Si placheranno i «tamburi di morte»?

Viaggio nella Repubblica islamica

In attesa di capire chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca, per Washington l’Iran rimane uno «stato canaglia» da tenere sotto stretta osservazione. Nel paese, la gente ha paura, perché ogni momento ed ogni scusa sono buoni per scatenare una nuova guerra. Ancora Oriente versus Occidente. Follia contro ragione. Ipotesi troppo pessimistiche? No, tutto è già avvenuto con il confinante Iraq.

480 a.C. Il re persiano Serse decide di invadere la Grecia riprendendo la guerra iniziata da suo padre Dario I. Per bloccare l’avanzata dell’esercito persiano, le città greche formano un’alleanza guidata dal re spartano Leonida. L’intera guardia del corpo del re, composta da 300 opliti, viene inviata a difendere il passo montuoso delle Termopili per permettere al resto dell’esercito greco di organizzarsi per il confronto con il nemico. La loro resistenza, eroica, fino al totale sacrificio, è annientata da mostri assetati di sangue, feroci soldati-schiavi al servizio di un sovrano semi-dio, scellerato e capriccioso. Serse, appunto.
Domenica 6 gennaio 2008. «Stretto di Hormuz. È stata una danza di guerra, è durata venti minuti ed è sembrata l’alba del nuovo conflitto. Succede alle cinque di domenica mattina nel mezzo dello stretto di Hormuz, in quel budello di mare tra Repubblica islamica e Oman, dove transita il 20 per cento della produzione mondiale di greggio. In quel budello strategico cinque motovedette iraniane costringono tre navi statunitensi a ballare sull’orlo dell’abisso. Una danza di venti minuti, un balletto che, per poco, non trascina marinai e nazioni allo scontro irreparabile. Prima il lancio di misteriosi galleggianti bianchi, poi l’affondo di un barchino puntato come una torpedo suicida, infine – mentre gli americani son pronti al fuoco – l’ultima, provvidenziale virata».
Il primo racconto è la trama di «300», un colossal cinematografico, adattamento dell’omonimo graphic-novel di Frank Miller (tratto da un episodio storico della guerra tra greci e persiani), piuttosto applaudito, intriso di sangue e stereotipi, che esalta i valori del coraggio, della libertà, della razionalità, della nobiltà d’animo, dell’amor patrio e familiare quale retaggio tutto occidentale, e li contrappone alla forza bruta, alla follia cieca, alla schiavitù dell’Oriente, rappresentato dall’impero persiano. Uno scontro di civiltà pre-moderno, anticipatore di quello (o quelli, i nemici della nostra civiltà, sembra, sono tanti) attuale.
Il secondo è la cronaca narrata da Il Gioale, quotidiano della famiglia Berlusconi, sull’incidente che avrebbe potuto scatenare l’ennesimo conflitto. Ancora, Oriente versus Occidente. Follia contro ragione.
Spiega ancora Il Gioale: «In quella strozzatura, larga nel punto più angusto meno di cinquanta chilometri (…) transitano le navi americane e le portaerei che da un anno battono il Golfo Persico. Lì nell’aprile del 1988 la marina statunitense affondò due navi e sei motoscafi iraniani. Due mesi dopo, sempre lì, abbatté un volo di linea di Teheran uccidendo 290 civili» (1).
A gennaio di quest’anno, George W. Bush, presidente Usa uscente, ha ribadito che l’Iran costituisce un grave pericolo per gli Stati Uniti e per l’Occidente.
I tamburi di morte battono forte: Hollywood, media mondiali, Pentagono, governi, ci stanno prospettando un nuovo scenario di guerra. Il copione è ormai collaudato ed è stato distribuito. Gli attori stanno provando le scene. A noi tocca il ruolo di spettatori. E, forse, di vittime. Non è un film già visto?

Vediamo cosa ne pensa Scott Ritter (2), capo delle ispezioni Onu sugli armamenti dal ‘91 al ‘98, in «Obiettivo Iran. Perché la Casa Bianca vuole una nuova guerra in Medio Oriente» (Fazi Editore, 2007):
« (…) sul tema Iran, stiamo assistendo a una replica della storia. Sono colpito dalla somiglianza tra il modo in cui gli Stati Uniti, Israele, l’Europa, la Russia e le Nazioni Unite hanno continuato a percorrere un passo falso dopo l’altro, la strada che portava alla guerra all’Iraq sulla base di una premessa fasulla (cioè l’esistenza di ADM, armi di distruzione di massa, in Iraq), e quel che oggi trapela per quanto riguarda l’Iran: sembra proprio che stiamo procedendo, lungo lo stesso percorso che porta al conflitto, inseguendo i fantasmi di un programma di armamenti nucleari che non si è mai manifestato in alcun modo, se non nelle esagerazioni e nella retorica delle congetture di quanti vogliono un cambio di regime a Teheran, assai più che l’autentica non proliferazione e il disarmo» (pag. 20-21).
«Parlare della nascita di questa crisi e riportare la storia degli individui e delle organizzazioni coinvolte vuol dire raccontare una vicenda fatta di hybris, pathos, integrità e inganno. Una storia di perspicacia e indifferenza, e di paura nata dall’ignoranza. (…) È una storia dominata da un nauseante senso di deja vù, come se avessimo già passato tutto questo, quando il dito accusatore era puntato in direzione dell’Iraq, invece che dell’Iran. Siccome questa storia l’abbiamo già vista svolgersi, stavolta, mentre la raccontiamo, siamo in grado di scorgere un percorso diverso da quello che conduce all’abisso di un conflitto con l’Iran (…)» (pag. 22-23).
Forse proprio quei valori e quella razionalità, retaggio della civiltà occidentale, dovrebbero aiutarci a non cadere, ancora una volta, nella trappola dei guerrafondai, dei mestieranti di morte e rapina.

Teheran. Redazione di Al-Vefagh, in strada Khoramshahr. È un quotidiano nazionale iraniano in lingua araba. Nel palazzo c’è la sede di altri quattro giornali: in farsi, in inglese (The Iran Daily), in breille, e un giornale sportivo. Appartengono tutti e cinque allo stesso gruppo editoriale, Al-Iran, vicino al governo.
Incontriamo il dott. Mosayeb Naimi, direttore del gruppo di redazioni, nel suo ufficio, al fondo di una grande stanza dove numerosi giornalisti stanno lavorando.
Nonostante la propaganda mediatica anti-iraniana ci spieghi che le donne vivono in condizione di grave subalteità e disparità, balza subito agli occhi che in quest’ufficio maschi e femmine condividono spazi e discussioni, apparentemente piuttosto alla pari e in un clima amichevole. Alcune giornaliste sono in chador, altre hanno un semplice foulard colorato poggiato sul capo e indossano completi eleganti e alla moda.
Naimi è un tipo simpatico, dallo humor mediterraneo. Il discorso cade subito sul potere delle donne in Iran, forse perché la traduttrice è una donna, un medico e docente universitario, che ha a lungo soggiornato in Italia, o forse perché, nella redazione ce ne sono parecchie.
«Qui in Iran – racconta divertito – sono le donne che comandano gli uomini. I mariti cercano di non perdere l’amore delle loro mogli. Molte sono quelle che raggiungono alti gradi di carriera. La famiglia, comunque, rimane sempre al centro dell’attenzione nella nostra società».

Tra le cinque testate che lei dirige, c’è un quotidiano in arabo e uno in breille. Come mai questa scelta?
«Sono stato per 11 anni responsabile dell’Ia, l’agenzia stampa iraniana, in Libano. Poi ho lavorato in Quwayt. Conosco bene, quindi, sia la lingua sia le varie realtà del mondo arabo. Per questa ragione, abbiamo ritenuto importante creare un giornale in lingua araba. Inoltre, abbiamo scelto questo nome, “Amicizia” (al-Vefagh), perché sono molti gli aspetti che condividiamo con gli arabi. Quanto all’edizione per non-vedenti, è nata 10 anni fa. È il primo giornale in breille in Iran e nel resto del Medio Oriente, e viene distribuito in abbonamento. Tutti i redattori sono ciechi, tranne il capo della redazione. Abbiamo constatato che ha molto successo presso la popolazione di non-vedenti (attualmente, circa 300 mila): i lettori ci inviano messaggi, interagiscono con noi. È un buon mezzo di comunicazione».

Come vi mantenete?
«Con la pubblicità. Ogni spazio pubblicitario può costare anche 1.700 dollari. In questo modo possiamo mantenere 500 tra redattori e personale vario. L’edizione in farsi tira 400.000 copie giornaliere. Le altre sono più ridotte».

Il suo gruppo non è «di stato», ma nel consiglio di amministrazione c’è anche un rappresentante della Repubblica islamica. Idee e pensieri, in Iran, hanno libertà di espressione e circolazione?
«Ci sono molte testate giornalistiche. Inoltre, la risposta a questa domanda dipende da chi le sta davanti. Chi appartiene alla classe alta, con l’abitudine al lusso dell’epoca dello Shah (dove c’era una enorme disparità fra il povero e il ricco), le dirà che ora non c’è libertà. Questi sono molto arrabbiati con il governo. Per i ceti medi e bassi (3), è diverso. In questi anni c’è stato un cambiamento profondo e il divario sociale si è ridotto, anche se la povertà esiste ancora, così come la ricchezza. Ma la cultura e la scolarizzazione si sono diffuse».

L’attenzione internazionale sull’Iran è crescente, in particolar modo nei media. Come vive questa pressione il popolo iraniano?
«La propaganda negativa è percepita molto chiaramente. I media occidentali stanno cercando di dimostrare che l’Iran è un paese pericoloso, nemico, raccontando tutto fuorché la realtà. Bush lo ha definito “l’asse del male”. Per fortuna, sappiamo che non tutti gli occidentali abboccano e prestano fede alle bugie veicolate dai mezzi di informazione. Noi stiamo lavorando per far arrivare notizie veritiere anche in Occidente, attraverso il nostro giornale in lingua inglese. L’Iran ha una storia millenaria, che la “pubblicità negativa” vorrebbe cancellare o manipolare. Per raggiungere questo obiettivo, sono stati prodotti di recente anche Colossal cinematografici che raccontano dei persiani come violenti e miserabili. La propaganda lavora su tutti i fronti, non solo quello politico ed economico, ma anche mediatico».

Prendete sul serio le minacce belliche statunitensi? Temete di essere attaccati?
«Pensiamo si tratti solo di minacce. L’uso del nucleare per scopi pacifici è un nostro diritto, che ad altri Paesi è garantito. Gli Usa hanno interessi che esulano dalla tutela dei diritti umani: in Iraq è sotto gli occhi di tutti. L’Iran non ha intenzione di dotarsi di bomba atomica: lo ha dimostrato rendendosi disponibile alle ispezioni dell’Aiea (Inteational Atomic Energy Agency, ndr), che ha piazzato telecamere nei siti dove sono situate le centrifughe. L’Iran, comunque, è disponibile a lavorare per la produzione di energia nucleare sotto il controllo internazionale.
Non crediamo che gli Stati Uniti ci attaccheranno: sanno che non abbiamo le bombe nucleari. La propaganda di guerra serve per spaventarci, ma noi non abbiamo paura. Siamo tranquilli. Se dovessero attaccare, risponderemo. E il peggio toccherà all’Europa: da noi sono impiegati numerosi operai e tecnici europei. In caso di conflitto, saranno mandati via e questo inciderà pesantemente sulle aziende e sulle famiglie.
Durante la guerra tra Iran e Iraq, Saddam era protetto con armi e soldi da Francia, Germania e Stati Uniti. Ma nessuno di loro ha ottenuto da noi ciò che voleva. Cosa dovrebbero ottenere ora? Noi iraniani siamo intelligenti e pazienti: sappiamo aspettare e ascoltare. Non inizieremo a sparare per primi. Reagiremo se verremo attaccati».

E la popolazione come reagirà?
«Si compatterà a fianco del governo, dello stato. La storia dell’Iran lo dimostra: nessuno può averla vinta con noi». 

Di Angela Lano

(*) La prima puntata di questo reportage è stata pubblicata su MC nel settembre 2007.

(1) È il 3 luglio 1988: siamo alle battute finali della guerra tra Iran e Iraq. Il Golfo Persico è pattugliato da diverse navi militari statunitensi che difendono le petroliere del Kuwait (Quwayt). L’incrociatore USA Vincennes abbatte il volo di linea 655 dell’Iran Air, decollato da Bandar Abbas e diretto a Dubai. A bordo ci sono 290 civili, tra cui 66 bambini. L’aereo viene colpito da due missili e precipita. Non ci saranno superstiti.
(2) L’autore Scott Ritter fu il capo delle ispezioni Onu sugli armamenti iracheni dal ‘91 al ‘98. Già nel 2002 aveva negato – come racconta nel libro «Guerra all’Iraq» (Fazi editore) – l’esistenza di armi di distruzione di massa nel paese di Saddam. Nonostante i continui tentativi di discredito da parte dei media statunitensi, la sua attendibilità è rimasta intatta.
(3) In realtà, l’opposizione al regime iraniano è presente anche nei ceti medi intellettuali, laici e di sinistra, che criticano sia la retorica del loro presidente, Ahmedinejad (ritenendola pericolosa per la sicurezza del paese, laddove, in particolare, lancia strali provocatori contro Israele e gli Usa), sia l’«islamizzazione» della politica e del governo. Tuttavia, più d’un iraniano «oppositore» ha sottolineato come, in caso di attacco Usa, tutta la popolazione si unirebbe di fronte al nemico esterno, dimenticando, forse, i problemi interni, come sottolinea Naimi alla fine dell’intervista.

Angela Lano




MUKIRI: Uomo dell’acqua e costruttore di chiese

Fratel Giuseppe Argese, detto Mukiri: 50 anni a servizio della chiesa e degli africani

Lo scorso settembre ha celebrato senza rumore 50 anni di lavoro in Kenya: non per nulla la gente
lo chiama «Mukiri» (il silenzioso). Al suo posto parlano tante chiese costruite nella diocesi di Meru e, soprattutto, l’acquedotto di Tuuru, un’opera d’ingegneria idraulica che non cessa di stupire. Ma il più bello deve ancora venire, a Dio piacendo.

Porto di Mombasa, 27 settembre 1957. Un uomo scruta i volti di tutti i passeggeri che sbarcano dalla nave appena attraccata. «Tre preti e una suora» grida. Li trova finalmente: due preti, un fratello laico e una suora. «Haraka!» (sbrigatevi). Non c’è tempo per il benvenuto; il treno sta aspettando. Il tempo di arrivare alla stazione, prendere il biglietto del treno notturno per Nairobi e… benvenuti in Kenya!
Il giorno dopo, un missionario veterano li attende alla stazione di Nairobi. Rapidi saluti, una sbrigativa sosta all’ufficio immigrazione per le formalità, un cambio di macchina alla procura a Muthaiga, un «arrivederci» ai tre compagni di viaggio in mare e il giovane fratello, appena 25enne, comincia a prendere confidenza con le polverose strade verso il nord, destinazione: la città di Meru. Ci arriva il 29 settembre, dopo una nottata a Kyeni e un interminabile viaggio, serpeggiando su e giù per le colline nella rovente calura della stagione secca.
Giuseppe Argese, nato nel 1932, missionario della Consolata, è arrivato nella diocesi che segnerà per sempre la sua vita. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone è in Italia; a dargli il benvenuto è fratel Francesco Costardi, non ancora 33enne, arrivato in Kenya all’inizio dello stesso anno, con l’incarico di costruire la cattedrale di Meru, che spunta appena dalle fondamenta. Per dicembre è previsto l’arrivo di altri tre fratelli: Giovanni Comaron, Dino Bottaro e Bruno Bessani; ma saranno destinati a costruire un santuario dedicato alla Consolata a Karatina, per ringraziarla del ritorno in Kenya dei missionari che, durante la seconda guerra mondiale, erano stati portati in campo di concentramento in Sudafrica. Progetto mai decollato e poi costruito a Nairobi.
Il giorno dopo, 30 settembre, fratel Costardi si ammala ed è portato all’ospedale. Fratel Argese si trova solo a dirigere la costruzione della cattedrale: 80 lavoratori aspettano pazientemente le sue direttive.
È troppo! Due settimane prima era ancora in Italia e, all’improvviso, eccolo là, con una cattedrale tutta da costruire. Si rifugia nella sua camera e si siede sconsolato sul baule. Dopo pranzo prende la decisione: se una cosa va fatta, è meglio affrontarla subito. Esce e comincia a lavorare con gli 80 uomini.
La cattedrale cresce; artigiani e muratori si abituano al nuovo capo che non sa una parola della loro lingua (il kemeru), ma migliora di giorno in giorno nella comunicazione non verbale.?Tre anni dopo, il 10 settembre 1960, la cattedrale viene ufficialmente inaugurata.

COSTRUTTORE DI CHIESE

Quando mons. Bessone si stabilì a Meru, gli unici edifici in pietra nella diocesi erano l’abitazione dei missionari e la chiesa a Kyeni. La casa era stata costruita in pietra per motivi di sicurezza durante il periodo dell’emergenza mau-mau; ma la chiesa era in condizioni tali che poteva crollare da un momento all’altro.
A quei tempi, i fratelli abitavano a Meru, insieme al vescovo, ma operavano su tutto l’immenso territorio della diocesi, oggi suddiviso nelle diocesi di Meru, Embu, Garissa, parte di Malindi e vicariato di Isiolo.
La cattedrale di Meru è una delle tante chiese costruite dal gruppo dei missionari fratelli. Ma quasi tutte le chiese della diocesi di Meru portano l’impronta di fratel Argese: quella di Chuka, costruita nello stesso periodo della cattedrale, quella di Muthambe con colonne in calcestruzzo, e poi Egoji, Mkabone, Kianjai e Mujwa.
Anche a Isiolo la prima chiesa fu opera sua, provvisoria anch’essa, perché mancava l’autorizzazione per costruire strutture permanenti.
Correva l’anno 1963. Don Luigi Locati era giunto a Meru per aprire una missione affidata ai preti fidei donum della diocesi di Vercelli. Fratel Argese, su incarico del vescovo, portò il prete vercellese in lungo e in largo attraverso la diocesi, dal Tharaka a Garissa, da Wajir a Chuka, da Embu a Isiolo: qui don Luigi decise di fondare la nuova missione e il fratello gli costruì la prima chiesa e prima casa.
Quante volte fratel Argese, da solo, si recò a Merti, per portare acqua e viveri ai costruttori di una scuola-cappella. Sono quasi 300 km da Isiolo, in una regione desertica in cui incontrava solo la pattuglia della polizia, che si recava da quelle parti una volta la settimana.
Dopo 11 anni, nel 1968, fratel Argese toò in Italia. Fece appena in tempo a godersi le vacanze, che fu chiamato a risolvere i problemi della costruzione del santuario della Consolata a Nairobi: le fondamenta erano state fatte male, mettendo a rischio la stabilità di tutta la struttura in cemento armato.?Vi restò per sei mesi, quindi toò a Meru, ma si ammalò e dovette stare per qualche mese in ospedale.
Intanto crescevano altre chiese a Tuuru, Laare, Maua, Kirwa, Adero… L’ultima la sta costruendo con pazienza nel campo base dell’acquedotto di Mukululu.

ACQUA, PER FAVORE!

La passione di costruire chiese non lo ha mai lasciato, ma ciò che accadde nel 1967 cambiò per sempre la sua vita. Padre Franco Soldati aveva aperto, nella missione di Tuuru, un centro per bambini colpiti da poliomielite, una malattia epidemica nella zona di Igembe per la scarsità di acqua e igiene. La missione di Tuuru, come tutta l’area dell’Igembe, si stende su uno spesso strato di detriti vulcanici, privo di acqua potabile, fiumi o sorgenti. Il centro si trovò quasi subito a dovere affrontare il problema dell’acqua. Padre Franco lanciò la sfida a fratel Argese: «Hai trovato acqua per altri, trovala anche per noi!».
In altre località, come Chuka, Mujwa, Egoji, Mikinduri, grazie all’abbondanza di acqua, erano state costruite scuole, chiese e altre opere sociali. Nell’Igembe, invece, per la scarsità di acqua, era tutto in situazione di stallo, evangelizzazione compresa.
«Dateci l’acqua, per favore!». Più facile a dirsi che a farsi. Gli anziani del luogo avevano rivelato con riluttanza a padre Franco che nel profondo della foresta del monte Nyambene c’era una sorgente perenne, dove erano soliti recarsi per fare i loro sacrifici e celebrazioni. La foresta era a 25 km di distanza. Come fare per portare l’acqua fino a Tuuru?
Per fratel Argese era un grande rompicapo, finché entrò nella foresta, fece misurazioni varie, tracciò schizzi, disegnò mappe, studiò testi che trattavano di tubature, dighe, cistee, pressione… ed ecco scaturire il progetto da presentare al vescovo.
– Monsignore, sfruttando la legge di gravità, è possibile portare l’acqua dalla montagna fino a Tuuru.
– Va bene, ma dove troviamo i soldi?
– Monsignore, lei mi ha chiesto se fosse possibile ottenere l’acqua; ora, l’acqua è là, il progetto è qui; ci sono problemi, certo, ma se la cosa deve essere fatta, i soldi arriveranno.
«Non ho soldi» era un ritornello sentito tante volte, quando si trattava di costruire le chiese. «Mi faceva innervosire che monsignore buttasse tutto all’aria per questione di soldi -racconta fratel Argese -. Ci furono anche momenti di tensione. A volte, a Meru, quando ci incontravamo, facevamo percorsi diversi nella casa. Però, non smettemmo mai di cornoperare lealmente, alla ricerca di ciò che era meglio per la gente e la diocesi. Non lo adulavo mai; ma quando morì, piansi e piansi molto! E poi, il denaro necessario arrivava sempre».

Zappe Sì, caterpillar no

Uscito dall’ospedale, nel 1969, fratel Argese ebbe una bella notizia: Misereor, l’organizzazione della Conferenza episcopale tedesca, aveva approvato la prima fase del progetto idrico: 700 mila marchi. E si mise subito all’opera per allestire il campo base a Mukululu, vicino a una cappella fatta di pali, fango e tetto di paglia.
Dalla Germania, i sostenitori del progetto volevano che si comprasse un caterpillar per accelerare lo spostamento della terra e completare l’opera in pochi mesi. Ma fratel Argese non ne volle sapere. Un caterpillar avrebbe distrutto le piccole shambas (campi coltivati) dove doveva passare la conduttura principale. Inoltre, con il costo di una tale macchina avrebbe potuto pagare per più di tre anni il salario di 100 lavoratori, armati di zappe, pale e carriole. Il progetto risultò essere una gran benedizione per la popolazione locale: lavoro e acqua, oltre alla riduzione al minimo dell’impatto ambientale.
Nel gennaio del 1970 si iniziò a scavare. Il tempo non costituiva un problema. Per gente abituata da secoli a disporre di poca acqua, un giorno o un anno in più non avrebbero fatto tanta differenza. Il fattore tempo, però, una differenza l’ha fatta, e grossa pure: il fatto che nell’arco di quasi 40 anni siano state impegnate centinaia, anzi, migliaia di persone, ha fatto sì che il progetto arrivasse nel profondo del cuore della popolazione locale: non era un’opera calata dall’alto da un’efficiente Ong straniera, che arriva e se ne va; ma un progetto fatto con la gente, dalla gente e per la gente.

Goccia a goccia

Nonostante i timori di monsignore, il denaro arrivò fin dall’inizio del Tuuru Water Scheme (Progetto acquedotto di Tuuru) da donatori stranieri e harambee locali. Sono stati investiti milioni di dollari provenienti da vari paesi. Fratel Argese rimane sbalordito quando pensa al sostegno straordinario proveniente da ogni parte.
Come avviene nella foresta, dove l’acqua è raccolta goccia a goccia, formando milioni di litri per rispondere al fabbisogno quotidiano della gente, allo stesso modo, il danaro necessario è stillato goccia a goccia: un marco sull’altro, una peseta sull’altra, una lira sull’altra, un fiorino sull’altro, un euro sull’altro, un dollaro sull’altro… e persino uno scellino sull’altro!
Ed ecco i risultati. Un progetto nato su scala ridotta, è diventato una rete di oltre 250 km di condutture, decine di cistee e migliaia di punti di distribuzione: ogni giorno vengono distribuiti quasi 4 milioni di litri d’acqua a oltre 250 mila persone, più di 40 mila capi di bestiame, 20 mila pecore e capre. E il progetto continua, per rispondere alle necessità della gente nelle zone più remote.
L’acqua ha cambiato la vita alla regione: la poliomielite è quasi scomparsa, villaggi e commerci sono spuntati come funghi intorno ai punti di erogazione, le scuole sono progredite, la popolazione è cresciuta, le donne sono state liberate dalla schiavitù di dover attingere acqua in luoghi lontani e pericolosi, l’igiene personale è diventata più agevole, tanti uomini possono avere un lavoro fisso, molti hanno imparato nuovi mestieri, i problemi di salute si sono ridotti (anche se ne sono sorti altri, come quelli legati al consumo delle foglie narcotiche della miraa).
Si dice che una goccia fa traboccare il vaso; ma in questo caso le gocce d’acqua raccolte con pazienza nella foresta del Nyambene hanno messo in moto un lento ma solido processo di cambiamenti di un distretto che, negli anni ’60, era uno dei più poveri ed emarginati del Kenya.

Mukiri

Dietro a tutto ciò, ecco il nostro uomo, il costruttore di chiese, l’uomo dell’acqua, come è chiamato dalla gente del posto. Il Tuuru Water Scheme ha impegnato gli anni migliori della sua vita. A 75 anni (compiuti il giorno di san Martino), l’uomo ha perduto l’agilità e vigore fisico che aveva quel pomeriggio del 30 settembre 1957, quando iniziò a lavorare alla cattedrale di Meru; la sua mente, però, è più lucida che mai, non solo nel seguire la miriade di progetti intrapresi, ma anche nel pensare a qualcosa di nuovo e imprevedibile.
Per conoscere quest’uomo un po’ più da vicino, curiosiamo fra i suoi libri! Entrando nella sua casetta di tronchi d’albero, a sinistra troviamo scaffali zeppi di libri messi alla rinfusa. Ci sono, naturalmente, libri relativi all’acqua: prese, pompe, dighe, depurazione, tubature, foreste pluviali e così via.?Testi su arte muraria, edilizia e architettura, carpenteria e falegnameria, disegno tecnico e di rilevamento. C’è una nutrita selezione di testi religiosi, sulla sua famiglia, i missionari della Consolata, sulla chiesa in Kenya, spiritualità, vite di santi, sacra scrittura, storia della chiesa.
La storia dell’evangelizzazione lo appassiona: conosce a memoria gli episodi più significativi dell’evangelizzazione dell’Africa e del Kenya in particolare. E poi libri su geografia, popoli e culture del paese di adozione. Infine, e non ci sorprende conoscendo l’uomo, libri su agricoltura, frutteti, fiori, insetti e uccelli, colture resistenti alla siccità e una sezione speciale su ulivi e vigneti. In più, libri su cure con erbe medicinali e metodi naturali.
Su un altro scaffale, libri scelti di cucina, su come preparare marmellate e, perché no, su come fare del buon formaggio. Ci sono pure libri fotografici, sulla sua bella città natale, Martina Franca, sull’Africa, il Kenya e il suo acquedotto… Anch’esso è stato fotografato dentro e fuori, descritto in libri e in video. Non troviamo molti romanzi; quei pochi, si può arguire, sono regali di amici che hanno goduto della sua squisita ospitalità.
Prima di arrivare in Africa, fratel Argese aveva frequentato un corso di edilizia per corrispondenza presso un istituto professionale di Luino, ma non lo aveva terminato. Lo ha completato sul campo, con la costruzione della cattedrale di Meru, fino a diventare, a livello mondiale, un esperto nel raccogliere l’acqua nella foresta equatoriale e un grande ambientalista. Le due realtà, infatti, sono strettamente connesse: la foresta può fornire acqua solo se rimane nelle condizioni originarie.
Difendere la foresta del Nyambene da disboscamento e speculazione edilizia è stata una priorità, portata avanti dalla gestione dell’acquedotto di Tuuru da parte della diocesi di Meru.?Tale impresa, però, è aperta a molte iniziative: dalla cooperazione con università locali e straniere al coinvolgimento di entomologi, botanici, oitologi, zoologi per scoprire biodiversità e peculiarità di una foresta speciale come quella del Nyambene; da campagne educative nelle scuole a dibattiti con le comunità circostanti; da attività di promozione agro-turistica a istruttive visite guidate; da documentari filmati a pubblicazioni.
La gente del luogo lo chiama «mukiri», il silenzioso. Fratel Argese è, infatti, un uomo di azione più che di parole; la sua comunicazione, essenziale, misurata e diretta, è scevra di inutili giri di parole. I suoi operai hanno imparato ad ascoltarlo attentamente, perché non ama ripetere le cose. Insegnamento di base, comunicazione chiara e fiducia sono il fondamento su cui ha costruito il rapporto con i suoi lavoratori.
È questo il segreto delle molte attività che porta avanti da Mukululu. Un lavoro su quattro fronti: progetto idrico, fattoria e vigneto di Liliaba, costruzione del santuario della Consolata, attività di consulenza in tutti i progetti di sviluppo diocesani.

Mukiri tagli la torta della festa con padre Aquileo Fiorentini, allora superiore generale

Il Missionario

Quando aprì il campo di Mukululu, Mukiri poteva condividere la sua fede con una manciata di cattolici nella cappella di fango. Non ha avuto tempo di fare catechesi o altre attività di evangelizzazione diretta; eppure oggi la comunità conta più di 2.500 fedeli. La capanna originaria è rimpiazzata da una bellissima chiesa, consacrata nel 1986, 75º anniversario dell’evangelizzazione del Meru, dal vescovo Silas Njiru, che l’ha dichiarata santuario diocesano dedicato alla Madonna Consolata. E la chiesa è diventata troppo piccola per accogliere tutti la domenica. Così, dal 1996, ha iniziato ad ampliarla.
Il santuario è cresciuto insieme alla comunità e in base ai ritmi di lavoro imposti dalla costruzione dell’acquedotto; si è innalzato pietra su pietra, in un’armoniosa combinazione di colori diversi: pietre marroni, rosse, rosa, gialle, nere, bianche… tagliate dagli scalpellini, come nella costruzione delle cattedrali medievali, ciascuna con la sua forma particolare, secondo la posizione specifica da occupare nell’edificio: eloquente immagine della chiesa vivente, dove ogni singola persona è una pietra viva, posta sulle fondamenta della pietra angolare che è Gesù Cristo.
Il santuario è la sintesi dello stile di evangelizzazione di Mukiri: costruisci la persona nella sua pienezza e ne farai un cristiano che dà gloria a Dio; e potrebbe essere il paradigma della relazione tra evangelizzazione e promozione umana: due facce della stessa azione salvifica di Dio. È lo stile dell’Allamano, che ai suoi missionari partenti per la missione tra gli africani raccomandava: «Fateli prima uomini e poi cristiani».

SOGNI SENZA Tramonto

A 75 anni, Mukiri è consapevole che non può essere attivo come ai vecchi tempi, ma va avanti, riposando un po’ di più e spronando altri ad assumere le responsabilità. Nel luglio scorso si è realizzato un altro sogno: dopo 7 anni di duro lavoro, ha visto riempirsi la seconda diga sul fiume Ura, che ha una capacità di 55 mila metri cubi. Ad agosto l’ha vista tracimare, così pure all’inizio di ottobre: ormai l’acquedotto di Tuuru può affrontare le siccità più spaventose.
E Mukiri può dedicare più tempo alla costruzione del santuario, alla vigna piantata a Liliaba, dove una volta c’era un campo di prigionia mau-mau. Gli amici lo aiutano a piantare nuovi vitigni e migliorare la qualità del vino. I vescovi lo incoraggiano a produrre vino da messa di qualità. Ma la sua più grande soddisfazione è vedere che circa 200 famiglie hanno piantato le viti nelle proprie shambas e sono in grado di vendere 20-50-100 kg di uva. Non è molto, ma aiuta i magri introiti familiari.
Eppure, di fronte alla crescente domanda d’acqua in altre aree del Nyambene, Mukiri ha un ultimo grande sogno: una terza diga nella foresta, capace di quasi 1 milione di metri cubi! Un’impresa ciclopica, che solo un uomo di fede come lui è in grado di sognare. Costerà milioni di ore di lavoro e miliardi di scellini… La gente lo vuole e ha bisogno di lavorare; di tempo ce n’è in abbondanza; il progetto è quasi pronto e i donatori sono interessati; presto sarà contattato il governo per le necessarie autorizzazioni. Riuscirà a vedere anche questa diga tracimare? Mukiri non lo sa e non gli importa di saperlo. Se deve essere fatta (cioè, se Dio lo vuole), sarà fatta, perché Dio provvederà!

Luigi Anataloni




ELOGIO DELLA TENEREZZA

Bambini disabili e comunità indigene andine

Llaqui causaimanta cushicui causaicama: in lingua quechua significa:
«Dalla sofferenza alla felicità». È il cammino sperimentato da alcuni bambini fisicamente o psicologicamente svantaggiati di varie comunità indigene della diocesi di Riobamba, in Ecuador. Grazie alla tenerezza e all’amorevole caparbietà di un missionario di lungo corso.

Il racconto di Gesù che predica nella sinagoga di Nazaret, secondo la versione che ce ne dà l’evangelista Matteo, illustra lo stupore manifestato dalla gente per lo stile del discorso del messia. La gente, infatti, rimaneva meravigliata e diceva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?… E si scandalizzavano per colpa sua» (Mt 13, 54.57).
Non è il contenuto dell’insegnamento di Gesù ciò che causa scandalo, bensì il modo e il metodo di insegnare, le opzioni e le intenzioni che lasciano intravedere il punto di partenza di un cammino nuovo. Sappiamo bene che il vangelo è una storia emergente, una «contro-storia» vissuta tra gli ultimi del mondo, in cui si scorge perfino la prospettiva di un avvenire inaudito «dove gli ultimi diventano i primi».
Partendo da questo presupposto e volendo testimoniare coerentemente la nostra fede cristiana abbiamo l’impegno di dar vita a eventi educativi che servano da premessa obbligata a futuri pedagogici impensati e inauditi.
Tale impegno ci sfida quando ci addentriamo nel difficile contesto delle persone disabili all’interno del mondo indigeno andino, contesto nel quale dobbiamo osare domande scomode. In altre parole, bisogna chiederci seriamente se dobbiamo accettare a braccia incrociate i vari fallimenti riguardo ai bambini disabili nel mondo culturale e sociale delle tradizioni indigene attuali. Cosa facciamo quando ci troviamo al cospetto di una persona, in modo particolare di un bambino «speciale» e portatore di difficoltà personali e comunitarie, lo abbandoniamo? Ci dichiariamo incapaci di soluzione? Il disabile è da considerarsi solamente come soggetto di terapie straordinarie o può entrare anche lui in una quotidianità educativa vissuta e alla portata degli altri bambini del suo clan, nella sua zona di residenza? Dobbiamo aspettare di raggiungere nuovi orizzonti attraverso percorsi idonei e già previsti o diventiamo artigiani di una pratica possibile oggi, qui, adesso?

Doppiamente svantaggiati

Nella mentalità culturale indigena conta colui che vale e che sa farsi valere. Chi, al contrario, ha bisogno di una mano, di un aiuto, di un appoggio che non sia vincolato a una scadenza da onorare non ha posto a sedere neanche nella compassione. Nel mondo indigeno un bambino disabile vale poco, per non dire nulla; anzi, è un prestito da rimborsare. Nessuno pensa che con il tempo possa rendere. Un tempo le famiglie se ne sbarazzavano immediatamente; poi, grazie all’evolversi sociale e all’incontro con  il cristianesimo non l’hanno più fatto, ma il disagio nei confronti di un membro della comunità fisicamente o psicologicamente svantaggiato non è diminuito. Alla mamma un figlio disabile costa troppo, è una creatura alla quale bisogna dare il minimo indispensabile perché possa vivere, ma essendo un caso «extra-ordinario» è anche fonte di inevitabili spese extra… Questo incide molto sulla vita di tutti i giorni, visto tutto il tempo che si deve dedicare all’accompagnamento del bambino con disabilità, a discapito del lavoro e a detrimento dell’appoggio che si potrebbe offrire agli altri figli sani.
Nel contesto indigeno tradizionale le famiglie non possono neppure aspettarsi un grande aiuto dalle proprie autorità comunitarie. Un bimbo con handicap è un evento straordinario e ha bisogno di sostegni straordinari. In questi anni abbiamo cercato di portare avanti un lavoro di educazione dei dirigenti indigeni, orientato al rispetto per la persona, soprattutto per i bambini, spingendo affinché la comunità sentisse l’importanza di dare ai giovani sussidi e sostegni per la loro formazione. Ma il cammino è ancora lungo; nel mondo indigeno non esiste ancora uno spirito di gratuità: aiutano perché sono aiutati. L’idea di sacrificare qualche cosa di personale a titolo gratuito e a beneficio altrui non appartiene ancora a una cultura che fonda la propria etica della relazione sulla reciprocità e, quindi, sul do ut des: ti do se mi dai, oppure mi aspetto qualcosa da te in cambio di quanto ti ho dato. Al contrario, il gesto verso un bambino disabile è pura solidarietà, perché un bambino del genere non può darti nulla in cambio.
Con pazienza abbiamo insinuato l’idea che la situazione delle persone in difficoltà deve diventare una priorità dell’organizzazione e della progettazione comunitaria. La famiglia fa parte di una comunità, ne rappresenta la sua porzione più piccola; i suoi problemi e le sue priorità sono di interesse comune e non si limitano ai membri della famiglia stessa. Ne consegue che una buona progettazione comunitaria non deve pensare esclusivamente alla strada, all’acquedotto, ma puntare al benessere della gente inteso in un senso complessivo. Lo stesso discorso vale anche per gli anziani. Diventando vecchie e malate le persone iniziano a rimanere al margine della società e cominciano ad aver paura, paura, persino, che si dia loro qualcosa per andarsene da questo mondo il più in fretta possibile. Finché una persona serve, lavora e produce si guadagna il rispetto; quando invece la stessa persona non riesce più a contribuire alla vita della comunità diventa un peso, un valore passivo nel bilancio che deve essere limitato al massimo in attesa di venire eliminato del tutto. Chiaramente generalizzare non è possibile, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che questa mentalità è ancora viva. È una degenerazione del concetto di reciprocità che diventa un assoluto soffocante e schiavizzante.

Medicina «del cuore»

È dunque possibile che a tali sfide si possa rispondere con la tenerezza? La tenerezza non è solo una capacità affettiva, ma un trattamento che la pedagogia educativa deve cominciare a stimare e considerare come prezioso alleato. Diventare umani nelle relazioni reciproche e vincolanti per vari motivi di vicinanza e di mutuo riconoscimento è compito di tutti i giorni e di ogni giorno in particolare. Per questo parliamo di quotidianità educativa nella costruzione dell’elemento umano, cercando e avvicinandoci al più concreto, più conosciuto e più prossimo. Lì, di fronte alla persona reale e vicina, suggeriamo gli accorgimenti della sopravvivenza, come resistenza agli sconforti e come speranza di un modo di vivere nuovo, adatto a divenire parte ordinaria della vita.
Vogliamo educare esseri umani a diventare più umani e «meglio» umani, ben consapevoli che l’umanità in sé comporta una condizione non conclusa e incompiuta.
Nella cosmovisione andina l’armonia tra le creature è essenziale per la convivenza. Ognuno deve stare al proprio posto senza invasioni o abusi spaziali. Se uno, invece, non occupa il proprio posto per insufficienza o provvisorietà di qualsiasi genere bisogna aiutarlo ad arrivare ad assumere una posizione propria nel contesto comunitario.
Sorge allora incontrastato il diritto alla tenerezza: amorosa, sensibile, affettiva. La tenerezza è la qualità che rende possibile la convivenza umana rispettando la singolarità e la diversità di ognuno, che fa volgere lo sguardo e prestare attenzione verso il più debole, la persona svantaggiata che non ha una posizione definita e conclusa nell’armonia del cosmo.
Più che attribuzione, la tenerezza è un paradigma di convivenza che deve realizzarsi nel terreno familiare, sociale e comunitario, conquistando progressivamente il diritto ad esistere nei territori che, per varie ragioni, si sentono autorizzati ad escludere i differenti, i «non conclusi», coloro che non hanno posizione, come nel caso dei portatori di disabilità.
A Nazaret, Gesù si stupì della incredulità dei suoi compaesani. La sua pedagogia aveva indicato come realtà prioritarie momenti umani non conclusi:  poveri, ciechi, prigionieri, sordomuti, ecc. che aspettavano attenzione e considerazione. Aveva anche lasciato capire che i loro affetti e le loro cosmovisioni senza tenerezza per la povera gente erano progetti lontani da Dio.
Sarà un messaggio valido anche per noi, oggi? Nel nostro mondo c’è la tenerezza? Nella chiesa, nelle nostre comunità religiose c’è la tenerezza? Domande scomode, ma che è urgente farsi. Nella lettera ai Romani (10, 10), San Paolo parla di: parola e cuore. Con la parola proclami e con il cuore credi. È difficile far entrare la tenerezza in un determinato contesto perché oltre alle parole bisogna saper mettere il cuore.
In questo oggi latinoamericano, così pieno di sfide e così scao di incoraggiamenti e speranze, irrompe una riflessione nuova e promettente che, senza permesso, avvicina e articola campi teorici e pratici nella pedagogia e nella scienza dell’educazione. Il progetto di Gesù conserva tutta la sua forza e la sua attualità.
In un mondo senza tenerezza abbiamo provato a porci la domanda: «La tenerezza fa bene o no? Anche a coloro che sembrano escluderla dalle loro relazioni interpersonali?». Quando si è iniziata la nostra attività con i bambini disabili delle nostre comunità indigene, si è agito su un piano di scommessa: «Scommettiamo che la tenerezza piace?». È piaciuta ed è stata la prima medicina, che ha letteralmente trasformato bambini rifiutati, marginalizzati, senza possibilità e che adesso si sentono stupendi. Solo poco tempo fa mi è giunta la notizia che due bambine della nostra comunità hanno partecipato alle paraolimpiadi, organizzate in Ecuador dall’esercito, e una di esse ha vinto una medaglia. La tenerezza ha fatto effetto, è entrata in piccole dosi, ma ora non se ne può più fare a meno. Ricordo la «battaglia delle scarpe», combattuta tempo fa: cosa non c’è voluto per inculcare l’importanza di usare scarpe in un ambiente come quello montano della provincia del Chimborazo in Ecuador, dove si vive a circa tremila metri d’altezza! Adesso tutti mettono le scarpe e non possono fae a meno. Quando si comincia ad usare una cosa e si fa esperienza della sua utilità, poi non se ne può più fare a meno! Se mettiamo tenerezza nelle nostre relazioni con i bambini, questa viene da loro assimilata con naturalezza e altrettanto spontaneamente trasmessa ad altri.
Sono solamente 5 anni che si lavora in questo campo, ma già si vedono piccoli risultati che confortano e fanno ben sperare per il futuro; bisogna assolutamente confidare nel tempo. In particolare lo si nota fra le ragazze del posto che abbiamo iniziato a formare come educatrici: che bello vedere con che tenerezza trattano questi bambini. Un’indigena che si preoccupa di un’altra indigena è un bel segno! Ragazzi che si preoccupano di altri indigeni che non appartengono direttamente alla loro comunità rappresentano un bel passo avanti, si creano delle trasformazioni che produrranno del bene non soltanto ai bambini più svantaggiati, ma alle famiglie e, attraverso di loro, a tutta la comunità.  

di Giuseppe Ramponi

    QUANDO LA TENEREZZA PAGA

Una goccia d’ acqua fresca nell’oceano della solitudine: questa è l’esperienza di Bucapne (Buscar casa para niños especiales), un progetto che si propone di cercare casa per bambini diversamente abili.
Il progetto è nato cinque anni fa, al rientro dalle mie vacanze in Italia. Avevo fresca nella memoria la triste visione di bambini emarginati da qualsiasi contesto sociale ed educativo perché indigeni e disabili. Nelle comunità indigene il «problema disabili» esiste, anche se molte volte in modo nascosto, ed è generalmente avvertito come una disgrazia. Nessuno però, si sente di dare a questa «disgrazia» una risposta concreta; chi, del resto, investirebbe con coscienza un solo dollaro su una scommessa già persa in partenza? In una cultura dove neanche una moglie merita sostegno economico quando si ammala e non può più essere fonte di guadagno, come ci si potrebbe aspettare di veder finanziate opere per bambini che sono e saranno sempre problemi costosi senza soluzione?
Nelle città esistono istituzioni adeguate all’assistenza di persone disabili, ma accettano soltanto i bambini le cui famiglie presentano determinati requisiti come una certa possibilità economica e la disponibilità di tempo per accompagnare e seguire la persona nel cammino di riabilitazione.
Quando ho deciso di occuparmi di questi  bambini, ho cercato di fare una diagnosi della situazione reale. Era infatti importante avere un quadro generale dei possibili fruitori del programma. I miei collaboratori si sono messi all’opera e alla fine delle loro ricerche hanno presentato una lista di ben ottanta casi da prendere in considerazione. Davanti a tale numero ho deciso che se proprio dovevo pensare ad un’opera conclusiva della mia carriera missionaria, non poteva essere che quella.
Amici generosi mi hanno animato e concesso l’appoggio di cui avevo bisogno. Alcuni di essi dovranno andare in cielo a «furor di poveri» per l’incoraggiamento e la mano che hanno saputo darmi.
Comprai un pulmino perché la prima cosa da fare era accompagnare i bambini presso specialisti che ci aiutassero a selezionare bene i casi su cui intervenire. Il risultato di questo lavoro iniziale fu positivo: grazie ai primi interventi molti bambini migliorarono la vista, l’udito, il modo di parlare. Altri bambini vennero inseriti in vari centri educativi della zona. Rimasero quelli che avevano bisogno di trattamento speciale, i cosiddetti «formula 3A»: Amore, Attenzione e Alimentazione. Tra di essi vi erano bambini ciechi, denutriti, con gravi problemi motori, di espressione, epilettici, ecc. Tutte creature da «rifare» nei cinque sensi.
Oggi come oggi, anno 2008, posso dire che si sono conseguiti dei buoni risultati. L’azione continua, anche se essendo dovuto rientrare in Italia agisco a distanza e mi appoggio a preziosi collaboratori del posto che continuano a setacciare le comunità nella ricerca di casi non ancora individuati. Ora le mamme non si vergognano più nel portare sulla schiena i loro bambini disabili e si avvicinano al progetto (un tempo guardato con sospetto) con fiducia e speranza.
I punti positivi si sommano in titoli di «missione compiuta». Ecco i principali.
✔ Bambini che si pensava essere inguaribili sono stati invece ricuperati con successo.
✔ Bambini sono stati iscritti in scuole speciali per sordi, ciechi e down.
✔ Bambini con disabilità cronica e irrimediabile hanno trovato casa permanente in istituzioni governative specializzate.
✔ Una dozzina di bambini con gravi problemi di denutrizione sono stati ricuperati e avviati a frequentare centri educativi normali.
✔ Varie ragazze indigene hanno ricevuto una formazione specializzata, diretta a migliorare l’assistenza dei bambini affetti da disabilità fisica e mentale nelle comunità locali.
✔ Sono stati formati e abilitati anche alcuni animatori comunitari in grado di aiutare le famiglie che vivono il problema di un figlio disabile a conoscersi e a crescere in modo da creare intorno al bambino un ambiente sereno e idoneo alla crescita. Tali animatori si occupano anche di avviare relazioni con i dirigenti locali, così da creare un fronte comune e organizzare iniziative mirate e comuni in favore dei bambini svantaggiati.
Rimane il problema di finanziare un progetto che ha solo uscite economiche e nessuna entrata sicura. Il progetto dei bambini speciali è cominciato nel dicembre 2002. Da allora siamo diventati tutti evangelici perché, come dice il vangelo: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i sordi ascoltano;  tutti ricevono molta tenerezza e molto amore e sono felici. Le entrate sicure non esistono. Di sicuro ci sono solo la Provvidenza e la tenerezza di Dio. Se il Signore vorrà continuare a servirsi del nostro ministero non ci farà mancare i mezzi economici necessari e sufficienti a dare a un bambino disabile un po’ di felicità.

Giuseppe Ramponi




Tra sogno e realismo

Reportage da un paese dal futuro incerto

Mentre a livello nazionale e internazionale si discute sullo status del Kosovo, la gente è alle prese con i problemi di sempre: tensione tra le varie etnie, disoccupazione, corruzione, mancanza di strutture adeguate. Penalizzati sono soprattutto i giovani, che costituiscono metà della popolazione. Ma non mancano segni di speranza.

All’ufficio postale di Prizren c’è la fila. Almeno 20 persone in coda; e sono tutti giovanissimi. «Si usa così tanto da voi?» domando all’amico Blerim. «No, i ragazzi sono in coda per ricaricare il cellulare. Da qualche mese, quando è iniziato questo servizio, le poste sono prese d’assalto». E io che già gridavo al miracolo delle nuove generazioni, che mantengono la voglia di comunicare via mezzo cartaceo. «Comunicano a modo loro, ma con gli sms, si scambiano foto e musiche. Proprio come in Italia».
Blerim Bobaj, ha 31 anni, ben 7 sopra l’età media dei due milioni di kosovari, il 50% dei quali ha meno di 20 anni. Il suo mestiere è il cornoperante. Dalla fine del conflitto etnico del 1999, «risolto» nei 78 giorni di bombardamenti Nato sulla Serbia, Bobaj ha lavorato con tre organizzazioni non governative, una degli Stati Uniti, una francese e l’ultima italiana: Ipsia, la ong delle Acli, grazie alla quale ha potuto conoscere l’Italia.
«È chiaro che il futuro del Kosovo dipende dai giovani, il problema è che oggi essi non sembrano interessati a quello che li aspetta alla fine degli studi» spiega il mio amico. A gruppi di 5-10 li vedi scorrazzare nel prestigioso centro storico di Prizren, cuore dell’incrocio di civiltà con le sue moschee (tra cui quella di Sinan Pasha, costruita nel 1463, la più antica dei Balcani, con il minareto più alto d’Europa), la cattedrale cattolica, le chiese ortodosse, il bagno e il ponte turco. Tutti giovanissimi, con jeans, occhiali da sole, cellulare alla mano. Ha ragione Bobaj: proprio come da noi.
«Oramai è l’Occidente il modello dei ragazzi di qui – riprende -, non è solo per colpa loro; ma il risultato è che le tradizioni se ne stanno andando». Nelle città kosovare, a Prizren come nella capitale Pristina, le novità degli ultimi anni si chiamano centri commerciali e università private.
«Il consumismo è arrivato anche qui: è come se il Kosovo fosse un’isola europea nel cuore dei Balcani». L’impressione è proprio questa: l’euro è la moneta ufficiale; al momento di entrare nella regione (fino a oggi serba, in base alla risoluzione 1.244 dell’Onu, ma di fatto governata dalle forze inteazionali), sul telefonino compare la scritta: «Benvenuti a Monaco». «Già, perché non abbiamo neanche un prefisso telefonico nostro, e quindi usiamo quello del piccolo principato» aggiunge Bobaj.

Il problema vero, però, è un altro. Questo cambio di valori rischia di far aumentare ulteriormente la disoccupazione, che è oggi al 60% e non si è mai abbassata dalla guerra in poi. «Anche la cooperazione internazionale, a parte alcune eccezioni, oggi non offre più lavoro. Molti progetti han chiuso per mancanza di fondi» dice Bobaj, che da 6 mesi, dopo la fine dell’ultimo progetto con Ipsia, è tornato a fare l’idraulico con suo padre, mestiere che ha sempre fatto per pagarsi gli studi. «Vorrei anche andare all’estero, ma per noi kosovari è impossibile, i visti, quando si ottengono, sono temporanei, per qualche settimana».
In una situazione simile, qualcosa potrebbe cambiare con la decisione sul nuovo status del Kosovo, tornata alla ribalta in questi mesi. «Conosco molta gente qua a Prizren (che ha 171 mila abitanti e si trova a 18 chilometri dal confine con l’Albania, ndr), e ti assicuro che la maggior parte di noi non passa molto tempo a parlare di indipendenza, autonomia o altro». Come dire, «sono gli altri che decidono per noi».
«Il Kosovo è diventato una merce di scambio nei rapporti inteazionali» aggiunge Bobaj. Da una parte Russia e Cina con la Serbia, dall’altra Stati Uniti con l’Albania. In mezzo, come spesso accade, l’Europa (vedi riquadro).
«Non si può più tornare alla pacifica convivenza di un decennio fa, ovvero prima dell’avvento di Milosevic al potere a Belgrado – dice Raitan Dashi, 63enne che ha passato gran parte del post-conflitto in Italia -. L’odio sanguinario che qualche anno fa ha fatto scoppiare il conflitto ha creato una diffidenza enorme».
Dalla fine degli eventi del 1999 ad oggi, sono scomparse 2.047 persone. Dashi e sua moglie tre anni fa sono tornati al loro villaggio a nordest di Prizren, mentre le sue due figlie hanno messo su famiglia nella provincia a nord di Milano.
«So che quello che dico non è positivo, ma non sarei realistico dicendo che un serbo sarebbe ben accolto, perlomeno in campagna». In realtà, nelle città qualche cambiamento c’è stato negli ultimi anni. A parte l’enclave della zona nord di Mitrovica, dove i 20 mila serbi presenti vivono praticamente isolati dagli 80 mila albanesi e la tensione non è mai scesa, nel resto delle città (Peja, Klina, Prizren, Giacova, Pristina) i serbi sono tornati a farsi vedere nei supermercati, negli uffici amministrativi, senza grossi problemi, «come succedeva prima».
Allo stesso modo, le altre minoranze (una decina, tra cui rom, turchi, bosniaci) non sono più oggetto di discriminazione o soprusi, anche se oggi sono più che dimezzate: erano  il 12% prima del conflitto e sono scese al 5% della popolazione.
Dalla primavera 2004, quando c’è stata un’ondata di violenze che ha provocato almeno 40 morti e molte case bruciate (come reazione alla morte proprio a Mitrovica di tre bambini albanesi affogati nel fiume Ibar mentre erano inseguiti da ragazzini serbi), sono stati fatti alcuni passi verso la normalizzazione. «È un lavoro lungo e difficile quello a favore delle minoranze, ancor più arduo di quando c’era l’emergenza umanitaria e bisognava risolvere il problema di centinaia di migliaia di profughi che dovevano tornare a casa» dice Orhan Miftari, 32 anni, responsabile di Caritas Kosovo, ente nato nel 1992 come sezione di Caritas Germania e diventato autonomo dopo i bombardamenti Onu. «Oggi gran parte del nostro operato si rivolge a ripristinare la convivenza tra le varie etnie, con progetti di integrazione e inclusione che non sempre vanno a buon fine – continua Miftari -, però la situazione sta migliorando, in modo lento, ma costante, e questo ci spinge a non gettare la spugna».

Come per Bobaj, anche per il giovane responsabile della Caritas kosovara i discorsi sullo status del Kosovo passano in secondo piano di fronte ai problemi della società civile. «La prima battaglia da vincere oggi è quella contro la perdita delle nostre tradizioni – riprende Miftari -. Se per la convivenza possiamo sperare in risultati positivi nel futuro, per quanto riguarda la salvaguardia del valore della famiglia stiamo facendo notevoli passi indietro».
In che senso? «Si sta consumando una rottura con il passato: le nuove generazioni, spinte da nuovi modelli che non appartengono loro, stanno lasciando a se stessi gli anziani, spesso abbandonandoli al loro destino, andando a vivere in un’altra casa – spiega il responsabile Caritas -. Per la prima volta, in Kosovo si parla di non autosufficienza di persone anziane o disabili. Si stanno cercando soluzioni, che per ora non arrivano».
Dopotutto, un vero stato non c’è e i fondi per aiutare le persone con problemi non ci sono. «Ma anche potenziando il servizio di assistenza, le cose non si risolvono: quasi sempre la presenza di persone non autosufficienti non viene segnalata da nessun familiare; e quando si viene a sapere, spesso è troppo tardi» ammette Miftari.
Nelle centinaia di villaggi kosovari, il capovillaggio (riconoscibile dal copricapo bianco a scodella) rimane ancora una figura autorevole, ma il suo carisma non è più quello di un tempo. «Faccio fatica a farmi rispettare dai più giovani, che hanno in testa l’Europa e non vedono l’ora di andarsene» mi sussurra prima di recarsi a fare una visita medica Haxi (il cognome è incomprensibile, così pure il nome del suo villaggio, tra Prizren e Giacova), capovillaggio 74enne con il quale condivido una corsa in un combi, i taxi collettivi diffusi in tutti i Balcani.

Il miraggio di una vita migliore all’estero è ancora molto diffuso, nonostante la voglia di molti giovani di partecipare alla «ricostruzione» della propria terra. Dopotutto, i problemi cronici del Kosovo post-conflitto sono la prima fonte di scoraggiamento delle nuove generazioni. Disoccupazione a parte, l’altro annoso problema è la carenza di elettricità, dovuta al fatto che l’unica centrale della regione non basta al fabbisogno. Nella capitale e nelle altre città la corrente c’è tre ore sì e tre ore no un giorno, quello successivo quattro ore sì e due no; nelle campagne va peggio, arrivando a un’ora di erogazione ogni cinque. I generatori sono ancora oggi uno dei simboli del Kosovo.
«Come si può lavorare in queste condizioni?» chiede il proprietario di una macelleria di Prizren, al quale si affianca annuendo il responsabile di uno delle decine di internet point della città, tanto diffusi quanto economici.
Poi ci sono le altre questioni aperte della regione: traffici illeciti e corruzione ancora estesa. «Ma qualcosa in questo senso si sta facendo» riprende il cornoperante Bobaj, mostrando un foglietto che viene distribuito da qualche mese in tutti gli edifici pubblici cittadini. «C’è un numero nuovo al quale chiamare per segnalare episodi di corruzione o racket – spiega -, garantendo l’anonimato: la gente si fida e chiama. Nella sola Prizren, una quarantina di persone sono state arrestate grazie alle segnalazioni».
Il servizio è stato messo a punto dalla polizia kosovara con l’appoggio delle forze Unmik, il contingente Onu in Kosovo. Il quale, benché abbia ridotto la sua presenza e stia progressivamente lasciando i poteri in mano alle autorità locali (la vecchia sede Unmik della città è dall’anno scorso sede della polizia municipale), è ancora ben visibile nelle strade kosovare. «Non siamo ancora pronti a cavarcela da soli; la presenza internazionale serve come precauzione, anche se spesso non esercita più un ruolo di controllo».
Un esempio? «Guarda la chiesa lassù sulla collina – dice Bobaj, indicando il monastero ortodosso di San Giorgio, il più grande e bello della città -, tutt’attorno ci sono le forze Unmik, ma mentre negli anni scorsi la loro presenza serviva a evitare danneggiamenti all’edificio, oggi i soldati sono lì solo perché si ha la migliore vista dall’alto della città». 
La conferma alle parole del cornoperante arriva poco dopo. «È un ottimo punto di osservazione e la chiesa è ora riaperta per le visite» spiega un militare tedesco all’uscita da uno dei barbieri più rinomati del centro storico. Nel corso degli anni, la distanza tra popolazione locale e forza internazionale di pace è diminuita notevolmente. «Il contatto non è mai troppo, ma le relazioni si possono sviluppare bene – continua il militare -. Certo non tutti apprezzano la nostra presenza, ma c’è molta più tranquillità che in passato. Il fatto che, poco alla volta, aumentino le esperienze positive di integrazione con le minoranze, è un buon punto di partenza. Non è detto che, indipendenza o meno, non si possa tornare con gli anni alla convivenza di prima». È la speranza di tutti. O quasi. 

Di Daniele Biella

MATASSA SENZA BANDOLO

Il 10 dicembre 2007 si è chiusa con un nulla di fatto la commissione formata dalle delegazioni di kosovari albanesi e serbi, di intermediari di Usa, Ue e Russia, sotto la guida del mediatore Onu Martti Ahtisaari, per la ricerca di un compromesso sullo status del Kosovo. La proposta di «indipendenza sotto tutela internazionale» è rifiutata dai kosovari albanesi, che reclamano piena indipendenza, e dai serbi, che non vogliono perdere la sovranità sulla loro provincia, in base al diritto internazionale.
Le due posizioni inconciliabili hanno radici storiche. Nel Kosovo i serbi hanno le radici della propria identità nazionale: vi sono conservate le reliquie dei primi re ortodossi e buona parte del patrimonio culturale e religioso. A partire dal 1389, però, tali radici, cominciarono ad essere sconvolte: gli ottomani annientarono la coalizione serbo-bosniaca nella battaglia della Piana dei merli e avviarono l’occupazione e islamizzazione dei Balcani. Per 520 anni il Kosovo rimase sotto il potere turco. I tentativi di ribellione provocarono repressioni, esodi massicci di serbi, rimpiazzati con trasferimenti di musulmani albanesi.
Nel 1912, in seguito alle guerre balcaniche, la Serbia ristabilì la sua sovranità sul Kosovo e riprese la ricolonizzazione del territorio con famiglie serbe, al posto di quelle turche e albanesi costrette a fuggire o emigrare. Altri esodi e contro esodi di serbi e albanesi si alternarono durante le due guerre mondiali, finché il Kosovo divenne parte della Federazione jugoslava (1945), come provincia autonoma della Serbia, con uno status di grande autonomia, ma inferiore alle sei repubbliche federate (Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro), che avevano il diritto costituzionale di secessione.
Dopo la morte di Tito e la dissoluzione della Federazione jugoslava, il forte incremento demografico dei kosovari albanesi (90% della popolazione totale) mise in allarme il nazionalismo serbo, guidato da Sloboda Milosevic, che revocò gran parte delle autonomie del Kosovo (1989) e avviò una politica di ri-serbazione forzata, proibendo la lingua albanese nelle scuole e sostituendo funzionari amministrativi e insegnanti con personale serbo.
Inizialmente l’etnia albanese reagì con la resistenza non violenta, guidata dalla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova, stabilendo istituzioni e scuole separate, dichiarando l’indipendenza della Repubblica del Kosovo (1990), riconosciuta solo dall’Albania. A partire dal 1995, molti separatisti albanesi scelsero la lotta armata, guidata dall’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), terrorizzando la popolazione serba, costringendola alla fuga, distruggendo chiese, santuari e monasteri. La repressione delle milizie serbe fu altrettanto violenta, finché l’intervento Nato, con massicci bombardamenti sulla Serbia (1999), costrinse Belgrado ad accettare la presenza nel Kosovo di forze inteazionali di interdizione (Unmik e Nato), che non sempre sono riuscite a impedire i rigurgiti di violenza contro persone, case e chiese nelle enclave in cui erano isolati i gruppi della minoranza serba (2004).
Di fronte al fallimento delle trattative Onu, l’ex capo guerrigliero dell’Uck, Hashim Thaci, uscito vincitore dalle elezioni di novembre 2007 con il suo Partito democratico del Kosovo (Pdk), aveva minacciato la dichiarazione unilaterale di indipendenza per il 10 dicembre 2007, ma tutto è rimandato al 2008.

Dal 1999 il Kosovo è praticamente autosufficiente e la Serbia non vi esercita alcuna sovranità effettiva. Anche se, sul piano legale resta valida la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza, che contempla la sovranità serba sul Kosovo.
Ma il problema, ormai, non è più l’indipendenza, ma il suo riconoscimento in ambito europeo e atlantico. Tale riconoscimento è diventato uno dei temi scottanti nella guerriglia fredda tra Stati Uniti, favorevoli da sempre all’autodeterminazione, e la Russia, che vi si oppone, non tanto per amore dei serbi, ma piuttosto per ripicca antiamericana. L’Unione europea è divisa: Gran Bretagna, Austria e Germania sono a favore (gli ultimi due stati hanno numerose comunità di immigrati kosovari), Grecia e Cipro contrari, gli altri paesi dell’Ue indecisi. All’inizio erano contrarie anche Spagna, Slovacchia e Romania. 
Il riconoscimento di un’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza, secondo gli oppositori, costituirebbe un precedente con conseguenze incontrollabili, perché incoraggerebbe altre minoranze etniche a fare altrettanto: baschi e catalani in Spagna, corsi e bretoni in Francia, ungheresi in Slovacchia e Romania, turchi a Cipro, serbi in Bosnia e Croazia, albanesi in Serbia (Presevo), Macedonia e Montenegro, curdi in Turchia, abkhazi e ossezi in Georgia, russi nelle Repubbliche baltiche…
La soluzione della matassa kosovara interessa e coinvolge sempre più l’Unione europea, che continua a trattare con le parti in causa. Al governo kosovaro propone un’indipendenza sotto il protettorato civile dell’Onu, tuttora in funzione, e una più articolata amministrazione europea, con l’impegno di adeguare la macchina governativa agli standard europei in fatto di giustizia, polizia, carceri e altri settori vitali del paese. Alla Serbia, se accetta tale compromesso, vengono aperte le porte dell’Unione europea. L’integrazione di Serbia e Kosovo nell’Ue metterebbe la sordina alle rivendicazioni di sovranità e garantirebbe il rispetto dei diritti delle minoranze serbe nella ex provincia.
A partire da gennaio 2008, la presidenza semestrale dell’Unione europea è affidata alla Slovenia, un fatto di alto valore simbolico: Slovenia e Kosovo costituiscono l’inizio e l’epitome della dissoluzione della Federazione jugoslava. Riuscirà a chiudere per sempre la crisi balcanica? Ha tutte le carte in regola per porsi come esempio di transizione pacifica; inoltre, conosce gli umori delle popolazioni slave come le sue tasche, per cui potrebbe riuscire nell’impresa in cui le grandi potenze hanno fallito.

Benedetto Bellesi

Daniele Biella e Benedetto Bellesi




L’invasione dei SUV

Una moda devastante e diseducativa

Chi inquina, paga. Chi più inquina, più paga. Regole sacrosante, ma mai rispettate. A volte, neppure proposte, perché contrarie al libero mercato… L’esempio dei «nuovi mostri» che hanno invaso le nostre città.

Dicembre 2007, «Dossier motori» de La Stampa: pagina 4 pubblicità SUV Honda; pagina 6 descrizione di un nuovo SUV Hummer; pagina 7 pubblicità SUV Citroën; pagina 21 pubblicità SUV Nissan; pagina 23 pubblicità SUV Suzuki; pagina 27 pubblicità SUV Jeep; pagina 33 pubblicità SUV Land Rover; pagina 47 descrizione del nuovo SUV Iveco.
Se un inserto di 52 pagine ne dedica così tante ai SUV, significa che siamo dinanzi ad un fenomeno rilevante, come d’altra parte dimostrano i dati delle vendite, da anni in continuo aumento. I SUV – letteralmente Sport Utility Vehicles  – sono automobili pesanti, spesso con finiture di pregio, con una linea e,  a volte, anche con un nome ed una immagine commerciale, che trasmettono l’idea di un atteggiamento minaccioso ed arrogante nei confronti delle altre vetture (ma – volendo dar credito alle asillanti pubblicità – rispettoso dell’ambiente e della natura!). Alcuni hanno paraurti alti, sporgenti e rinforzati, definiti bull bars (barre anti-bufali), che possono essere causa di gravi danni in caso di incidenti con altre vetture, ciclisti, pedoni.
Si direbbe che il guidatore di questi veicoli voglia presentarsi come un dominatore della strada, muscoloso, potente e, allo stesso tempo, elegante. Ha scritto il prof. Giampaolo Fabris: «Il SUV è un fuoristrada di lusso che consente all’automobilista di sentirsi padrone dell’asfalto. Di fare veramente tutto quello che vuole. Si può guidare comodamente in città, parcheggiare sui marciapiedi e, almeno con la fantasia, attraversare il deserto. Chi guida si sente protetto da una vettura considerata sicura, avvolto in un grande scudo protettivo. (…) L’impressione è di un maggior dominio sulla strada e nei confronti con gli altri automobilisti. Che si guardano letteralmente dall’alto in basso».
In realtà, un SUV è un veicolo che fa fatica a fare manovre banali, che si muove impacciato nelle vie strette, che non rispetta le precedenze e che, per parcheggiare, spesso sale sui marciapiedi.

Per quale motivo una persona che vive in città e non deve affrontare percorsi in savane o praterie, dovrebbe viaggiare su un veicolo con caratteristiche da fuoristrada di lusso? Per decenza, lasciamo perdere l’amore per la natura, anche se qualcuno (editoriale di Auto&fuoristrada, settembre 2006) tenta di metterla in poesia: «Siamo dei privilegiati: per noi è più facile mettere le ruote fuori dall’asfalto, con la gratificante sensazione di lasciarci alle spalle traffico, rumori, pensieri». Per semplicità, lasciamo perdere pure le ragioni di tipo socio-antropologico, anche perché, stando a quanto scrive un editoriale de La mia auto 4×4 (agosto 2007), «Ma chi sono i nuovi acquirenti di 4×4? Un po’ tutti».
La risposta più frequente (quella che, in teoria, consentirebbe di giustificare eticamente il possesso di un SUV) riguarda la volontà di viaggiare in sicurezza con la famiglia. Questi veicoli sono proprio così sicuri? Il Centro prove di Quattroruote, la fonte settoriale più autorevole d’ Italia, ha fatto dei test e, per quanto riguarda la tenuta di strada e la frenata, è giunto alla conclusione che il miglior SUV non riesce neanche ad eguagliare le prestazioni della peggiore berlina.
Il collaudatore di Quattroruote ha riferito che il comportamento di questi pesanti veicoli, che hanno un baricentro alto e pneumatici con fianchi alti e cedevoli, è spesso imprevedibile e non sempre facilmente controllabile dal conducente, soprattutto su fondo bagnato. Ne deriva che manovre improvvise, come quella di cercare di evitare un ostacolo imprevisto, possono portare anche al ribaltamento del veicolo. I ribaltamenti possono avvenire anche in caso di uscite di strada e di collisioni con ostacoli fissi, ad esempio i marciapiedi. Il ribaltamento è un tipo di incidente particolarmente pericoloso perché si associa spesso a gravi traumi della testa.
Oltre a non essere sicuri per gli occupanti, i SUV sono particolarmente pericolosi per gli altri utenti della strada, che non viaggiano su veicoli più pesanti: ad esempio, secondo Quattroruote, il guidatore di una berlina, che viene urtata lateralmente, ha una probabilità di perdere la vita 30 volte superiore se a urtarlo è un fuoristrada o un SUV. Bergamo, 26 dicembre 2007: «Tre persone, padre, madre e la loro figlia di 10 anni sono morte in un incidente stradale accaduto a Grumello del Monte (Bergamo). La loro auto, una Fiat Punto, è stata investita da un SUV Grand Cherokee guidato da un conducente ubriaco (italiano, ndr). Illeso il conducente del fuoristrada». Napoli, 1 gennaio 2008: «Stavano litigando sulla tangenziale di Napoli per un banale incidente, quando un SUV Bmw X5 è sopraggiunto e ha investito le auto ferme sulla strada. Il bilancio è drammatico: tre morti».

Premesso che ognuno è libero di comprare la vettura che più gli piace (mai vorremmo venire accusati di essere contro il «libero mercato», icona intangibile dei nostri giorni), viene da chiedersi cosa possiamo pensare di un guidatore cittadino o autostradale che ha un veicolo che pesa, consuma (una Porsche Cayenne fa in città 4,4 chilometri con un litro di benzina, secondo i dati ottimistici del costruttore) (1)  e inquina il doppio di una normale vettura, confortevole, veloce, che ha meno probabilità di ribaltarsi e che tiene la strada e frena in condizioni di maggiore sicurezza.
Dipenderà dal fatto di guidare un’auto con i paraurti contro i bufali oppure di poter comprare (a 15.900 euro, sottocosto) un SUV cinese all’ipermercato (Corriere della sera, 19 e 24 dicembre 2007). Oppure, come si  legge su www.suv.it, dipenderà dai sentimenti: «A cosa serve la Cayenne? A far invidia a chi è invidioso!».
Come scrive il già citato editoriale de La mia auto 4×4, «il mondo si muove sempre più in fretta». È vero. Peccato che si muova verso la follia più distruttiva (ed autodistruttiva).

di Roberto Topino e Paolo Moiola

(1) Una Volkswagen Touareg fa 4,4 chilometri con un litro; una Nissan Patrol 6,9 eccetera. I consumi ufficiali (già molto elevati) sono però ben distanti dalla realtà. Un’inchiesta del dicembre 2007 ha dimostrato che le case automobilistiche dichiarano consumi falsi, inferiori fino al 50% a quelli effettivi. Così facendo anche le norme relative alle categorie d’appartenenza (Euro 3, Euro 4, ecc.)  perdono gran parte del loro significato.

Roberto Topino e Paolo Moiola




Orizzonti accorciati

Un paese in bilico tra passato e futuro

Conciliare la modeità con la fedeltà alle radici islamiche: è questa la sfida dell’Algeria, disattesa dalla classe dirigente e funestata da rigurgiti di violenza di frange estremiste. In bilico tra le spinte al cambiamento e i segni di ritorno al passato, gli algerini si preparano alle elezioni del 2009 e si capirà quale direzione imboccherà il paese.

«L’Algeria deve dare l’esempio di un progetto di società, dove autenticità e modeità possano coniugarsi. Deve imparare a vivere in modo moderno, a iscriversi nel xx secolo, pur restando fedele ai suoi riferimenti e valori. Perché non è questione di dimenticare: non c’è futuro senza memoria. È questione di costruire un progetto di società e mi dispiace che questo sia insufficiente o addirittura assente nel mio paese».
Mustapha Cherif, intellettuale algerino, esperto di relazioni inteazionali e dialogo fra le culture e le religioni non è tenero con il suo paese. Anche se l’esperienza di ex ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica e di ambasciatore l’ha reso avvezzo a misurare scrupolosamente le parole. Soprattutto quando si tratta di questioni politiche. E, tuttavia, non si sottrae dallo stigmatizzare alcuni nodi cruciali della complessa e talvolta drammatica attualità algerina. Un paese in bilico tra passato e futuro, tra desiderio di apertura e «modeità» e spinte retrograde e oscurantiste. Un paese che deve ancora fare i conti con una storia di lotte e violenze e che continua a essere ferito da sanguinosi attentati, che colpiscono indiscriminatamente i simboli delle istituzioni e la gente comune. L’ultimo, quello dello scorso 11 dicembre, ha ferito al cuore la capitale, uccidendo 62 persone (tra cui tre stranieri). Due gli obiettivi: un simbolo del potere algerino, la sede del Consiglio costituzionale sulle alture di Ben Aknoun, e uno degli emblemi della presenza occidentale, la palazzina dell’Onu, a Hydra, nel quartiere dei ministeri e ambasciate, dove è presente l’Alto commissariato per i rifugiati (Acnur) e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp).
Non è che l’ultimo di una serie di attentati rivendicati dal Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento (Gspc), che dalla fine del 2006 si proclama braccio di Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e che si pretende impegnato a liberare la regione da tutti gli infedeli, mirando sempre più in alto.
Solo nel 2007 si è reso protagonista di una serie impressionante di operazioni terroristiche. Tra le più clamorose, il duplice attentato ad Algeri, l’11 aprile, che ha provocato almeno 30 morti e più di 200 feriti e che ha preso di mira il Palazzo del governo in pieno centro città e un commissariato alla periferia est della capitale. E poi, il 6 settembre a Batna, nell’est del paese, dove sono morte 22 persone e più di 100 sono rimaste ferite in un attentato-suicida contro il corteo del presidente Abdelaziz Bouteflika, vero obiettivo di un attacco, rivolto direttamente contro la più alta carica dello stato.
Uno stato che fa sempre più fatica a gestire non solo questo rigurgito di terrorismo islamico, ma che non ha ancora fatto pienamente i conti con il suo passato: prima la guerra di liberazione contro i colonizzatori francesi, una delle più lunghe e cruente, con una stima di oltre un milione e mezzo di morti algerini, quei mujahiddin (combattenti), che ancora oggi sono celebrati come eroi nazionali; e poi il decennio funesto del terrorismo, quegli anni Novanta, segnati da una follia sanguinaria impregnata di estremismo islamico, che ha spazzato via più di 200 mila vite umane.
E oggi, un presente in bilico tra pressioni e spinte spesso opposte e contraddittorie. «L’avvenire dei paesi arabi e musulmani – continua il professor Cherif – si gioca sulla definizione di un progetto di società adatto ai nostri tempi. Anche in Algeria. Noi siamo vicini all’Europa e all’Occidente, e allo stesso tempo gelosi delle nostre radici. È qui che questa congiunzione e questo rapporto devono realizzarsi. La maggioranza del popolo algerino desidera il progresso, ha sete di giustizia sociale e di sviluppo e, contemporaneamente, è fiera di essere musulmana. È questa combinazione che dobbiamo costruire e non possiamo permettere agli estremisti, di qualsiasi tipo, di impedirci di realizzarla, perché separarci dalle nostre radici da un lato, o dal resto del mondo dall’altro, sarebbe come finire in un’impasse senza vie d’uscita».

E ppure, quella che si presenta come una sfida ineludibile per l’Algeria, sembra oggi disattesa da più parti. A cominciare dai vertici dello stato, dove è in corso una lotta acerrima per il potere. All’orizzonte, le elezioni presidenziali del 2009, cruciali per il futuro del paese. Lo sa bene il presidente Abdelaziz Bouteflika, al termine del suo secondo e, teoricamente, ultimo mandato, ma che, nonostante la grave malattia che lo minaccia da tempo, non intende rinunciare a brigare per un terzo incarico. Anche se questo significa necessariamente un cambiamento della Costituzione.
Del resto, la posta in gioco è enorme e riguarda innanzitutto la gestione di milioni di barili di petrolio, il cui prezzo è impennato sino a sfiorare i 100 dollari l’uno. Una manna a cui nessuno vuole rinunciare e che rappresenta un altro dei paradossi dell’Algeria, paese potenzialmente ricchissimo, con una popolazione che vive in miseria o quasi.
Ma la classe dirigente – generali dell’esercito compresi – impegnata a garantire la propria sopravvivenza, non sembra in alcun modo intenzionata a promuovere cambiamenti e riforme. È vero che, negli ultimi anni, nel paese si sono moltiplicati i cantieri: strade, autostrade, ferrovie, dighe, la metropolitana di Algeri… Ma i lavori proseguono a rilento e, come per tutto, un sistema di corruzione e cattiva gestione ne ipoteca sin dall’origine i risultati. Recentemente ha fatto molto discutere e ha suscitato un mare di polemiche il progetto di una nuova immensa moschea ad Algeri – la terza per grandezza dopo quella della Mecca e di Medina – che costerà la bellezza di 3 miliardi di dollari. Uno spreco inconcepibile agli occhi di molti che faticano letteralmente a sopravvivere.

L a situazione economica e sociale, del resto, è alquanto precaria. Con un tasso di disoccupazione che tra i giovani supera il 50%, la mancanza cronica di alloggi, una burocrazia ammorbante e un costo della vita proibitivo, le prospettive di futuro, soprattutto per i giovani, sono praticamente bloccate. Non per nulla molti tentano in tutti i modi di andarsene. Li chiamano harraga, questi disperati che su barche di fortuna, cercano di attraversare il Mediterraneo, spesso senza riuscirci. Nel 2006, la guardia costiera ha intercettato e rispedito indietro 4.500 giovani algerini. Ma quanti altri siano morti in mare nessuno è in grado di dirlo.
«Non c’è lavoro, non ci sono alloggi, non c’è speranza che le cose cambino. Per questo i giovani se ne vanno!», denuncia con forza Baya Gacemi, giornalista e scrittrice. Uno dei suoi libri, Nadia, tragica storia della moglie di un emiro del Gruppo islamico armato (Gia), è stato tradotto e distribuito in Italia da Sperling & Kupfer. Il suo giudizio sulla situazione politica algerina è decisamente tranchant. «Abbiamo un potere politico falso e non democratico, persone senza competenza e credibilità, che impongono alla gente di tacere, che cercano di escludere la società civile da tutte le dimensioni della vita politica, economica e sociale. Per questo molti si scoraggiano e lasciano perdere e molti altri se ne vanno. Anche gente istruita e professionalmente preparata: circa 450 mila quadri hanno lasciato l’Algeria. E molti altri sono pronti a partire, perché vedono il loro orizzonte qui completamente chiuso. In questo modo, però, perdiamo tutta la parte più dinamica della società».
Secondo la Gacemi, la politica è un affare di «parassiti e corrotti. Per questo la gente se ne sta sempre più alla larga». Lo dimostrano anche le ultime elezioni amministrative dello scorso 29 novembre: ufficialmente si è recato alle ue il 44,09% degli aventi diritto; ma molti sostengono che la percentuale fosse ancora più bassa. Come del resto era successo per le legislative del maggio 2007 e per il referendum del novembre 2006.
«Questo potere ha scavato un fossato tra politica e società – sostiene la giornalista -. La gente si sente esclusa dalle decisioni di un governo che si impone con la forza. Il solo modo per far fronte alle difficoltà che vive questo paese e per evitare un ritorno alla violenza è scegliere la democrazia. E coinvolgere la società civile nelle decisioni politiche».

N on sono molte, tuttavia, le associazioni che riescono effettivamente a far sentire la propria voce o che sono realmente ascoltate. Molte sono quelle che si occupano dei diritti e promozione della donna, in un contesto islamico che, dopo una parziale apertura alla fine degli anni del terrorismo, sta richiudendosi di nuovo su se stesso. E anche in una città mediterranea e vivace come Algeri, il numero dei veli che sono ricomparsi sulle teste delle donne continua ad aumentare in maniera percettibile.
È solo un segno, tra i molti, che dicono della paura o incapacità di accettare un reale pluralismo e una differenza all’interno di una società che, specialmente nelle grandi città, sta progressivamente perdendo i riferimenti tradizionali, affascinata, ma anche spaventata, da modelli occidentali carichi di miraggi e contraddizioni.
E così anche la presenza, numericamente insignificante, di pochi cristiani, quasi tutti stranieri, provoca le reazioni spesso spropositate del potere che, in più occasioni, durante il 2007, ha tentato di espellere religiosi e laici presenti nelle quattro diocesi del paese. O che rende quanto mai problematico l’ottenimento di visti per i nuovi arrivi.
«La nostra presenza qui – commenta mons. Henri Teissier, arcivescovo di Algeri – si situa all’interno di una società, che è attraversata da difficoltà evidenti, ma dove continuano a esistere possibilità di incontro e collaborazione. Grazie soprattutto alle molte persone che cercano di superare certe chiusure per favorire una possibilità di conoscenza e arricchimento reciproco».
«La nostra chiesa – gli fa eco mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaïa, l’immensa diocesi del Sahara – condivide con il popolo algerino un’esperienza di vicinanza, solidarietà e fedeltà e, nello stesso tempo, introduce all’interno di questa società un elemento di “differenza”, che aiuta i nostri amici algerini a sentirsi, loro stessi, più aperti. Più capaci, vorremmo sperare, di vivere la loro stessa appartenenza all’islam in maniera più libera e “plurale”. Un islam che non può essere solo quello intollerante predicato da frange di estremisti o quello “socialista” imposto dal potere».
I prossimi mesi di avvicinamento alle elezioni presidenziali del 2009 saranno decisivi per comprendere in quale direzione vorrà incamminarsi questo turbolento paese che è l’Algeria. 

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Volontari «governativi»

Dal quartier generale del Peace corps (corpi di pace)

Prestano servizio in 67 paesi del mondo.  Sono giovani (e meno giovani) cittadini statunitensi. Sottoposti a regole ferree di comportamento e sicurezza. Li finanzia il governo americano, per promuovere l’immagine «buona» dello «Zio Sam». O anche qualcosa di più.

Manhattan, New York city, quartiere generale del Peace corps, letteralmente «corpi di pace». Le misure di sicurezza per entrare nell’edificio sono rigidissime. Mi accorgo subito che sto per entrare in un palazzo dove hanno sede gli uffici federali più svariati, la polizia sorveglia tutte le entrate e per i visitors, come me, il controllo è ancora più severo.
Finalmente mi fanno accedere all’ufficio del Peace corps. Ad accogliermi un’enorme bandiera americana e la faccia ben immortalata del presidente Bush. Mi presento, spiego che credo nei valori della pace e della democrazia e dico che voglio prestare servizio all’estero come volontaria. Mi chiedono se sono cittadina americana e non appena rispondo no, l’interesse della persona con cui stavo parlando svanisce.
Solo i cittadini americani possono partecipare. L’unica eccezione è se hai già presentato domanda per la cittadinanza e se sei in attesa di ricevere la green card (documento che permette di lavorare negli Usa, ndr). Mi offrono depliant e materiale informativo in abbondanza. L’organizzazione deve investire molto nella promozione del programma a vedere dagli opuscoli che producono. Slogan attraenti come «Ti sei mai chiesto cosa c’è dopo?» , «Un viaggio di speranza» o «La vita sta chiamando. Quanto lontano andrai?» ricoprono i muri e riempiono le pagine degli opuscoli. Continuo a chiedermi, (la stessa domanda la pongo all’impiegato che ho di fronte), perché se i Peace corps promuovono valori quali la pace e lo sviluppo, non può ammettere tutti coloro che vogliono contribuire a questa missione? Perché un movimento dallo scopo universale deve avere delle barriere nazionali nella propria struttura?

Voluti da J.F. Kennedy

Bisogna risalire la storia di 45 anni: è il 1 marzo del 1961 quando un ordine esecutivo istituì il Peace corps come agenzia federale indipendente degli Stati Uniti d’America. L’atto di fondazione fu approvato dal Congresso il 22 settembre 1961 con il «Peace Corps Act» che dichiarò la missione dell’ente.
Il Peace corps promuove la pace e le relazioni amichevoli tra gli stati mettendo al servizio di paesi e aree interessate uomini e donne degli Stati Uniti d’America. Persone qualificate e desiderose di prestare servizio, anche in condizioni di vita difficili, al fine di aiutare i popoli di tali paesi a soddisfare i loro bisogni e a crescere.
A monte dell’istituzione del movimento sono gli anni ‘50, il secondo dopo guerra e il delinearsi del bipolarismo. Vari senatori americani già in quel periodo avevano proposto la formazione di un esercito di giovani americani «missionari della democrazia». Alcuni tentativi portarono alla luce organizzazioni private non religiose che iniziarono a mandare volontari nei paesi in via di sviluppo.  Ma solo nel 1959 l’idea di creare un programma nazionale divenne realistica e soprattutto trovò l’appoggio di John F. Kennedy il quale fece stanziare dei fondi e coinvolse rinomati accademici per studiae la fattibilità e delineae gli obbiettivi. Nixon si oppose apertamente così come altri, che dubitarono dell’adeguatezza di far intervenire in contesti così rischiosi giovani collegiali, impreparati e spesso mossi solo dalla curiosità dell’esotico e ricerca dell’avventura.
Secondo Kennedy invece, il movimento dei Peace corps sarebbe servito a promuovere l’immagine positiva degli Stati Uniti nel «Terzo Mondo», così come veniva definito all’epoca l’insieme disomogeneo dei paesi in via di sviluppo. Gli americani non dovevano solo essere visti come i cattivi o come gli yankee imperialisti, in particolare nelle neonate nazioni dell’Africa o dell’Asia post coloniale.
La macchina organizzativa iniziò rapidamente a crescere, le selezioni avvenivano su tutto il continente americano e prevedevano un test attitudinale e uno linguistico (da capire quali lingue straniere potevano essere richieste considerando la varietà dei contesti geografici in cui i volontari avrebbero prestato servizio). In due anni dalla sua fondazione il movimento aveva raggiunto 7.300 volontari che servivano in 44 paesi. Nel 1966 il numero toccò i 15.000 volontari, il più elevato nella storia dei Peace corps. Con un pizzico di malizia viene da pensare che forse non è una coincidenza che tra il 1952 e il 1966, con lo sviluppo decisivo del movimento di decolonizzazione, la maggior parte dei paesi nel Sud del mondo raggiunse l’indipendenza e si delineò un nuovo assetto delle relazioni inteazionali.

propaganda o facciata?

Mentre il movimento cresceva si prefiguravano nuove prospettive di intervento. Se all’inizio i progetti si focalizzavano unicamente sul settore educativo e quello agricolo, a partire dagli anni ‘80, sotto la presidenza di Reagan, vennero sviluppati interventi nell’ambito della creazione di attività produttrici di reddito e del microcredito.
La composizione del movimento e dei suoi volontari sembra abbia sempre riflettuto l’evoluzione del contesto socio politico interno degli Stati Uniti e abbia subìto gli effetti dei tagli o degli aumenti di bilancio voluti dalla maggioranza in carica. Negli anni ‘80 ad esempio, i fondi furono drasticamente ridotti e il numero dei volontari scese a 5.000. Dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, invece, l’amministrazione Bush pensò fosse importante aumentare la presenza dei Peace corps per contrastare il sentimento antiamericano emergente in molte aree del pianeta. Rientra nella lotta al terrorismo proclamata dai conservatori l’approvazione per il 2004 di un bilancio di 325 milioni di dollari per sostenere il movimento e l’obiettivo di duplicare in 5 anni la dimensione dell’organizzazione.
«La reputazione americana non è mai stata così minacciata come in questo periodo – dichiara il politologo Joseph Kennedy – e la necessità dei Peace corps non è mai stata così urgente. Occorre mostrare al mondo la faccia migliore degli Stati Uniti d’America, la generosità della nostra nazione».
Risulta quindi importante agli occhi della direzione del movimento rinnovare l’immagine esportata in modo da riflettere al meglio lo spaccato buono della società americana.
Nel 2002  Gaddi Vasquez è il primo ispano-americano nominato direttore dell’agenzia. Il suo principale obbiettivo diventa quello di reclutare volontari che rappresentino tutti i gruppi etnici del melting pot americano. Campagne specifiche sono indirizzate a gruppi minoritari della società, quali afro-americani, latini, per arrivare anche ai nativi dell’Alaska e agli indiani della first nation. Si vuole cercare di coinvolgere le varie fasce d’età della popolazione e per questo vengono adottate misure per incentivare gli over 50 a servire nel corpo di pace.  Questi hanno una più lunga esperienza e maturità da mettere al servizio e possono contribuire in modo unico alla missione dei Peace corps. Circa il 5% dei volontari nel 2006 aveva più di 50 anni.
Nel 2007 quasi 8.000 volontari americani hanno prestato servizio in 73 paesi del mondo. L’età media è di 27 anni, il 59% dei partecipanti è di genere femminile e solo il 7% è sposato. Si può dire che la forza dei Peace corps è qualificata, con il 97% di membri laureati. Il bilancio del 2006 si chiude con 318 milioni di dollari.

Cosa offre in cambio

Viene spontaneo chiedersi cosa offra il Corpo di pace in cambio di 27 mesi vissuti lontani da casa in condizioni disagiate? Perché un giovane o un anziano americano dovrebbero essere incentivati a prendee parte? I vantaggi che l’organizzazione è in grado di offrire sono molti e spesso servono da incentivo per convincere classi della società emarginate a prendere servizio. Forse tali gruppi vedono il Peace corps non tanto come la possibilità per aiutare i bisognosi, ma piuttosto come l’opportunità per riscattarsi socialmente e per avere determinati benefit.
I volontari sicuramente possono rivendere sul mercato del lavoro l’esperienza che fanno all’estero, per cui il primo beneficio è in termini di formazione e di sviluppo di determinate competenze. I volontari rientrati ricevono assistenza per l’inserimento lavorativo e soprattutto hanno vantaggi diretti nell’assunzione federale. Possono infatti essere assunti dagli svariati uffici federali senza seguire l’iter di selezione ma su base discrezionale dell’agenzia che li assume. I volontari che hanno prestato servizio al loro rientro  ricevono una copertura sanitaria, che copre addirittura le spese dentistiche, per 18 mesi (è bene ricordare che l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti è totalmente privata). Inoltre possono beneficiare di speciali programmi di studio post universitario con agevolazioni a livello di tasse scolastiche e di iscrizione.
Infine, per meglio reintegrarsi al rientro a casa,  si riceve un fondo perduto di 6.000 dollari quale forma di supporto alla transizione.
Non stupisce a questo punto vedere alcune statistiche sui giovani che hanno prestato servizio nel Peace corps e notare come molti di loro abbiano proseguito la loro carriera in ministeri, uffici federali, Università o addirittura all’interno della stessa struttura sul territorio Usa.

Un’esperienza

Tory ha 27 anni e ne ha trascorsi più di due  in Kenya al servizio del Peace corps. I suoi genitori negli anni Ottanta avevano fatto domanda per entrare nel movimento ed erano stati accettati ma poi decisero di non partire. Lei è cresciuta in parte con il loro rimpianto e ha deciso di completare il percorso. Ci spiega come il programma negli Usa sia conosciuto da tutti e che rappresenti un sogno per molti. Le prime fasi della sua selezione sono avvenute nel campus universitario. Tory ha studiato psicologia e letteratura inglese.
Dopo la selezione è accettata e parte per Nairobi dove trascorre 10 settimane in cui riceve formazione riguardo il paese, le misure di sicurezza, nozioni di sopravvivenza, igiene e sanità. Una parte del training si concentra sull’apprendimento della lingua locale. Dopo questa prima fase viene assegnata ad un villaggio del paese dove vivrà per due anni insegnando inglese nella scuola locale e organizzando corsi di formazione per gli insegnanti sulla diffusione dell’Hiv. Ogni 4 mesi torna in capitale per una riunione con tutti i volontari e con i quadri locali dell’organizzazione.
I Peace corps sono inoltre tenuti a compilare rapporti dettagliati sul loro servizio e fornire informazioni sull’area in cui sono dislocati.  Le chiedo cosa pensa delle accuse che vengono mosse ai volontari di essere spie americane, pedine non consapevoli di un più ampio progetto di impronta neo-colonialista. Mi risponde solo che per lei l’esperienza è stata unica e meravigliosa. Non può immaginare di essere stata una spia del suo governo. Oggi lavora in Tanzania per una fondazione che finanzia progetti in ambito sanitario. Gran parte di quello che fa si basa sulla sua precedente esperienza in Kenya.

L’impatto che non c’è

Non è facile tracciare un bilancio conclusivo su un argomento così ampio e dibattuto quale quello del Peace corps. Chiunque abbia lavorato in un paese in via di sviluppo ha avuto modo di conoscere qualche rappresentante del movimento, di vederli ubriacarsi in capitale o affrontare lunghi tragitti nella savana in bici dotati di caschetto di protezione. Di alcuni non era facile cogliere lo scopo del loro intervento, altri invece erano preparati e professionali.
Le campagne di selezione in America così come la storia del movimento sembrano chiarire che al primo posto della missione dei Peace corps non vi è la promozione della pace o dello sviluppo ma piuttosto l’esportazione di un’immagine positiva degli Stati Uniti d’America, la faccia buona di una nazione che altrove condanna alla guerra e alla privazione di diritti fondamentali.
Tuttavia sembra legittimo quanto meno dubitare dell’impatto dell’azione dei Peace corps in termini di sviluppo e di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali. Non si tratta infatti di un approccio co-partecipato allo sviluppo, e neppure di progetti strutturati e sostenibili, ma della dislocazione capillare sul territorio di donne e uomini americani inquadrati da una sovrastruttura governativa che cura soprattutto i propri interessi politici. 

Di Ermina Martini

Voci dal campo

Quei giovani dal viso arrossato

Li ho visti impiegati in più settori: educazione, salute, promozione dei giovani, ecc… direi che in nessun caso hanno compiti operativi diretti: per esempio, quelli assegnati a un dispensario sono incaricati solo della sensibilizzazione (niente cure).
Tutto si riassume a due categorie: ci sono ragazzi che sanno fare qualcosa e ragazzi che non sanno fare niente.
I primi sono impiegati in modo efficace nei settori in cui c’è più bisogno: penso soprattutto a quelli assegnati a dei licei pubblici come insegnanti di inglese, chimica, fisica… Materie in cui il personale locale scarseggia e in cui la prestazione di un laureato americano si rivela molto utile. O penso anche al volontario che in Mali ha lanciato l’idea delle banche culturali (operazione volta a conservare e diffondere la cultura africana).
Quelli che non sanno fare niente: si ritrovano ad avere compiti di animazione e sensibilizzazione presso qualche dispensario, centro per giovani, ecc… Il risultato del loro lavoro è tutt’altro che scontato. Se una ragazza americana che non ha mai visto un verme e non sa dov’è la Guinea deve andare in giro a parlare del «verme di Guinea», è probabile che il risultato non sia un successone. Di sicuro l’operazione richiederà anche una mobilitazione abbastanza importante di altre persone in appoggio.
Poi c’è chi semplicemente non sa fare niente e non fa niente. In questi casi i danni sono limitati.

Mi sembra che questo illustri bene il principio del Peace corps. Ovvero poco importa che il volontario abbia qualcosa da apportare, da dire o da fare: il principio che anima l’istituzione è che questa permette di formare generazioni di giovani americani che attraverso l’esperienza in un paese povero rientrano più sensibili, informati, aperti. Il Peace corps serve al «terzo mondo» molto meno di quanto questo serva al Peace corps e, attraverso di lui, agli Stati Uniti. Credo che questo fosse uno degli obiettivi di John F. Kennedy, padre dell’istituzione.
Ma penso anche che questo rifletta tuttora un’idea che gli Usa hanno del resto del mondo: questo esiste in funzione di quanto può apportare all’America. I paesi poveri servono a far fare un’esperienza umana a dei giovani, di cui approfitteranno solo gli americani.
Il lato B di questo paradigma è che il semplice fatto di essere americani è una fonte di legittimazione della propria presenza. Soprattutto in un paese povero: io americano, per quanto ignorante, avrò sempre qualcosa da portare a te, africano magari multi laureato.
 
Alcuni dati confermano questa mia ipotesi:
1. Non esiste selezione: se di buona costituzione fisica, qualunque americano dai 18 anni in su è accettato.
2. I Peace corps godono di un forte riconoscimento sociale quando rientrano: facilitati sul lavoro e nell’ottenimento di borse per l’università. Molti ex fanno carriera in istituzioni inteazionali…
Fino a qui comunque stiamo parlando di un servizio globalmente innoquo. E al limite riuscito rispetto al primo obiettivo esposto sopra: è vero infatti che le condizioni molto rudi in cui vivono e lavorano i volontari permettono una grande prossimità alla popolazione e una conoscenza del contesto invidiabile. Per esempio parlano tutti le lingue locali, e questo fa loro onore.

Veniamo al sospetto che pesa sull’istituzione: che sia un’agenzia di informazione per il governo americano. Possibile, ma non direi che sia davvero un’agenzia.
La mia opinione è che l’istituzione dei Peace corps non sia in origine un’agenzia, ma che sia stato e sia tuttora molto semplice per la Cia usarla come copertura per un buon numero di suoi agenti.
Insomma il Peace corps non è una spia, ma una spia può facilmente essere mandata in un paese come Peace corps.
Dopo di ché, credo che i rapporti d’attività che loro inviano siano tutti registrati in qualche servizio di informazioni. Ma è difficile che il ragazzo che passa un anno sperduto nell’Africa profonda a fare poco o niente abbia delle informazioni interessanti per Washington. Immagino che con le tecnologie attuali gli Usa ne sappiano di più da un satellite che da un volontario.

Di sicuro i Peace corps non sono tutti spie, ma questo è evidente. Molto probabilmente alcuni di loro sono agenti che si passano per volontari. Difficile sapere il livello di connivenza tra la Cia e la direzione. Teniamo presente che i Peace corps dipendono dal Ministero dell’interno e non da quello degli esteri.
Il fatto che siano tenuti a rispettare delle procedure di comunicazione in codice e delle procedure di sicurezza quasi militare, non significa granché, si pensi che il personale delle Ong in situazione di emergenza fa la stessa cosa.
E che il ruolo di informazione del governo – tuttora probabilmente esistente – in realtà tocca un numero limitato di volontari consenzienti e inviati in alcuni punti caldi ben precisi.
Il resto sono ragazzi di buona volontà e spirito di avventura o solidarietà. Esistono molti siti e i blog fatti dai Peace corps. Che la Cia li utilizzi per aggioare i suoi archivi?                                      
  L.A.

Ermina Martini




AFRICA, UNITA?

La lunga strada verso gli Stati Uniti d’Africa

Per primo ci pensò Kwame Nkrumah, poi nacque l’Organizzazione degli stati africani, che divenne l’Unione africana. Oggi i capi di stato discutono sui tempi e modi per la creazione degli Stati Uniti d’Africa. C’è chi accelera e chi frena. Ma oltre all’unione degli stati occorre fare quella dei popoli. E l’identità
degli africani è ancora più legata al proprio clan che al continente.

«Un solo dito non può ammazzare un pidocchio» recita un proverbio africano. Ci ricorda che comunione e unità sono alla base della società sul continente. Basta entrare in un villaggio e subito, dopo i saluti, si comincia a cercare se esiste qualche collegamento famigliare, di consanguineità o matrimoniale. Trovato, non ci si chiama più per nome ma secondo il legame che esiste tra noi. Così è la mentalità africana in genere: ogni uomo o donna è collegato in qualche modo con gli altri.
Questo forte senso di comunità era però limitato, solo rivolto all’interno delle diverse tribù e gruppi etnici e dunque gli altri erano considerati estranei.  Con la colonizzazione e globalizzazione, gli africani si sono accorti che i loro vicini non erano dei nemici ma collaboratori per un mondo più grande e sicuro.  Dopo l’indipendenza, i diversi capi fondatori degli stati post coloniali sentirono il bisogno di unità per affrontare le sfide dello sviluppo insieme. Così nacque l’idea delle cornoperazioni regionali tra stati vicini. Ad esempio, il Mercato comune dell’Africa orientale e australe (Comesa), e la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao / Ecowas), e altre aggregazioni ancora. 
A livello continentale prima nella forma di Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), che diviene nel 2001 l’Unione africana (Ua). Ora si parla di Stati Uniti d’Africa e c’è chi vorrebbe un unico governo per tutto il continente il più presto possibile, scatenando non poche discussioni. L’uomo che spinge di più su questo è il presidente di Libia, Muhammar Gheddafi. Si dichiara «soldato per l’Africa» e sogna una confederazione di tutti gli stati africani senza aspettare troppo. Secondo lui, più si aspetta, più danni si fanno al continente.

«Africa must unite!»

Gheddafi sostiene che l’Unione africana ha fallito e che non c’è un futuro per i «micro stati» nel mondo odierno. L’unica salvezza per l’Africa è l’unità in un unico governo. L’antico slogan del dopo indipendenza torna attuale: «L’Africa deve unirsi!».
Alpha Oumar Konaré presidente della Commissione dell’Unione africana, è convinto che gli Stati Uniti d’Africa aiuterebbero lo sviluppo dei paesi più piccoli e deboli. Sostiene che una tale confederazione non minaccerebbe l’autonomia nazionale dei paesi, ma sarebbe un’opportunità per confrontare i problemi reali per l’autonomia, individuati nelle multinazionali e nell’economia mondiale.  Alcuni gruppi umanitari del continente appoggiano una tale proposta e sostengono che le barriere economiche tra gli stati dovrebbero essere tolte e che una cittadinanza africana sia una priorità. 
È stato il sogno dei padri fondatori dell’Africa post indipendenza, quegli uomini che hanno lottato contro il colonialismo. Un esempio fra tutti Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana. Sognava un unico governo per tutta l’Africa con una sola capitale. Suggeriva addirittura Bangui, nella Repubblica Centroafricana, o Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. Poi un unico sistema economico, e un programma di sviluppo economico e industriale, una moneta unica, così come una sola politica estera, un esercito e una cittadinanza africana.
Julius Nyerere, l’allora presidente della Tanzania affermava: «Lavoriamo per l’unità, con la convinzione che senza di essa, non c’è futuro per l’Africa».

Capi di stato riuniti

Così nella conferenza di Accra (Ghana) dei capi di stato africani, del luglio scorso, la questione è stata a lungo dibattuta.
Nella dichiarazione finale i capi di stato si dicono convinti «che l’ultimo obiettivo dell’Unione africana è la nascita degli Stati Uniti d’Africa, come previsto dai padri fondatori dell’Organizzazione di unità africana». Ma, come afferma il ministro degli esteri del Kenya, Raphael Tuju: «Il diavolo sta nei contenuti», ovvero: tutti sono d’accordo che l’unità è indispensabile, ma le modalità e i tempi con cui arrivarci fanno discutere. Per molti leader africani resta valido quel proverbio swahili che dice: «La strada per concretizzare questo sogno è disseminata di grandi ostacoli, tanto estei che interni». 
 Il piccolo gruppo di Gheddafi e del presidente senegalese Abdoulaye Wade, che vogliono un processo rapido con un singolo atto dai leader, sognano una rivoluzione che muterebbe i 53 paesi del continente dal mattino alla sera, in un unico stato, con un solo presidente e parlamento, sul modello statunitense.
Quelli che invece sostengono un approccio graduale sono: Thabo Mbeki del Sud Africa e Yoweri Museveni dell’Uganda. Quest’ultimo è molto categorico: «Mentre appoggiamo l’integrazione economica, siamo disposti all’integrazione politica solo con persone che sono simili a noi o almeno compatibili». La presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf si dichiara favorevole ma dice: «Ci vorrà tempo». Si fa sentire anche il capo del Mozambico, Armando Guebuza: «Prima si deve sapere dove andiamo e come arrivarci», ovvero si deve pensare con i piedi per terra.
La maggioranza dei leader africani dunque frenano e pur ritenendo di importanza capitale l’unità, pensano che la questione deve essere tema di confronto sereno.
Ecco i due punti fondamentali nella dichiarazione di Accra il 3 luglio 2007:
1. Accelerare l’integrazione economica e politica del continente, compresa la formazione di un governo unico e, come ultimo obiettivo, la creazione degli Stati Uniti d’Africa.
2. Razionalizzare e rinforzare le Comunità economiche regionali per armonizzare le loro attività…, in modo da condurre alla creazione di un mercato comune africano, con una tempistica rivista e più breve, per accordare l’economia con l’integrazione politica.
Si favorisce quindi l’integrazione delle strutture economiche regionali. L’idea di un passaporto unico africano non è inclusa nella dichiarazione finale.  

Con i piedi per terra

Prima si devono riconoscere le differenze enormi che esistono tra i paesi africani. Non solo politiche, economiche, ideologiche, ma anche sociologiche e culturali. Se c’è un filo comune nella maggioranza dei gruppi etnici africani, esiste anche un’enorme diversità.  La gente dovrebbe essere sensibilizzata a sentirsi più «africana», che membro di una specifica nazione o gruppo etnico o tribù. Si potrebbe fare un esempio del Marocco che prova a entrare nell’Unione europea pur appartenendo alla Lega Araba. Un punto importante sarebbe determinare cosa comporti l’«africanità» e che cosa unisce i popoli, prima di procedere ad un’unità politica senza alcun accordo tra la gente.
È vero che in questi ultimi anni sono diminuite le guerre civili, ma esiste ancora all’interno di molti stati una enorme polarizzazione e disuguaglianza tra gruppi etnici e tribali. Per esempio in Etiopia, Sudan, Zimbabwe, e altri ancora. Come potrà un paese diviso in se stesso fare parte di una più grande federazione? Forse hanno ragione quelli che spingono per un maggiore consolidamento all’interno degli stati stessi. 
La differenza è anche nel modo di concepire l’esercizio di potere. È anche vero che ci sono progressi di democrazia nei paesi africani e la libertà di espressione e diritti umani sono maggiormente rispettati, ma ci sono ancora forme di governo non democratiche come la stessa Libia e lo Zimbabwe. Ma allora quale stile di governo si vuole per gli Stati Uniti d’Africa? Un modello simile agli Usa? Si discute se questo tipo di approccio sarà appropriato per esercitare il potere sui popoli africani così diversi sul piano sociologico.
Quale sarà la sorte dei singoli stati federali e quale sistema per l’elezione del governo? Non è da sottovalutare l’attaccamento al potere dei capi di stato e politici attuali. Confederazione significherebbe la delega del loro potere a un livello superiore, e anche molte «poltrone» si perderebbero. Ma i problemi veri sono di tipo economico. L’Africa di oggi si presenta come un continente di miserie che dipende per sviluppo e sicurezza dai suoi «padroni coloniali» e dalle multinazionali. Questi non hanno interesse che la situazione migliori, anzi approfittano di debolezza e povertà per arricchirsi. Una dipendenza economica, finanziaria e dunque politica.

Ancora colonialismo?

Anche in Africa negli ultimi 20 anni le politiche inteazionali di aggiustamento strutturale hanno imposto la privatizzazione del settore pubblico.
Ma questa svendita ai privati delle imprese e servizi statali ha avuto come risultato il trasferimento dell’enorme patrimonio nazionale nelle mani degli stranieri, in particolare delle multinazionali. Insieme al debito estero, illegittimo e opprimente, questo fatto ha rinsaldato la dipendenza estea e ha aumentato il trasferimento di ricchezze del continente verso i paesi e le istituzioni multilaterali occidentali, come ha riconosciuto la «Commissione per l’Africa» nel 2005. Una commissione istituita da Tony Blair, allora premier britannico, nel 2004 e composta da 17 «saggi», di cui 9 africani, con il compito di elaborare un piano coerente e globale dei reali cambiamenti che avrebbero contribuito a realizzare un’azione energica e proficua per il continente africano.
Questa fuga di capitali, agevolata dalla liberalizzazione, ha raggiunto proporzioni allarmanti che ammontano a oltre la metà del debito estero, secondo i dati della stessa commissione. Secondo Christian Aid (grossa Ong britannica) la liberalizzazione commerciale da sola è costata alla regione più di 270 miliardi di dollari in un periodo di 20 anni.  Il vero problema, dunque, sta nel fatto che i leader africani dipendono dai paesi ex coloniali e dalle multinazionali.
Il peso economico e ideologico degli occidentali è ancora enorme.
Occorrono governanti che sappiano liberarsi da questi legami e possano, oltre a prendere decisioni rigorose, avere la determinazione di attuarle. La lentezza dell’integrazione e la mancanza di solidarietà, riflettono l’assenza di volontà, comune a molti leader africani, di mettere gli interessi fondamentali del continente davanti a quelli nazionali o personali, per avanzare in modo decisivo verso una vera unità. 
La partecipazione popolare alle decisioni e alle politiche pubbliche è importante per una reale unione. Questo significa che il successo degli Stati Uniti d’Africa dipende dagli africani stessi, ma allora il mandato deve venire dalle popolazioni.  Il documento pubblicato dall’Unione africana nel 2006 sembra aver compreso tale principio e dichiara che: «L’Unione deve essere degli africani e non soltanto degli stati e dei governi». Ma questo, per ora, sembra essere rimasto solo nella carta.

 Ricchezza di valori
 
Ma è proprio perché esistono questi problemi e sfide che l’Africa in un modo o nell’altro si deve unire. Ha molto da guadagnare. Mettere insieme tutte le sue risorse culturali, umane, naturali ed economiche darà un grande impulso allo sviluppo.  Le culture sono ricche di valori umani. Un incontro e dialogo di tutte le diversità che si trovano sul continente porterebbe ad un enorme vantaggio per tutto il mondo. Ma sembra che questo aspetto venga trascurato mentre dovrebbe essere sfruttato per determinare, ad esempio, il sistema educativo dell’unione.
Hanno ragione quelli che dicono che i singoli paesi d’Africa, nell’attuale sistema economico mondiale non hanno posto. Un’unione, in qualsiasi forma fosse realizzata, aiuterebbe l’Africa nelle negoziazioni con gli altri blocchi economici sui mercati inteazionali. È solo così che i prodotti africani avrebbero il valore che meritano. Quelli che fanno affari lo hanno capito da tempo. Si dice che oggi l’Africa è il grande mercato dei telefonini. Infatti le compagnie di telecomunicazione cellulare coprono ormai intere regioni del continente. Anche le banche commerciali stanno aprendo filiali sulla base delle unioni economiche regionali.
Ci sono alcuni segnali positivi: le guerre tribali e civili all’interno degli stati africani sono diminuite e si va verso una stabilità politica, con governi più o meno democratici.  Ma occorre del tempo e l’integrazione regionale, come base di una più grande federazione, è la risposta dei dirigenti africani riuniti alla conferenza di Accra nel luglio scorso. Forse una risposta evasiva, visto che i raggruppamenti regionali degli stati africani non sempre funzionano così bene.  

Di Nicholas Nyamasyo Muthoka

Nicholas Muthoka




La notte è troppo lunga

Reportage: tra i bambini di strada della capitale argentina (2.a puntata)

Ci sono quelli della stazione dei treni. Quelli della metro. Quelli che stanno sotto un porticato. Sono chicas y chicos de la calle che si arrabattano per sopravvivere nelle strade, tra droghe, pericoli e polizia. E poi c’è lui, Mario, insegnante di arti marziali e factotum, ma soprattutto ex bambino di strada. Oggi investe molto tempo ed energie per aiutare i bambini direttamente, senza intermediari. Assieme a Mario abbiamo trascorso una notte tra le ranchadas di Buenos Aires, nascoste dietro le luci della città, metafora di una società che, ad un tempo, abbaglia ed esclude.

Buenos Aires.  Barracas è un quartiere della capitale cresciuto lungo il Riachuelo, un fiumiciattolo (oggi inquinatissimo) che sfocia nel Río de la Plata. Il barrio non ha la notorietà dei confinanti San Telmo e Boca.  È un quartiere senza pretese, proletario.
Sulla via Salom le case sembrano abbandonate. La strada, poco illuminata, è praticamente deserta, sia di passanti che di automobili.
L’abitazione in cui entriamo è una vecchia casa in assi di legno. All’interno ci sono due stanze ammobiliate in maniera essenziale.

Il bambino con il rosario  al collo

Fisico possente, viso da indio, baffi e pizzetto, giaccone, cappellino con visiera alla rovescia, di prim’acchito Mario Julio Sotelo, 47 anni, incute un po’ di timore. 
Un passato in Costa Rica e Stati Uniti, una piccola attività di messaggeria (portare documenti e cose da una parte all’altra della città), Mario fa volontariato al Centro Miguel Magone: insegna arti marziali ai piccoli ospiti.  Proprio al centro gestito dai salesiani lo abbiamo incontrato per la prima volta. «Nel mio piccolo anch’io cerco di aiutare i bambini di strada» ci aveva detto, invitandoci a visitarlo.
«Questa è la mia umile casa. Un livello poco sopra della ranchada della strada», avverte Mario, quasi per scusarsi. Con il termine ranchada si indica l’estemporaneo rifugio dei bambini di strada: il luogo dove si ritrovano in gruppo, dove dormono, dove stabiliscono il da farsi.
Che fanno i bambini nelle ranchadas? «Decidono le loro attività», spiega Mario, senza cercare di abbellire la situazione. «Attività che spesso sono furti; sono pochi i gruppi che vivono con l’attività di cartoneros». Quindi, il nostro ospite, che parla con visibile partecipazione emotiva, aggiunge: «E poi nelle ranchadas si consumano droghe».
Mario Julio Sotelo non è un assistente sociale, non è un religioso, certamente non è ricco, ma da anni segue i bambini di strada. Perché?
«Ne sento la necessità, perché io fui della strada. Anzi, di più se possibile, dato che sono orfano e non ho mai conosciuto i miei genitori. Sono cresciuto in istituto e in istituto (che comunque era un luogo rispettabile) ho imparato a sopravvivere».
La casa di Mario è aperta a tutti. «Ripeto – insiste – : questa è una ranchadita, non una vera casa, dove ci sono letti e comodità. Io vivo la casa e non il contrario. Mi basta l’essenziale. Vivo con mio figlio. Ho 3 forchette: una per me, una per lui ed una per il visitatore di tuo, che adesso è Maxi».
 L’interessato ascolta ed annuisce. «Maxi – prosegue Mario – lo conosco da qualche anno, ma da poco vive qui con me. Mi aiuta nel lavoro di messaggeria, che è un lavoro libero perché si fa all’aperto».

Nelle ruvide mani della polizia

Cappellino, capelli ricci, maglietta calcistica, un rosario tenuto a mo’ di collana, occhi espressivi, labbro superiore un po’ gonfio: è Massimiliano detto Maxi.
«Quando ero piccolo, rimasi con mio padre per 7 anni. Poi con mia mamma per 2 anni, finché lei non morì di Sida. Non volevo stare con i miei parenti e scelsi la strada. Da 6 anni non vedo alcuno di loro e non ho nessuna voglia di vederli».
Maxi, come si vive in strada? «Si apprendono sia cose buone che cose cattive. Quelle buone sono che impari a convivere con altre persone; quelle brutte è che impari a drogarti e a rubare».
Tu quante volte sei stato nelle mani della polizia?, domandiamo. «Un paio di volte. Non posso dire che tutta la polizia sia cattiva. Ci sono alcuni che ti portano da mangiare, altri che ti tengono tutto il giorno senza un bicchiere di acqua».
Maxi continua a raccontare, con tranquillità, senza particolare enfasi, quasi fosse una cosa normale. Spiega la sua ultima disavventura con le forze dell’ordine, quella che si è conclusa con il suo affidamento a Mario. «Nel portafogli dell’amico con cui ero hanno trovato della marijuana, una piccola dose. Dato che io non avevo alcun precedente di droga, ho detto che era mia per mio consumo personale. Sono stato 11 ore nel commissariato senza neppure il permesso di andare al bagno. E senza la possibilità di fare una telefonata».
«Alla fine è venuto Mario, ma anche per lui non è stato semplice perché non sapeva i miei dati personali, dato che mi conosceva soltanto come Maxi».
Massimiliano conclude la sua storia: «Io non sono una cattiva persona. Anche se la gente pensa subito così, appena ti avvicini per chiedere una moneta. Cominciano a guardare la loro borsa, il cellulare. Ma non tutti siamo eguali, come sa Mario che ha accettato di farmi da tutore».

Una telefonata alla mamma

Mentre parliamo arrivano altri 2 ragazzi. Si accomodano sul divano, mentre il figlio di Mario e la sua ragazza preparano loro un tè caldo. Uno dei due ha un labbro spaccato, ma non è a causa di quello che parla biascicando.
Mario gli dice di telefonare alla mamma, che da giorni lo sta cercando. «Pronto, mamma», la conversazione prosegue, come tutto fosse normale. La mamma si preoccupa della sua salute e lui la rassicura: «Sì, ho un po’ di tosse, ma va già meglio». Poi promette: «Domani passo da casa».  Il padrone di casa si fa passare la cornetta del telefono per tranquillizzare la mamma: «Questa notte lo faccio dormire da me».

Estacion Constitución, una «corte dei miracoli»

Mario non possiede un’automobile. Lui si muove in moto. Per questa sera, però, ha chiesto al vicino di casa la sua auto in prestito. Vuole portarci a visitare alcune ranchadas del centro. Ci faremo accompagnare dai 2 bambini, che ben conoscono i luoghi e i loro frequentatori. 
Arriviamo a Constitución. La stazione dei treni è una sorte di «corte dei miracoli», soprattutto durante la notte. Qui si incontrano cartoneros, bambini di strada, malviventi. Mario vuole farci parlare con i bambini che nella stazione hanno la loro base. Li troviamo senza difficoltà e ci sistemiamo sui gradini di una scala per conversare. Ma siamo subito disturbati da alcuni ragazzi più grandi, visibilmente alterati, che non gradiscono la nostra presenza. Mario, pur molto conosciuto in questi ambienti, decide però che è meglio uscire dalla stazione.

La ranchada di Maria

Facciamo pochi minuti di auto. Ci fermiamo nei pressi di un porticato dove dormono molte persone e famiglie con bambini.  I giacigli sono improvvisati, ma almeno ci sono le coperte. Tutt’attorno borse e sacchi di plastica riempiti con le cose personali. Qualcuno ha raccolto del cartone, per venderlo o per usarlo come riparo. E poi ci sono vari carrelli di supermercato, usati come mezzo di trasporto dei propri averi.
Viso da adolescente, bel sorriso, una sigaretta in mano, Martin è un po’ timido davanti alla videocamera ma, dietro richiesta di Mario, si convince a dire qualche parola.
Che fai qui? «Niente. Dormo. Sono solo, per questo sono venuto alla ranchada di Maria, che è un’amica».  E durante il giorno che fai? «Il giocoliere nelle strade».
Quanti anni hai, Martin? «Tredici. Sono di Buenos Aires. Vivo in strada dall’età di 9 anni. Mia mamma vive con il mio patrigno e una sorellina, ma non li vedo da molto tempo».
Come si vive in strada? «Freddo, fame, problemi con la polizia. Tutti i giorni».
Mario gli dice di mostrarci le mani.  Un po’ titubante, Martin apre le mani: sono rovinate come quelle di un manovale di lungo corso. «Sono i segni che lascia il Poxiran», spiega Mario.
La ranchada di Maria è in un angolo del porticato, davanti alle serrande di un negozio. Maglione verde, capelli lunghi e neri, la troviamo con un neonato in braccio: è il figlio di sua figlia (minorenne). Il figlio maschio, Victor, è un consumatore di droga. Caduto dal treno, ha subito l’amputazione di un piede. Una serie impressionante di disgrazie che atterrerebbe chiunque.
Invece, Maria riesce ancora a sorridere, mostrando la bocca sdentata. Ma il suo è un sorriso stanco. Quanti anni hai, Maria?, domandiamo, ormai bloccati dalla crudezza della situazione, incapaci di fare domande che abbiano un senso e che non abbiano il sapore di un’inutile curiosità. Maria risponde «29». Ci guardiamo sorpresi, perché non può avere l’età che dice. «Non è un vezzo», ci spiega Mario. «Maria non ha realmente cognizione della sua età».
Arriva anche la figlia con un amico e tutti fanno festa a Mario. Ma per noi è ora di salutare Maria e la sua famiglia e andare a visitare un’altra ranchada.

Subte, linea «B», fermata «Florida»

Arriviamo in centro, a poca distanza dall’Obelisco e da Florida, la lunga via pedonale nota a tutti come paradiso dello shopping. E ai ragazzi di strada come un luogo dove si può «lavorare» bene, nonostante la presenza della polizia.
Ci fermiamo sulla scala della linea «B» della metro di Buenos Aires, a quest’ora della notte chiusa agli utenti. 
 Victor vive nella strada da 8 anni. Perché? «Mi piace», risponde alzando le spalle e ridendo. Un bambino, più piccolo di statura rispetto ai compagni, si fa avanti. È particolarmente vivace. Dice di avere 13 anni. Vive nella strada da poco, meno di un anno. Mario fa un cenno di conferma.
Dove dormite?, chiediamo. Invece di rispondere, due di loro ci mostrano come si rannicchiano sulle scale della metro durante la notte. Dormono sui gradini finché, al mattino, non si aprono le porte della metro o finché non passano i poliziotti a scacciarli.
«Chi sta fumando?», chiede Mario, con fare amichevole.

Pegamento, paco, o marijuana?

Il gruppo si è allargato ad altri, richiamati dalla presenza di Mario, una persona conosciuta ed affidabile. Tutti vogliono dire la loro. I ragazzi ridono divertiti e sventolano davanti alla videocamera una busta di pegamento e un sacchettino di marijuana. Mario li guarda, comprensivo ma non consenziente.  

Di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Dove osano le aquile

Viaggio nel Kelmend, la regione montuosa più settentrionale del paese

Il suo vero nome è Shqipëria (Paese delle aquile), dove per 46 anni
il regime comunista ha cercato di cancellare la presenza cristiana, togliendo di mezzo vescovi, preti e religiosi, perseguitando i semplici fedeli. Grazie all’opera di missionari italiani e all’aiuto di varie associazioni umanitarie, oggi le comunità cristiane stanno rifiorendo, anche nel Kelmend, regione dell’estremo nord del paese.

Sono arrivata in Albania al seguito di Anemon (acronimo di «aiutare nel mondo»), un’associazione di medici e volontari che si propone di sostenere il lavoro delle suore francescane di Susa e di padre Sergio, frate minore cui è stata affidata la regione montuosa del Kelmend, dove da molti secoli vivono isolate alcune tribù cattoliche.
Tirana ci sorprende, con il suo aeroporto moderno e luminoso, per l’ampia arteria che porta in città, fiancheggiata da nuove costruzioni commerciali e industriali. Chi tra noi ha già visitato questo paese si rende conto di un grande cambiamento. I nuovi edifici del centro si distinguono per la sobrietà e il colore. La gente pare molto cordiale; molti conoscono l’italiano. Come Migena, che significa «fior di melo», una giovane albanese cui mi rivolgo per un’informazione. «Ho imparato l’italiano da mio nonno, che aveva fatto il militare in Italia. Quando ancora non andavo a scuola, mi raccontava le fiabe in italiano».
Resta grave il problema dei contadini inurbati di recente, sistemati in case fatiscenti che non ricevono regolarmente né acqua né luce.
Piazze e viali del centro di Tirana ricordano le altre capitali dei paesi comunisti, ma i numerosi caffè all’aperto sono affollati e ci sono anche giovani donne, mentre in quelli dei villaggi che visiteremo gli avventori saranno solo uomini.

Scutari è una città molto antica. Un’antica fortezza domina la città e il lago, che in parte appartiene al vicino Montenegro. La sua storia testimonia la serena convivenza, da sempre, di cristiani e musulmani: dopo gli anni bui di ateismo e chiusura al mondo, hanno ricostruito la grande chiesa ortodossa e restaurato la moschea.
Scutari è la prima tappa del nostro viaggio umanitario: abbiamo promesso di ingrandire la casa che le suore hanno aperto per accogliere le studentesse provenienti dai remoti villaggi del Kelmend per proseguire gli studi nella città, rompendo così una tradizione che negava l’istruzione superiore alla donna.
Lasciamo le rive del grande lago e risaliamo la montagna punteggiata da ginepri e folti cespugli di melograno. La strada sale attraverso strette gole, supera pietraie e ripide scarpate sul fiume, sulle cui rive alcuni terrazzamenti alluvionali permettono le colture e l’allevamento. Le case di pietra hanno il tetto fatto di lamelle di legno, con i pagliai a forma di cono.
Nel villaggio di Stare le suore hanno la base per il loro lavoro nelle valli, evangelizzazione e assistenza sanitaria. Il dottor Veronese, un medico torinese in pensione, dopo una sua prima visita due anni fa, ha deciso di ritornare ogni due o tre mesi e collaborare con suor Anna, infermiera. Il piccolo ambulatorio richiama gente dalle valli più remote, ma sovente il medico si sposta nei villaggi di montagna, dove opera nelle sale di riunione o nelle cappelle.
Leggendo le sue relazioni ero rimasta colpita dal fatto che, dopo tanti anni in cui la gente di Albania pensava solo ad emigrare, pare sia nato tra i giovani un nuovo sentimento di orgoglio. Oggi chiedono di poter ricostruire il paese, evitando la fuga di massa, ma chiedono anche una vita più dignitosa.
A Fare incontriamo anche Iolanda da molti anni impegnata nel volontariato: ha trascorso alcuni anni nell’ospedale di Fogo in Capoverde. Da tempo in pensione, l’anno scorso accettò volentieri l’invito del dottor Veronese a seguirlo nella regione del Kelmend.
«Fui molto colpita dalle donne albanesi, che rappresentano la maggioranza dei pazienti. Sono donne che soffrono, abbandonate da uomini partiti per cercar lavoro o per delinquere, umiliate da una mentalità ferocemente maschilista che le ha sempre private di un minimo di cultura» racconta la volontaria.
Pare che la depressione sia la patologia ricorrente in queste creature, che dimostrano forte imbarazzo durante le visite, anche se al medico si affianca sempre suor Anna e un’altra donna. Iolanda mi spiega che le donne arrivano spesso accompagnate dalla suocera. La tradizione vuole infatti che le giovani, quando si uniscono a un uomo (e non sempre questa unione viene regolarizzata dal matrimonio), lascino per sempre la propria famiglia e vadano a servire quella del marito.

Proseguiamo risalendo la valle con difficoltà: il mezzo è vecchio, le gomme lisce e perdiamo pure la marmitta. Prima di arrivare a Tamare, dove padre Sergio ha avviato un allevamento di trote con buon successo, prendiamo una stretta deviazione che ci condurrà a Vukli, dove ci aspetta per la messa.
Dopo altre due ore di viaggio e strapiombi da brivido, la strada termina in un’ampia vallata. Una specie di paradiso perduto, con greggi di pecore, muli che trasportano il fieno e case dai tetti alti e spioventi.
Arriviamo quando la messa è già iniziata. Sotto il portico sostano i giovani maschi, la sigaretta tra le dita e l’aria sfrontata da guappi. Conoscono poco l’italiano, ma riescono a farsi capire: sognano di emigrare, per far soldi e non lavorare nei campi. Dentro la chiesa, le nonne hanno il velo nero da vedove, le rughe e il viso rassegnato. Le madri mi guardano e il viso si allarga in un sorriso. I lunghi capelli neri sono fermati da forcine in onde piatte sulla fronte, incoiciata dal foulard. Tra le ragazze ce ne sono di molto belle, sono vestite per la festa e si lasciano ammirare.
Dobbiamo partire, la strada per Vermosh è ancora lunga; facciamo una sosta a Nikc, dove troviamo la chiesa piena di fedeli che da ore aspettano il padre per la messa. Come sta avvenendo per tanti edifici di culto, anche questa chiesa è stata ricostruita sui resti di quella distrutta nel periodo della dittatura, con i soldi inviati dagli emigrati.

L’autista del nostro vecchio pulmino è molto abile, guida nel buio sulla strada impervia, che vedremo solo al ritorno, spettacolare. In meno di due ore arriviamo davanti al cancello della proprietà di due fratelli emigrati da anni in America. Padre Sergio è riuscito a farsi dare in comodato per 15 anni l’intera proprietà, da anni abbandonata. La casa è stata da poco restaurata con gli aiuti che il francescano raccoglie tra gli amici quando viene in Italia.
Ma il padre sta attuando un progetto più ambizioso: trasformare la proprietà in agriturismo; sono già arrivate prenotazioni di gruppi di austriaci e svizzeri per la prossima estate. A gestire il tutto sono Giovanili e sua moglie Mariana, che durante l’estate si trasferiscono nella casa e coltivano i campi della proprietà; mentre durante l’inverno tornano nella casa dei genitori, per affrontare l’isolamento che può durare a lungo.
La mattina partiamo a piedi per raggiungere il nucleo centrale di Vermosh, dove ci sono la scuola e la chiesa. Nei campi recintati pascolano cavalli e pecore. Ciò che maggiormente attrae l’attenzione sono le croci, poste dappertutto: sulle case, sui ponti, al collo dei bambini e delle donne, persino sui pali della luce.
Intanto, il signor Giovanili, la cui famiglia ha avuto un ruolo importante nella comunità della valle, ci racconta la sua storia, mentre camminiamo insieme lungo il torrente: «Abbiamo sofferto molto, prima sotto il dominio turco, poi sotto la lunga dittatura comunista, ma siamo rimasti fermi nella nostra fede. Mio padre e i miei zii, fratelli di mia madre, sono stati in carcere, a lungo». Uno di essi, uscito di prigione, fuggì in Belgio e a causa sua la famiglia venne perseguitata.
Dopo il 1990, quando si aprirono le frontiere, Giovanili volle raggiungere lo zio. Trovò lavoro per due anni a Bruxelles, in una pizzeria italiana; ma non riuscì a ottenere il permesso di soggiorno. Il francese imparato in quegli anni gli consente di comunicare con noi e con i rari visitatori.
Quindi prosegue: «Quando si decise la costruzione della chiesa, mio padre si recò in visita alle nostre comunità di New York e Detroit e riuscì a raccogliere i fondi necessari». Altri aiuti sono arrivati anche da Austria e Italia; così si spera di frenare l’esodo dei giovani con iniziative come quelle di padre Sergio, che vuole far conoscere queste montagne all’estero, creando basi di appoggio per un turismo sportivo e sostenibile in una natura selvaggia e incontaminata.
D’estate arrivano i cicloturisti dal Montenegro e già si pensa di predisporre un’area campeggio per ospitarli. Le idee sono buone, ma le difficoltà enormi. Il suo entusiasmo si confronta con le difficoltà di far capire i progetti alla gente, che tanti anni di sottomissione e chiusura ha umiliato e resa inerte.
Al tempo stesso, padre Sergio vuole incrementare l’artigianato locale: ha in programma un viaggio in Italia, con l’auto carica di tappeti tessuti dalle donne di Tamare. Lo accompagneranno anche Giovanili e Mariana, che saranno ospitati da famiglie di amici e potranno imparare l’italiano e l’arte dell’accoglienza.

Sulla via del ritorno, l’ultima tappa del nostro viaggio è Selce, un villaggio ai piedi di un’impressionante scarpata rocciosa. Ci accoglie Angelina, una bella donna, alta, elegante e vestita di scuro. Direttrice della locale scuola media, sta affrontando i problemi dell’educazione delle giovani e per questo ha fondato un’associazione femminile. Le iscritte sono già 50, alcune tra loro sono anziane. «Se vogliamo migliorare la qualità della nostra vita, dobbiamo cominciare con l’educazione delle donne. Il futuro del paese è nelle mani delle giovani madri».
Angelina parla con fervore, crede in quello che fa e le do ragione. Quando ci abbracciamo per lasciarci, la stringo e sento il calore delle sue gote arrossate. Le chiedo: «A casa tua, che educazione hai ricevuto, per avere una mentalità così aperta?». «Mia madre ha avuto sette figli, era un’educatrice meravigliosa» mi risponde. 

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti