che si possono ottenere con esagerata facilità nel paese.
In Brasile, come in altre parti del mondo, regna una cultura della violenza e contro questo fenomeno c’è l’assoluto bisogno di educare le persone. Nel mese di ottobre 2005, per esempio, non è stato approvato un referendum che puntava all’esercizio di un controllo più capillare ed efficace del commercio delle armi.
Tuttavia il nuovo «statuto del disarmo», entrato in vigore nello stesso anno, è considerato rigoroso e moderno. Secondo la nuova legge, oggi dovrebbe risultare più difficile acquistare o avere accesso a un’arma. Peccato che alle buone intenzioni non si accompagnino sempre fatti concreti. Infatti, si continua a sapere di imprese che hanno aumentato la loro fabbricazione e vendita di armi sul mercato brasiliano. Ciò che rimane da stabilire è se queste armi vengono vendute legalmente…
Toccherebbe allo stato fare i controlli del caso, e applicare in modo severo una legge per altro già esistente. Ma si sà: i poteri sono molto deboli e la corruzione si tocca con mano in ambito giudiziario, legislativo, nelle forze dell’ordine e nelle istituzioni in genere. Come conseguenza si hanno indici molto bassi di controllo dei crimini e punizione dei colpevoli. La popolazione vive sfiduciata e insicura, cercando i mezzi di difendersi per conto proprio, con quello che trova.
Si può anche capire lo stato di confusione in cui il Brasile, oggi, sta vivendo. Non esistono facili vie di uscita, ma recuperare l’autorità dello stato di diritto e aumentare le politiche sociali sono misure indispensabili. 

Di Jaime Patias

Jaime Patias




SPIRITO… CERCASI

La chiesa dell’America Latina di fronte alla sua nuova missione

Inizia il 13 maggio, con la celebrazione eucaristica presieduta da papa Benedetto xvi, la quinta assemblea del CELAM, la Conferenza episcopale dell’America Latina e dei Caraibi. Luogo dell’evento è il santuario di Aparecida, in Brasile. Per la chiesa latinoamericana, 15 anni dopo Santo Domingo,  
è un nuovo momento di comunione e riflessione, alla ricerca delle linee direttive che guideranno la cattolicità del continente nei prossimi anni.
Il tema: discepolato e missione.

G razie ai suoi 7 milioni di pellegrini all’anno, il santuario di Aparecida è, dopo quello di Nostra Signora di Guadalupe in Messico, il secondo centro di devozione dell’America Latina in ordine di importanza e frequentazione. A 165 chilometri da San Paulo, il santuario è meta di innumerevoli pellegrinaggi da tutto il Brasile e buona parte del Sudamerica. Dal 1930, la Vergine «Aparecida» (Apparsa) è patrona del Brasile. L’imponente costruzione di mattoni forati domina, con il suo campanile alto 80 metri, la verde valle del fiume Paraiba e può ospitare fino a 45 mila fedeli.  Nessun dubbio: il 13 maggio prossimo farà ancora una volta il tutto esaurito. Ospite di riguardo sarà infatti niente meno che Benedetto xvi, in occasione del primo viaggio apostolico del suo pontificato fuori dai confini del continente europeo.
Il santo padre celebrerà, infatti, la messa inaugurale della «V Conferenza dell’Episcopato dell’America Latina e dei Caraibi» (CELAM), che si terrà nella località brasiliana dal 13 al 31 maggio di quest’anno. Un appuntamento importante a cui il papa non ha voluto mancare, rispettando in questo modo gli impegni precedentemente stabiliti dal suo predecessore, Giovanni Paolo ii.
Il «CELAM 5», infatti, era stato programmato per l’anno 2005, in occasione del cinquantesimo anniversario della prima Conferenza dei vescovi latinoamericani, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1955. Era stata la lunga e irreversibile malattia del papa, sfociata nella sua morte il 2 aprile di quell’anno, a consigliare prelati sudamericani e Vaticano di posticipare l’evento a miglior data: oggi, per l’appunto.

50 ANNI DI STORIA

Aparecida 2007 si colloca nella scia di altre importanti assemblee ecclesiali che hanno visto protagonista la chiesa del continente. Ripercorriamone brevemente la storia, cercando di rintracciare le radici su cui si fonda l’incontro di quest’anno, destinato a influenzare la riflessione dottrinale e le linee pastorali per il prossimo decennio.   
Partiamo dalla già nominata prima Conferenza di Rio de Janeiro. Convocata dall’allora pontefice Pio xii, la chiesa che si ritrovò nella metropoli brasiliana era segnata dalle contraddizioni e dalle tensioni dell’epoca precedente il Concilio Vaticano ii. I temi in agenda erano la penuria di vocazioni sacerdotali, l’importanza di rinnovare e riqualificare le attività di educazione e istruzione religiosa e la sperequazione economico-sociale, causa di divisione ed ingiustizie. Quest’ultimo punto, seppure trattato ancora larvatamente dalla conferenza, diede il via a una riflessione sull’inscindibilità di promozione umana, coscienza sociale e evangelizzazione destinata a diventare cruciale nelle assemblee seguenti. Non mancò neppure un piccolo accenno alla «questione india», che teneva in conto la presenza nel continente di quelle sacche di popolazione aborigene  emarginate e perseguitate.
Il punto centrale della Conferenza di Rio fu, però, la nascita stessa del CELAM, un consiglio episcopale permanente delle chiese latinoamericane, con la funzione di studiare gli argomenti di maggior interesse per la chiesa in America Latina, promuovere opere ed attività di promozione umana, nonché impostare la riflessione sul futuro della cattolicità nel continente organizzando i futuri incontri assembleari.
Tredici lunghi anni dovettero trascorrere prima che il CELAM promuovesse una nuova Conferenza generale, convocata da papa Paolo vi e svoltasi a Medellín (Colombia) dal 26 agosto al 6 settembre 1968. In questa occasione il CELAM preparò anche l’Instrumentum Laboris dell’assemblea, che venne poi corretto e ampliato dalle Conferenze episcopali e dalla Santa Sede. Il documento aveva come linee fondamentali: la realtà congiunturale, la riflessione teologica e le applicazioni concrete di tale riflessione. Ispirata dal documento conciliare sulla chiesa nel mondo contemporaneo «Gaudium et Spes» e dall’enciclica «Populorum Progressio», pubblicata l’anno precedente, Medellín pose l’accento sulle profonde relazioni che legano fra loro fede e giustizia. Entrarono prepotentemente nel dibattito temi cari alla teologia della liberazione quali il tema del peccato strutturale, la liberazione dei poveri e la trasformazione del mondo come espressione della costruzione terrena del Regno di Dio.
Il tema della liberazione dei poveri divenne centrale nella terza conferenza del CELAM, tenutasi a Puebla (Messico) dal 28 gennaio al 15 febbraio del 1979. Questa conferenza rappresentò anche la presa di contatto diretta con la realtà ecclesiale latinoamericana, in qualità di papa, di Giovanni Paolo ii, eletto soltanto pochi mesi prima al soglio pontificio. Quattro anni dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi» la chiesa latinoamericana venne convocata a riflettere su un proprio stile di evangelizzazione che partisse dal contesto storico e sociale del continente. La linea guida di Puebla risiedeva nella certezza che la chiesa potrà diventare soggetto di evangelizzazione, nella misura in cui saprà presentarsi come luogo di comunione e partecipazione. La liberazione dei poveri e degli oppressi, desiderosi di trovare nella chiesa un «popolo in cammino» in grado di condividere con loro le ansie, i drammi, le paure e le violenze della vita quotidiana divenne lo sfondo della riflessione assembleare. Grande enfasi venne posta sul lavoro delle Comunità ecclesiali di base (Ceb) che si erano venute diffondendo proprio per dare una risposta a quest’ansia di incarnazione del messaggio evangelico nel tessuto più capillare della società.
Il tema della «Nuova evangelizzazione» fu alla base della iv Conferenza di Santo Domingo, inaugurata da Giovanni Paolo ii il 12 ottobre 1992, in occasione del cinquecentenario dell’evangelizzazione del continente americano. L’accento venne posto sull’annuncio kerygmatico, sul suo contenuto e sulle sue modalità. Un annuncio che doveva prendere spunto e forza dalla professione di fede e dall’illuminazione teologica, capaci di guidare le linee di azione pastorale delle chiese latinoamericane nel nuovo millennio.
Dopo Medellín e Puebla venne dunque abbandonata la prassi teologica «dal basso», propria della teologia della liberazione, del «vedere – giudicare – agire»; la cosa non mancò di scatenare proteste di cui rimangono vestigia nel dibattito che ha portato alla preparazione della Conferenza di Aparecida. Il periodo intercorso tra Puebla e Santo Domingo aveva infatti visto crescere il sospetto delle autorità vaticane nei confronti della teologia della liberazione, atteggiamento concretizzatosi in modo particolare nella pubblicazione di due documenti – Libertatis Nuntius (1984) e Libertatis Conscientia (1986) – della Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dall’allora cardinal Ratzinger, oggi papa Benedetto xvi.
Non poche furono le accuse levate ai lavori di Santo Domingo, tra le quali quella di un’eccessiva «interferenza» vaticana, di tradimento alla tradizione di Medellín e Puebla, di svalutazione del lavoro delle Ceb e quella di aver celebrato i 500 anni di evangelizzazione banalizzando la contemporanea catastrofe umana rappresentata dall’esperienza coloniale. Anche a causa di queste critiche, Santo Domingo rimase un momento controverso nella storia della chiesa del continente. I suoi meriti furono: il riconoscimento delle diverse culture indigene, afroamericane e meticce che formano il variegato panorama etnico latinoamericano e la necessità di inculturare il messaggio del vangelo nel loro tessuto, la proposta di un annuncio di «seconda evangelizzazione» per tutti quei battezzati solo «formalmente cristiani», il cui numero stava nettamente aumentando; infine, quello di suggerire la necessità urgente di una lettura teologico-pastorale del crescente fenomeno dell’urbanizzazione selvaggia, in atto in tutti i paesi latinoamericani.
Alle quattro conferenze del CELAM andrebbe aggiunto anche il «Sinodo speciale sulla chiesa in America», tenutosi a cavallo fra novembre e dicembre del 1997 e che ha visto, per la prima volta, la partecipazione congiunta dei vescovi di entrambi i continenti americani.

UNA NUOVA MISSIONE

Queste radici hanno dato vita all’albero su cui è chiamata a innestarsi oggi l’assemblea di Aparecida. Speranze, dubbi e anche qualche polemica rendono il prossimo incontro carico di aspettative. L’ultima controversia è stata quella scatenata dall’ufficializzazione del richiamo, impartito dalla «Congregazione per la dottrina della fede», del teologo gesuita Jon Sobrino, uno dei più importanti esponenti della teologia della liberazione.
È comunque molto difficile parlare di risultati sperati o previsti. Sarebbe chiedere troppo a un momento di condivisione ecclesiale come questo. Le analisi e le proposte che emergeranno, dovranno essere passate al vaglio delle varie commissioni e necessiteranno tempo per poter essere metabolizzate a dovere dalle varie chiese. Avranno soprattutto bisogno di essere «forgiate» al fuoco dell’esperienza, in un continente che mai come in questi anni ha presentato processi di trasformazione così radicali e veloci. È la società latinoamericana stessa, i suoi costumi, il suo modo di raccontarsi, il suo far emergere nuovi e importanti interlocutori in campo economico, politico e sociale a chiedere alla chiesa di proporre una missione rinnovata e rinnovatrice.
Il tema di Aparecida, come appare nel «Documento di partecipazione» (lineamenta ) ed inviato a tutte le diocesi per stimolare la produzione di contributi da presentare all’assemblea, è proprio la missione. «Discepoli e missionari di Gesù Cristo. Affinché i nostri popoli abbiano la vita in Lui.  “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 5)» è il lungo titolo, scelto dal CELAM (e «ritoccato» dal  papa, che ha voluto aggiungere la citazione giovannea), per richiamare la chiesa latinoamericana alla doppia irrinunciabile funzione del discepolo di Cristo: chiamato a «stare» con il Maestro per poter essere da lui «inviato». Ma chi è oggi, in America Latina,  il discepolo di Cristo? Come si forma a questo discepolato? Quali sono il terreno e gli utenti della sua missione?
Il documento prodotto dal comitato del CELAM non vuole dare risposte, ma piuttosto offrire degli stimoli per la riflessione e il confronto delle esperienze. La metodologia seguita nel preparare il documento si lascia alle spalle il metodo classico del «vedere-giudicare-agire». Parte invece da una riflessione antropologica sulla felicità anelata dall’uomo, alla cui incompiutezza viene in soccorso la rivelazione di Dio che ha il suo culmine nella venuta di Cristo. Prosegue con un racconto storico del processo di evangelizzazione in America Latina, per poi imbastire una riflessione teologica sul discepolato, punto di partenza e postulato di ogni successiva tensione pastorale e missionaria. Solo in seguito il testo affronta la realtà del continente, con le sue sfide più urgenti.
A questo riguardo, è interessante notare come la sintesi dei contributi della chiesa brasiliana, preparata da una commissione appositamente incaricata dalla Conferenza episcopale del Brasile, ha raccolto i numerosissimi apporti provenienti dalle singole diocesi secondo il trinomio «vedere-giudicare-agire». Fatto proprio dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes (GS, 4) e tanto caro alla teologia della liberazione, questo approccio sembra garantire «una diagnosi più obiettiva della realtà, una riflessione attuale sulla stessa e un impegno pastorale come risposta a domande concrete» (Cf. Il Regno – Documenti, 1/2007, pag. 46).
La globalizzazione è la prima sfida con la quale l’assemblea dovrà confrontarsi. Agli indubbi vantaggi provocati da questo fenomeno, soprattutto nei campi del sapere e della comunicazione, fa riscontro una cresciuta insicurezza delle persone che si manifesta in un vero e proprio sradicamento, tanto  familiare come politico, sociale e religioso. Su quest’ultimo punto si nota un radicale e repentino cambiamento di tendenza. La chiesa latinoamericana, da sempre viva, fecondata dalla grazia di Dio e dal sangue dei martiri, vive un momento di involuzione che il documento stesso riconosce nel capitolo dedicato alle sfide che la realtà oggi propone all’evangelizzazione: una mentalità che ormai tende a prescindere da Dio, un laicismo militante che incontra sempre maggior visibilità anche nei mezzi di comunicazione e che si ribella, talvolta aggressivamente, contro la chiesa, la sua gerarchia e le sue istituzioni. Si nota inoltre un significativo calo nel numero dei cattolici e nella prassi sacramentale degli stessi, nonché un esodo di molti verso le chiese evangeliche e pentecostali, che alimenta un vero e proprio «supermercato di alternative religiose». Crescono anche teologie che si rifanno  a precise realtà etniche, come la «teologia india» e la «teologia afroamericana», impegnate in alcuni casi a coniugare la fede cristiana con le tradizioni religiose proprie o, in alcune correnti più radicali, a escludere il cristianesimo dalla loro agenda.

QUALE CHIESA?

È una chiesa, quella del «dopo Aparecida», che sarà chiamata a confrontarsi sui temi di giustizia, pace e integrità del creato, dando risposta ai milioni di persone che vivono in stato di miseria, lasciate perennemente ai margini di una società che insegue modelli di benessere escludenti. Sarà chiamata a farlo in un inedito panorama socio-politico, in alcuni casi controverso e per nulla incline a lasciare alla chiesa l’esclusiva della leadership morale finora spesso e volentieri goduta.
È soprattutto una chiesa che dovrà dire in modo netto e trasparente se l’opzione preferenziale per i poveri, eredità delle precedenti assemblee di Medellín e Puebla, è ancora valida. Se la missione, oggi in America Latina, si identifica ancora con questa scelta radicale per gli ultimi, i piccoli, per quelli che sempre camminano al traino della società finché ne hanno la forza, pronti per essere scaricati alla minima accelerazione. Dai «lineamenta» ciò non appare chiaramente e con forza; molto, si spera, potrà emergere dai contributi offerti dalle varie commissioni. Parecchi interventi a commento di questa fase preparatoria dell’assemblea del CELAM hanno auspicato un’assemblea illuminata e animata dallo Spirito, vero protagonista della missione e unico soggetto capace di dare una risposta a quell’anelo di felicità che l’uomo cerca disperatamente e che, in troppi casi, vede frustrato, calpestato o ucciso.
Lo spirito missionario esige una passione viscerale per Gesù Cristo e per il Regno. È lo stesso spirito che, nella sinagoga di Nazaret, ha identificato chiaramente l’ambito di detta missione: una missione scomoda, fatta di testimonianza verso gli ultimi e i poveri perché ad essi appartiene il Regno dei cieli, ad essi è principalmente diretta la «Buona notizia».   

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli