Il mistero di un diario

La «nyumba ya kagita», una storia dalla terre dei Meru

Dalle pagine di diario di un vecchio missionario emergono antichi riti di un’Africa che fu. La curiosità e l’interesse di un confratello che, anni dopo, vuole sapee di più del mistero che essi nascondono.

Se si «ficca» il naso nei diari antichi delle missioni – specialmente africane – si può facilmente far rivivere pagine piene di storie e di misteri. A volte ci si può imbattere in racconti utili a lasciare ai posteri almeno una traccia del passato, elementi da mettere in un archivio e conservare gelosamente, come qualcosa di prezioso. A volte, però,  si tratta di veri e propri «misteri», che necessitano di qualche sforzo e molta buona volontà per essere interpretati.
Eccovi una pagina, o meglio quattro righe, del diario di Amung’enti, una missione del Kenya nell’incipiente vicariato di Nyeri, diventato poi in parte diocesi di Meru. Data del documento: 27 ottobre 1920.
«Il funzionario governativo, Mr. Gillbill, dietro mia informazione, mandava a monte la nyumba ya kaita di tutto l’Egembe, radunava tutti i tamburi (di cui mi diede licenza di scegliee alcuni). Di più: chiamò a se tutti gli avvelenatori facendo loro una buona ramanzina».
A scrivere queste precise righe in tale scao e semi-misterioso stile, fu probabilmente il padre Bodino, uno dei primi missionari mandati in Kenya ancora dal beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e  missionarie della Consolata. Padre Bodino operò in questa missione che a quel tempo aveva nome Egembe (trasformato poi in Amung’enti), fin dal 1918. La missione aveva appena cinque anni di vita, essendo stata fondata il 1° dicembre 1913.
Sprofondato in una vecchia poltrona, in attesa che il fido Michael arrivasse con la cena, lessi e rilessi quelle righe. Che cosa significavano? Nyumba ya kaita poteva essere tradotto in «capanna della… kaita». Forse bisognava riscrivere la parola nel più moderno kagita? I tamburi dovevano essere davvero i vecchi tamburi costruiti con un tronco d’albero ed una pelle di vacca, visto che il padre aveva ricevuto il permesso di tenersi qualche esemplare. E la ramanzina agli avvelenatori?
Michael arrivò in quel momento con il suo portavivande e la zuppiera fumante.
«Michael cos’è la nyumba ya kagita?» – chiesi quasi innocentemente al giovanotto.
Ci mancò poco che zuppiera e tutto l’armamentario del vassoio se ne andassero per aria. Michael si era fermato di botto facendo un grosso sussulto, una specie di singulto alla maniera africana per dimostrare sorpresa e spavento.
«È solo perché volevo capire cosa c’è scritto in questo vecchio quaderno!» – lo rassicurai.
Michael tirò un sospiro di sollievo.
«Credevo che ci fosse di nuovo in ballo qualche faccenda da parte degli anziani. Sai… queste cose del tempo antico sono poco conosciute da noi. E quando si sente parlare della kagita non si può fare a meno di guardarsi intorno per scoprire chi potrebbe essere il capro espiatorio a fae le spese. Solo gli anziani possono oggi conoscere la verità completa. Forse il maestro Battista ti potrebbe aiutare…».
E così Michael se la cavò, stuzzicando però maggiormente la mia curiosità.
La capanna del maestro Battista era situata a non più di dieci minuti dalla missione. Battista era un maestro di scuola elementare, pochi anni più vecchio di me. La sua scheda anagrafica rivelava però un «pedigree» molto importante: era uno dei figli di un grande anziano, di quegli anziani che nella regione del Meru detta Egembe costituivano l’ultimo scalino della nobiltà, aventi potere sia nelle cose buone… come in quelle assai meno nobili, nelle quali ogni tanto si trovavano implicati.
«Allora, bwana Battista, mi dici qualcosa della nyumba ya kagita?» – gli domandai dopo aver sorbito un tè con lui e la moglie.
Battista, per tutta risposta, mi prese per un braccio e mi invitò fuori, per farmi vedere qualcosa di importante e, forse, per distrarre l’attenzione della moglie sui nostri discorsi.
«Vedi, padre, lassù su quella collina di fronte a noi? Bene, quella capanna diroccata è l’ultima capanna della kagita del nostro Egembe. Bada bene di non andare a toccarla. È tabù, tutti lo sanno e se ne stanno alla larga. Le prossime piogge, forse, laveranno tutto quanto e non ci sarà più alcun ricordo. Il tempo e le termiti avranno compiuto il loro lavoro».
Quello che segue ora è il resoconto di quanto il maestro Battista mi raccontò e che io mi son permesso di mescolare con quanto un nostro famoso missionario scrittore, il padre Ottavio Sestero, mi narrò nel 1964 nella missione di Tigania. Padre Sestero era conosciuto prevalentemente per i suoi scritti «avventurosi» e a volte burloni, ma quanto aveva scritto su usi e costumi della gente che ormai conosceva da anni, solleticava la mia curiosità.
Avevo fra le mani, fresco fresco di stampa, uno dei suoi ultimi romanzi missionari, «Il sacrificio del settimo anno». Anche in quel racconto veniva descritta la nyumba ya kagita.
Alla mia domanda un po’ insolente circa la veridicità di quello che lui aveva descritto, p. Sestero, dopo una lunga boccata dalla sua inseparabile pipa, mi disse: «Vede! Certe cose non si possono inventare. Ci vorrebbe troppa fantasia. Basta aver occhi per vedere e orecchie per sentire. Gli ingredienti ci son già tutti, basta cucinarli e fae una buona zuppa! Se lo desidera, posso anche accompagnarla a vedere i luoghi descritti in quel romanzetto. Non dobbiamo farci vedere poiché queste cose continuano a turbare la fantasia di queste nuove generazioni e con i nostri giovani è meglio chiudere il capitolo… o, al massimo, servircene per riempire le pagine delle nostre “avventure missionarie”».
Andammo un po’ di nascosto a visitare quei luoghi ed oggi, mentre scrivo, ritorno con la mia fantasia a rivederli: too a rivedere la capanna della kagita, gli antri della montagna in cui i futuri candidati alla circoncisione dovevano nascondersi, gli anziani njori vestiti nei loro caratteristici paludamenti, con la ncea (la corona dell’anziano), il meu (lo scopino scacciamosche), il bastone, lo sgabello a tre gambe significato della loro autorità, il manto di pelle di bue, il copricapo solenne fatto con la pelle della scimmia guereza, dalla coda bianco nera. E poi le zucche, le grandi e piccole zucche contenenti il vino di canna da zucchero e le zucchette del tabacco. Quanti grandi «ahh!» di soddisfazione si potevano ascoltare dopo le solenni bevute e i poderosi stauti che seguivano le abbondanti prese di tabacco…!
Battista prese a raccontare.
«La kagita era una grande capanna che fungeva da tribunale. Doveva essere costruita isolata, in una verde radura. Nessun boschetto, cespuglio e coltivazione poteva trovarsi nelle immediate vicinanze, affinché nessuno si accostasse ad origliare durante le sedute dei componenti del tribunale. Chi veniva scoperto su quello spiazzo rischiava quanto meno una feroce bastonatura. Il segreto era ciò che rendeva unito, forte e temuto il «consiglio degli anziani» che nella kagita si riuniva. Un membro che ne avesse svelato le decisioni importanti era condannato lui stesso a morte.
La kagita era il culmine di una piramide formata da una società detta njori, alla quale dovevano appartenere praticamente tutti gli uomini adulti poiché era una condizione indispensabile per fruire dei diritti della tribù.
Questi njori formavano il primo gradino, o base, di questa piramide. Un secondo gradino era formato dagli njori ncheke (letteralmente: njori ristretti o “magri”, nel senso che questo gruppo aveva un numero minore di appartenenti).
Il terzo gradino a cui si poteva accedere era quello finale degli njori-mpingiri (o “chiusi”, cioè una classe superiore, esclusa a chi, nella società, non avesse un grado elevato): questi ultimi costituivano il tribunale tradizionale della zona.
Sopra tutti quanti c’era la kagita, l’autorità suprema nel territorio.
Mio padre, ad esempio, era uno njori-mpingiri e uno dei pochissimi che appartennero nel passato alla kagita dell’Egembe. Se io ti dico queste cose è perché lui stesso me le ha confidate, quando sperava di fare anche di me un suo successore. Io, però, avevo ormai scelto di diventare maestro e cristiano».
Battista prese fiato e si accinse a continuare il suo racconto che, alle mie orecchie, stava diventando sempre più interessante.
«Le autorità inglesi hanno osteggiato la kagita pur avendone ricevuto a volte benefici molto utili alla loro politica di governo. In quella capanna diroccata che vedi lassù son successe tante cose… non tutte belle, per la verità».
Battista continuò, abbassando quasi istintivamente il tono della voce. «Mio padre un giorno mi raccontò che ricevette il messaggio segreto per un urgente raduno della kagita. Occorreva sistemare una grave questione intea alla comunità, senza che il governo inglese ne venisse a conoscenza. Un giovane della nostra tribù  nella regione dell’Egembe  ne aveva combinata una davvero troppo grossa. Secondo le nostre leggi tradizionali, la pena per certi delitti era quella capitale. Ma l’indiziato, secondo la tradizione doveva comparire di persona davanti a tutti i membri della kagita.
Bisogna dire che, in queste occasioni, le nostre donne si prodigavano nel rendere la capanna più accogliente possibile. Nel centro, in un incavo del terreno, trovava posto una grande zucca alla quale era stata tagliata la parte superiore, quasi fosse una grossa pentola. Le donne si incaricavano di portare anche un buon quantitativo di vino di canna da zucchero.
In quell’occasione i preparativi seguirono la solita procedura. Da tutti i clan arrivarono gli njori-mpingiri aventi diritto di partecipazione alla kagita».
«Mio padre – proseguì Battista – mi raccontò di come ciascun convenuto dovette sottoporsi al rito della “maschera dello njori” e, cioè, essere dipinto in faccia con ocra e burro, con i precisi disegni ricevuti quando furono eletti njori. Ognuno con il proprio sgabello a tre gambe, i manti tradizionali, il copricapo tradizionale, lo scopino-scacciamosche e il bastone del grande anziano, tutti presero posto intorno alla grande capanna, seduti sullo scranno dell’autorità.
Il mogà (stregone) stava già armeggiando attorno alla grande zucca. Sul suo fondo già aveva versato un liquido che lui stesso aveva ricavato dalla scorza di una pianta della foresta a lui conosciuta. Ora restava il compito delicatissimo di versare su questo liquido, il vino portato dalle donne. Occorreva una mano fermissima e tanta pazienza in modo da impedire che i due liquidi si mescolassero: il vino, più alcornolico, avrebbe galleggiato e coperto tutto. Un giovane seminudo e legato, intanto, venne fatto sedere non distante dalla zucca».
Battista continuò il suo racconto: «Il primo in dignità tra gli njori-mpingiri si alzò in piedi e proclamò solenne: “Sono del clan delle pietre; il mio popolo, che io qui rappresento, è innocente dell’accusa del delitto che dobbiamo giudicare. Ora bevo alla mia e vostra salute e di quelli del mio clan“. E così dicendo, con fare solenne ma attentissimo a non muovere il vino della zucca, prese con una mezza zucchetta, fungente da mestolo, un buon sorso della bevanda e la bevve d’un fiato, concludendo con un gran schiocco della lingua.  “Ho parlato”.  L’assemblea approvò:  “Ne bwega (va bene)”.  E l’anziano si sedette».
«Dopo di lui, in un silenzio di tomba, si alzò il secondo rappresentante.  “Io, njori-mpingiri del clan dell’acqua nera, dimostro che anch’io ed i miei sudditi siamo innocenti!”.  Stessa manovra, stessa somma attenzione nell’intingere ed alla fine la solenne approvazione dell’assemblea:  “Ne bwega”, va bene». Così, con calma, passarono tutti gli njori della kagita. Poi si fece avanti il mogà (stregone); rivolgendosi all’imputato gli disse: “Ora tocca a te, che sei stato portato qui a provare se anche tu sei innocente”. Con fare lesto immerse fino in fondo il piccolo mestolo e lo porse alle labbra dell’indiziato invitandolo a bere, operazione alla quale il giovane non poteva sottrarsi: dovette anch’egli bere dalla zucchetta che il mogà gli porgeva. Nel silenzio che seguì, cominciò dopo pochi minuti a sentirsi un sibilo come di persona che stesse per soffocare. Il condannato prese a un tratto a contorcersi come per liberarsi dai legami che lo tenevano prigioniero. Il veleno non gli aveva dato scampo. Fu questione di pochi minuti ed il “reo” giaceva stecchito sul pavimento. “La kagita ha giudicato e la verità ha colpito!”.
Su invito dello stregone, uno degli njori meno attempato si alzò e andò ad aprire un buco nella parete della capanna, proprio opposto all’entrata; un buco appena sufficiente per farci passare un corpo umano. Spinto con un bastone (nessuno avrebbe potuto toccare un morto neppure coi piedi) il giustiziato venne fatto passare attraverso quella feritornia e poi l’apertura fu chiusa con sterpi ed un po’ di fanghiglia. Il rituale era concluso».
Battista smise di raccontare e mi guardò, come per dirmi: «Così si usava fare. Era la tradizione che imponeva queste cose…».
E concluse: «Padre, io son grato al tuo predecessore, quello del tuo vecchio libro, perché è riuscito a mettere fine per sempre a queste cose del nostro passato».
La sera era ormai scesa ed in meno di dieci minuti sarebbe stato buio.
Guardai ancora una volta i resti di quella capanna e pensai a quelle quattro righe del vecchio diario. Piccolo mistero, che ora, non è più mistero né per me né per voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Passaggio a Nord Ovest

Viaggio nell’ultima frontiera nord-americana

Comperata dalla Russia nel 1867 e dichiarata stato federale nel 1959, l’Alaska costituisce un quinto della superficie degli Stati Uniti, ma è il meno popolato. La ricchezza del sottosuolo e la sua posizione strategica ne ha fatto l’ultima frontiera della colonizzazione americana. Per la sua natura incontaminata è diventata un’attrazione turistica privilegiata e rifugio di americani in fuga dagli altri 48 stati dell’Unione (i cosiddetti lower 48). Ma anche questo angolo di paradiso sembra minacciato dall’avanzare del «progresso».

Siamo atterrati in Alaska dopo aver sorvolato Danimarca e Norvegia, nord della Groenlandia e  Polo nord. I dati del paese li conoscevo: superficie del territorio pari a quella di Inghilterra, Spagna, Francia e Italia messe insieme; sviluppo delle coste superiore a quello degli Usa… eppure la prima sensazione è quella di aver raggiunto una terra esagerata, che toglie il respiro e mette soggezione. Tutto ha una dimensione grandiosa, compresa Anchorage, città modea che ha decuplicato i suoi abitanti in 20 anni. Le montagne che la circondano, basse e bianche di neve, paiono lontane.
Noleggio una bici e faccio un giro in centro; passo davanti alla statua del capitano Cook, arrivato fin qui nel 1778 alla ricerca del mitico «passaggio a nord ovest»; percorro la pista che costeggia il mare: i cartelli avvertono di non avventurarsi sulla distesa fangosa lasciata dalle maree, che qui raggiungono il primato di 10 metri.
Siamo a metà maggio: nel parco le betulle e gli aspen hanno ancora poche gemme, ma tra pochi giorni avranno le loro tremule foglie e cambieranno il paesaggio. La gente non ha paura del vento e del freddo; corre e cammina anche sotto una leggera pioggia; i ragazzi girano in maniche corte; i piccoli vengono portati  in carrozzine chiuse, agganciate alle biciclette.
SILENZIO!
Dopo la prima guerra mondiale, le attrezzature usate per costruire il canale di Panama furono trasportate in Alaska per costruire le ferrovie. La più importante serve anche oggi per trasportare il migliore carbone del mondo, perché privo di zolfo e non inquinante, dal cuore del territorio al porto di Seward, dove viene imbarcato e spedito in Cile e in Corea.
Nei mesi estivi la linea, viene utilizzata dai turisti per spostarsi da Anchorage a Seward, attraverso paesaggi spettacolari di monti, laghi e ghiacciai.  La cittadina prende nome dal segretario di stato americano che, nel 1867, volle comprare l’Alaska dai russi, contro il parere di buona parte del mondo politico di allora.  
Sul treno siedo accanto a una famiglia di Anchorage in gita. I genitori sono originari di Sitka, l’antica città russa del sud est del territorio. Le tre bambine hanno nomi curiosi: Charity, Mercy, Marissa. Sul treno sale anche una classe elementare di Anchorage, guidata dalla maestra, che subito precisa di essersi felicemente trasferita dal New Jersey: «Le grandi città dei lower 48 sono invivibili». Un giudizio che sentirò ripetere spesso sui restanti stati americani, percepiti lontani, inquinati e troppo affollati.
Totalmente ricostruita dopo lo spaventoso terremoto del 1964, Seward è una cittadina di circa 4 mila abitanti, protetta da un profondo fiordo, circondata da monti bianchi di neve. Da qui si parte con il battello per raggiungere velocemente il mare aperto, tra isole rocciose, dove nidificano molte specie di uccelli. Incrociando orche e delfini, ci addentriamo in uno dei pochi fiordi già accessibili in questi ultimi giorni di primavera, per ammirare i ghiacciai che scendono in mare. Si spengono i motori; il mare brilla di mille blocchi traslucidi. Davanti allo spettacolo della natura vi è silenzio, emozione.
Ritornati in città, visitiamo il centro di ricerche biomarine. Tra le specialità della natura di questa parte del Pacifico, mi incuriosisce la storia di un pesce che riesce a sfuggire al sonar usato dalle modee navi da pesca; è forse grazie a questa sua specialità che sfugge alla minaccia di estinzione. La pesca effettuata negli ultimi anni, infatti, ha ridotto moltissimo la vita di questi mari un tempo pescosissimi, riducendo anche la presenza di uccelli e mammiferi marini che si nutrono di pesce.
Siamo ospiti di Margherite Christensen, una indigena aleutiana. Il villaggio dove è nata, sull’isola di Kodiak, fu totalmente distrutto dal terremoto del 1964. «Frequentavo la scuola elementare – racconta -. Udimmo il rombo della terra che tremava; il mare si ritirò e un’onda si chiuse sul villaggio». A Seward Margherite era arrivata per seguire i corsi di panetteria alla scuola professionale per i nativi americani. Ora non lavora, perché ha deciso di adottare una bimba e vuole occuparsene personalmente.
Il governo americano ha aiutato le comunità indigene a creare le proprie cornoperative; hanno costruito anche alberghi, che gestiscono con profitto, e amministrano i territori assegnati loro dallo stato come riserve, in ricompenso dell’immenso territorio loro sottratto, per lo sfruttamento del sottosuolo: petrolio, carbone, oro e altri minerali.
UNA VITA DIVERSA
Per passare all’altra parte della penisola Kenai non troviamo di meglio che un furgone per trasporto merci. Nostra compagna di viaggio è una ragazza diretta a Soldotna, dove ha trovato un lavoro estivo in un albergo. Shannon, questo è il suo nome, è decisamente obesa, come molte sue coetanee americane, e fatica persino a camminare.
Ho l’impressione che alla base ci siano problemi psicologici. La giovane è timida, ma riesco a farla parlare. «Ho venduto tutto – mi dice – e ho preso un biglietto di sola andata per Anchorage, senza sapere se avrei trovato un lavoro». A casa ha lasciato una scatola con alcuni oggetti e ricordi. Le chiedo dei suoi. «Mio padre? Non lo conosco; la mamma ha un boyfriend e non è mai a casa». Poi continua: «Terminata la scuola superiore, ho lavorato vicino a casa, in un locale sulla spiaggia dell’isola di Tybee. Sono venuta qui perché volevo cambiare, uscire da un posto divenuto stretto per me».
Molti altri giovani come lei, incontrati nel nostro viaggio, sono arrivati in Alaska con lo stesso sogno: costruirsi una vita diversa da quella che hanno lasciato, per lo più segnata dal dolore. Fergie, l’autista del furgone, è uno di essi. Capelli legati a coda, una vita disastrata alle spalle, è appena ritornato dalle isole Hawaii, dove ha tentato senza successo di stabilirsi. Oggi è il suo primo giorno di lavoro come autista.
La strada per Homer costeggia il Cook Inlet, attraversa un territorio di foreste con il terreno ghiacciato e duro; ma tra pochi giorni il disgelo creerà le condizioni di vita per le micidiali zanzare estive. Quando siamo nei pressi di Ninilchik, prego l’autista di fare una sosta fuori programma per visitare la bella chiesa russa. Il sole sta tramontando e restiamo in silenzio: lo sguardo spazia, al di là dell’immensa baia, sulle cime ghiacciate di una serie impressionante di vulcani.
Finalmente arriviamo a Homer, accolti nella casa di Kristal e suo marito.
OMBRE TROPPO LUNGHE
Questa mattina Homer registra la marea più bassa dell’anno. La gente è scesa a passeggiare sulla distesa umida di sabbia increspata, con i bambini e i cani, bellissimi, dal pelo lungo e bianco, la coda arrotolata. Le alghe sono lunghi nastri bruni, tra i rivoli d’acqua che si ritira. Nel cielo volano le aquile dalla testa bianca, tipiche di questa zona, così pure cicogne, stee artiche e gabbiani.
Homer non ha un vero centro cittadino, ma solo case sparse sul pendio boscoso, lungo la baia di Kachemak, vasto braccio di mare circondato da monti e numerosi ghiacciai. La gente che sceglie di venire in questo luogo è attratta dal clima, più mite che nel resto della penisola Kenai.
Trish, biologa marina, vi è arrivata 30 anni fa dal Tennessee per lavorare nelle industrie del pesce. Anno dopo anno ha visto il mare perdere la sua ricchezza a causa di una pesca indiscriminata. Dopo una grave malattia, ora che è in pensione, si sta costruendo una vera casa, accanto alla cabin che aveva nel bosco, per le vacanze.
Le cabins sono capanne di tronchi di legno, tipiche delle zone di frontiera, senza servizi interni, riscaldata da una stufa. «Finché c’erano i miei genitori, ritornavo una volta all’anno in Tennessee; ora mi è rimasta una sorella, che ha una famiglia numerosa, non la vedo da anni».
Visitiamo Seldovia, un antico insediamento russo di cacciatori di pelli, raggiungibile solo via mare. Quando l’Alaska fu acquistata dagli Usa, sorsero le fabbriche per il trattamento delle aringhe. Ora è tutto chiuso: le aringhe si sono estinte, così pure i famosi granchi della baia. Resta la pesca degli halibut, giganteschi pesci che raggiungono anche i 200 chili.
Il villaggio è un insieme di vecchie case di legno, con la chiesetta russa bianca e azzurra in posizione panoramica sulla baia e il porto, poche vetture e tutte d’epoca. Nei boschi vicini sono sorte le cabins per le vacanze di chi abita in città. Oggi sono arrivati alcuni proprietari per aprir casa e farsi un giro in barca a vela.
Sul traghetto di ritorno siamo accolti da una robusta signora in uniforme, dai capelli bianchi e le gote arrossate dal vento. Seduta a terra, apre la mappa e ci indica l’orario dei traghetti: vuole convincerci a ripartire in serata per le isole Aleutine. Una settimana di navigazione per arrivare nell’ultimo avamposto, un’isola priva di vegetazione, che durante la seconda guerra mondiale fu occupata dai giapponesi. Ringraziamo stupite per la calda accoglienza di questa gente di Alaska, ma dobbiamo rinunciare: non abbiamo il tempo né le forze per un simile viaggio.
Dispiace lasciare la casa di Kristal e suo marito, in cui abbiamo trovato veri amici. Abbiamo parlato a lungo di noi e dei nostri paesi. Anch’essi lasceranno Homer. Da poco hanno messo in vendita la bella casa, dove si erano trasferiti dal sud della Califoia alcuni anni fa, per restare accanto al figlio, rimasto vedovo dopo un incidente, e prendersi cura dei tre nipoti. Ora che i ragazzi sono cresciuti e studiano in un college a Seattle, hanno deciso di trasferirsi nello stato di Washington. «L’inverno in Alaska è troppo lungo e buio; comincia a pesarmi» Kristal confida, mentre con la sua auto mi porta a visitare un altro luogo interessante non lontano da Homer.
Si tratta di un insediamento di russi, conosciuti come «vecchi credenti». È domenica e sono vestiti a festa. Alcuni sono in coda a prendere i biglietti per fare un giro in giostra. Le bambine indossano vestiti lunghi e leggeri, di colore rosa e azzurro, come le mamme, e un velo sul capo, fermato da una tiara. Incuriosita, mi fermo per parlare con la gente, che si mostra molto riservata. Sono i discendenti di quei russi ortodossi che, nel 17° secolo si opposero alle riforme ecclesiastiche imposte dalla gerarchia ufficiale e per questo furono costretti a fuggire dal paese e rifugiarsi in Cina e Sud America. Dal Brasile si sono trasferiti negli Stati Uniti e ultimamente quassù, alla ricerca di un luogo pulito, lontano dai vizi delle grandi città. Pare però che i giovani siano attratti dalla modeità. Hanno scoperto l’alcornol e, la sera, vogliono divertirsi come gli altri americani.
C’È POSTO PER TUTTI
Negli ultimi decenni l’Alaska è diventata la nuova frontiera americana. Molte persone sono venute dalla Califoia, per fuggire dal traffico, crimine e sviluppo edilizio esagerato. Ma c’è gente che viene anche dagli stati per nulla congestionati, come Idaho, Montana, Dakota. La ragione è che in Alaska non si pagano le tasse statali; anzi, alla fine dell’anno, gli abitanti ricevono un bonus proveniente dallo sfruttamento petrolifero.
Inoltre, la breve estate turistica richiede molto personale stagionale, reclutato anche al di fuori degli Stati Uniti. Centinaia sono gli studenti provenienti dall’est europeo. Slavo, alla sua prima stagione, è uno dei 200 universitari croati arrivati da poco. La paga è minima, ma le mance sono generose; e poi, a fine stagione farà una crociera sulle navi del gruppo che gestisce i grandi alberghi del parco Denali.
Oltre alle 8 ore nel villaggio turistico, Slavo e i suoi amici lavorano anche nel ristorante della Roadhouse di Talkeetna, per cui le ore di riposo sono pochissime. D’altronde, a queste latitudini la luce diua dura molto e il cielo si oscura solo per 5 ore.
Talkeetna è il punto di partenza per scalare le cime del Mckinley, una impressionante montagna di ghiaccio di oltre 6.000 metri, che domina una regione di grandi fiumi a soli 300 sul livello del mare. Un gruppo di alpinisti belgi è appena ritornato alla base: due di essi hanno alcune dita delle mani congelate. Li incontro mentre si stanno rifocillando con i ricchi piatti della cucina della storica Roadhouse, avamposto dei pionieri dell’800, dove si fermavano le carovane di slitte trainate da cani.
Da pochi anni è proprietà di Trish Costello, una giovane signora di origine spagnola-irlandese, competente e appassionata: alle 4 del mattino è già in cucina a impastare il pane e preparare i pancakes. Trish è sempre in movimento: quando arrivano i primi avventori, organizza, prende le prenotazioni, assegna le camere, cucina, dando ordini a un certo numero di personaggi incredibili che si alternano ai fornelli. Tipica del gruppo è una giunonica ragazza in canotta e boxer colorati che spadella senza posa.
L’ambiente è più che familiare, come ai vecchi tempi: ai grandi tavoli si trova sempre posto, tutti insieme per potersi conoscere. Alle tre del pomeriggio la cucina chiude, ma si continua con le bevande, zuppe e dolci fatti in casa con i frutti di bosco.
Ma le poche camere in affitto a Talkeetna sono occupate. Dopo la prima sera dobbiamo spostarci dall’altra parte della strada, nella Casa dei 7 pini, gestita da una gentile, anziana vedova di Anchorage. «Era la casa che avevamo fatto per le vacanze con i nostri 4 figli – mi confida -; ora sono sposati e abitano lontano». Poi mi fa una proposta: «Se ti fermi e prendi in mano la gestione di questa casa, me ne vado al nord a trovare mio fratello». Mi dispiace rinunciare a questa occasione: questo paese è sorprendente, anche per le tante opportunità che può offrire persino a persone anziane.
Paradiso perduto?
Questo grande paese mi ha tolto il fiato, sin dal primo giorno. Sarà per la luce, che ti lascia riposare poche ore, o l’immensità dei panorami, con paesaggi dai ruvidi contrasti, orizzonti spogli di ogni orma umana, oppure per la prospettiva di trovarsi all’improvviso davanti un orso affamato.
I boschi sono scuri per l’abbondanza di pini spruce che a volte paiono cipressi, tanto sono sottili. Betulle e aspen hanno messo in questi giorni le prime foglie che, muovendosi, brillano e ingentiliscono i boschi. Le grandi felci si stanno schiudendo e tappezzano il sottobosco. 
Ma si parla molto di riscaldamento globale e del danno creato dagli aerei che passano sulla rotta polare. Sono chiamati in causa anche velivoli militari, che, dalle due grandi basi aree vicino ad Anchorage e Fairbancks compiono frequenti voli di ricognizione e addestramento. In Alaska, infatti, sono dislocati oltre 10 mila militari dell’aviazione e un corpo di marines. Durante il fine settimana i parchi sono affollati da gruppi di giovani rumorosi, robusti e allegri. Sono militari, tra i quali molte donne. «La posizione del paese è strategica: siamo più vicini al Giappone che a San Francisco, lo stretto che ci separa dalla Siberia russa è largo poco più di 80 miglia» afferma una coppia con in spalla due biondissimi bambini. «Abitiamo qui da due anni – dice la giovane mamma -; mio marito è militare, di stanza a Delta Junction, presso Fairbancks, una delle due grandi basi militari».
Il paradiso incontaminato forse non esiste più. I villaggi dei nativi stanno scivolando nell’Artico per lo scioglimento del permafrost, il terreno che fino a poco tempo fa rimaneva gelato tutto l’anno. Gli americani che cercavano un paese tranquillo ora si confrontano con le gang di asiatici che spacciano droga, non solo ad Anchorage, ma anche nei villaggi più remoti, dove il buio del lungo inverno accrescono l’isolamento e la paura. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




«La sola verità è amarsi»

30° anniversario della morte dell’apostolo dei malati di lebbra e della pace

Il 6 dicembre 1977, moriva a Parigi Raoul Follereau. Per 50 anni ha fatto udire fino alle più alte sfere nelle stanze dei bottoni la voce di chi non ha voce: i lebbrosi e tutti gli esclusi del mondo. Il suo esempio e il suo messaggio non possono essere dimenticati; oggi più che mai, c’è bisogno di continuare la sua lotta «contro tutte le lebbre»: egoismo, ignoranza, indifferenza, viltà.

C ome le più grandi avventure, anche quella di Raoul Follereau iniziò per caso.
Era il 1936 e stava attraversando il deserto del Sahara. Vi era andato già diverse volte, in veste di giornalista e di credente, per raccontare la vita di padre Charles de Foucauld. A un certo punto il radiatore della sua auto si mise a bollire e i passeggeri furono obbligati a una sosta per far raffreddare il motore. Fu allora che apparvero dei fantasmi d’uomini. Erano degli scheletri che si trascinavano a stento, lo sguardo pieno di paura. Follereau con il suo proverbiale impeto li chiamò, li invitò ad avvicinarsi, ma quelli si allontanarono e si nascosero.
Follereau si rivolse al suo accompagnatore. «Chi sono?» chiese. «Lebbrosi» rispose quello. E non seppe aggiungere altro, né spiegare perché vivessero da reietti, isolati da tutto e tutti.
«Quel giorno – raccontò anni dopo Follereau – capì che esisteva un crimine imperdonabile, degno di qualsiasi castigo, un crimine senza appelli e senza amnistia: la lebbra».
ORFANO A 13 ANNI
Un caso, abbiamo detto. Ma è proprio così? L’uomo di carità è colui che è attento alla sofferenza degli altri. Follereau era stato allenato dalla vita ad affinare questa speciale sensibilità.
La sua adolescenza fu stravolta dalla Grande guerra. Quando scoppiò il primo conflitto mondiale aveva appena 11 anni (era nato a Nevers nel 1903). Il padre venne chiamato alle armi. La piccola fabbrica di famiglia, che produceva attrezzi per l’agricoltura, dovette essere convertita in «industria bellica». Non c’era più spazio per i sogni e per i giochi. Anche Raoul, insieme al fratello maggiore, fu costretto a lavorare alle macchine per produrre proiettili. La scuola divenne un lusso; ma il ragazzo ostinato studiava la sera con l’aiuto di un anziano sacerdote.
Le ostilità sembravano non cessare più, infinito l’elenco dei morti. A casa si pregava perché fosse risparmiata la vita del proprio congiunto. Purtroppo non fu così. Nel 1917 avvenne ciò che tutti temevano: il soldato Follereau venne ucciso in battaglia nella Champagne. Raoul aveva 13 anni e adesso era uno dei 3 milioni di francesi resi orfani dalla guerra.
Il disastro bellico in Francia s’era sovrapposto a un altro conflitto, che riguardava questa volta le coscienze e bruciava negli animi più sensibili ai valori della religione cristiana. Nel 1905, con la cosiddetta legge Combes (dal primo ministro che l’aveva proposta, un ex seminarista divenuto massone), la Francia aveva dichiarato solennemente la separazione tra stato e chiesa. Gli edifici di culto vennero espropriati, gli ordini religiosi disciolti e costretti all’esilio.
Raoul, che aveva studiato presso i Fratelli delle scuole cristiane, sperimentò su di sé l’anticlericalismo. Nel 1920, agli esami per l’ingresso alla facoltà di filosofia, venne bocciato per due volte nonostante la sua dissertazione fosse tra le migliori. Ma non piacevano le tesi esposte e dunque… Dovettero intervenire le organizzazioni degli ex combattenti per difendere il figlio di un caduto in guerra. Il ministro dell’istruzione, per evitare lo scandalo, ammise d’ufficio Follereau alla Sorbona.
AVVOCATO, GIORNALISTA, POETA
Del resto, quel giovane era già una piccola personalità. Dall’età di 15 anni aveva scoperto la sua vena di comunicatore. La sua prima conferenza la tenne nel 1918 nel cinema della sua città, in occasione di una cerimonia per ricordare le vittime del conflitto mondiale. «Dio è amore», fu il titolo, lo stesso che 85 anni dopo verrà scelto da Benedetto xvi per l’enciclica iniziale del suo pontificato.
Follereau fu uno studente brillante, a 20 anni era già laureato in filosofia e diritto. Forse sentì già in sé la vocazione di difensore degli ultimi e di lottatore contro le ingiustizie. Scelse allora la strada dell’avvocatura, ma nello studio dove iniziò a lavorare la prima causa che gli affidarono fu quella per un divorzio. Sbatté subito contro il muro della propria coscienza e dovette trovare altri strumenti per portare avanti la sua battaglia.
L’occasione si presentò presto, sotto forma di un posto quale segretario di redazione del giornale parigino L’Intransigeant. L’ambito intellettuale e dell’informazione era in effetti quello più adatto a lui. Allargò presto i suoi impegni e nel 1927 fondò la «Lega dell’unione latina», un’organizzazione che si proponeva di difendere la civiltà cristiana contro tutti i «paganesimi» e le «barbarie».
Follereau aveva elaborato la sua esperienza giovanile: le divisioni intee alla Francia, il ripudio della tradizione e delle radici cristiane su cui pure si fondava la nazione; e poi, la tragedia bellica, generata da anacronistiche contrapposizioni tra le vecchie potenze dell’Europa. Da questo passato Follereau vedeva proiettare ombre sul futuro, che di lì a pochi anni avrebbero preso drammaticamente corpo.
Chi erano i nuovi barbari temuti dalla sua Lega, se non la triade con cui avrebbe fatto i conti tutto il xx secolo? Il germanismo, che sarebbe sfociato nella follia nazista; il bolscevismo, che avrebbe applicato la ricetta comunista sotto forma di feroce dittatura; e la corsa al denaro, che più avanti sarebbe divenuta quasi un’ideologia con il nome di consumismo, alimentata dalle ricette iperliberiste con al centro di tutto il mercato e la borsa.
Per far circolare le idee del suo movimento fondò un mensile, L’Opera Latina, dove diede molto spazio ai poeti. Era poeta egli stesso, una sua lirica fu apprezzata da Gabriele D’Annunzio, che lo volle incontrare. L’anima poetica di Follereau fece la sua parte negli appelli ai grandi della terra e ai giovani che furono i «capolavori» della maturità. Follereau era un vulcano: giornalista, drammaturgo, conferenziere…
VIAGGI  E INCONTRI STRAORDINARI
E intanto viaggiava all’estero, si recava in ogni luogo dove poteva esserci un’impronta francese o latina. Nel 1929 il ministero della Pubblica Istruzione, forse per «risarcirlo» della discriminazione che aveva subito anni prima agli esami di ammissione universitaria, gli affidò una ricerca sull’influsso culturale francese in America del Sud. Nel suo rapporto scrisse di aver trovato dovunque i religiosi e le religiose francesi, gli stessi che erano stati cacciati dal proprio paese a causa delle leggi del ‘905. Questi connazionali avevano fondato scuole, collegi, università. Erano loro i migliori ambasciatori della patria che li aveva rifiutati.  Chi aveva incaricato Follereau della missione si aspettava certo altre conclusioni…
Durante quel viaggio il giornale argentino La Nacion gli affidò un reportage su de Foucauld. Il piccolo fratello del deserto non poteva non attirare Follereau, che tra il ’30 e il ’36 fece la spola tra l’America Latina e il Sahara.
Fratel Charles era stato un viveur impenitente e un ufficiale avventuroso prima di farsi conquistare da Gesù. Non dall’immagine potente del Figlio di Dio, ma da quella ordinaria del figlio del falegname, che vive la sua vita nascosta nella piccola Nazareth. Un incontro che gli cambiò l’esistenza e lo condusse infine nel Sahara algerino, al seguito delle truppe francesi. Follereau vide proiettata in questa avventura umana tutto il suo ideale di una Francia capace di espandere la civiltà cristiana, non con la forza economica e delle armi ma con la fedeltà all’amore di Dio.
L’umiltà eroica di Charles de Foucauld, che adorava il Santissimo nel silenzioso eremo di Tamanrasset e lì, il primo dicembre del 1916, venne ucciso da un tuareg, era l’esempio di chi offre la propria vita senza chiedere nulla in cambio. Sapendo, però, che in quell’oblazione sta il «di più» che fa grande la fede e conquista i cuori.
Dunque, Follereau a 33 anni era già tutto questo, quando il «caso» fece sì che la sua auto restasse in panne nei pressi di un accampamento di lebbrosi. Una visione che non lo avrebbe più abbandonato, sebbene costretto ancora ad occuparsi d’altro.
La storia incalzava. Scrisse un libretto dal titolo «Hitler, volto dell’Anticristo» si recò in Italia e Romania per convincere queste nazioni – che la latinità rendeva sorelle della Francia – a non schierarsi con la Germania nazista. Incontrò anche Mussolini, incuriosito dal fiocco che Follereau indossava a mo’ di cravatta più che dalle idee dell’interlocutore. Quella strana cravatta, disse Follereau, è il segno di una differenza e della libertà individuale. Il duce si limitò a sorridere.
Nel 1939, allo scoppio della guerra, fu destinato al servizio degli ascolti telefonici. Follereau, in altre parole, divenne una sorta di 007 e fu testimone diretto del drammatico precipitare degli eventi inteazionali. L’anno dopo si trovò a Vichy, quando nacque il governo collaborazionista del maresciallo Pétain. Rifiutò ogni incarico e si rifugiò a St. Etienne, continuando la sua personale battaglia fatta di incontri e di discorsi. Tra il ’40 e il ’42 girò la Francia in lungo e in largo per ridare orgoglio e fiducia ai connazionali avviliti dall’occupazione straniera, mentre collaborò discretamente con l’esercito clandestino.
«IL VAGABONDO
DELLA CARITà»
Tra tanto girovagare, nel novembre del ’42, mentre nel mondo infuriava la guerra, Follereau incontrò una suora bergamasca, Eugenia Elisabetta Ravasio, che era divenuta giovanissima madre generale delle Suore missionarie di Nostra Signora degli apostoli. La religiosa era appena tornata da un viaggio in Africa, dove s’era imbattuta in orde di hanseniani, costretti a vivere nell’isolamento e nell’abbandono più completi. Madre Eugenia voleva costruire per loro un piccolo villaggio nella foresta, dove ognuno avrebbe potuto disporre di un capanno con un orto e delle cure sanitarie.
In Follereau si materializzò l’immagine di sei anni prima: l’incontro casuale coi lebbrosi nel Sahara, il loro destino di perenni fuggiaschi. Il progetto della suora lo conquistò e si buttò a capofitto nell’impresa di trasformarlo da sogno in realtà. Iniziò subito un giro di conferenze e una raccolta di fondi.
Il primo appuntamento fu ad Annecy il 15 aprile del ’43 e sembrò surreale l’iniziativa a favore dei lebbrosi tra le macerie dei bombardamenti, in una nazione e in un continente devastati dal conflitto bellico. «Ma la lebbra ormai mi aveva preso – raccontò più tardi Follereau -, ero il suo felice prigioniero». Il luogo per far sorgere il villaggio dei lebbrosi fu individuato in Costa d’Avorio, in una località chiamata Azoptè.
Per 10 anni Follereau, insieme a due suore, girò per le strade di Francia, Belgio, Svizzera, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco, Canada. Tenne 1.200 conferenze e divenne il «vagabondo della carità», «l’apostolo dei lebbrosi». Montagne di corrispondenza giunsero al suo indirizzo. Malati, medici, missionari gli raccontarono storie, drammi, speranze. E tutti dissero che non c’era solo Azoptè, che erano tanti e tanti – milioni – i lebbrosi da salvare dal peggiore effetto della malattia: il pregiudizio.
L’impegno a favore dei lebbrosi divenne un fiume in piena, sempre più impetuoso e inarrestabile. Non ci fu più spazio per altri mestieri, prese corpo l’idea di una fondazione che incanalasse il lavoro svolto in così tanti luoghi. Il campo d’azione divenne il mondo.  Follereau passò dall’Africa all’Asia, all’America Latina. Le sue conferenze divennero incalzanti, la sua oratoria proverbiale. Mirava al cuore degli ascoltatori, metteva a nudo l’indifferenza, la tiepidezza della maggioranza fortunata dell’umanità verso gli ultimi e gli esclusi. Coniò il suo famoso slogan: «Nessuno ha diritto d’essere felice da solo». Ecco, Follereau non voleva essere solo, voleva condividere giornie e dolori. Anche nella sua vita privata.
A 15 anni appena, s’era fidanzato con Madeleine, che a 21 sarebbe divenuta sua moglie. Madeleine fu per sempre la sua spalla. Lo sostenne nei momenti di difficoltà, quando l’attività vulcanica del marito non si conciliava con il conto della spesa; lo affiancò nei viaggi avventurosi, perfino a rischio della vita, quando piegata da una crisi di appendicite si trattò di accamparsi in Bolivia negli sperduti villaggi degli indios o di risalire il Rio delle Amazzoni con una canoa mezza rotta, tra nugoli di zanzare e frotte di caimani affamati. «La più grande fortuna della mia vita fu mia moglie», disse ormai anziano Raoul e aggiunse: «Solo quando si è in due si è invincibili».
«INSEGNARE DI NUOVO    AGLI UOMINI AD AMARSI»
Follereau non era un don Chisciotte. Credeva nell’utopia, ma non confondeva le pale di un mulino a vento col gigante da abbattere. La sua strategia solo a prima vista poteva apparire ingenua, in realtà puntava a moltiplicare il coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle istituzioni in un gioco di causa-effetto che allargava il raggio d’azione e d’influenza a cerchi concentrici.
In questo senso il 1952 fu un anno fondamentale. Mentre la scienza medica annunciava la possibilità di curare la lebbra con i sulfoni, Follereau si rivolgeva alle Nazioni Unite. «Per molti paesi – scrisse – la lebbra rimane una malattia vergognosa: si nascondono i lebbrosi, si dissimulano, si interrano, nelle famiglie come nelle nazioni». La sua era ancora una voce isolata, ma comunque la voce di un testimone autorevole che nessuno poteva far finta di non sentire. Egli stesso ne era consapevole e l’anno successivo alzò il tiro creando la Giornata mondiale dei malati di lebbra.
Due gli scopi essenziali: garantire agli hanseniani trattamenti e cure come tutti gli altri malati; guarire i sani dalla paura ancestrale verso la lebbra.
Dal 1953 a oggi la Giornata si è sempre tenuta l’ultima domenica di gennaio e anche i pontefici non hanno mai mancato di unirsi all’appello alla solidarietà verso le persone affette dal morbo di Hansen.
Follereau ricordò spesso i suoi incontri con i papi, a cominciare da quello che ebbe a Castel Gandolfo con Pio xii: «Quando gli esposi tutte le miserie, le crudeltà, il dolore, l’eroismo di cui ero stato testimone, quando ebbi terminato questa arringa che era quasi una preghiera, ci fu nello studio del papa un grande silenzio,  limpido, assoluto. La voce del papa riprese, con un tono del tutto mutato: “Sì – mi disse -, sì, quello che serve è insegnare di nuovo agli uomini ad amarsi”».
APOSTOLO DELLA PACE
In un certo senso Follereau fu un antesignano della globalizzazione. Di fronte a un problema planetario, anche la lotta deve essere condotta sulla stessa scala. Aveva ben chiaro che il destino dell’umanità era legato a un unico filo. L’esperienza della seconda guerra mondiale e l’ingresso nell’era atomica non avevano fatto altro che rafforzarlo in questa idea.
Nel 1948, in una sorta di manifesto dal titolo «Bomba atomica o carità», profeticamente affermava: «Non c’è più posto per coloro che tergiversano o temporeggiano. Oggi bisogna scegliere, subito e per sempre. O gli uomini impareranno ad amarsi, a comprendersi, e l’uomo finalmente vivrà per l’uomo, o spariranno, tutti e tutti insieme». 
Già nel 1944 aveva scritto al presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, chiedendo che l’equivalente dei costi di un giorno di guerra fossero destinati alla ricostruzione e alla pace. Ma gli accordi di Yalta sancirono l’inizio della «guerra fredda» e così, 10 anni dopo, Follereau inviò un’altra lettera, stavolta sia al presidente americano Eisenhower che a quello sovietico Malenkov. Si rivolgeva ai due grandi in modo apparentemente naïf, mettendo alla berlina le contraddizioni della corsa bellica tra superpotenze. Chiedeva a ciascuno dei due destinatari un aereo da bombardamento: «Perché ho calcolato che, con il prezzo dei due vostri aerei di morte, si potrebbero curare tutti i lebbrosi del mondo. Un aereo in meno in ogni campo non modificherà l’equilibrio delle vostre forze. Voi potrete continuare a dormire tranquilli e io dormirò meglio».
Naturalmente nessuno gli rispose, ma intanto cresceva tra i popoli la consapevolezza del problema. E Follereau faceva di tutto per alimentare il fuoco delle coscienze.
L’anno dopo, era il 1955, indirizzò una lettera aperta ai «Nostri Signori della Guerra e della Pace». Il tono adesso ricordava quello dei profeti biblici: «Forse che voi non troverete mai per guarire i poveri, per nutrirli, per allevarli, la millesima parte di ciò che avete sacrificato per lunghi anni per uccidere, per odiare, per distruggere? Questa domanda è l’uomo, ciascun uomo di ogni popolo che ve la pone. Che rimaniate o no silenziosi, egli si rallegrerà della vostra iniziativa o constaterà la vostra indifferenza: in ogni caso, non sfuggirete al suo giudizio».
Nel ’64 Follereau affinò la sua tecnica di comunicazione globale. Inviò una lettera al segretario generale dell’Onu, Sithu U Thant, ribadendo la sua richiesta di destinare «un giorno di guerra per la pace» e poi chiese il sostegno della gioventù di tutto il mondo. Ai ragazzi compresi tra i 14 e i 20 anni vennero distribuite cartoline da inviare a U Thant in cui si dichiarava di far proprio l’appello di Raoul Follereau. Alla fine furono 3 milioni quelle che arrivarono al Palazzo di vetro di New York, spedite da 125 paesi di tutti i continenti.
Con i giovani Follereau riuscì a creare un feeling speciale. Tra tanti adulti incapaci di comprendere i loro sogni, i giovani scoprivano un vecchio che parlava come loro di grandi ideali da realizzare. Ad essi si rivolse nella sua ultima conferenza: «Il mondo di domani sarà come voi lo farete. Avrà il vostro viso e la vostra dimensione. Costruite una cattedrale e che sia il rifugio di tutto ciò che vi è di pulito, di schietto, di onesto e di giornioso nel cuore dell’uomo. Non crediate che il mondo sia perduto: non è vero. Stiamo attraversando un brutto momento, ci troviamo in un tunnel, ma i miei vecchi occhi riescono ancora a vedere in fondo la luce verso cui stiamo andando».

I l piccolo francese di Nevers era divenuto un megafono gigantesco, che come nessun altro prima era riuscito a far salire in alto, alle stanze dei bottoni, la voce di chi non aveva voce. Continuò fino all’ultimo a fare il globe trotter per i suoi lebbrosi e per tutti i poveri, fino alla sua morte avvenuta a Parigi il 6 dicembre 1977.
La sua opera «contro tutte le lebbre» prosegue attraverso la Fondazione internazionale che porta il suo nome e che è presente in mezzo mondo con una rete di associazioni di volontariato. Per Follereau valgono i versi di Jacques Prévert:
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo.

Di Enzo Romeo

Enzo Romeo




Missione compiuta

Un «necrologio» appassionato

Il 29 giugno scorso, con la benedizione del vescovo ausiliare di Westminster e vari discorsi di circostanza ha chiuso i battenti il Missionary Institute di Londra. Iniziativa unica nel suo genere, per quasi quarant’anni il MIL ha continuato a ripetere profeticamente ciò che oggi appare sempre più evidente e necessario: la missione bisogna imparare a farla e a viverla insieme.

Scrivendo queste poche righe di «commemorazione» per il Missionary Institute London (MIL), mi rendo conto di ubbidire essenzialmente a un’esigenza personale: considerare ancora viva e importante un’esperienza di formazione che ha occupato quattro irripetibili anni della mia vita come missionario della Consolata. Penso anche – anzi, ne sono quasi sicuro – di interpretare il sentimento dei tanti confratelli, ora sparsi a servire il Regno di Dio nei quattro angoli della terra, che al MIL hanno studiato o insegnato, alimentando uno scambio di sapere che per 40 anni ha contribuito a tenere in piedi un’istituzione unica nel suo genere, esempio di collaborazione e condivisione fra forze missionarie e laboratorio di evangelizzazione per futuri agenti della missione. Un tempo breve e intenso, giunto al suo termine il 29 giugno scorso quando una toccante cerimonia di commiato ne ha decretato il precoce pensionamento.
Oggi il MIL non c’è più. I suoi locali hanno chiuso e saranno presto riconvertiti in qualcosa di differente. «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo», scriveva l’autore del libro dell’Ecclesiaste, frase che ben si adatta allo spirito missionario, fatto di dinamismo e continue ripartenze. Sono spariti i contorni della campagna inglese che ne facevano da coice,  ma resta attuale l’ideale che aveva portato alla fondazione di questa «università della missione», un ideale che continua a vivere in altre istituzioni che da questa esperienza hanno tratto ispirazione e che in altre parti del mondo ne continuano a trasmettere il messaggio.
Ci si conosceva tutti al MIL;  innanzi tutto perché si era in pochi: circa 150 studenti provenienti di volta in volta da una trentina di paesi diversi. Ma anche perché, al di là dell’impegno accademico, molte erano le occasioni di aggregazione fra studenti, insegnanti e staff. Fra queste ultime spiccavano i 30 minuti di intervallo, curiosamente previsti dopo la prima ora di lezione, in cui si aveva modo di socializzare, parlare del più e del meno o terminare, allargando la platea dei partecipanti, la discussione di classe che la fine dell’ora aveva lasciato in sospeso. Mezzora in cui si creava un ambiente propizio allo scambio, all’integrazione e al dialogo. L’atmosfera del MIL, che tutti ricordano e apprezzarono, era il frutto di una scelta ben precisa: dar vita a un esperimento di collaborazione e comunione fra forze missionarie come strumento imprescindibile della missione evangelizzatrice della chiesa. Il MIL, infatti, è stato frutto dello sforzo congiunto di sette istituti missionari (Missionari d’Africa, di Mill Hill, della Consolata, Comboniani, dello Spirito Santo, della Società per le Missioni Africane e del Verbo Divino) che, per rispondere all’esigenza di offrire ai propri studenti una formazione in linea con il loro carisma, si sono riuniti in consorzio dando vita a un ateneo orientato interamente alla missione.

LE RADICI

Vari motivi di differente natura hanno concorso, verso la metà degli anni ’60, alla fondazione della nuova istituzione accademica. La prima ragione era di ordine essenzialmente pratico. In quel periodo, infatti, esistevano a poca distanza l’uno dall’altro due grossi seminari appartenenti ad altrettante congregazioni missionarie: la Società di San Giuseppe per le missioni estere (Mill Hill Missionaries) e i Missionari d’Africa, altrimenti conosciuti come Padri Bianchi. I primi, di fondazione locale, avevano la loro Casa madre e seminario nell’imponente struttura del St. Joseph College, dominante la zona di Mill Hill, nella parte settentrionale di Londra. I secondi, avevano invece acquistato, nel 1958, i locali e il terreno dell’ ex-orfanotrofio di St. Edwards, nella confinante area di Totteridge, con l’intenzione di trasformarlo in un seminario e centro di studi per i loro studenti.
È stata la collaborazione iniziale di queste due istituzioni, fatta di scambi di locali e di personale docente, che ha fatto scaturire l’idea di fondare una scuola di teologia dove la missione potesse permeare tutte le aree della formazione accademica.  Un’esigenza, questa, avvertita anche da altri istituti missionari che, poco alla volta, si unirono con entusiasmo all’iniziativa.
C’è, però, una seconda ragione più profonda e più prettamente teologica che portò all’inizio di questa nuova apertura accademica che si concretizzò, finalmente, nella fondazione del Missionary Institute. Nel 1965, a conclusione del Concilio Vaticano II venne pubblicato il decreto Ad Gentes, sull’attività missionaria della chiesa. Il documento, guardando alla vastità dell’opera missionaria da compiere, mise l’accento sulle nuove sfide della missione e, in modo speciale, sulla responsabilità della chiesa locale nel lavoro di evangelizzazione. Il documento auspicava che detto lavoro venisse portato avanti da persone adeguatamente formate e capaci di investire risorse nello studio teologico, filosofico e culturale delle chiese da evangelizzare. Il documento, inoltre, invitava tutti gli agenti della missione ad utilizzare al meglio le risorse umane e materiali disponibili, promuovendo  sforzi congiunti che dovevano portare alla costituzione di opere e strumenti comuni al servizio dell’evangelizzazione. In modo particolare, si evidenziavano alcuni ambiti di azione, quali quello accademico, pastorale-catechetico e di comunicazione sociale.
Ai primi tentativi avviati dalle due sopraccitate congregazioni, che porterà nel settembre del 1967 a dar vita a un unico programma accademico, seguirà la partecipazione degli altri istituti che progressivamente si insedieranno nella zona e offriranno studenti e personale docente alla nuova iniziativa. Nel 1968, con l’approvazione ufficiale della «Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles» e della «Sacra congregazione per l’evangelizzazione dei popoli» nasce ufficialmente il Missionary Institute of London a cui, attraverso la «Sacra congregazione per l’educazione cattolica» verrà dato il potere di conferire diplomi e certificati accademici.
A partire dall’anno accademico 1972-1973, il MIL si affilia e inizia un lungo rapporto di collaborazione con l’Università di Lovanio, in Belgio, una delle più antiche e prestigiose università cattoliche del mondo. È grazie a questo accordo che gli studenti del Missionary Institute possono accedere al programma di «Baccalaureato in Sacra Teologia» e, in seguito, al titolo di «Master in Scienze Religiose».
Nel 1994, infine, il MIL ottiene l’affiliazione alla Middlesex University di Londra, un ateneo di recente costituzione che aveva avuto uno sviluppo rapido e costante nel mondo accademico britannico. Tra le sue iniziative più interessanti poteva vantare un prestigioso istituto di filosofia e di studi religiosi. L’impegno con la Middlesex permise al MIL quel collegamento con il mondo universitario inglese che ancora gli mancava per poter attirare fra le sue fila un numero maggiore di studenti laici. Frutto di quell’accordo fu l’istituzione di corsi triennali per il conseguimento di una laurea breve in missiologia e, soprattutto, un programma di studi superiori (master) in varie aree della missione quali giustizia e pace, etica e società, evangelizzazione e spiritualità missionaria. La partecipazione a questi programmi di specializzazione di studenti con una significativa esperienza missionaria alle spalle ha garantito al MIL un apprezzamento incondizionato del mondo accademico ed ecclesiastico inglese.

UNO STILE DIFFERENTE

Uno dei problemi più sentiti dalla nuova istituzione fu, da subito, quello di garantire un certo equilibrio fra una formazione accademica tradizionale, che rispondesse ai requisiti obbligatori che qualsiasi università pontificia richiede ai candidati al sacerdozio, e il carattere squisitamente missionario che si voleva dare ai corsi del MIL. L’ideale perseguito è sempre stato quello di fare della missione il «minimo comun denominatore» dell’intera formazione accademica.  Da un lato si ebbe cura di introdurre nel piano di studi corsi, sia fondamentali che elettivi, di natura spiccatamente missionaria, quali: teologia della missione, antropologia culturale e sociale, etnologia, teologia delle religioni, islamismo, religioni tradizionali africane, economia e sviluppo nel mondo contemporaneo. Dall’altro, e ben più importante, si cercò di dare a tutto l’insegnamento accademico, soprattutto ai corsi fondamentali (teologia sistematica, Sacra Scrittura, liturgia) un taglio particolare che fosse spiccatamente orientato alla missione, cercando di superare la tendenza a «occidentalizzare» troppo lo stile dell’insegnamento. Questo secondo obbiettivo, a onor del vero, non sempre è stato raggiunto in maniera sufficiente. Ci si è dovuti accontentare della sensibilità missionaria e della voglia di condividere l’esperienza maturata sul campo di alcuni insegnanti, nonché del contributo offerto dagli studenti (spesso attraverso le loro domande interessate) che avevano avuto una qualche esperienza di missione come parte del loro cammino formativo.  Soltanto verso la fine degli anni ’80 il MIL iniziò a ricevere insegnanti provenienti da paesi del Sud del mondo disposti a dare un insegnamento ad ampio raggio che fosse in grado di tener conto della voce e delle teologie del Terzo Mondo. Il primo in assoluto fu un missionario della Consolata, il mozambicano padre Felipe Couto, successivamente rettore dell’Università cattolica del Mozambico e attualmente rettore dell’Università nazionale di Maputo.
Sempre a quel tempo risale l’iniziativa di invitare docenti di importanti centri accademici del Sud del mondo affinché condividessero i frutti delle loro ricerche con studenti e colleghi del MIL.
Grande attenzione venne anche posta sulla dimensione pastorale della missione. Sebbene gli aspetti formativi fossero lasciati ai singoli seminari, uno degli obbiettivi fondamentali del MIL  è sempre stato quello di garantire ai propri studenti la possibilità di integrare in maniera costruttiva l’ambito accademico con quello più squisitamente pastorale, con una spiccata preferenza per l’approccio contestuale tipico delle teologie emergenti nel Sud del mondo.  Molti corsi erano costruiti come veri e propri seminari in modo da poter raccogliere l’esperienza diretta degli studenti, facendola diventare così parte integrante della materia insegnata. Per esempio, la tesi finale del Diploma in missiologia, conferito attraverso il MIL dalla Middlesex University era volutamente impostata come un lavoro di sintesi basato su un’esperienza pastorale continuativa e significativa di almeno due anni. Guidato da un tutor scelto fra il personale docente e da un responsabile della struttura dove svolgeva il suo servizio pastorale, lo studente veniva invitato a riflettere teologicamente su un contesto ben preciso di cui doveva descrivere dettagliatamente le caratteristiche e sottolineare pregi e difetti del lavoro pastorale che veniva svolto. La seguente lettura biblico-teologica doveva poi guidarlo a suggerire linee d’azione più efficaci e nuove prospettive. In questo modo, lo studente non solo «studiava» teologia ma, cosa ben più importante, imparava a «fare» teologia. Grazie a questo approccio, impostato sul metodo del «vedere-giudicare-agire», molti responsabili di varie istituzioni caritative o pastorali hanno trovato il modo di poter analizzare e rinnovare le loro politiche di intervento sul territorio e sulle persone.
A questo riguardo, Londra ha rappresentato un terreno ricco di opportunità: il suo carattere di metropoli multietnica ha sempre favorito innumerevoli possibilità di lavoro pastorale significativo: tra i migranti, i senza fissa dimora, i carcerati, i malati di Aids. In svariate occasioni è stato possibile collaborare con organizzazioni non governative operanti nei settori della cooperazione e di giustizia e pace. Molte parrocchie si sono avvalse della presenza degli studenti del MIL che, oltre ad offrire il loro contributo nelle varie attività, hanno rappresentato una voce critica e, attraverso le loro ricerche, hanno fornito dati utili per meglio impostare il lavoro di evangelizzazione e assistenza caritativa. Inoltre, grazie alla presenza sul territorio di una maggioranza di persone di fede anglicana e di moltissimi cristiani di altre denominazioni, Londra si è sempre rivelata un palcoscenico unico per quanto riguarda il dialogo ecumenico e interreligioso.
Di tutta questa abbondanza il MIL si è arricchito, creando con la città un proficuo scambio di sapere. Dalla realtà si auspicava prendesse spunto la ricerca; dalla ricerca si attingevano gli strumenti per una missione efficace e consapevole della realtà.
Dal 29 di giugno tutto questo non esiste più. Motivi di varia natura hanno portato gli istituti missionari che più avevano investito nell’iniziativa in termini di studenti e personale docente a ritirarsi progressivamente sino a chiudere con questa esperienza. Dopo l’affiliazione con la Middlesex University erano state manifestate alcune difficoltà incontrate a livello di programmi accademici e di orari poco compatibili con la routine di un seminario. Ma le ragioni principali sono state economiche (Londra è purtroppo una città molto cara per mantenere una comunità di seminaristi) e formative (la maggioranza dei candidati di tutte le congregazioni viene ormai da paesi del Sud del mondo e si ritiene più opportuno investire in strutture accademiche più vicine alla terra d’origine). A queste difficoltà, purtroppo, non ha fatto riscontro la sperata partecipazione dei laici, accorsi in numero inferiore alle attese e insufficiente a coprire i costi di gestione dell’università.
La storia del MIL continua a vivere in altre esperienze. Oggi, per esempio, il Tangaza College di Nairobi (un’iniziativa congiunta di vari istituti missionari)  continua a sostenere l’idea fondamentale che la missione attuale o la si fa insieme o non riesce a trovare le forze sufficienti per poter avere un impatto significativo sulla realtà. Al Missionary Institute questo sogno è stato inseguito con tutte le forze. Accademicamente, si è cercato di promuovere un lavoro interdisciplinare di insieme, fatto con la partecipazione e grazie all’esperienza di tutti. A livello di aggregazione si è cercato insistentemente di favorire tutte quelle attività che potessero unire, approfittando della ricchezza umana e culturale di ciascuno: dalle celebrazioni liturgiche ad avvenimenti sportivi, culturali e di festa.
Sarò forse apologetico e certamente di parte, ma mi sembra che, dando uno sguardo alla complessità del mondo attuale e della missione che ad esso si rivolge, la strada imboccata dal MIL è quella da continuare a perseguire. 

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Tutta un’altra storia

Preti d’America, alla scoperta di esistenze ed idee

L’Argentina non è soltanto terra d’immigrazione. Come negli altri paesi delle Americhe, anche qui ci sono popoli autoctoni, antecedenti la conquista bianca. I più noti sono i Mapuche (anche per la lunga disputa con Benetton), ma le popolazioni indigene sono una ventina. Ne abbiamo parlato con padre José Auletta, missionario italiano, che da 30 anni lotta al loro fianco.

Buenos Aires. Piccolo ed occhialuto, di prim’acchito sembra più un professore di liceo che un difensore dei diritti civili. Invece, ancora una volta, l’apparenza inganna. Lui è padre Auletta, missionario della Consolata, in Argentina dal 1976. Di nome farebbe Giuseppe, ma per tutti ormai è José. Lo incontriamo a Buenos Aires, dove si trova di passaggio. Il suo lavoro è infatti nelle lontane province del Nord, dove la vita è molto diversa da quella della capitale, metropoli in cui il fascino della città si scontra con il degrado delle immense periferie (villas miserias).

In questa sua lunghissima permanenza in Argentina (30 anni sono molti), lei ha sempre preferito lavorare con le popolazioni indigene di questo paese. Una prima domanda potrebbe allora essere la seguente. Rispetto ad altri paesi dell’America Latina, per esempio la confinante Bolivia o lo stesso Perù, le popolazioni indigene dell’Argentina sono decisamente minoritarie. Non soltanto come numero, ma anche come visibilità. È così?

«Sopravvive l’idea che l’Argentina abbia pochi popoli indigeni. In realtà, in questo momento si ritiene che siano presenti da 500 mila ad 1 milione di indigeni di diversi gruppi etnici, dal nord al sud dell’Argentina».

Che non sono pochi rispetto alla popolazione dell’Argentina, che non arriva a 37 milioni di abitanti…

«Non sono pochi, soprattutto se si tiene conto che, fino a non molto tempo fa, si credeva che in Argentina non ci fossero indigeni…».

Addirittura…

«Sì, e non solo tra la gente comune ma anche nell’ ambito della chiesa. Non sono pochi i vescovi che hanno scoperto solo ultimamente gli indigeni dell’Argentina».

Ho visto un bel manifesto di Endepa. Ci può parlare di questa organizzazione?

«L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) è nata più 20 anni fa come un organismo dipendente dalla Commissione episcopale di pastorale aborigena (Cepa). Il momento forse più importante si è avuto nell’anno 1994, in occasione della riforma della costituzione nazionale che risaliva al 1853. In quell’occasione, la presenza nella costituente di rappresentanti dei popoli indigeni fu elemento decisivo affinché venissero riconosciuti i loro diritti, soprattutto quando nessuno se lo aspettava. Dopo quel riconoscimento oggi si può parlare dell’esistenza di 20 gruppi etnici in Argentina».

Questi gruppi etnici dove sono dislocati principalmente?

«In buona parte delle province, da Nord a Sud, dalla Patagonia a Salta. Cominciando dal Sud, incontriamo i Mapuches (Neuquen, Rio Negro, Santa Cruz); i Wichis a Formosa; i Guaranies a Misiones; i Tobas nel Chaco; gli Ona, i Kolla, i Tehuelche, i Quilmes…».

Quilmes è una famosa marca di birra, è una città della Gran Buenos Aires…

«Ma è soprattutto il nome di un popolo indigeno. Anzi, è il nome del popolo indigeno che più ha sofferto nella storia dell’Argentina… Dopo essere stati sconfitti dai conquistatori spagnoli (1666), tutta la comunità fu deportata nella provincia di Buenos Aires, a 1.500 chilometri da Tucumán, suo luogo natale».

Dallo sterminio al riconoscimento del 1994

In generale, c’è una condizione particolare che caratterizza tutte queste popolazioni indigene dell’Argentina? Voglio dire: sono sempre state, come sembra dalle sue parole, popolazioni umiliate oppure questo, qui in Argentina, non è accaduto?

«Basta un esempio: la famosa “conquista del deserto” (1875-1884), portata avanti con piena coscienza dallo stato attraverso il generale Julio A. Roca, che tendeva semplicemente a sterminare gli indigeni per fare posto agli emigranti che arrivavano da altri paesi, dall’Europa in particolare. Quindi, c’è stata una lunga storia di ingiustizia verso questi popoli indigeni. Addirittura, se analizziamo l’articolo dove si parlava di indigeni, non c’è niente di lusinghiero. La costituzione affermava infatti che bisognava…».

Mi scusi, padre, stiamo parlando della costituzione del 1853?

«Sì, quella prima della riforma. Essa diceva che bisognava difendersi dagli indigeni, quasi fossero il nemico numero uno dello stato. E, per coronare il tutto, convertirli al cattolicesimo. Una contraddizione tremenda».

«Convertirli al cattolicesimo…» Posso scrivere proprio così?

«Lo può scrivere, perché proprio questo diceva quella Costituzione…».

Per fortuna, la revisione costituzionale del 1994 ha introdotto l’articolo 75…

«Sì. È un articolo veramente completo: riconosce la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini, rispetto alla stessa formazione dello stato nazionale; riconosce i diritti alla proprietà comunitaria delle terre che storicamente occupano; riconosce il diritto alla propria organizzazione e all’insegnamento delle proprie lingue, il diritto ad essere informati su questioni che li interessano direttamente. Questo è l’articolo n. 75 comma 17 della Costituzione del 1994».

La terra: un diritto per pochi?

Torniamo alle sue esperienze. In precedenza, ha detto di aver lavorato molti anni con gli indigeni tobas. Che tipo di esperienza fu?

«Arrivai a Machagai, nel Chaco, alla fine dell’anno 1983, quando ricominciava la democrazia in Argentina. Il territorio della mia parrocchia aveva una configurazione molto ricca, nella quale appariva evidente la realtà indigena, come nella vicina Colonia Aborigen Chaco. Terminato il mio servizio di parroco, chiesi all’istituto di vivere direttamente nella stessa comunità. Non fu facile, ma, mi fu concesso. Nel maggio 1991 cominciai la nuova esperienza fino all’ottobre del 2000, vivendo lì prima da solo, poi con l’aiuto di un confratello e alla fine con le suore della Consolata. Si costituì una piccola équipe e riuscimmo a portare avanti un lavoro organizzato. A livello di promozione umana cercammo di impostare lavori comunitari centrati su tre aspetti: la comunicazione, ovvero strade interne perché la gente potesse muoversi con più agilità verso scuole, ospedali o la città di Machagai; la formazione di centri comunitari; terzo, un progetto abitativo, però con aiuto, lavoro e costruzione comunitari».

Tuttavia, la battaglia più importante e difficile era un’altra, vero?

«Il reclamo fondamentale era quello per la terra. Si riuscì ad avere il titolo comunitario di proprietà nell’anno 1996 con molte difficoltà».

Quanti sono i Tobas?

«Lì, nella colonia sono circa 4 mila persone».

Parlano ovviamente una loro lingua?

«Sì, c’è un processo di recupero della lingua. Sono stato responsabile di un’équipe diocesana di pastorale indigena, che si occupava proprio della preparazione di docenti aborigeni, che potessero insegnare nella loro lingua».

La regione del Chaco che tipo di caratteristiche fisiche e soprattutto sociali presenta rispetto ad altre province argentine?

«Più o meno ha le caratteristiche di tutto il Nord: fondamentalmente povero, ma con risorse forestali immense, in questi anni saccheggiate da imprese multinazionali con la connivenza del governo che lascia fare. Personalmente, ho assistito a momenti di grande siccità e a grandi inondazioni provocate proprio dall’uso indiscriminato delle risorse naturali».

Chi è il colpevole di aver venduto tutta la terra alle multinazionali straniere?

«Senz’altro l’indiziato primo è lo stato stesso. Nel Chaco, la prima tappa si ebbe all’inizio del secolo con le piantagioni di cotone, per far posto alle quali si disboscò una grande quantità di terreno usando manodopera indigena schiava, come d’altra parte nelle vicine miniere. Nell’anno 1924 ci fu un eccidio, uno sterminio di circa 500 indigeni tobas nella zona Aborigen Chaco, che è ricordato come la “matanza di Napalpí”. Un migliaio di indigeni tobas iniziò uno sciopero della raccolta del cotone. La repressione fu feroce: il 19 luglio un centinaio di poliziotti armati di fucili Mauser e Winchester uccise senza pietà circa 500 Tobas indifesi.

E dopo il cotone, arrivò l’allevamento del bestiame. Insomma, ogni progetto era buono per ampliare l’area coltivabile a danno dell’area boscosa. L’equilibrio naturale si ruppe, come dimostravano l’alternanza di inondazioni e siccità».

Morire per fame (nel granaio del mondo)

Dopo i 10 anni di Carlos Menem, l’Argentina sprofondò in una paurosa crisi economica, che culminò con la rivolta del dicembre 2001. Come si manifestò quella crisi nelle regioni del Nord?

«Dalla povertà si passò alla miseria, per dirlo in forma molto sintetica. Si vissero 10 anni di illusione e di inganno. Si parlava di un’Argentina da primo mondo, però solo in alcuni ambienti. A Buenos Aires si perse la cultura del lavoro e della solidarietà e venne imposta la cultura del “si salvi chi può in qualsiasi modo”».

Nel 2002, nelle province di Tucuman e Misiones ci furono decine di bambini morti per fame. Una cosa che ha dell’incredibile per un paese come l’Argentina, no?

«Certamente, soprattutto se si considera che quelle province avevano ed hanno risorse sufficienti per tutti purché equamente distribuite. Tra l’altro, la denutrizione è un problema ancora attuale, che sarà difficile sradicare in poco tempo».

A proposito di alimenti, anche nel Nord dell’Argentina si è avuta la diffusione delle coltivazioni di soia?

«Nella provincia di Salta, dove io lavoro, la tendenza è quella di ampliare sempre di più le aree coltivate a soia».

Perché la soia? Dicono, si dice, che abbia portato molta ricchezza al paese, ma anche molti svantaggi, legati al fatto di essere soia transgenica.

«Oggi la soia è un prodotto per l’arricchimento facile e immediato di molte imprese. Ma è soprattutto un prodotto che impoverisce la terra. Anzi, secondo alcuni è una causa scatenante dei problemi alimentari del paese».

Percorrendo le terre attorno alla grande Buenos Aires, ho visto molti campi racchiusi dietro barriere di filo spinato ed ognuno aveva la sua marca: Cargill, Monsanto, eccetera. Cosa significa questo esattamente?

«Significa che in quei terreni sono stati utilizzati prodotti agro-chimici per “migliorare” (tra virgolette) le coltivazioni stesse. I nomi sono quelli dei gruppi industriali internazionali che sfruttano queste terre per lasciarle, un domani non molto lontano, senza sostanze. Un deserto».

Guaraní contro Seaboard Corporation

Dal Chaco lei è passato ad Oran, nella provincia di Salta. Con chi sta lavorando?

«La parrocchia di San José si trova in una zona urbano-periferica di Oran. Comprende quartieri degradati in una città che di per sé è povera, anche se ricca di risorse. Oltre alla popolazione urbana, ci occupiamo di 4 comunità di indigeni kollas che vivono sulle montagne. Vivono lontani dalla città, per cui li raggiungiamo ogni fine mese per una settimana e soltanto da maggio ad ottobre quando non piove. Da qualche anno lavoro inoltre nella commissione diocesana di pastorale sociale, che si occupa soprattutto di “terra”, l’asse attorno a cui girano tutti i problemi di Oran. Con diverse pastorali – aborigena, della carità, della sociale, della salute – si è formata una commissione interpastorale con un’équipe giuridico, un gruppo di avvocati volontari che si sono presi a cuore i problemi della terra».

Ancora una volta conflitti per la terra. Sembra un problema infinito…

«In questo momento ci sono 6-7 casi di cui uno di non indigeni, di criolos. Il caso più conosciuto è quello della comunità di Iguopeigenda (in lingua spagnola, Rio Blanco Banda Sur), composta da indios tupí-guaraní. La comunità si sta confrontando con un “mostro”, l’industria zuccheriera Tabacal, che dal 1996 è proprietà della multinazionale statunitense Seaboard Corporation.

Questa ha comprato dai Costas, la famiglia di latifondisti già proprietaria di Tabacal, una grande quantità di terreno, circa 1 milione di ettari».

Dunque, siete in lotta addirittura con una multinazionale. Un confronto impari…

«Sono già 3 anni che ci troviamo a lottare con la multinazionale statunitense. Gli indios di Iguopigenda erano sotto minaccia di sfratto dalla terra che occupavano da tempo. Intervennero i nostri avvocati che presentarono istanza alla giustizia per reclamare il diritto al possesso di quella terra. Nel frattempo, ci furono minacce alla comunità e a noi. Dopo 2 anni, il giudice, una donna, ha deciso di accogliere la richiesta degli indigeni, riconoscendo alla comunità il diritto di poter recuperare 224 ettari».

Parliamo di 224 ettari su un’estensione di 1 milione…

Una comunità composta di 60 famiglie (una media per ogni famiglia di 5-6 persone), che vogliono vivere del lavoro della terra. Un lavoro peraltro rispettoso, nel senso che non distrugge, ma produce lo stretto necessario per poter vivere e vendere i frutti della terra. Favorendo anche la società, riuscendo cioè a vendere ad un prezzo non esagerato. In questo momento siamo in attesa che i nostri avvocati richiedano l’esecuzione della sentenza».

Perché una compagnia con tanto terreno nelle proprie mani non capisce quanto irrilevante sia, rispetto alla sua attività economica, un pezzettino di terra di pochi ettari? Come mai accanirsi contro 60 famiglie, che con quella terra sopravvivono?

«Da una parte, la compagnia statunitense si fa forza di un pezzo di carta che le accredita la proprietà della terra, approfittando del fatto che i popoli indigeni non si sono mai preoccupati delle cose formali. Abitano le terre senza definire i confini del territorio che occupavano o che occupano. Dall’altra parte, alla Seaboard Corporation, come a tutte le multinazionali, interessa soltanto il profitto, da perseguire ad ogni costo. Salvo poi presentarsi ai cittadini con il suo lato positivo-umanitario con donazioni a istituzioni pubbliche che le consentono di apparire sui media come un’associazione benefica. Una vergogna in tutti i sensi».

L’Argentina di Kirchner e la sete di potere

Lasciamo un attimo gli indigeni, per parlare dell’Argentina di Nestor Kirchner. Il suo parere su questa presidenza.

«Si è cercato di riordinare la cosa pubblica in diversi aspetti, ma non si può nascondere la sete di potere che sta invadendo un po’ tutti i politici, a cominciare dall’attuale governo che pretende di continuare al potere».

La sete di potere è una caratteristica del peronismo…

«E non solo, perché anche partiti diversi, che governano in altre province, hanno la stessa tendenza. Abbiamo avuto un caso significativo nella provincia di Misiones dove il governatore Carlos Rovira pretendeva di cambiare la costituzione solo per essere rieletto in forma indefinita. La stessa popolazione ha chiesto a mons. Piña, vescovo in pensione, di mettersi alla testa del reclamo popolare. Così è entrato nella costituente, per evitare che si riformasse l’articolo che avrebbe permesso al governatore di essere rieletto indefinitamente. La risposta è stata tale che, per una volta, la gente ha sconfitto la mania dei politici di sentirsi padroni del potere».

Mi sembra di capire che la sua fiducia del cambiamento è una fiducia condizionata.

«Sì, anche perché uno continua a sentire discorsi ambigui, che possono facilmente trasformarsi in un nuovo inganno per la gente, troppo spesso utilizzata per i fini del governante di tuo».

Per lei che ha lavorato con popolazioni indigene per molti anni, cosa significa l’esperienza della Bolivia, dove c’è da poco un presidente aymara? Mi riferisco ovviamente a Evo Morales.

«È stato un passo importante, ma anche qui bisogna stare attenti. Far sì che ci sia una vera partecipazione popolare e che non si cada in eccessi demagogici, che possono essere pericolosi. Certamente è fondamentale che sia stato eletto un presidente indigeno, con la forza dei popoli indigeni, che sono la gran maggioranza della popolazione».

Dopo 30 anni in Argentina, che sensazione personale si porta dentro?

«Senz’altro di arricchimento umano, culturale, un grande insegnamento che ho ricevuto nei diversi posti, in particolare nel Chaco. Anche le altre tappe sono state importanti, di preparazione per vivere il grande amore che è stato l’incontrare la realtà indigena che peraltro io non ho mai idealizzato. Come tutti gli esseri umani, anche gli indigeni hanno pregi e difetti».

(fine 6.a puntata – continua)

Paolo Moiola

Paolo Moiola




URANIO POVERO

Crisi politica e insicurezza alimentare, dove va il paese

Vastissimo, ma desertico. Indicato come il meno sviluppato del mondo, ma anche quello a tasso di crescita più elevato. L’accesso all’acqua per tutti è ancora un sogno. L’educazione è da inventare, mentre chi gestisce il potere si appropria dei fondi pubblici stanziati per migliorarla. Intanto nasce un nuovo movimento tuareg ribelle, che semina morte nel nord. Ritratto di un paese estremo.

L’aria è secca a Marmari, villaggio nel dipartimento di Tanout, nel centro del Niger. Un gruppo di case in mattoni di fango essiccati, buttate in mezzo alla sabbia. Il giallo ocra tinge e domina ogni cosa in questa terra. El Hadji Mamoudou è il capo villaggio, anziano e cortese. Ci porta a visitare il pozzo subito fuori dall’abitato: una grossa fortuna per la popolazione. Siamo a mille chilometri dalla capitale, Niamey, in una zona semiarida, che prepara al deserto, dove gli allevatori convivono con gli ultimi avamposti degli agricoltori stanziali. Peulh e tamashek (più comunemente tuareg) i primi, haousa e kanouri i secondi.
Il pozzo in cemento è profondo cento dieci metri. È stato realizzato dalla cooperazione internazionale ed è entrato in funzione nel 2004.
Gli uomini attingono l’acqua da questa voragine, di cui non si vede il fondo, utilizzando asini o buoi. Fanno tirare loro una lunga corda su rudimentali carrucole. Sotto il sole che, in questa stagione, rende il caldo infeale, raggiungendo i 45-50 gradi all’ombra. Quando il recipiente con un centinaio di litri arriva in superficie, due uomini lo versano negli abbeveratorni per gli animali. E qui, tra una vacca e un asino che cercano di placare la sete, una ragazza riempie alcuni bidoni di plastica. È il fabbisogno per una famiglia.
«In questa stagione il pozzo diventa secco più volte al giorno – racconta El Hadji Mamoudou – iniziamo ad attingere al mattino presto, ma dopo che un paio di famiglie hanno riempito i loro recipienti l’acqua si è ritirata». Siamo alla fine della stagione secca, che dura da settembre a maggio. È il periodo peggiore, perché i granai sono ormai vuoti. Ma proprio adesso agli uomini occorre tanta energia per lavorare i campi e preparare il nuovo raccolto, sperando che le piogge siano abbondanti e regolari. «Occorre aspettare una o due ore, ed ecco che la falda acquifera ricarica il pozzo e altre due famiglie si fanno avanti». Così per tutto il giorno, per 4 o 5 cicli. Ma questo punto d’acqua non è sufficiente per l’intera popolazione di Marmari, e molti si spostano a Chirwa, percorrendo quasi 4 km a piedi o con il carretto. In questo villaggio, più importante, una pompa a motore estrae acqua da 700 metri di profondità e la distribuisce a cinque fontane.
In Niger il problema dell’accesso all’acqua (non solo a quella potabile) rimane enorme.

Lo spettro della fame

Durante i mesi delle piogge si coltiva una varietà di miglio che si è adattata a questo suolo sabbioso. Il cereale, immagazzinato nei granai, sarà pestato dalle donne a forza di braccia nei mortai, e dovrà fornire la farina per il pasto quotidiano della famiglia per il resto dell’anno.
Finita la stagione delle piogge e ultimato il raccolto, si tenta di coltivare un po’ di ortaggi: «A 4 km da qui c’è un avvallamento che permette all’acqua di fermarsi per qualche mese in pozze naturali. Sono stati scavati anche dei pozzi poco profondi per l’irrigazione» continua El Hadji. «Intoo facciamo i nostri orti. Quest’anno però non c’era abbastanza acqua e non siamo riusciti a far crescere nulla».
Il Niger, dove l’alimentazione dell’80% degli abitanti dipende direttamente dall’agricoltura, occupò per qualche giorno le cronache dei giornali a causa della crisi alimentare del 2005. Una cattiva stagione piovosa nel 2004, l’invasione delle cavallette, congiunta alla precaria economia di sussistenza e ai non adeguati stock nazionali di sicurezza avevano fatto scattare l’emergenza in Niger, Mali e Burkina Faso. Ma fu il Niger il paese più colpito, dove si stima che 3,6 milioni di abitanti furono interessati dalla penuria di cibo. Oltre ai 150 mila bambini che soffrono di malnutrizione cronica, se ne aggiunsero altri 800 mila (sotto ai 5 anni). L’apparato internazionale degli aiuti umanitari di emergenza si era allora mosso con gran fragore. Ma la radice del problema non è stata eliminata e l’esposizione delle popolazioni ai capricci delle precipitazioni atmosferiche e alle migrazioni di insetti è sempre drammaticamente reale.

I due primati

Paese di un milione e duecentomila chilometri quadrati (quattro volte l’Italia), in gran parte desertico, il Niger è abitato da circa 13 milioni di persone.
Combinando la speranza di vita, che di poco supera i 44 anni, il tasso di scolarizzazione intorno al 21% e il reddito pro capite annuo di circa 220 dollari, il paese si guadagna da tempo l’ultimo posto (su 177 paesi recensiti) nella classifica dello sviluppo umano stilata ogni anno dalle Nazioni Unite.
Un altro primato è il tasso di crescita più elevato del mondo: 3,3%. Anche questo concorre alla malnutrizione e preoccupa il governo che vorrebbe ridurlo al 2,5% entro il 2015. La media di quasi otto figli per ogni donna (2,7 è la media a livello mondiale) e l’elevato numero di matrimoni precoci (la metà delle ragazze si sposa prima dei 15 anni, nei villaggi a 12 – 13 anni), spiegano la forte crescita. Questo nonostante i tassi di mortalità infantile restino molto elevati: oltre uno su quattro bambini non arriva all’età di 5 anni.  Valori questi che dimostrano le enormi difficoltà sul piano sanitario e nutrizionale.

uranio e ribelli

Il Niger è il terzo produttore d’uranio al mondo (dopo Canada e Australia) e i suoi giacimenti sono già sfruttati da decenni dai francesi. Il governo sta oggi vendendo concessioni per nuove prospezioni, spinte dal rialzo dei prezzi causato dal consumo cinese. Ma nel nord, nelle zone desertiche dell’Air, Azawak e Kawar la corsa è aperta anche alla ricerca del petrolio (già sfruttato nei vicini Ciad e Mauritania, e presto anche in Mali). Non è un caso quindi che tornino a far parlare di sé i gruppi di ribelli tuareg.
Nel febbraio di quest’anno il sedicente «Movimento dei nigerini per la giustizia» (Mnj) attacca una postazione militare a Iférouane, facendo tre morti e alcuni feriti. Toa così lo spettro della ribellione tuareg, degli anni ’90 conclusasi con la firma della pace di Ouagadougou, nell’aprile 1995. Le condizioni dell’accordo erano la reintegrazione dei ribelli nell’esercito (oltre 2.300 effettivi), il decentramento amministrativo e maggiori investimenti per sviluppare le terre del nord.  Tutte soddisfatte, secondo il governo. Il contrario per il neonato movimento. L’Mnj sostiene, in un memorandum, che la regione non beneficia di alcun investimento, «ha un sistema educativo in rovina, un livello degli allievi inquietante, un alto tasso di abbandono» e aggiunge «un sistema sanitario in decomposizione, che non tiene in conto della componente nomade e nessuna infrastruttura per un utilizzo duraturo delle zone minerarie».
Un movimento che vuole darsi connotati da «difensore degli oppressi» (forse a immagine dei più forti gruppi che controllano il delta del Niger in Nigeria), definendosi una «organizzazione che combatte l’ingiustizia» chiede un «forum di riflessione imparziale per una riforma globale della politica in Niger».
Si tratta di un gruppo di giovani tuareg, il cui capo Aghali ag Alambo non esita a rilasciare interviste, e che lanciano i loro comunicati sul proprio sito internet.

«Sono solo banditi»

Ma il governo giudica l’Mnj «una banda di banditi armati e trafficanti di droga» e rifiuta ogni forma di negoziato. Allora il movimento continua con attacchi. A uno sperduto sito di prospezione della potente impresa francese Areva, all’aeroporto di Agedez, per poi catturare il 22 giugno un’intera guaigione dell’esercito a Tezirzait, nelle montagne dell’Air, uccidendo 15 soldati e facendo una trentina di feriti. Consegnati questi ultimi alla Croce Rossa internazionale.  Toa anche l’insicurezza sull’asse stradale Tahoua – Agadez – Arlit.
Alcuni analisti sospettano legami tra questo movimento e il gruppo di tuareg che ha attaccato l’11 maggio una posizione militare a Tin Zawaten, nel nord – est del Mali. Gruppo che non ha rispettato agli accordi di pace del 4 luglio 2006 (vedi MC, settembre 2006). Parlano di un movimento transnazionale spinto anche dalle idee di un grande stato tuareg, predicate dal leader libico Mouammar Gheddafi.

problemi dell’educazione

Intanto il governo, e in particolare il potente primo ministro Hama Amadou (indicato anche come futuro presidente), è travolto dallo scandalo sull’educazione. Oltre 6,1 milioni di euro del «Programma decennale di sviluppo dell’educazione» si sono volatilizzati. Si tratta di un grosso finanziamento, in larga parte di governi europei, con l’obiettivo di migliorare il tasso di alfabetizzazione e di scolarizzazione del paese. Un’audit voluta dai partner nel 2006 ha rivelato «gravi problemi nella gestione dei fondi destinati all’educazione». Due ministri dell’educazione (Hamani Harouna e Ary Ibrahim) e altri dirigenti del ministero sono stati arrestati nell’ottobre scorso. I due dichiarano di aver ricevuto «ordini dalla gerarchia», ma Hama Amadou ha rifiutato di comparire davanti all’Alta corte di giustizia che conduce l’inchiesta, dichiarando di voler rispondere a domande scritte per scritto.
Da qui la mozione di sfiducia che l’opposizione ha presentato all’Assemblea nazionale. Ma ecco il colpo di scena. Nonostante il partito del primo ministro e i suoi alleati possano contare su una netta maggioranza parlamentare (88 dei 113 seggi), 62 deputati votano la sfiducia. Hama Amadou, dopo sette anni di regno è costretto a dimettersi. Il presidente della repubblica Mamadou Tanja (che finirà il secondo mandato nel 2009) nomina il 6 giugno scorso Seyni Oumarou (un fedelissimo di Hama) nuovo primo ministro. Ma l’équipe governativa cambia poco.
Questioni molto lontane queste da El Hadji Mamoudou e gli abitanti di Marmari. L’acqua quotidiana e il prossimo raccolto tra piogge e invasioni di cavallette li preoccupano di più. Resta vero che la maggior parte dei loro bambini non vanno a scuola e hanno a disposizione solo qualche sgangherata tettornia di paglia come aula. Ma lo sviluppo di un paese deve necessariamente passare dall’educazione.

di Marco Bello

Intervista al vescovo di Maradi

Il monsignore dei grandi spazi

Monsignor Ambroise Ouedraogo è il vescovo di Maradi. La sua diocesi ha una superficie di un milione di chilometri quadrati (oltre tre volte l’Italia), ma conta appena 3.000 cristiani. Sono perlopiù immigrati dagli stati vicini (Benin, Burkina Faso, Togo, Nigeria, ecc.) arrivati qui in cerca di lavoro.
Lui stesso è burkinabè. Giunge in Niger come missionario fidei donum nel 1985, mandato dal cardinale Paul Zungrana di Ouagadougou. Nel 1999 mons. Catatregué, allora vescovo di Niamey lo consacra vescovo ausiliare. Due anni più tardi l’unica enorme diocesi del Niger viene divisa in due: nasce la diocesi di Maradi e mons. Ambroise ne diventa il primo pastore. Lavorano con lui altri 16 preti, di cui 2 diocesani e 14 redentoristi e padri bianchi. Le religiose sono una trentina, nelle diverse congregazioni dell’Assunzione, di Cluny, le figlie del Sacro Cuore di Maria (diocesane senegalesi) e le piccole sorelle di Gesù (tra cui alcune italiane). Queste ultime operano alla frontiera della diocesi, dove non ci sono preti.
Il vescovo, nella sua semplice abitazione (e ufficio) di Maradi, ci racconta il loro lavoro e la particolare evangelizzazione di pochi cristiani in una marea musulmana.

Quale pastorale portate avanti in queste condizioni così particolari?
Con mons. Berlier, c’era quello che chiamiamo «la pastorale sul tappeto»: ovvero una presenza cristiana, della chiesa cattolica con i musulmani, per vivere nel quotidiano il vangelo. Incontrare la gente, visitare, partecipare alle feste di famiglia, «stare con». Questo ha permesso che la chiesa sia riconosciuta e accettata dalla popolazione a maggioranza musulmana.
Nel 1985 ci siamo chiesti: dobbiamo continuare con questo tipo di pastorale di presenza o passare a una di evangelizzazione? Abbiamo fatto questo salto. Ma allora come evangelizzare questo popolo che è credente e musulmano? Se la nostra pastorale di evangelizzazione è di fare dei cristiani battezzati, cresimati, con i sacramenti, diventa molto difficile. Ma l’evangelizzazione è osare testimoniare il vangelo, annunciare il Cristo, essere testimoni del resuscitato. Andare verso i nostri fratelli e sorelle.
Penso che sia questo, che cerchiamo di portare avanti nelle due diocesi del Niger.
La maggioranza dei nostri cristiani vengono dall’estero, pochissimi sono nigerini. Nonostante questo cerchiamo di formarli, e coscientizzarli, perché non si isolino, ma possano essere in mezzo ai loro fratelli musulmani come «sale e luce».
Questa pastorale la facciamo attraverso le nostre strutture di educazione, come le scuole, le strutture sanitarie, i progetti di sviluppo. Cerchiamo di portare lo spirito del vangelo nel cuore delle azioni di pastorale sociale. Da due anni abbiamo la Cadev (Caritas e sviluppo), nella quale cristiani e musulmani sono impegnati per la lotta contro la povertà e nella promozione umana.
Se togliessimo i musulmani dalla Cadev resterebbero in pochissimi! È proprio un luogo di concertazione, di relazione cristiano-islamica. Si cerca insieme di mettere in piedi una politica di sviluppo che possa raggiungere le popolazioni.

Con questo obiettivo, arrivate a far lavorare bene insieme le persone?
Si, anche a livello delle nostre scuole. La maggioranza dei nostri insegnanti è musulmana. Lo è anche il responsabile dell’insegnamento cattolico. È una persona molto aperta, fa bene il suo lavoro e sposa la filosofia cristiana dell’educazione. È un’apertura nella relazione tra le religioni e facciamo continuamente questo sforzo, perché il rischio è che ognuno faccia le sue cose, che i cristiani si chiudano. Questo porterebbe a un suicidio della chiesa in Niger.
Oggi i cristiani hanno più coscienza, sanno di esserlo e devono manifestarsi come tali. C’era questa frase «la pastorale offensiva», per dire «siamo cristiani e vogliamo testimoniare la nostra fede con i fratelli musulmani». Non nascondersi, restare in disparte. Direi che abbiamo superato questa paura.

Non ci sono reazioni dell’integralismo musulmano?
In Niger c’è un certo integralismo, che aspetta per svegliarsi. È forte in ambienti periferici, più poveri. È li che agisce. Quando c’è stata la conferenza nazionale, tra il 1990 e il ‘91, c’era anche una tendenza che voleva fare del Niger un paese islamico. Fortunatamente, c’erano dei politici che hanno visto il pericolo e hanno optato per uno stato laico, dove ogni fede si possa esprimere liberamente.

Quali sono i problemi principali che avete per integrare la piccola comunità cristiana in quella musulmana?
Il primo problema che viviamo come cristiani è questa difficoltà di dire la propria fede. Già solo portare una croce ti mette in una condizione di straniero, perché per la maggioranza della gente, un nigerino non può essere che musulmano. Nella vita dei sacramenti ci sono le problematiche delle coppie miste cristiano-musulmane. Se è la donna a essere cristiana, il rischio è che per la pressione famigliare, debba rinunciare alla propria fede. È una constatazione. La sfida è formare le giovani affinché possano essere solide nella loro fede e non perderla alla prima occasione.
I cristiani sono stranieri e le questione più urgenti sono economiche: la ricerca del lavoro, sbarcare il lunario. Come legare questo con la fede e i tempi per la formazione? Non è sempre facile. Nei quartieri in cui vivono testimoniano la loro fede, anche se ci sono difficoltà. Fortunatamente non ci sono quartieri separati. Nella parrocchia di Maradi facciamo degli incontri di «Comitati cristiani di base», che si ritrovano una volta alla settimana. Pregano, leggono il vangelo, discutono su quale chiamata porta «la parola» nella loro vita. Penso che anche questo faccia in modo che i vicini li vedano e li riconoscano come cristiani.

Lo scopo di questa evangelizzazione qual è esattamente?
Siamo due religioni missionarie e ciascuno vuole avere il più gran numero di fedeli possibile. Ma nella nostra situazione, penso che sia difficile. È un sogno, ma dico che non dobbiamo mettere tra parentesi il comandamento di Cristo che ci invita ad andare in missione, fare dei discepoli, battezzare. L’evangelizzazione, fa anche vivere seriamente la mia fede, testimoniarla, rispettare la fede dell’altro e vedere insieme che cammino possiamo prendere per creare un mondo più fraterno, di giustizia, pace, solidarietà. Penso che cristiani e musulmani possono impegnarsi in questo senso e fare delle cose meravigliose.

I vescovi e i preti hanno contatti con i responsabili musulmani?
Esiste una commissione per le relazioni cristiano-musulmane. All’inizio si facevano le riunioni tra di noi, ma da circa tre anni invitiamo gli imam, con i quali cerchiamo di preparare dei moduli di formazione tra cristiani e musulmani per conoscerci reciprocamente. Il cristiano impara a conoscere il fratello musulmano e viceversa e questo ci permette di evitare conflitti inutili. Dal lato islamico la difficoltà per noi è che non sempre sappiamo verso chi andare, non essendoci una struttura ben precisa, un responsabile. Esiste l’associazione islamica. Ogni anno alle feste principali, ramadam, tabaski, mandiamo loro un messaggio di pace, solidarietà, auguri. Questo è cominciato con mons. Berlier, e porta dei frutti. A Natale i musulmani inviano una delegazione in cattedrale a Niamey, per fare gli auguri ai cristiani. Lo scorso Natale sono venuti anche ad Agadez (città del nord con scarsissima presenza di cristiani, ndr).

Lei si considera un missionario e in una situazione particolare?
È vero che essere missionario in Niger non è facile. Capisco i primi missionari che sono venuti dall’Europa per annunciare il vangelo in Africa. Oggi abbiamo condizioni di trasporto più facili, ma ci aspettiamo sempre che avendo una famiglia, questa diventi più grande. Qui in Niger non è così scontato. Io dico che bisogna vivere nella pazienza e nella speranza. Noi seminiamo, alcune piante cresceranno e dei frutti dell’albero qualcuno beneficerà. Lavoriamo e viviamo con la fede di portare il vangelo senza aver paura di annunciarlo e di dirsi cristiani. Di più: grazie al vangelo vogliamo essere al servizio dei fratelli e sorelle musulmani, dei più poveri. Questo fa parte dell’annuncio della buona novella. Quando la folla che seguiva Gesù aveva fame, lui ha fatto la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Noi siamo attenti ai bisogni della popolazione musulmana e vediamo in che misura possiamo rispondere. Senza «fare al loro posto», ma insieme. La nostra missione non è fare dell’assistenza, ma in partenariato con i musulmani lavorare per il benessere di uomini e donne, nella ricerca della pace e frateità.

Quali sono le sfide per domani?
Da due anni abbiamo elaborato una visione pastorale con tema: «Insieme con il Cristo, cammino verità e vita, costruiamo una chiesa famiglia che vive, testimonia e annuncia il vangelo in Niger».
Questo percorso dura fino al 2010 e vedremo se saremo riusciti a realizzarlo.
Le sfide per la chiesa in Niger è vivere il vangelo e attraverso a questo trovare il cammino per dare una risposta alla povertà e all’ingiustizia nel paese.

a cura di Marco Bello


Marco Bello




Da Trento a Hiroshima

Trentino – Giappone

Gli studenti di una scuola superiore di Cavalese, in provincia di Trento, hanno vissuto un’esperienza unica, viaggiando fino a Hiroshima, per antonomasia luogo simbolo della follia umana. Hanno visto i disastri dell’atomica e hanno discusso con i loro coetanei giapponesi sulla follia delle guerre. Una lezione di vita che rimarrà per sempre nella loro memoria e forse servirà per diffondere la consapevolezza di quell’impagabile bene che è la pace.

L’aggettivo «nucleare» suscita immediatamente in tutti noi qualche reazione, in generale di timore se non proprio paura. La nostra mente va infatti al disastro di Cheobyl o alla distruzione di Hiroshima. Una tale reazione di allarme è certo comprensibile, ma è anche vero che essa deriva da una diffusa ignoranza scientifica di tutto quello che ha a che fare con le radiazioni e la radioattività (1). Se sapessimo che ogni ora milioni di radiazioni ionizzanti di origine naturale attraversano il nostro corpo, forse il nostro atteggiamento sarebbe un po’ diverso.
La tematica nucleare è certo importante per capire la portata degli eventi catastrofici di cui l’energia atomica è stata protagonista, ma non solo. Il cittadino moderno ha bisogno di venir informato sui pro e i contro dell’atomo in quanto oggi si torna a riproporre l’energia nucleare per la produzione di elettricità. D’altra parte basta pensare all’enfasi data dai media ai casi Iran (vedi reportage in questo stesso numero di MC) e Corea del Nord per rendersi conto che esiste pure un grave pericolo di proliferazione mondiale delle bombe atomiche.

È in questo quadro che, all’inizio del passato anno scolastico, un gruppo di studenti del liceo statale «La Rosa Bianca» di Cavalese, in provincia di Trento, inizia un impegnativo percorso di studio ed approfondimento sul tema dell’energia nucleare, nelle sue applicazioni militari (bombe atomiche) e civili (centrali elettronucleari, medicina nucleare, ecc.). I giovani sono seguiti dal corpo insegnante, con la collaborazione dei docenti di matematica e fisica, storia e filosofia, letteratura, religione e lingua inglese, oltre che da esperti estei, in particolare da un fisico dell’Unione scienziati per il disarmo (Uspid). I giovani raccolgono, esaminano e discutono molto materiale, reperito su libri e riviste, oltre che su internet.
Nel corso del lavoro didattico nasce l’idea di effettuare una visita a Hiroshima, luogo simbolo della distruzione nucleare e sede di un museo e di un parco della pace. Queste strutture consentono al visitatore di farsi un quadro dettagliato dell’effetto immediato dell’esplosione atomica e delle conseguenze per i sopravvissuti, spesso protrattesi nel tempo o evidenziatesi anche a distanza di anni dall’evento.
Tra il dire e il fare ci sono però, come sempre, di mezzo i…  quattrini! L’energico dirigente dell’Istituto «La Rosa Bianca», prof. Fiorenzo Morandini, individua una possibilità di finanziamento in una nuova iniziativa dell’Assessorato all’Istruzione della Provincia autonoma di Trento, che per la prima volta prevede la possibilità di gemellaggi con scuole di paesi extraeuropei. Viene steso un programma di attività, lo si inoltra ai competenti uffici, si attendono i tempi necessari e…  la risposta è positiva! Viene messa a disposizione la bella cifra di 45.000 euro per sostenere il progetto. L’Istituto La Rosa Bianca fornisce una quota di autofinanziamento e gli studenti partecipanti contribuiscono con 450 euro ciascuno.
In tal modo, con il patrocinio del Forum trentino per la pace e della Fondazione Campana dei caduti di Rovereto, un gruppo di 19 studenti, 4 docenti e il dirigente scolastico, un foto cine operatore, più un fisico come esperto esterno (lo scrivente), a fine maggio 2007 partono per Tokyo. Lì passano due giorni cercando di smaltire le sette ore di differenza nel fuso orario, visitando la città, ma soprattutto visitando la scuola superiore Meiji Gakuin, partner del progetto, con la quale si è fatto del lavoro preparatorio comune. Tutti i partecipanti hanno anche l’occasione di conoscere di persona il bravissimo professor Takao Takahara, docente di studi sulla pace all’università di Yokohama (2).

Trasferitisi a Hiroshima con un volo durante il quale si può ammirare la più famosa, alta e bella montagna giapponese, il Fuji, gli studenti e i loro insegnanti vivono la tappa più densa di impegni di tutto il viaggio. Al loro arrivo sono accolti dal prof. Hitoshi Mukai e dall’hibakusha Hiromu Morishita (3). Egli rappresenta per alcuni una vecchia conoscenza, essendo stato invitato in Trentino nel 2005 dall’Uspid e dalla Fondazione Campana dei caduti, in occasione del sessantesimo anniversario della distruzione di Hiroshima. Morishita, settantasettenne, possiede un’energia e un dinamismo invidiabili, tanto da suscitare la domanda scherzosa dei ragazzi se, per arrivare in tarda età in condizioni tanto buone, bisognasse proprio subire l’esplosione atomica!
Il programma degli incontri, svoltisi prevalentemente alla scuola superiore femminile Jogakuin, prevede una serie di presentazioni da parte degli studenti locali e dei loro ospiti stranieri. Nel corso di queste relazioni, ciò che più colpisce gli italiani è scoprire il contenuto profondamente pacifista dell’attuale Costituzione giapponese e, nel contempo, apprendere come l’educazione alla pace, un tempo importante e diffusa, venga oggi man mano abbandonata dalle scuole nipponiche. Per i giapponesi, invece, è piuttosto sorprendente constatare come gli italiani siano fondamentalmente contrari al possesso di armi atomiche, sebbene ve ne siano nelle basi di Aviano e di Ghedi e nonostante che i nostri partner europei Francia e Gran Bretagna ne posseggano. Ulteriore motivo di riflessione è constatare come al tempo della discussione sulla bozza di Costituzione europea non vi è stato nessun dibattito sugli aspetti militari in essa contenuti.
Indimenticabile sono la visita al Museo atomico e al Parco della pace, nonché gli incontri con alcuni sopravvissuti alle esplosioni atomiche. Oltre a Morishita, i ragazzi conoscono la signora Fumiko Sora, che racconta la sua storia, e Miyoko Matsubara, la quale rievoca in modo commovente e drammatico i terribili eventi di cui fu involontaria protagonista il 6 agosto 1945.

Toati in patria il 2 giugno 2007, gli studenti presentano la loro esperienza alla cittadinanza, regalando anche al sindaco di Cavalese un alberello dono della città di Hiroshima, nato dai semi di una pianta sopravvissuta all’esplosione e ancora oggi visibile dietro il Museo atomico. Il primo cittadino prende l’impegno di curare la pianta che, una volta irrobustitasi, sarà collocata in un parco cittadino con una targa commemorativa. A giudizio unanime dei partecipanti (4), giovani ed adulti, un viaggio a Hiroshima rappresenta un’esperienza memorabile, capace di far capire il dramma della guerra atomica molto più di quanto si possa fare con i libri o i documentari. Essere circondati dalle mute e drammatiche testimonianze della storia colpisce profondamente la mente e il cuore. Sarebbe bello sognare che un pellegrinaggio ad Hiroshima fosse un compito obbligatorio per i neo capi di stato e di governo delle potenze nucleari militari, che hanno nelle loro mani i destini dell’umanità. Forse, vedendo il disastro che un loro comando avventato potrebbe provocare, agirebbero con maggiore prudenza e senso di responsabilità.

Mirco Elena

Note:
(1)  Siamo arrivati al punto che persino una tecnica d’indagine medica come la risonanza magnetica nucleare, che nulla ha a che fare con le radiazioni ionizzanti o con la radioattività, ha visto il suo nome abbreviato con l’eliminazione dell’aggettivo “nucleare”, per non causare allarme nei pazienti e nel personale medico!
 (2) Takahara è una persona attivissima ma dallo stile incredibilmente tranquillo; ormai cinquantenne ha mantenuto un’invidiabile, quasi utopica fiducia nella possibilità di risolvere pacificamente i conflitti di qualsiasi natura; nei consessi inteazionali la sua voce porta messaggi di ragionevolezza e rappresenta un pacifismo della volontà e della ragione, che contrasta fortemente con la disillusione e il realismo cinico di tanti altri esperti e studiosi.
(3)  Hibakusha: con questo termine si indicano i sopravvissuti alle esplosioni atomiche.
(4 ) Sul sito della scuola – www.scuolefiemme.tn.it – immagini e materiali relativi al viaggio in Giappone degli studenti trentini.

Mirco Elena




Reportage da uno «stato canaglia»

Viaggio nella repubblica islamica (1a puntata)

Come si vive in Iran? Le donne sono oppresse? Teheran prepara armi nucleari per bombardare Israele e l’Europa? Tutto questo corrisponde a verità oppure attorno alla Repubblica islamica c’è soprattutto molta (interessata) propaganda? Angela Lano ha incontrato autorità
e gente comune. Questo è il suo reportage (fuori dai luoghi comuni).

Teheran, giugno 2007. Atterriamo in un enorme aeroporto, pulito e ordinato. Quasi un biglietto da visita della Repubblica islamica dell’Iran.
Fuori, il traffico è caotico: una miriade di auto, nuovissime e vecchie, lussuose e sgangherate, viaggiano a singhiozzo nella metropoli da 12 milioni di abitanti.
Ci colpisce subito un elemento del paesaggio: le donne sono avvolte nei chador neri, i lunghi mantelli che dal capo scendono fino ai piedi, avvolgendo tutto il corpo. È un dettaglio che impressiona, perché, all’apparenza, fornisce un aspetto «omologante» della presenza femminile nel paese.
Impareremo, nei giorni successivi, che è meglio non giudicare una civiltà dai metri o centimetri di stoffa che indossa o non indossa la popolazione: il 35% dei parlamentari iraniani è donna. Uno dei quattro vice-presidenti (c’è anche un sunnita) è donna. Il 60% degli studenti universitari (la percentuale più alta del mondo) è donna. Molte sono le signore in carriera: top manager, docenti, medici, ingegneri, giornaliste, ecc. E questo, nonostante il chador. I paragoni con l’Italia di vallettopoli e di velinopoli – dove la carriera la si fa solo se si è «sufficientemente scoperte» – sono immediati.
Qua e là, a dir il vero, incontreremo anche tante donne con un semplice foulard colorato che copre la testa e in abbigliamento elegantissimo o moderno.
La città ci appare frenetica, immensa nei suoi innumerevoli quartieri e giganteschi caseggiati. Nell’ora di auto, dall’aeroporto al residence nella collina elegante di Teheran dove alloggiamo, scorrono di fronte a noi paesaggi urbani molto diversi: da quelli più popolari alle aree ricche della borghesia medio-alta iraniana. I contrasti tra zone nuove e belle e quelle povere è ancora molto forte, acuito dal continuo flusso di persone che dalle province desertiche o montane si stabiliscono nella megalopoli persiana. Notevole è anche la presenza di immigrati giunti dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iraq.
Nelle strade, dovunque, giganteggiano le fotografie del defunto imam Khomeini, di cui, in questi giorni, si celebra il 18° anniversario della morte (3 giugno 1989).

La retorica di «Ahmy»:
è vero pericolo?

Entriamo nel compound della presidenza iraniana: è un quartiere vero e proprio, con molti edifici, chiuso da cancellate, guardiole, checkpoint. Lasciamo borse, zaini, macchine fotografiche e quant’altro, in un posto di polizia. Veniamo perquisiti: le donne entrano da un ingresso, gli uomini da un altro. Da una nostra tasca esce una bottiglia d’acqua: siamo invitati a bee un sorso, per provare che non contenga liquidi pericolosi (anche nei nostri aeroporti è vietato portarsi dietro bottigliette con liquidi). Le penne vengono smontate e rimontate, per verificare che non siano  piccoli ordigni.
Alla fine, riusciamo a salire al terzo piano e ad accedere a una sala congressi enorme e bella. È affollata di giornalisti, membri di associazioni, delegazioni inteazionali, politici.
Il presidente Mahmoud Ahmedinejad entra di lì a poco, tutti balzano in piedi e lo accolgono con l’inno nazionale. È in tenuta casual, informale. Saluta con sorrisi. Ha un’aria popolare, molto poco chic.
«La rivoluzione iraniana è stata una salvezza per il popolo iraniano – arringa subito il pubblico, apparentemente già ben disposto -, ma anche per il resto dell’umanità: un esempio di giustizia e liberazione. La Repubblica islamica dell’Iran appartiene a tutte le nazioni libere, non è solo del popolo iraniano. Noi lottiamo per la dignità e la liberazione dei paesi oppressi, contro il sionismo, contro il razzismo, il marxismo, l’apartheid e l’amministrazione criminale statunitense».
La sua è una retorica che mescola populismo, messianismo politico-religioso, guevarismo zapatista e altro ancora, a tratti ridondante, a tratti coinvolgente. Molti la amano, altri la odiano o la sopportano con fatica.
 «L’imam Khomeini – aggiunge Ahmedinejad – è stato un perfetto successore del profeta Muhammad: credeva che la fede in Dio fosse sufficiente per cambiare il mondo. Il suo messaggio è universale, senza confini e barriere linguistiche, culturali, religiose. Riteneva che tutte le forze dovessero unirsi per sconfiggere gli oppressi del mondo – dal nord al sudamerica, dalla Palestina ai popoli africani. Rispettava la dignità di tutti: riteneva che gli esseri umani non debbano essere umiliati, oppressi  dai poteri coloniali.
Credeva nel potere dei popoli: quando una nazione è risoluta, nessun potere può sconfiggerla. E così che accade all’Iran».
Ahmedinejad fa poi un riferimento alla Palestina, questione molto sentita in Iran: «Il regime sionista non vale nulla: anche se sostenuto dai potenti della terra, non potrà vincere se i palestinesi hanno fiducia in Dio. Il conto alla rovescia del regime sionista è iniziato. Ormai in tanti sono stufi di questa situazione di oppressione mondiale: in molti stanno cercando giustizia e purezza. Loro, i potenti, possono ferire, uccidere, ma il popolo lotta e va avanti come in Libano, in Palestina e in altri paesi. Dobbiamo credere in Dio e marciare avanti: la distruzione dei “tradizionali” poteri è molto vicina».
I delegati di Siria, Palestina, Libano, India, Pakistan, di alcuni stati africani, del Venezuela lo acclamano dedicando a lui, a Khomeini e all’Iran interventi entusiastici, da «liberatori degli oppressi». L’inviato indiano sottolinea che «la rivoluzione iraniana è stata pacifica e senza spargimento di sangue».
La Siria si definisce «orgogliosa di essere considerata alleata della Repubblica islamica d’Iran», mentre il rappresentante pakistano enfatizza «la necessità dell’unione dei “fratelli musulmani” sotto la bandiera dell’Iran per “lottare contro le occupazioni straniere”. Il governo iraniano deve guidare questa rivoluzione per gli sciiti e i sunniti insieme».
Caloroso l’abbraccio tra l’inviato del presidente venezuelano Hugo Chavez e Ahmedinejad: «La vittoria della rivoluzione islamica è un esempio per tutti i popoli oppressi. Il Venezuela crede che il popolo d’Iran avrà successo nella sua lotta contro l’oppressione statunitense».
Insomma, retorica arabo-islamica-terzomondista a parte, sembra che «Ahmy» faccia paura prevalentemente all’Occidente ricco e neo-colonialista.
Khomeini:
cominciò tutto con lui

La settimana del nostro viaggio cade durante le grandi celebrazioni per la morte di Ruhollah Khomeini (1). Gli organizzatori del nostro soggiorno iraniano ci portano al Mausoleo dell’imam, a qualche chilometro a sud della città.
Una folla immensa, oceanica riempie la moschea – un’enorme costruzione di ferro e cemento, semiaperta. Anche qui, il servizio di controllo è massiccio. Le donne sembrano un oceano nero che ondeggia seguendo il ritmo della preghiera.
Le parole dell’ayatollah Khamenei, dal palco, rimbalzano da un lato all’altro delle colonne in cemento armato e legno, mentre da un maxischermo troneggia la sua figura. I suoi sono proclami religiosi e nazionalisti. Sollecita l’unità della popolazione contro il comune “nemico”. Forte è il richiamo identitario. I cittadini-fedeli gli rispondono di tanto in tanto con un’invocazione di lode a Dio, al profeta Muhammad e ad Ali (cugino e genero).
Una giovane donna del servizio d’ordine si avvicina per chiederci se siamo comode e se va tutto bene. Se girasse per le nostre piazze, la scambieremmo per una suora: chador nero sovrapposto a copricapo bianco che le incoicia il viso, bellissimo e dall’espressione molto decisa. Anche le mani sono nascoste da guanti neri.
Al centro della moschea-open space c’è un parallelepipedo verde, di vetro, con all’interno la tomba di Khomeini, oggetto di pellegrinaggio e di venerazione.
Nel pomeriggio, visitiamo la cittadella dell’Imam: un quartiere popolare e collinare, che ospita la casa dei suoi ultimi anni di vita, collegata alla moschea con un ponticello. Poi entriamo nell’ospedale per le malattie cardiache (dove Khomeini venne ricoverato e dove spirò) e un museo.
Gli amici iraniani tengono a farci notare che il loro leader, nonostante l’importanza politica che rivestiva e il ruolo, decise di vivere in due modeste stanze, in mezzo al popolo. Nel suo salotto-ingresso riceveva capi di Stato e delegazioni straniere. Casa e moschea sono ben lontane dal lusso spettacolare che contraddistingue i palazzi degli shah Pahlavi, insediati sull’antico trono di Persia da Gran Bretagna prima e Stati Uniti dopo.
Il museo fotografico, che ripercorre la vita di Khomeini, e l’annessa libreria, dove regalano testi sull’islam, trattati religiosi e di politica internazionale da lui scritti, costituiscono un centro di propaganda per la popolazione, soprattutto giovanile, e per eventuali turisti.
Lasciamo il quartiere e dopo poco ci troviamo ad attraversare la via più lunga e elegante di Teheran, costeggiata da alberi, palazzi lussuosi con banche, negozi, residenze, ristoranti alla moda, giorniellerie, boutique.
Una delle tante e interessanti contraddizioni di questa metropoli mediorientale.

Una «fatwa»
contro le atomiche

Siamo in un lussuoso hotel, eredità dei tempi dello shah, seduti in un bel salotto orientale, sfarzosamente arredato con velluti, lampadari dorati, tavolini pregiati e altre raffinatezze. Stiamo aspettando di cenare con le delegazioni straniere presenti in questa settimana di celebrazioni.
Hassan, un ingegnere che ha studiato in Italia, ci «disvela» l’enigma del nucleare iraniano.
«Non ci interessa la bomba atomica. Vogliamo usare il nucleare per scopi civili. Ne abbiamo ben il diritto. I risultati delle nostre ricerche vengono sfruttati nel campo della medicina e in altri settori scientifici. Si curano molte malattie con la medicina nucleare, si eseguono diagnosi, si crea energia elettrica. Inoltre, per alterare le caratteristiche di molti metalli, c’è bisogno di arricchimento nucleare.
Diciamolo: questa non è una lotta per la “sicurezza mondiale”, ma per il predominio economico. Se noi non fossimo in contrasto “ideologico” con gli Stati Uniti, nessuno ci direbbe nulla. I giornali occidentali non continuerebbero a pubblicare quotidiana disinformazione e propaganda sul nostro conto.
Israele, India, Pakistan, a differenza dell’Iran, possiedono bombe nucleari e non hanno mai firmato il Tnp, il “Trattato di non proliferazione nucleare”.
Fino a qualche tempo fa, avevamo messo in moto circa 3 mila centrifughe nucleari. Arriveremo a 60 mila. Avremo la possibilità di costruire bombe, tuttavia, ciò che voi non sapete è che è stata emanata una fatwa, un consulto giuridico islamico, che vieta di produrre atomiche. Khomeini ce lo ha sempre ripetuto».

L’Iran nucleare
ha firmato il Trattato

In un dossier divulgativo, Peaceful Application of Nuclear Science and Technology in Islamic Republic of Iran, che mi consegnerà nei giorni successivi il direttore di una testata giornalistica iraniana, si legge: «A causa del forte impatto della scienza e della tecnologia nucleare sugli indicatori scientifici, economici e sociali, e per lo sviluppo in generale, la Repubblica islamica dell’Iran è determinata ad aprirsi la strada attraverso il tortuoso sentirnero dell’uso pacifico di questa tecnologia».
Nel dossier si legge: «Al momento, la Repubblica islamica dell’Iran ha focalizzato il programma nucleare principalmente su queste basi: 1) reattori nucleari per generare elettricità. (…) Da un lato, lo sviluppo degli standard di vita e il miglioramento degli indicatori dell’economia hanno creato un incremento della domanda di energia nei settori domestici e industriali. Dall’altro, l’economia nazionale è dipendente dalle rimesse del petrolio (…) la Repubblica islamica dell’Iran non può contare, per la propria energia, soltanto sulle foiture dai combustibili fossili (…), e questo per i seguenti motivi: le risorse sono limitate; inquinano; fanno lievitare il prezzo delle produzioni industriali».
Le altre basi sono: 2) reattori nucleari per la ricerca medico-scientifica-diagnostica; 3) combustibile nucleare; 4) sviluppo nucleare nel campo della medicina, dell’industria e dell’agricoltura.
Nella relazione si evidenzia, inoltre, che l’Iran «è tra i primi ad aver firmato lo statuto dell’Aiea (l’Agenzia internazionale delle Nazioni Unite per l’energia atomica), di cui è membro. Come tale, ne condivide gli obiettivi e i principi. Inoltre, l’Iran è tra i primi Paesi ad aver approvato, nel 1970, il Trattato di Non proliferazione Nucleare (Tnp).
Agli inizi del XXI secolo, a causa della propaganda sbagliata e falsa di alcuni gruppi di opposizione, le attività nucleari, per scopi pacifici, dell’Iran nel campo dell’arricchimento e del ciclo del combustibile nucleare, sono state mostrate come segrete e contrarie agli standard e ai principi inteazionali. Tuttavia, nonostante quanto dichiara la propaganda, esse sono sottoposte alla supervisione dell’Aiea e del Tnp».
L’Iran ha sempre ribadito la propria disponibilità a cornoperare con l’Agenzia e ad aprire ai controlli i propri siti. Mohammed el-Baradei, direttore generale dell’Aiea, a gennaio del 2006 dichiarò: «Nessuna prova che l’Iran prepari l’atomica».
Ciononostante, la propaganda politico-mediatica degli Usa e dei giornali occidentali – tra questi, dei quotidiani nazionali italiani – incalza.
Questa primavera, un’armata americana è stata radunata davanti alle coste iraniane. Il tamburo della prossima folle guerra di rapina sta risuonando minaccioso.
(fine 1.a puntata – continua)

Di Angela Lano


(1) Ayatollah Ruhollah Mosavi Kho­meini: nato nel maggio del 1902 e morto il 3 giugno del 1989. È stato leader politico e religioso dell’Iran dal 1979 al 1989, dopo la rivoluzione che rovesciò il regime dello shah Reza Pahlavi. Suo successore è l’Ayatollah Ali Khamenei.

Angela Lano




Terre di passaggio

Coo d’Africa: prove di federalismo etnico

Nazioni e popoli: un paese suddiviso in 9 stati regionali. Città fantasma, autodeterminazione etnica, educazione nomade e miscuglio culturale.
Reportage dall’Afar, zona depressa, ma che collega Addis Abeba al mare.

La cronaca internazionale si è ricordata dell’esistenza dell’Afar, regione del nord-est dell’Etiopia al confine con Eritrea e Gibuti, soltanto qualche mese fa, in occasione di un tentativo un po’ maldestro di inserirsi nel giro dell’economia politica dei rapimenti inteazionali.
Il 2 marzo scompariva un gruppo di turisti europei di cui facevano parte dipendenti e familiari dell’ambasciata inglese di Addis Abeba. Con il loro rilascio, dopo dieci giorni di prigionia, si spegnevano i riflettori, senza tuttavia che sulla vicenda venisse mai fatta piena luce. Poco importava che nelle mani dei rapitori fossero rimasti otto etiopici, liberati soltanto un mese dopo, nell’indifferenza generale.
Gli autori del colpo erano semplici banditi oppure militanti di gruppi indipendentisti come l’Afar Revolutionary Democratic Unity Front? Il fatto poi che il rilascio sia avvenuto in Eritrea ha aperto numerose ipotesi sul coinvolgimento del governo di Asmara, tradizionale avversario dell’Etiopia. I due paesi hanno combattuto una guerra fratricida tra il 1998 e il 2000, ma ad oggi non sono riusciti a mettersi d’accordo sul confine e a riprendere normali relazioni diplomatiche. Anche perché la vicinanza di un potenziale nemico non dispiace alle élite dei due paesi, soprattutto quando la minaccia estea facilita la repressione del dissenso interno, come dimostrano le centinaia di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri dei due paesi.

landa inospitale

«Chi sia stato non lo so – afferma Karim, guida turistica – ma di certo non ha reso un bel servizio a  quel poco di turismo che stiamo cercando di sviluppare nella regione».  Turismo che paradossalmente punta proprio sul fascino dell’estrema inospitalità dell’area: il vulcano Ertale, tuttora in funzione a testimonianza dell’intensa attività geologica (che tra milioni di anni porterà alla separazione del Coo d’Africa dal resto del continente), la depressione della Dancalia con le sue miniere di sale, uno dei luoghi più caldi della terra, dove le temperature possono arrivare a cinquanta gradi all’ombra. «I turisti che arrivano fin qui amano l’avventura e non ricercano troppe comodità» precisa Karim. Sarebbe comunque difficile trovarle, in una regione dove la popolazione è organizzata in clan seminomadi che vivono principalmente di pastorizia o dell’estrazione e commercio del sale.
L’unica striscia verde nel giallo del deserto è rappresentata dal fiume Awash, che, soffocato dal caldo, esaurisce la sua corsa nel lago Abhe Bad, nei pressi dell’antico capoluogo, Asaita.

Decentramento «etnico»

Da qualche anno è infatti in costruzione la nuova capitale regionale, Semera. Ufficialmente per ragioni logistiche, visto che Asaita era troppo lontana dalla strada che collega Addis Abeba al porto di Gibuti, ma soprattutto per segnare simbolicamente il cambio di clan al potere ed avviare in pompa magna la stagione del decentramento amministrativo.
L’Afar infatti è uno dei nove «stati regionali» su base etnica in cui l’Etiopia è stata suddivisa con la Costituzione del 1995. Nessun altro paese africano si era spinto a istituzionalizzare le divisioni etniche in maniera così radicale, riconoscendo il diritto all’autodeterminazione di «nazioni, nazionalità e popoli» fino a prevedere anche il loro diritto alla secessione.
«Da nessuna parte però viene specificata la differenza tra nazione, nazionalità e popolo e così resta una gran confusione su chi abbia diritto a che cosa. Inoltre la divisione amministrativa su base etnica rischia di esasperare  differenze e rivalità tra vari gruppi e di far esplodere il paese. «Aspettiamo di vedere quali saranno i risultati del censimento nazionale avviato nel mese di maggio» sostiene Bruk, ex funzionario regionale ora passato alla più remunerativa posizione di consulente delle Nazioni Unite. «E l’efficacia del decentramento amministrativo dipende in realtà soprattutto dalle capacità finanziarie e dalle risorse umane disponibili nelle varie regioni».
In Afar questo processo è iniziato tra mille difficoltà logistiche e finanziarie soltanto nel 2004, come nelle altre cosiddette «regioni emergenti». Difficile però emergere quando si parte da un territorio a 100 metri al di sotto del livello del mare e da un tasso di scolarizzazione che non raggiunge il 22%, appena un quarto della media nazionale.

educazione seminomade

«Lo stile di vita delle popolazioni seminomadi mal si adatta al sistema della scuola tradizionale» spiega Fikre Referra, direttore della scuola elementare di Dubti, mostrandoci le aule in muratura costruite una decina di anni fa con fondi della Banca Mondiale, ma da allora rimaste quasi vuote, come appaiono oggi. «E l’offerta di educazione alternativa, come le scuole mobili, resta limitata, visto che a garantirla ci sono soltanto quelle poche Ong locali e inteazionali che operano nella regione.  C’è poi il problema degli insegnanti: difficile convincere quelli qualificati a venire a insegnare fin qui. Resistono un anno o due, ma appena possono si trasferiscono in città o in altre regioni». Uno dei diritti fondamentali garantiti dal federalismo etnico dovrebbe essere l’insegnamento in lingua locale nella scuola primaria, ma qui si è preferito adottare l’amarico, la lingua nazionale. «L’Afar è una regione povera, con circa un milione e mezzo di abitanti: quanta strada può fare un giovane che parla solo la lingua locale? E poi abbiamo dovuto ovviare alla carenza di insegnanti capaci di esprimersi in lingua afar, che resta giovane e poco codificata. Stiamo completando solo ora, grazie a fondi della Cooperazione Italiana, la stampa del primo dizionario afar-amarico-inglese» spiega Habib Yayo, direttore dell’ufficio regionale per l’educazione. Ci riceve in una stanza al terzo piano di un palazzo non ancora completato -mancano porte, ringhiere e rifiniture – ma già in funzione da due anni.

città artificiale

Se mai sarà finito, sabbia, polvere e mancanza di manutenzione lo avranno fatto nascere già vecchio e decadente. Come la maggior parte dei palazzi di Semera, pomposamente presentata come città modello dell’autodeterminazione regionale. Peccato che il modello seguito nella pratica sia stato quello della cattedrale nel deserto circondata dai simboli retorici del potere: stadio, aeroporto e museo della cultura afar.  Tutti ancora in costruzione e circondati dal deserto: uno skyline da città fantasma in cui svettano i serbatorni che tentano di risolvere la mancanza d’acqua.
Per il momento le uniche cose che sembrano funzionare davvero sono i condizionatori e le parabole satellitari degli appartamenti destinati ai funzionari degli uffici regionali, attorno a cui ruota quel poco di vita che esiste a Semera.
La maggior parte di funzionari ed esperti arriva da fuori, con il soprannome di highlanders, in quanto scendono dalle regioni dell’altopiano forti dei loro diplomi a cercare lavoro nella nuova amministrazione regionale. Ma in omaggio al principio dell’autodeterminazione etnica, i direttori degli uffici, di nomina politica, devono appartenere all’etnia afar. E siccome tra questi sono in pochi quelli in possesso di un titolo di studio, non di rado dei giovani neo-diplomati si trovano a dirigere colleghi più anziani ed esperti che arrivano da altre regioni.
Molti di quelli che lavorano a Semera, e soprattutto coloro a cui non viene concesso di abitare negli appartamenti riservati ai funzionari assegnati dalle autorità politiche, scelgono di vivere nella vicina cittadina di Logya, dove si svolge la vera vita. Punto di sosta per i funzionari delle organizzazioni inteazionali e delle Ong in visita a Semera, ma soprattutto dei camionisti che percorrono la strada che  collega Addis Abeba al porto di Gibuti, da cui transita tutto il commercio con l’estero dell’Etiopia.

miscuglio culturale

Una rotta che spiega l’interesse strategico da parte del governo di Addis per questa regione altrimenti marginale. Il transito dei commerci e la vicinanza degli uffici pubblici hanno contribuito a ricreare anche in questo angolo di Afar la mescolanza di etnie e popolazioni tipica di molte altre regioni dell’Etiopia. Le principali attività commerciali sono infatti gestite da famiglie costrette ad emigrare dal vicino Tigray in cerca di fortuna o per sfuggire alla guerra.
È il caso di Desta, scappato dalla città di Zalambessa, al confine con l’Eritrea, rasa al suolo durante il conflitto del 1998-2000. Oggi gestisce il Nazaret Hotel, che gode della fama di miglior albergo della città, come testimonia la lunga fila di letti puliti ed equipaggiati di zanzariere che ogni sera vengono preparati nel cortile, per sconfiggere il caldo approfittando della brezza nottua. «Stiamo espandendo l’albergo – racconta – per accogliere tutti i lavoratori che arriveranno con l’apertura dei cantieri per la costruzione di una grossa diga sul fiume Awash che servirà alla coltura della canna da zucchero».
Il segno della presenza sempre più numerosa degli highlanders è sicuramente la costruzione di una grossa chiesa ortodossa a Logya, in una regione dove il 90% della popolazione è musulmana. «In fondo questa mescolanza in Etiopia è la norma» sottolinea Shimeles, giovane medico anche lui di passaggio al Nazaret Hotel. La sua maglietta recita «Etiopia: una nazione, molti popoli e linguaggi» e la sua vita sembra confermarlo: nato ad Addis, ha studiato a Jimma, nel sud-ovest del paese e ora lavora in Afar per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tra le altre cose è impegnato a fronteggiare un’epidemia di «acute water diahorrea» che tradotto sarebbe «colera», ma per ragioni politiche e diplomatiche la parola non si può usare, visto che il governo etiopico continua a rifiutarsi di riconoscere ufficialmente la presenza di questa epidemia.
Mentre chiacchieriamo l’unico canale televisivo nazionale manda in onda immagini di repertorio della Conferenza nazionale che nel 1995, al termine della guerra civile per rovesciare la dittatura di Menghistu, aveva prodotto l’attuale Costituzione. «Continuano a mandare in onda questa roba per fare il lavaggio del cervello alla gente e distogliere la loro attenzione dai problemi veri, come la fame o l’Aids. Parlano di federalismo e diritto all’autodeterminazione, ma io non so di quale nazione, nazionalità o popolo faccio parte. Sono semplicemente etiopico! Ma intanto violano apertamente i diritti dell’opposizione, i cui leader sono ancora in galera».
In prigione dal novembre 2005, in seguito alle proteste per i brogli elettorali che hanno permesso al governo del primo ministro Meles Zenawi di restare al potere, ci sono i principali leader dell’opposizione e con loro una ventina di giornalisti. Ad aprile sono stati scagionati dalle accuse di alto tradimento e tentato genocidio. Ma la maggior parte di loro resta in carcere e sarà comunque processata per tentativo di insurrezione armata e crimini contro la Costituzione, reati per cui sono previsti anche l’ergastolo o la pena capitale.
Pratiche di un sistema federale che rischia di fallire non tanto perché troppo etnico, quanto piuttosto perché troppo poco democratico.

Di Emanuele Fantini

Emanuele Fantini




«Piccola casa», grande amore

Ritoo alla missione della Piccola Casa, sulle orme delle pioniere

Nel 1972 la Piccola Casa è ritornata in Kenya, nella missione di Tuuru, al fine di dare una continuità
ed un valore sempre attuale alla testimonianza di tante suore, che cinquant’anni prima avevano dato la loro vita per dissodare il terreno di una cultura ancora totalmente ignara del Vangelo.

A ll’inizio del xx secolo la Piccola Casa fu contattata dal beato Giuseppe Allamano, che si trovò nella necessità di avere suore da mandare nelle neonate missioni della Consolata, quando ancora egli non aveva alcun progetto per la fondazione di una congregazione femminile. La richiesta fu accolta e per un ventennio (1903-1925) le suore Vincenzine del Cottolengo lavorarono in Kenya al fianco dei primi padri e fratelli della Consolata.
dissodarono il campo
Mons. Perlo desiderava prima di tutto avere delle «buone massaie», che fossero in grado di occuparsi del corretto andamento delle missioni. Progressivamente però esse furono investite di ruoli di primo piano nella evangelizzazione come la visita ai villaggi, l’assistenza agli ammalati e ai morenti, la cura pastorale dei piccoli per mezzo di asili infantili e il catecumenato delle ragazze.
Le Vincenzine si dedicarono anche ai bambini abbandonati, curandoli e allevandoli. Da tale attività nacquero i primi orfanotrofi.
Durante la Prima guerra mondiale vediamo le suore cottolenghine sparse in diverse parti dell’Africa Orientale per prestare la loro opera infermieristica e caritativa in vari ospedali da campo organizzati per lenire le sofferenze della popolazione indigena, coinvolta nelle ostilità senza peraltro conoscee il motivo.
Non mancarono le difficoltà, dovute alla lingua e al fatto che le suore erano preparate per il servizio del povero e dell’infermo, mentre fin dall’inizio furono impiegate per attività di catechesi diretta, per la quale non erano ancora pronte.
La difficoltà di comunicazione con la casa madre fece sorgere nella Piccola Casa un certo timore che le suore potessero in qualche modo perdere l’ispirazione carismatica originale, diventando poi di fatto una congregazione religiosa separata.
Un altro elemento che per certo creò notevoli difficoltà fu lo stile di vita imposto da mons. Perlo alle suore, ai padri e ai fratelli, fatto di privazioni eccessive e difficilmente sopportabili. Egli era un uomo radicale, esigentissimo con se stesso e anche un po’ troppo duro con gli altri che non erano fatti con il suo stesso stampo e rischiavano di ammalarsi conducendo un’esistenza modellata sulla sua.
Nel 1910 l’Allamano fondò le suore missionarie della Consolata che, finita la guerra, sostituirono gradualmente le suore Vincenzine. Queste lasciarono alle nuove venute i frutti del loro apostolato: case avviate, chiese ricche di ricami e paramenti e soprattutto delle comunità cristiane già iniziate, anche se ancora in tenera età e quindi bisognose di cure per crescere sane e robuste.
Le Vincenzine hanno dissodato il terreno. Non hanno potuto vedere molte conversioni e battesimi, ma i successi riportati nei decenni seguenti affondano le radici nel loro sacrificio di consacrate. Esse hanno «seminato nel pianto» lasciando poi ad altri la gioia di raccogliere «i loro covoni».
eredità ripresa
Sotto la spinta del rinnovamento impressa dal Concilio Vaticano II la Piccola Casa è ritornata in terra d’Africa. Il Cottolengo riprese coscienza che il seme sparso da tante sorelle in missione, era ormai pronto a germinare e a fare frutto: quando si trattò di decidere in quale parte del mondo iniziare, fu chiaro per i superiori della Piccola Casa che la nostra avventura missionaria avrebbe dovuto ricominciare là dove, per motivi storici, era stata interrotta. Mancava soltanto l’occasione per partire, o un segno particolare della divina Provvidenza, che aiutasse a capire in che modo il Cottolengo potesse reinserirsi nella chiesa del Kenya.
Nell’Africa equatoriale, e in particolare in Kenya, la poliomielite era, ed è tuttora, una fonte di grandi problematiche sociali, in quanto normalmente non uccide le persone affette, ma le rende gravemente handicappate, impedendo loro sia una vita autonoma, sia la possibilità di lavorare per provvedere alla famiglia.
Nel 1963, padre Franco Soldati, missionario della Consolata, cominciò a raccogliere i piccoli poliomielitici della zona di Tuuru, nel distretto di Meru. L’opera prosperò notevolmente e la struttura dovette essere ampliata, fino ad una capienza di 250 posti letto: assieme ai poliomielitici venivano accolti anche portatori di handicap mentale e affetti da paralisi spastiche.
Ingenti erano le spese di mantenimento. A questo si aggiunse il problema dell’approvvigionamento idrico: l’acqua veniva raccolta in un vicino corso d’acqua e trasportata alla missione con taniche caricate sulla Land Rover. Tale problema trovò soluzione a partire dal 1971, ad opera di fratel Giuseppe Argese, che riuscì a costruire un gigantesco acquedotto, ancora oggi considerato una meraviglia dell’ingegno umano.
L’opera diventava sempre più difficile da gestire per cui padre Soldati chiese la collaborazione della Piccola Casa. Padre Luigi Borsarelli, ai tempi padre Generale del Cottolengo, e madre Bianca Crivelli si dimostrarono molto interessati alla proposta e, dopo aver visitato la missione, conclusero che «quello era pane per i loro denti».
Nella lettera circolare che madre Bianca inviò a tutte le suore si legge: «Dopo esserci consigliate, aver pregato e fatto pregare, abbiamo optato per il nostro ritorno nelle terre già santificate dal lavoro, dalle fatiche e dagli eroismi delle nostre sorelle. Non potremmo fare a meno di ritornare là, perché la compianta madre Scolastica, chiudendo le memorie di suor Maria Carola, la pregava di intercedere affinché “quella fiaccola accesa con sacrifici eroici delle nostre sorelle non si spenga prima che altre sorelle giungano a riprendere il solco da lei lasciato interrotto”… Desideriamo tornare là dove il nostro santo Cottolengo è ancora conosciuto e amato, dove sono ancora di casa le sembianze delle nostre care sorelle».
Le prime cinque suore del Cottolengo giunsero a Tuuru l’11 marzo 1972. Tutte erano infermiere professionali, ad eccezione di una specializzata in fisioterapia. L’idea era quella di trasformare Tuuru in un vero e proprio centro di riabilitazione e di recupero per i poliomielitici, avvalendosi anche della collaborazione del prof. Operti, che si era nel frattempo reso disponibile a una preziosa opera di volontariato come chirurgo; la riabilitazione sarebbe stata affidata alle suore cottolenghine.
missione cottolenghina
Insieme al secondo gruppo di suore, partirono anche due fratelli cottolenghini che si inserirono gradualmente nell’organico lavoro della missione di Tuuru. Fratel Lodovico iniziò il proprio servizio al dispensario, dove ogni giorno affluivano circa 200 persone, affette da vari tipi di malattie, e collaborava con il prof. Operti per gli interventi chirurgici ai bambini polio ricoverati nella missione.
Fratel Umberto ben presto imparò l’arte di confezionare scarpe ortopediche e calipers per i piccoli handicappati di Tuuru. In seguito altri fratelli si unirono al nucleo originario dedicandosi chi al lavoro nella calzoleria e nell’officina ortopedica e chi alla formazione dei giovani aspiranti alla vita religiosa dei fratelli.
Giunsero quindi i primi sacerdoti cottolenghini che si dedicarono alla cura pastorale della parrocchia di Tuuru. Nel 1973, durante una visita canonica dei tre superiori della Piccola Casa si conclusero gli accordi con padre Soldati e con i superiori dei missionari della Consolata, per un passaggio definitivo del Centro e della parrocchia di Tuuru alla Piccola Casa.  Sorsero poi anche le vocazioni locali: il primo sacerdote keniota fu don Filippo Ntonja, che aprì la strada a un nutrito gruppo di giovani che ora formano le nuove leve della società dei sacerdoti cottolenghini in Kenya.
Con la gestione del Centro di Tuuru da parte della Piccola Casa, venne dato un nuovo impulso all’edilizia con la costruzione di un reparto per i «buoni figli», una nuova casa per il ricovero delle bambine, la palestra, l’officina ortopedica, la calzoleria e il nuovo dispensario.
Il Centro sempre più si veniva qualificando come una struttura per la terapia chirurgica e riabilitativa dei bambini affetti da poliomielite. Il trattamento chirurgico veniva eseguito dal prof. Operti, che ogni anno giungeva in Kenya nel mese di febbraio, con l’incarico di operare tutti i bambini, che erano stati prescelti dalle suore nel corso dell’anno.
La parte di recupero funzionale era quindi lasciata alle sorelle fisioterapiste, che per molti mesi cercavano di recuperare motilità agli arti malformati, tramite una paziente e continua attività di rieducazione motoria. Tale attività è continuata fino al 1999, quando si è deciso di riconvertire l’attività della missione di Tuuru ai bambini spastici, cerebrolesi gravi. Tale scelta è nata dalla considerazione che dopo molti anni di campagne di vaccinazione antipolio, il numero dei bimbi affetti dalla malattia era radicalmente diminuito.
Da sempre Tuuru è stato anche un centro di accoglienza per i giovani «buoni figli», e ancora oggi accoglie un discreto numero di handicappati mentali, per lo più di sesso femminile. Tuuru è anche l’unica parrocchia cottolenghina in Kenya: è una parrocchia molto grande ed esigente, con un vasto numero di chiesette succursali, che vengono visitate regolarmente dai sacerdoti e dai catechisti. La missione, inoltre, ha costruito e gestisce una grande scuola elementare per i poveri, dove bambini bisognosi vengono accolti e seguiti nella loro educazione primaria.
nuova missione a chaaria
Sin dal 1983 si cominciò a sentire la necessità di una casa di formazione per i fratelli, che fosse più confacente alle necessità della loro crescita spirituale. Il vescovo di Meru offrì ai fratelli un terreno nella erigenda parrocchia di Chaaria, un piccolo mercato situato a circa 20 km da Meru.
La zona era semiarida e popolata da un esiguo numero di famiglie, per lo più dedite ad attività agricole per l’esclusivo sostentamento familiare. A Chaaria già esisteva una chiesetta, che però era succursale di una parrocchia alquanto lontana. Esistevano anche i locali di un piccolo dispensario costruito con le offerte della gente: dispensario che comunque non era mai stato attivato.
La costruzione del Cottolengo Centre di Chaaria proseguì velocemente e, nel giugno del 1985, il primo gruppo di candidati fratelli venne accolto nella nuova casa di formazione. In luglio vennero accolti i primi sette «buoni figli», tutti provenienti da Tuuru. Si trattava di giovanotti ormai adulti e diventati troppo pesanti per l’assistenza delle sole suore.
Il 19 gennaio 2001 a Chaaria sono giunte le suore cottolenghine: al momento sono solo due, ma i progetti della Piccola Casa prevedono l’ampliamento di questa comunità, al fine di dare un necessario taglio femminile al nostro servizio. Al momento suor Lucy si occupa di terapia occupazionale e della scuola speciale per gli handicappati. Inoltre si dedica ad attività di counselling per i pazienti affetti da HIV, e a programmi pastorali in parrocchia.
a servizio dei «buoni figli»
Fin dall’inizio fu attivato il servizio sanitario nel dispensario: il servizio copriva sei giorni alla settimana e riusciva ad assistere fino a 200 persone al giorno. Insieme alla terapia per varie malattie tropicali, si eseguiva prevenzione sia attraverso la vaccinazione dei bambini, sia attraverso le visite periodiche alle donne gravide.
Dal 1993 venne iniziata l’attività del mobile clinic, attraverso la quale si tentò di aiutare i pazienti provenienti da località molto remote. In giorni fissi il personale del dispensario usciva dal Centro, per raggiungere villaggi relativamente lontani, dove si organizzavano giornate di terapia e prevenzione, normalmente all’interno di alcune chiesette, che risultavano particolarmente adatte allo scopo.
Negli ultimi anni il dispensario è diventato un ospedale con 140 posti letto. La trasformazione si deve all’arrivo, nel 1997, di fratel Beppe Gaido, medico, la cui presenza consente al dispensario di fornire prestazioni di più ampia portata e attira un numero sempre maggiore di utenti con le patologie più varie, anche con carattere di urgenza o gravi; basti rilevare che nei primi sei mesi del 2003 il numero dei pazienti visitati gioalmente è giunto fino a 350 unità.
L’aumento dei pazienti è dovuto anche al fatto che essi sanno di venire curati adeguatamente, di poter trovare le medicine, un consiglio competente e un aiuto umano.
È da considerare poi che il servizio clinico dell’ospedale copre 24 ore su 24 anche le necessità sanitarie dei «buoni figli», con i quali si fa prevenzione, diagnosi di laboratorio e cure di vario genere.  Inoltre, l’ospedaletto si prende cura di un certo numero di orfani, dalla nascita all’età di circa 6 mesi: tali orfani sono per lo più figli di donne decedute al momento del parto, tanto nel nostro ospedale, quanto in altri ospedali vicini.
Due volte al mese usciamo per il mobile clinic, e cerchiamo di portare le nostre prestazioni sanitarie più vicino alle persone che più ne hanno bisogno. Dal 1990 è presente un organizzato servizio dentistico supportato dal contributo di dentisti che vengono a Chaaria durante il mese di agosto. Dobbiamo veramente tanto ai volontari che hanno gradualmente elevato il livello delle prestazioni tecniche in ospedale: a loro dobbiamo l’inizio delle attività di ecografia diagnostica e l’attivazione dell’attività chirurgica.
Il Centro è attrezzato per 50 posti letto, al momento tutti occupati. Gli ospiti sono accuditi anche da un buon gruppo di personale dipendente, che ogni giorno segue le loro necessità personali. Oltre al quotidiano servizio domestico e alberghiero, esiste un’attività di apprendimento scolastico. Non sono mancati momenti di svago attraverso il gioco o le uscite dal Centro. Nel 2006 siamo riusciti a portare i «buoni figli» al Parco Nazionale per almeno due volte.
Il Centro è meta per visite guidate da parte di gruppi scolastici, parrocchiali ecc.
Quasi tutti gli ospiti hanno bisogno di interventi fisioterapici; esiste dunque una palestra totalmente dedita ad attività di riabilitazione per i «buoni figli». Anche nel Centro operano molti volontari che contribuiscono all’animazione dei ragazzi e alla normale gestione dei servizi.

C onoscere la storia è sempre importante, perché ci aiuta a capire il cammino percorso prima di noi, gli sforzi e i sacrifici che hanno contribuito a portare a compimento le opere che oggi vediamo e che spesso diamo per scontate.
È sempre utile per noi un ritorno alle origini, perché ci aiuta a collocarci meglio nello scorrere di una storia di cui effettivamente anche noi siamo un tassello e che sicuramente continuerà dopo di noi anche grazie al nostro contributo. 

di Beppe Gaido

Beppe Gaido