Canada. Una storia americana


I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.

Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.

Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.

Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.

Dipinto raffigurante la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680).

Il mondo è più grande

Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.

I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.

Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere:  la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).

Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.

In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.

Dipinto rappresentante l’uccisione dei missionari gesuiti francesi avvenuta nella Nuova Francia, a metà del 1600, per mano delle popolazioni autoctone.

Evangelizzazione dal Sud al Nord America

Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.

In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.

In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi  che le diedero il nome di New Amsterdam.

L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.

Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.

Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.

L’interno della cattedrale di Notre Dame a Montreal. Foto Timothy I. Brock – Unsplash.

Popoli indigeni e martiri

I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni.  Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.

Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.

Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.

In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».

Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.

È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).

La residenza dei Missionari della Consolata a Montreal. Foto IMC Montreal.

I Missionari della Consolata

Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.

Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.

Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.

A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.

Una veduta della città di Québec, fondata nel 1608 e considerata il primo insediamento urbano nel Nord America. Foto Timothee Geenens – Unsplash.

Gli anni d’oro

L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.

C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.

Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.

La reazione al declino

Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente  negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.

Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.

Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).

Jean Paré*

 * Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.


Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti

Anima missionaria

Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.

Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.

Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.

Ghislaine Crête

 

 

 




Messico. Di tutti, ma non dei Maya


Un percorso di oltre 1.500 chilometri, cinque stati attraversati, costi giganteschi: sono i dati salienti del «Tren Maya», un’opera che sta avendo impatti enormi sulla penisola dello Yucatán, cuore della civiltà maya. Proprio le comunità indigene e gli ambientalisti si sono (inutilmente) opposti al progetto, fortemente voluto dal presidente messicano Manuel Obrador (Amlo).

Secondo il presidente Amlo (Andrés Manuel López Obrador), il Tren Maya sarà un volano di crescita economica. A fine opera, saranno 1.525 chilometri di rotaie che collegheranno Palenque a Cancún, attraverso cinque stati messicani (Chiapas, Quintana Roo, Yucatán, Campeche e Tabasco).

La ferrovia servirà al trasporto di merci (legname, minerali, materiali da costruzione) e al turismo, riducendo da qualche settimana a pochi giorni gli spostamenti tra le piramidi maya e le spiagge sull’oceano.

Il costo del progetto, presentato nel Piano di sviluppo nazionale 2019-2024 come ricetta anti povertà, è di 20 miliardi di pesos (circa un miliardo e mezzo di euro) per un totale di 42 treni e 34 stazioni, con accesso a sette aeroporti e ventisei aree archeologiche.

Obiettivo dichiarato del governo Amlo è portare lavoro e reddito, migliorando le comunicazioni interne in un paese dove quasi non esistono ferrovie e la popolazione si sposta su autobus lenti e poco capienti.

L’opera si sta realizzando in tempi record: circa l’80 per cento dei lavori sono già conclusi e, mentre scriviamo, ci sono già stati viaggi su alcune tratte del percorso. L’intervento sta riscuotendo un vasto consenso popolare, soprattutto tra le classi medio basse.

Il prezzo da pagare, però, potrebbe essere molto alto, come denunciano scienziati, ambientalisti, rappresentanti delle comunità indigene e Ong locali, suffragati anche da una recente sentenza del Tribunale internazionale per i diritti della natura (Vedi sotto: Comunità indigene inascoltate).

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Silenzio sugli svantaggi

«Il cosiddetto Tren Maya non è un treno e non è maya», ha spiegato Miguel Angel del Congresso nazionale indigeno (Congreso nacional indígena, Cni).

«Non si tratta di una semplice posa di binari, ma di un’opera mastodontica, inclusiva di più progetti che stanno trasformando il territorio sul piano logistico, energetico, agricolo».

La ferrovia si porta dietro resort, centri commerciali, lotti residenziali, alberghi. In corrispondenza di almeno diciotto stazioni sorgeranno polos de desarrollo (poli di sviluppo) destinati a ospitare ognuno 50mila persone, con allevamenti di maiali e polli per il circuito turistico e l’esportazione in Cina che – insieme a nuove colture di palma e soia – aumenteranno inquinamento e consumi idrici.

Inoltre, «il treno non è maya perché non è pensato per la popolazione ma per gli interessi del governo, delle potenze straniere come Cina, Canada e Usa, e delle imprese che sfruttano le risorse locali».

«Anche la criminalità organizzata avrà maggiori opportunità di investire i proventi illeciti nel settore turistico e immobiliare», ha osservato Miguel Angel.

È già in atto un fenomeno di gentrificazione (trasformazione di un’area da popolare a esclusiva, ndr) per cui, nelle zone di passaggio del treno, i prezzi stanno lievitando, rendendo proibitivi i costi dei beni essenziali e delle case.

«Per la gente comune ci sono solo svantaggi. Le stazioni, costruite vicino alle città e ai siti turistici, sono difficilmente raggiungibili da chi vive nei villaggi. Gli scavi e l’estrazione di pietre rovinano il territorio, i bambini devono andare a scuola in mezzo alla polvere e al rumore, con problemi per la salute. Nella zona di Palenque stanno colando cemento armato a pochi metri dalle piramidi, al solo fine di ampliare e rendere più sontuosi il museo, la biglietteria e le strutture ricettive».

I lavori del Tren Maya sono spesso accompagnati da sfratti ed espropri illegali. Gli ejidos (le terre comunitarie) – denuncia l’Ong messicana Prodesc – vengono fatti passare come proprietà private grazie al sostegno di notai compiacenti. Per lasciare spazio ai cantieri si sono demolite centinaia di abitazioni, e non sempre le famiglie hanno ricevuto indennizzi o sistemazioni alternative.

Anche i posti di lavoro e i vantaggi economici sarebbero uno specchietto per le allodole, «temporanei e destinati a concludersi insieme ai cantieri», ha sostenuto l’esponente del Cni.

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Neocolonialismo

Secondo le comunità in resistenza, il Tren Maya «è una delle grandi opere che proseguono nel solco del neocolonialismo estrattivista, danneggiando l’ambiente, la società e l’economia». Esso costituisce «un tutt’uno con un altro mega progetto voluto da Amlo, il Corridoio interoceanico, una linea ferroviaria che collegherà i porti dell’Atlantico con quelli del Pacifico. Ciò allo scopo di riconfigurare il territorio con la creazione di interi hub logistici (autostrade, ferrovie, aeroporti) e manifatturieri (gasdotti, oleodotti, raffinerie, miniere, parchi industriali).

«Il presidente del Messico, che si presenta come un innovatore vicino al popolo, sta facendo più danni dei precedenti governi conservatori. Riscuote consensi tra la gente perché fa cose utili nell’immediato, ma provoca danni irreparabili nel medio e lungo periodo», dicono al Cni.

Amlo è stato il primo presidente di sinistra dell’ultimo secolo, il più votato nella storia messicana recente con oltre il 53 per cento dei voti.

A diffidare di lui (che, nelle elezioni del giugno 2024, non potrà ricandidarsi, ndr), sono stati per primi gli zapatisti: nel 2012 il subcomandante Marcos lo definì «l’uovo del serpente», per indicare che sotto il guscio progressista covava un neoliberista.

Voto al referendum sul Tren Maya (15 dicembre 2019); le modalità della consultazione sono state criticate da più parti. Foto Lexie Harrison-Cripss – AFP.

Devastazione ambientale

Per fare posto alla ferrovia Palenque-Cancún si sta abbattendo il 70 per cento degli alberi che fanno parte della Selva Maya, la più grande nel continente americano dopo quella amazzonica. Quel che appare dall’alto è un’enorme cicatrice grigiastra, fatta di terra e cemento, che spacca in due il verde folto della copertura boschiva per centinaia di chilometri.

«Stanno disboscando ettari di foresta originaria, fonte di sostentamento per le comunità maya che vivono di un’agricoltura di piccolo impatto e che le attribuiscono carattere sacro. Così si distrugge una preziosa riserva della biosfera, un habitat di specie animali che necessitano di ampi spazi: giaguari, ocelot, tapiri, scimmie, coccodrilli, pappagalli».

Ma i danni ambientali non si fermano qui, come spiega il biologo Roberto Rojo. «La foresta pluviale è ricca di specie viventi, di siti archeologici non ancora del tutto scoperti e di formazioni geologiche uniche, i cenotes: grotte calcaree sotterranee o a cielo aperto, caratterizzate da stalattiti, stalagmiti e laghetti d’acqua dolce dal limpido colore verde o blu». Oltre alla loro bellezza che attrae turisti da tutto il mondo, queste oasi naturalistiche costituiscono una fonte di approvvigionamento idrico che rischia di scomparire. «Ormai solo il trenta per cento delle fonti è incontaminato, e la carenza d’acqua pulita danneggia i piccoli coltivatori favorendo l’abbandono o la cessione delle terre ai latifondisti». Nel 2018 Roberto Rojo ha fondato i Cenotes urbanos, gruppo di speleologi impegnato a mappare i cenotes non documentati di Playa del Carmen, dove si sta costruendo il tratto cinque (da Tulum a Playa del Carmen) del Tren Maya. Dal 2019 la loro è diventata una corsa contro il tempo per censire il maggior numero di grotte, nel tentativo di impedirne la distruzione.

«La rotta ferroviaria attraversa almeno un centinaio di cenotes. Qui il terreno calcareo si sbriciola, perciò i binari non poggiano direttamente a terra ma vengono sopraelevati a 17,5 metri d’altezza, su centinaia di pali del diametro di oltre un metro conficcati a 25 metri di profondità, è come costruire su gusci d’uovo», dice Elias Siebenborn, membro dei Cenotes urbanos. «Gli scavi distruggono alghe e batteri essenziali per la sopravvivenza dell’ecosistema e inquinano l’acqua. A volte, per procedere più in fretta, le ruspe tappano i cenotes con la terra. È un danno incalcolabile, irreversibile».

Donne indigene; le comunità non sono state coinvolte nel progetto ferroviario del Tren Maya. Foto Robin Canfield – Unsplash.

Senza autorizzazioni

Lo scorso marzo il Tribunale internazionale per i diritti della natura ha chiesto al governo di sospendere i lavori del Tren Maya che «provoca devastazioni a lungo termine e viola la stessa legge messicana».

La costruzione della ferrovia, si legge nella sentenza, è avvenuta «senza la Manifestación de impacto ambiental integral (relazione preliminare sugli impatti ecologici prevista dalla legge, nda), senza autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso dei terreni, e senza attenersi alle sospensioni giudiziali richieste in questi anni dagli Amparos» (tribunali costituzionali cui i cittadini possono adire direttamente, un po’ come i Tar italiani, nda).

«Il Tren Maya è un ecocidio e un etnocidio che viola i diritti ambientali, umani e culturali delle comunità indigene, in nome di una visione puramente commerciale e finanziaria», dice Raúl Vera López, uno dei giudici del Tribunale. Esponente della teologia della liberazione e strenuo difensore dei diritti umani, monsignor Vera López è tra le voci che, fin dai tempi del presidente conservatore Felipe Calderón (2006-2012), hanno denunciato i pericoli della militarizzazione del Messico, un tema «caldo» anche sotto il governo Amlo.

Il vescovo messicano Raúl Vera López, conosciuto per le sue battaglie per i diritti umani, si è schierato contro il Tren Maya. Foto Especial – desdelafe.mx.

«Oggi predomina una politica della paura che rafforza il clima di violenza, già molto forte nel Paese a causa del narcotraffico e dei paramilitari», spiega il vescovo Vera López. «Anche i lavori del Tribunale ne hanno risentito: noi giudici siamo stati seguiti da gente armata. Dopo aver subito minacce e intimidazioni, diverse persone hanno disertato le udienze o si sono limitate a mandare biglietti di denuncia anonimi. Nello Stato di Quintana Roo, a Señor, i militari sono andati di casa in casa a minacciare gli abitanti; a Tihosuco, durante un’udienza si sono presentati tipi sospetti che hanno fotografato i partecipanti e preso le targhe delle automobili».

Sono anche in aumento le sparizioni forzate e gli assassinii, in un paese tra i primi al mondo per numero di defensores e defensoras ambientales uccisi. Nel 2021, su 200 omicidi, oltre un quarto si sono verificati in Messico (dati Global Witness).

Il Tren Maya comporta «una militarizzazione massiccia e capillare, i lavori avanzano preceduti dalle camionette blindate dell’esercito», sostiene monsignor Vera López.

«Le forze armate hanno anche la gestione diretta di diversi cantieri, perché a loro è riconosciuta la facoltà di fare impresa, assumere personale edile e appaltare i lavori a ditte esterne», ha spiegato Miguel Angel del Cni.

La Guardia nazionale controlla le attività del Tren Maya, mentre la Marina gestisce il Corridoio interoceanico. «Parte dei proventi dei cantieri sono destinati a pagare le pensioni dei militari, che quindi hanno tutto l’interesse a reprimere il dissenso», ha detto Miguel Angel.

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Una resistenza lunga 500 anni

Per fronteggiare l’apparato militare e di potere che sostiene le grandi opere, le comunità indigene ricorrono a vie legali, manifestazioni di piazza e blocchi dei cantieri. Una lotta impari, Davide contro Golia. Dove trovano la forza per non arrendersi?

«Ciò che da sempre ci dà coraggio, ci mantiene uniti e solidali, e sostiene la resistenza dei nostri popoli, è la spiritualità», ha spiegato Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano esperto di movimenti sociali latinoamericani, relatore all’incontro El Sur resiste, promosso dal Cni.

«Nella vita quotidiana, come nelle iniziative di contrapposizione, i rituali e la cosmovisione maya sono onnipresenti, ad esempio attraverso le cerimonie in onore della terra, dell’acqua, della foresta.

La spiritualità ci proietta in una dimensione non materiale ma profondamente umana, l’essere umano è un essere spirituale che può andare oltre le contraddizioni materiali», ha continuato Zibechi. «Ci sta piombando addosso un’enorme tempesta, contro cui non possiamo costruire barriere materiali; ma possiamo unirci, abbracciarci, affidarci alla Pachamama, la Madre Terra».

Qualunque sia l’esito dello scontro, «questa è la nostra vittoria: aver continuato a esistere e resistere, essere ancora qui dopo la lunga notte di 500 anni (dall’arrivo di Cristoforo Colombo, nda). E forse, come popolo, r-esisteremo per altri 500 anni».

Stefania Garini

Mappa del percorso, delle tratte e delle stazioni principali del Tren Maya.


Le imprese straniere in Messico

«El tren alemán»

Negli ultimi anni un numero crescente di imprese, soprattutto statunitensi, ha trasferito le proprie produzioni in Messico, raggiungendo nel 2022 un volume di investimenti diretti pari a 35,3 miliardi di dollari, il 12% in più rispetto all’anno precedente (dati Banco de México).

Ad attirare capitali sono le politiche commerciali, come l’accordo di libero scambio Nafta 2 con Usa e Canada entrato in vigore nel 2020, ma anche le scarse tutele ambientali e la possibilità di impiegare manodopera a basso costo.

Tra le aziende europee interessate dalle grandi opere vi sono le spagnole Renfe (compagnia ferroviaria) e Ineco (ingegneria dei trasporti), la lussemburghese Arcelor Mittal (piastre in acciaio per la raffineria di Dos Bocas), la francese Alstom (costruzioni ferroviarie). Tra i soggetti impegnati in Messico nelle vecchie e nuove opere di estrattivismo energetico vi sono anche alcune aziende italiane, come Enel Green Power (parchi eolici di Oaxaca) ed Eni (raffineria di Tabasco).

La tedesca Deutsche Bahn è presente nella progettazione del Tren Maya (qualcuno, sarcasticamente, lo chiama Tren Aleman) attraverso la controllata DB Engineering & Consulting. Pur avendo firmato una Convenzione con l’impegno di garantire i diritti delle comunità, secondo il Congresso nazionale indigeno la Deutsche Bahn (tristemente nota per aver gestito i «treni della morte» sotto il nazismo) avrebbe ignorato il primo e basilare diritto: quello delle persone a essere informate e consultate. Per parte sua, la Deutsche Bahn sostiene che il progetto sta creando lavoro e che il treno è un mezzo di trasporto ecologico, che ben si sposa con l’emergenza climatica.

S.Ga.

Scorcio del sito archeologico maya di Palenque, nello stato del Chiapas. Foto Dassel – Pixabay.


Il Tribunale internazionale per i diritti della natura

Comunità indigene inascoltate

Il Tribunale internazionale per i diritti della natura, fondato nel 2014 dalla Global alliance of the rights of nature, ha lo scopo di far valere la soggettività giuridica della Natura – che non può difendersi da sé -, denunciando i crimini perpetrati contro di essa e dando voce ai popoli indigeni in merito alle violazioni subite dalla loro terra, dalle loro acque e dalla loro cultura. Pur essendo un tribunale d’opinione, le cui sentenze non hanno potere vincolante, i suoi pronunciamenti costituiscono importanti precedenti per le rivendicazioni legali di comunità e attivisti.

A deliberare sul Tren Maya, dopo aver raccolto le testimonianze di una ventina di comunità negli stati di Chiapas, Campeche, Quintana Roo e Yucatán, sono stati i giudici Francesco Martone, già presidente di Greenpeace Italia, Raúl Vera López, vescovo emerito di San Cristobal de Las Casas e di Saltillo, la sociologa argentina Maristella Svampa, l’avvocato ecuadoriano Yaku Pérez e il capo delegazione zapoteco dell’Indigenous environmental network, Alberto Saldamando.

La sentenza del Tribunale è stata notificata al presidente Amlo, alla Commissione nazionale per i diritti umani, ai relatori Onu per i diritti umani e per i diritti dei popoli indigeni, al rappresentante dell’Unesco in Messico, e tradotta in lingua maya per renderla accessibile alle comunità.

È da escludere però che Amlo faccia dietrofront, visto che nel 2021, in risposta ai mandati giudiziali degli Amparos che chiedevano la sospensione dei lavori, aveva dichiarato il Tren Maya opera di sicurezza nazionale. D’altra parte, la linea ferroviaria è ormai quasi completata.

S.Ga.

Una piramide di Chichén Itza, uno dei più noti siti archeologici maya nella penisola dello Yucatan. Foto Mario La Pergola – Unsplash.

 




A riflettori spenti


Pierpaolo Mittica è un fotogiornalista conosciuto a livello internazionale. Il centro del suo lavoro è il racconto della vita di chi ha subito guerre o catastrofi. Ciò che accade alle persone quando l’attenzione dell’informazione cala. In Bosnia come in Ucraina.

Fotografo umanista: Pierpaolo Mittica, classe 1971, non potrebbe essere definito diversamente. Conosciuto e premiato a livello internazionale, le sue fotografie sono state esposte in Europa, Stati Uniti e Cina e pubblicate dai più importanti periodici in Italia e all’estero1.

I suoi documentari trasmessi da Prime video, Al Jazeera e Discovery Channel, solo per citare alcune delle piattaforme più note.

Eppure, il successo non ha scalfito l’umanità e l’attenzione che Pierpaolo dedica a ogni storia.

Lo intervisto poco dopo il suo rientro dall’Ucraina dove si è recato a distanza di diversi mesi dallo scoppio della guerra. Ha aspettato ad andarci, perché quello che interessa a lui non sono sangue e pallottole, ma ciò che resta, le piccole storie dimenticate dai grandi media.

Polaroid e Neorealismo

Ha solo dodici anni Pierpaolo quando lo zio, Alfredo Fasan, fotografo professionista, gli regala una Polaroid e lo inizia ai segreti della camera oscura. Subito capisce che la narrazione attraverso le immagini è qualcosa di potente, e se ne innamora.

A diciotto anni si reca a Spilimbergo e fa da assistente a Giuliano Borghesan, uno dei maestri della fotografia italiana che negli anni Cinquanta scrisse con la luce pagine memorabili del Neorealismo in Friuli.

Pierpaolo che spazia dal ritratto alla fotografia di viaggio, sempre mantenendo alta l’attenzione sulle persone.

Sono le persone, infatti, le loro storie, la loro cultura, ad attrarre lo sguardo del giovane fotografo, specialmente le vite dimenticate, quelle ai margini.

La Bosnia: ciò che resta

È il 1998 quando Pierpaolo decide di documentare le conseguenze della guerra dei Balcani.

Il fotografo parte per Sarajevo perché gli sembra impossibile che il conflitto, così vicino a casa sua, sia già dimenticato.

Va in Bosnia con due idee molto chiare sul suo lavoro: la prima è che la guerra guerreggiata non fa per lui. Non vuole raccontare il sangue, il dolore dei soldati feriti, il lutto per i compagni morti, lo strazio delle armi e della violenza.

In fondo, un soldato che muore sul campo fa il proprio lavoro, come un giornalista di guerra, un umanitario, o qualsiasi figura legata allo sporco affare che sono i conflitti in armi.

La seconda idea chiara, forse ancora più importante, è quella di voler raccontare chi è sopravvissuto e deve sopravvivere in un paese dove non ci sono più Stato, leggi, rispetto per la vita.

Pierpaolo vuole raccogliere ciò che resta quando si è perso tutto, le piccole storie, quelle che si tende a dimenticare o a nascondere. E racconterà l’alienazione delle persone di fronte al loro presente, al futuro, e rispetto al loro passato. E la coscienza sporca dell’Europa che ha permesso per troppi anni genocidi e pulizie etniche.

India in bianco e nero

Dopo la guerra dei Balcani, Pierpaolo, spinto dalla voglia di incontrare un luogo dell’anima, decide di partire per l’India.

Il Paese lo colpisce più forte del previsto, nel bene e nel male. Si rende presto conto che l’impatto emotivo non è mai calcolabile, esistono cose, infatti, che non si possono capire senza viverle in prima persona.

Racconta Varanasi e le città legate a culti spirituali profondi, le tradizioni, le baraccopoli, le fogne a cielo aperto, gli odori terribili che si mescolano agli incensi votivi. L’olfatto, in India, viene temprato per sempre. E poi la vista: caos, disordine, densità di persone, cose e colori. E suoni ovunque.

I sensi vengono coinvolti totalmente, e Pierpaolo comprende che l’unico modo per non farsi distrarre da tutta quella realtà è l’uso del bianco e nero. Eliminando una parte di sollecitazioni, può toccare l’anima di quel mondo straordinario.

Chernobyl: il veleno invisibile

È nel 2002 che il lavoro di Pierpaolo incontra una realtà che non abbandonerà mai: quella di Chernobyl e dell’Ucraina.

Non è per lui una realtà sconosciuta, ma l’incontra in modo particolare durante una cena con amici, dove conosce Ivana Rizzo, presidente di un’associazione che aiuta i bambini vittime dell’esplosione della centrale nucleare avvenuta nel 1986: i piccoli vengono portati in Italia durante le vacanze perché possano allontanarsi per un periodo dalle zone contaminate.

Pierpaolo ascolta Ivana parlare di villaggi contaminati ma ancora abitati, sia in Bielorussia che in Ucraina, e di una seconda zona di esclusione oltre i 30 km di raggio attorno alla centrale. Decide così di partire per vedere con i propri occhi. Ben presto comprende che quel poco che sapeva era solo la punta di un iceberg sporco e profondissimo.

Le zone contaminate, infatti, sono abitate, e i cittadini non sanno nulla dell’effetto delle radiazioni a lungo termine.

Il popolo si fida del governo e così coltiva, alleva, utilizza terre che provocano effetti disastrosi sulla salute: infarti del miocardio, malformazioni, tumori.

Il 70% dei bambini nati dopo l’esplosione della centrale è destinato a morire fra i trenta e i quarant’anni.

Pierpaolo si concentra sulle zone di esclusione. Va a Radinka, un villaggio situato a 300 metri oltre il margine della zona di esclusione di Chernobyl, nell’oblast’ di Kiev, a 50 km dal confine con la Bielorussia. Incontra lo scienziato bielorusso Yuriy Bandazhevsky che da anni studia le conseguenze della contaminazione sui bambini residenti a Radinka e nella provincia di Ivankov e combatte, per far conoscere la verità, contro le autorità locali, internazionali e la lobby atomica.

Oggi l’80% degli oltre 3.700 bambini esaminati residenti in quelle terre ha turbe del ritmo cardiaco in relazione diretta con la quantità di cesio incorporata. Inoltre, il 30% presenta una contaminazione interna da cesio 137 sopra i 50 Bq/kg (Becquerel al chilogrammo), livello che provoca diverse patologie.

Da questo progetto lungo di versi anni, deriverà un altro lavoro del fotografo su Kiev, città che al tempo dell’incidente nucleare aveva ospitato molti sfollati dalla zona coinvolta.

Ucraina: seconda famiglia

È il 24 febbraio del 2022: la Russia invade l’Ucraina alle 4 del mattino. Pierpaolo vorrebbe partire subito, ma non è possibile: Chernobyl è occupata dai russi e, anche quando viene liberata, i permessi per entrare e documentarla non arrivano.

Lui non vuole raccontare i soldati, l’occupazione, le morti: ancora una volta il suo sguardo è rivolto al popolo che subisce le conseguenze della guerra.

Questa volta però, a differenza della Bosnia, per Pierpaolo la storia si svolge nella sua seconda casa. Le persone con cui ha condiviso anni di lavoro per raccontare disastri, censure, dolore, dimenticanza, ora sono di nuovo in pericolo.

I permessi arrivano nel novembre 2022, e il fotografo parte con Alessandro Tesei, il videomaker con cui lavora da anni.

L’idea è di arrivare a Kiev e poi spostarsi, permessi permettendo, a Chernobyl. Ma subito i due si rendono conto che Kiev, come le cittadine limitrofe, racconta storie che non trovano voce e ascolto.

L’inverno è freddo, si arriva a meno venti gradi, e le persone si preparano ad affrontarlo senza elettricità e riscaldamento, avvolti dalla neve e dalla paura.

Pierpaolo si muove, dunque, raccontando le persone che provano a sopravvivere. Si fa strada tra le case e i palazzi divelti dalle bombe, ascolta e racconta le vite quotidiane senza cercare la foto d’effetto. Allo stesso tempo vuole comprendere le reali motivazioni dell’attacco russo: pensa che la Nato e il sentirsi minacciati siano una scusa di Putin per prendersi territori che offrono molte opportunità. Da anni infatti, Russia e Cina si contendono l’Africa, e uno sbocco sul mare rende questo continente più raggiungibile. Accesso al mare e accesso alla quinta riserva di gas più grande al mondo, quella del Donbass, sono motivazioni più che valide, più della minaccia della Nato.

Il timore di Pierpaolo, oggi, è che la guerra si incancrenisca, continuando a fare vittime fra una popolazione già allo stremo.

Il senso del fotogiornalismo

Passione, amore, empatia, modestia: per fare il lavoro più bello del mondo non c’è la ricetta perfetta, ma questi quattro elementi non devono mancare.

Pierpaolo parla dei sacrifici necessari per raccontare le vite degli altri, ma anche della bellezza delle esperienze che si fanno.

Accanto ai progetti raccontati finora, dal 2002 Pierpaolo ne porta avanti un altro intitolato Living Toxic, un lavoro a lungo termine che si propone di raccontare tutti i tipi di inquinamento che stanno mettendo in pericolo l’ambiente. Da Chernobyl a Fukushima, dall’incidente nucleare di Mayak fino all’estrazione di carbone in Cina. Sempre con l’obiettivo di sensibilizzare e far comprendere con un linguaggio semplice ciò che rischiamo di perdere, perché, come dice il fotografo, «stiamo distruggendo la nostra casa, esserne consapevoli è il primo passo per attuare un cambiamento».

Valentina Tamborra

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Note

1- Tra le testate che hanno pubblicato foto di Pierpaolo Mittica: l’Espresso, la Repubblica, il Corriere della Sera, Days Japan International, Asahi Shinbum, The Telegraph, The Guardian, Sueddeutsche Zeitung, Der Spiegel, De Zeit, Wired USA, Asian Geo, China Newsweek, National Geographic.




Kenya. Due donne e la Rieti farm


Sara e Gladys, una volontaria e una suora, fanno una scommessa vincente sulla voglia di riscatto e sull’energia di altre donne, e sulle capacità organizzative di una
piccola Odv trevigiana. Nel giro di un decennio cambiano il volto e la qualità della vita di una comunità a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria.

A Manyonge, un villaggio rurale di un migliaio di abitanti nella Siaya County, a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria, Un articolato progetto di agricoltura sociale con l’impiego di nuove tecniche di coltivazione è diventato strumento di promozione della parità di genere e di tutela dei diritti umani.

La storia collega quel lontano lembo d’Africa con Montebelluna (Treviso), dove è nata nel 1987 l’Associazione volontariato insieme (Avi), promossa dallo scomparso padre Pierino Schiavinato, Missionario della Consolata (1939-2016).

L’associazione ha avuto come primo presidente Daniele Schiavinato, un fratello di padre Pierino che tutt’ora vive nella storica missione keniana di Mujwa (fondata nel 1911), dove ha creato un’impresa sociale rilanciando l’attività di una vecchia falegnameria che i Missionari della Consolata avevano avviato ancora in epoca coloniale. Per oltre vent’anni è stata guidata da Gino Merlo, che ne ha forgiato l’attuale impronta all’insegna del motto «se non fai niente non succede niente», e che ha poi passato il testimone all’attuale presidente Francesco Tartini.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

Due agronome

Sara P., montebellunese di nascita, anche se oggi vive sull’Appennino romagnolo, ha conseguito a Padova una laurea triennale in Cooperazione allo Sviluppo con specializzazione in area rurale, e ha poi completato gli studi a Firenze, con una laurea magistrale in Studi geografici e antropologici.
Gladys Adiambo Owuor è, invece, una religiosa keniana delle Franciscan sisters of st. Anna (Fsa), congregazione nata in Olanda nella prima metà dell’Ottocento che oggi ha la sua casa generalizia a Nairobi. La tonaca non le ha mai impedito di salire su un trattore o sul sellino posteriore di una moto, e accanto alla professione di fede può vantare anche un diploma in agronomia.

Nel 2004 le Fsa acquistano a Manyonge una tenuta agricola semi abbandonata di circa 8 ettari, digradanti verso il fiume Yala, e da quel momento suor Gladys inizia a coltivare il sogno di rivitalizzare la «Rieti farm» (così ribattezzata dopo un soggiorno di alcune suore nella cittadina laziale) e di trasformarla in un centro comunitario capace di migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Il sogno inizia a concretizzarsi nel 2013 quando Sara decide di visitare l’ovest del Kenya, un territorio lontano dagli usuali percorsi turistici, e viene accolta nella missione in cui suor Gladys vive e presta il suo servizio, trovandosi a condividere idee e progetti di sviluppo di quel grande appezzamento di terreno.

Suor Gladys ha in mente di realizzare una fattoria modello che possa affiancare alla produzione di frutta e ortaggi anche un centro di formazione per gli agricoltori locali, per metterli in condizione di valorizzare al meglio i loro piccoli appezzamenti, e che possa incentivare la piccola imprenditoria femminile.

In Kenya le donne hanno un ruolo centrale nella lavorazione manuale dei campi, così come in tutti gli aspetti della vita economica e sociale, ma nel contempo soffrono una forte disparità di genere che le priva di diritti umani fondamentali e le sovraccarica di responsabilità familiari.

L’agricoltura praticata dalle donne Luo, l’etnia prevalente nella Contea di Siaya, è di mera sussistenza, incentrata su piccoli appezzamenti di terreno coltivati con metodi tradizionali, qualche capra e qualche pollo, e nelle famiglie più fortunate una mucca.

Le colture principali, destinate all’autoconsumo e al piccolo commercio locale, sono mais, sorgo, fagioli, piselli, arachidi, cassava, patata dolce, cavoli e banana. In un contesto così povero, anche a causa della deforestazione e di attività estrattive che hanno ridotto la biodiversità, alto è il rischio di abbandono della scuola e delle coltivazioni da parte della componente giovanile della comunità, per inseguire il miraggio di una vita migliore in qualche grande città come Kisumu. Un sogno che, per lo più, si infrange nelle squallide baraccopoli di periferia.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

I sogno diventa realtà

Sara raccoglie le idee dell’amica suor Gladys ma anche dati statistici e analisi socio economiche. Studia le linee di sviluppo del governo nazionale ed elabora il tutto mettendo a frutto i propri studi universitari, arrivando alla stesura del progetto: «Agricoltura, sicurezza alimentare e salute: il centro comunitario per lo sviluppo rurale integrato “Rieti farm”». Esso si propone di contrastare la povertà e la malnutrizione infantile con il miglioramento delle pratiche agricole, la diversificazione delle piccole produzioni locali e altre strategie per l’incremento del reddito, e soprattutto con il rafforzamento delle organizzazioni femminili. Il tutto garantendo al massimo l’equilibrio con il fragile ambiente naturale.

La scommessa è quella di trasformare un’agricoltura di sussistenza in un’agricoltura di resistenza e resilienza.

Resistenza e resilienza contro la tentazione di abbandonare il duro lavoro dei campi, regolato per secoli dai cicli delle piogge che i cambiamenti climatici hanno irreversibilmente alterato, e contro la deforestazione causata dalle monocolture industriali, come le piantagioni di ananas, quelle di palma da olio per il biodiesel o le coltivazioni in serra di rose che hanno ormai avvelenato, con il massiccio impiego di pesticidi, il Lago Naivasha.

sopralluogo al punto di prelievo acqua irrigua dal fiume Yala -2016

Il coinvolgimento dell’Avi

A questo punto inizia la ricerca dei finanziamenti, e per Sara è naturale bussare alla porta dell’Avi che, pur essendo una piccola organizzazione, opera in Kenya da oltre trent’anni. L’associazione ha una buona esperienza in materia di bandi pubblici, e ha già realizzato con successo alcuni progetti alimentari finanziati dalla Presidenza del Consiglio, grazie ai fondi dell’otto per mille che sono gestiti direttamente dallo stato e sono destinati a contrastare la fame nel mondo.

Il progetto della «Rieti farm» viene adattato alle linee guida di Palazzo Chigi e presentato nel 2014. La risposta positiva arriva l’8 febbraio 2016. Nel frattempo, il 24 maggio 2015 papa Francesco ha regalato al mondo la sua enciclica Laudato si’ che esorta alla cura della «casa comune» offrendo nuove importanti motivazioni per realizzare il progetto.

Dopo una missione di verifica in loco e una rimodulazione del quadro economico, la prima tranche viene accreditata alla fine del 2017, e i lavori iniziano a febbraio 2018.

particelle per coltivazioni dimostrative -2019

Investimenti

Tra il 2018 ed il 2020 si procede alla recinzione dell’intera proprietà e al rifacimento dell’impianto di irrigazione, per il pompaggio dell’acqua del fiume Yala sino alla parte sommitale della fattoria, dove vengono collocati quattro serbatoi sopraelevati da 10mila litri e un quinto da 6mila, che poi la distribuiscono per caduta ai vari appezzamenti coltivati. Vengono ristrutturati alcuni edifici già presenti, ricavandone un ufficio con la necessaria dotazione tecnologica, una sala riunioni, una cucina condivisa e alcuni alloggi per i dipendenti, con servizi igienici. Nel tempo arriva anche l’allacciamento alla rete elettrica che consente la sostituzione della vecchia pompa a diesel e l’illuminazione dei fabbricati. Viene acquistata una moto per gli spostamenti del personale e anche tendoni e sedie per ospitare i seminari di formazione.

La gente di Manyonge ha sempre utilizzato l’acqua del fiume anche per usi domestici, limitandosi a farla bollire. Il progetto iniziale prevede soltanto la realizzazione di un serbatoio e di un impianto di filtraggio per distribuirla chiarificata in prossimità del villaggio, evitando alla popolazione una lunga discesa sino alla riva dello Yala, sempre con l’occhio attento ai coccodrilli.

Ci si accorge ben presto che non è una soluzione sufficiente e Avi riesce a ricavare dal proprio bilancio ulteriori risorse per realizzare un pozzo che pesca l’acqua potabile a 80 metri di profondità. Per la comunità di Manyonge, e soprattutto per i bambini, più esposti alle patologie intestinali, la qualità della vita fa un gigantesco passo avanti.

S.P. e sr. Gladys all’uscita da un ufficio governativo a Siaya -2016

Produzioni

Vengono selezionati e messi a dimora piante particolarmente adatte alla tipologia di terreno e al clima, resistenti alle fitopatie e alla siccità, e allo stesso tempo rispondenti alle abitudini alimentari della popolazione. Alle orticole e alle leguminose si affianca la frutta tropicale per la quale il Kenya è famoso: ananas, banano, papaya, frutto della passione, mango, avocado, ma anche arance e meloni.

Il progetto prevede pure la costruzione di una stalla e l’acquisto di cinque mucche da latte, libere di muoversi in un’area a pascolo dove vengono seminate erbe specifiche per l’alimentazione bovina, mentre il letame viene reimpiegato per la fertilizzazione del terreno.

A seconda delle stagioni, la produzione oscilla dai venti ai quaranta litri di latte al giorno, sufficiente per soddisfare le esigenze di una trentina di famiglie, ma la domanda è molto più alta.

Allevamento, orticoltura e attività agroforestali sono praticate in sinergia, con gli obiettivi di ottenere un buon livello di fertilità del terreno, alternare le aree a pascolo con le aree coltivate, nutrire gli animali con foraggio e fieno autoprodotti, ottenere alimenti sani e vitali, instaurare un ciclo produttivo virtuoso per l’uomo e per l’ambiente e incentivare gli agricoltori locali a riprodurlo nelle rispettive piccole proprietà.

La produzione del centro comunitario viene venduta sul mercato locale: in parte alle mense scolastiche della subcontea, in parte alla popolazione delle immediate vicinanze che la acquista all’ingrosso per rivenderla al mercato e incrementare il proprio reddito. I ricavi ottenuti dalla vendita permettono al centro di sostenere le proprie attività al servizio della comunità.

Incontro volontari AVI con gruppi femminili della comunità di Manyonge -2016

Formazione

Alla Rieti farm viene introdotta la riforestazione, piantando oltre tremila alberi per contrastare l’erosione del suolo, fungere da barriera frangivento e ombreggiare il terreno, in modo da conservarne l’umidità e proteggere le orticole e le piante da frutto dal torrido sole tropicale.

La presenza di varietà arboree è di importanza strategica per la funzione educativa del centro, dove i piccoli produttori locali apprendono un nuovo approccio all’agricoltura che integra consapevolezza ecologica e conservazione ambientale.

Parte del terreno viene destinata a produzioni dimostrative che consentono di trasmettere la pratica della pacciamatura (tecnica agricola di protezione del suolo intorno alle piante, ndr) per conservare al massimo l’umidità naturale, la rotazione delle coltivazioni.

Le attività formative prevedono anche l’organizzazione di visite guidate in altre fattorie della regione, strategie di diversificazione del reddito domestico incentrate su pollicoltura e apicoltura, strategie di commercializzazione dei prodotti agricoli e tecniche di conservazione e stoccaggio dell’ortofrutta e dei prodotti caseari.

Attenzione particolare viene dedicata alla gestione dell’acqua, alle tecniche di potabilizzazione domestica, alle malattie veicolate da acqua infetta e alla loro prevenzione, e anche al riutilizzo a scopi irrigui.

Altri percorsi formativi sono incentrati su gestione della salute e la prevenzione delle patologie più comuni nella zona, come la malaria, la nutrizione bilanciata e le tecniche di conservazione e la preparazione del cibo, le dinamiche familiari, il ruolo maschile e femminile e quello dei giovani, i cambiamenti culturali e i conflitti intergenerazionali.

Durante l’emergenza Covid questi incontri hanno confortato e supportato una comunità disorientata e allarmata, e il centro ha assunto anche un ruolo di ammortizzatore sociale, interfacciandosi con le istituzioni locali e offrendo alla popolazione informazioni e materiali utili alla prevenzione del contagio.

Visitatori speciali

il nuovo apiario e l’arrivo delle attrezzature per la lavorazione del miele

L’attività del Centro è stata occasione formativa anche per alcuni studenti dell’istituto agrario Sartor di Castelfranco Veneto (Tv), che, nel 2018 e nel 2019, ha organizzato due visite in loco di altrettanti gruppi di studenti guidate dalla dirigente Antonella Alban, che lasceranno un ricordo indelebile nei giovani partecipanti.

Nel tempo la Rieti farm è diventata una tappa obbligata anche per chi si avvicina all’Avi per dedicare le proprie vacanze a visitare i suoi progetti di cooperazione internazionale.

Nuove idee, nuovo progetto

La pandemia ha dilatato di circa un anno i tempi di realizzazione del progetto, e la decisione del governo del Kenya di chiudere per l’intero anno scolastico 2020  tutte le scuole ha fortemente penalizzato la vendita dei prodotti alle mense, che dopo l’emergenza è fortunatamente ripresa.

Suor Gladys viene scherzosamente ribattezzata Iron sister per la tenacia e l’energia con le quali, a dispetto del suo fisico minuto, riesce a coordinare ogni cosa, mentre Sara svolge dall’Italia un lavoro certosino e prezioso di gestione contabile. Da questo scambio continuo nascono fatalmente nuove idee, anche per rispondere alle nuove fragilità sociali che la pandemia ha portato con sé.

Nasce così il nuovo progetto «A rural hub for change» con l’obiettivo di affrontare la crisi sociale ed economica che il Covid-19 ha lasciato in eredità, allargando l’ambito di azione anche ad altri villaggi della contea e perseguendo due obiettivi specifici: il contrasto alla disoccupazione giovanile e la valorizzazione del ruolo femminile nei processi di trasformazione e sviluppo delle comunità rurali.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

Sara e Gladys definiscono precise linee strategiche di intervento, volte a consolidare i risultati già acquisiti e a raggiungerne di nuovi: produzione agricola basata sulla diversificazione e sull’introduzione di nuovi prodotti come miele e funghi shitake; acquisto di nuove mucche da latte; realizzazione di un laboratorio per la trasformazione dei prodotti; formazione di gruppi di giovani e di donne in attività agricole sostenibili e generatrici di reddito. Ma anche consulenza per l’avvio di piccole imprese agricole; formazione nell’ambito della promozione della salute, della prevenzione, della nutrizione, dell’ecologia e della sostenibilità ambientale; promozione della cultura e dell’informazione attraverso la creazione di una biblioteca di comunità.

Gli investimenti prevedono l’acquisto di un trattore per ridurre la necessità di lavoro manuale e garantire alle lavoratrici una maggiore disponibilità di tempo per la vita familiare e la formazione personale; la costruzione di un apiario e di una fungaia; la realizzazione di un vivaio per diffondere l’agroforestazione, la realizzazione di un laboratorio per la produzione di marmellate, conserve e altri trasformati e, non ultimo, la costruzione di una biblioteca comunitaria, con annessa sala riunioni, a supporto delle attività educative e formative.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

In questa nuova fase vengono individuati come possibili beneficiari delle azioni di supporto alla piccola imprenditoria locale 250 giovani tra i 18 ed i 35 anni, e 150 donne. Mentre le attività formative e il servizio biblioteca si stima possano raggiungere 900 persone tra adulti e minori.

Nel frattempo, il Centro comunitario Rieti farm è diventato un punto di riferimento per le istituzioni locali, come gli uffici regionali del ministero dell’Agricoltura, la Jooust University di Bondo e due istituti agrari della contea, e ha istaurato collaborazioni e scambi anche con altri progetti di agricoltura sostenibile promossa nella regione da varie organizzazioni internazionali.

Avi, Montebelluna

cancello e viale di ingresso alla fattoria




La Cina è latina


Sono molti i paesi latinoamericani che firmano accordi commerciali con la Cina. La «Belt and road initiative» dà la possibilità al gigante asiatico di intensificare gli investimenti. Le aziende tecnologiche cinesi sono sempre più presenti nel continente, il che diventa un’influenza geopolitica. Cosa che non piace agli Usa, storicamente «padroni» di quel territorio.

La «trade war» con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dellʼordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare allʼAmerica Latina. E i numeri confermano come lʼinteresse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Ad esempio, Guillermo Lasso, presidente uscente dell’Ecuador, liberale e con un passato da dirigente alla Coca Cola, il 15 maggio ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e Honduras hanno già firmato trattati analoghi o si apprestano a farlo.

Mentre gli Stati Uniti, potenza regionale, frenano lʼespansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta lʼAmerica Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe rialzate fino al 25% per rappresaglia contro i dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese. Questi prodotti oggi guidano la lista delle esportazioni dallʼAmerica Latina verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato lʼeuro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.

La via della seta

Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dellʼAmerica Latina hanno aderito alla Belt and road initiative (Bri), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, lʼultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le energie rinnovabili anziché per lʼindustria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.

Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei -, secondo il Center for latin america and latino studies, avrà verosimilmente accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo lʼuscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e lʼelezione a presidente di Lula, che ha personalmente visitato un centro di ricerca Huawei durante un viaggio a Shanghai dello scorso aprile.

(Photo by Luis Barron / Eyepix Group). (Photo by Eyepix/NurPhoto)

Aziende cinesi in America Latina

La regione è sempre più laboratorio per lʼinternazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata lʼapp di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche Byd ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto fuori dallʼAsia.

La Cina raccoglie anche quanto lasciato dallʼOccidente. Nella lista figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dallʼamericana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno Sqm, lasciate due anni più tardi.

«Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni»: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano, citato dal Financial Times, per descrivere lʼapproccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.

La «nuova Africa»

Lʼimpressione è che lʼAmerica Latina stia diventando – insieme al Medio Oriente – la «nuova Africa». Lʼaumento del debito africano, la permeabilità del continente al terrorismo islamico, la corruzione dilagante stanno spingendo la Cina a diversificare i mercati di sbocco per i propri investimenti nonché ad assicurarsi nuovi fornitori di materiali critici. Secondo i dati del Servizio geologico degli Stati Uniti, Bolivia, Argentina e Cile sono i primi tre paesi al mondo per riserve di litio, rispettivamente con 21, 19,3 e 9,6 milioni di tonnellate. Lʼinnalzamento di barriere normative in Namibia e Zimbabwe ha reso più appetibili le miniere sudamericane.

Proprio come in Africa, ora quei contatti economici coltivati nelle ultime decadi diventano paravento per sinergie meno innocue. LʼAmerica Latina sta diventando lo scacchiere di una nuova partita tra grandi potenze che vede la penetrazione cinese assumere connotazioni non più solo economiche, ma anche politiche e militari. È il segno di come la capacità di stringere accordi commerciali, dispensare investimenti e concedere prestiti, abbia contemporaneamente assegnato a Pechino una preziosa leva diplomatica in unʼarea del mondo centrale nel risiko per la leadership globale. Inoltre, trattandosi del «cortile di casa» statunitense ogni vittoria cinese assume un valore simbolico elevatissimo.

President of Brazil Luiz Inacio Lula da Silva (L) and President of China Xi Jinping (R) (Photo by Phill Magakoe / AFP)

Taiwan

Tutto, o quasi, ruota intorno a Taiwan (vedi dossier su questo numero ndr), lʼisola che la Cina rivendica come parte integrante dei propri territori. La maggior parte dei paesi latinoamericani hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese subito dopo il viaggio a Pechino del presidente americano Richard Nixon nel 1972. Da allora il legame ideologico è servito da collante politico in tutti quei paesi storicamente guidati dalla sinistra, come Venezuela, Argentina, Cuba, Bolivia e Messico. Ciononostante, per decenni la regione è rimasta ugualmente una delle più accoglienti per Taipei, alleata degli Stati Uniti fin dalla Guerra fredda.

Una decina di stati latinoamericani ha continuato a tenere fede agli impegni presi negli anni ʼ40, quando – su istruzione dellʼamministrazione Truman – iniziarono a diventare ferventi anticomunisti.

Nel 2016 lʼarrivo al potere a Taiwan dei filo indipendentisti del Partito democratico progressista (Dpp, in inglese) ha spinto Pechino a ostracizzare ancora di più lʼisola, proprio sfruttando il forte ascendente economico. Da allora Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno interrotto rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere la Cina popolare. Alcune isole dei Caraibi, Haiti, Guatemala, Paraguay e Belize sono rimaste le uniche nazioni regionali con cui Taipei intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Una fedeltà precaria spesso messa in discussione durante le campagne elettorali, quando promettere lʼarrivo di capitali cinesi torna comodo agli aspiranti presidenti. Dʼaltronde Taipei, sebbene non estranea alla cosiddetta «diplomazia dei dollari», ha presa ormai solo sulle nazioni meno sviluppate dellʼAmerica Latina, mentre i paesi più avanzati, come Panama, da tempo orbitano nella galassia cinese. Tanto che ad agosto il Parlamento centroamericano (istituzione politica per lʼintegrazione regionale, ndr) ha espulso lʼex Formosa come osservatore permanente dopo oltre ventʼanni.

Questione di sicurezza

Inutile dirlo, è una questione che preoccupa anche gli Stati Uniti. Quando El Salvador ha reciso i legami con Taiwan a favore della Repubblica popolare, al Congresso Usa è stata proposta la sospensione degli aiuti al governo di Nayib Bukele come monito per gli altri governi regionali ancora indecisi.

Il fatto è che il crescente affiatamento tra la dirigenza cinese e i leader dellʼAmerica Latina ha risvolti anche in termini di sicurezza. Come sottolinea su Asia Times Evan Ellis del Us army war college strategic studies institute, la Cina gestisce diverse strutture commerciali sparse tra Messico, Bahamas, Panama e nei Caraibi, potenzialmente utilizzabili per la raccolta di informazioni dʼintelligence. È uno degli aspetti più controversi della Belt and Road Initiative, additata dai detrattori.

A giugno il Wall Street Journal ha riacceso i riflettori sulla presenza a Cuba di avamposti utilizzati dal ministero della Sicurezza dello stato cinese ad appena 100 miglia dalle coste della Florida. Non è esattamente una novità: la Cina utilizza lʼisola caraibica per la raccolta di informazioni militari fin dal 1999, quando LʼAvana ha concesso al governo cinese di stabilirsi a Bejucal, città a sud della capitale, in una struttura dove operavano precedentemente i servizi sovietici.  Per stessa ammissione della Casa bianca, nel 2019 Pechino avrebbe provveduto a potenziare la base, non è chiaro se in cambio di nuovi investimenti nel paese o della rinegoziazione dei debiti, annunciata lo scorso novembre. Sempre secondo fonti del quotidiano finanziario (Wsj), la possibile nuova struttura militare fa parte del «Progetto 141», unʼiniziativa con cui la Cina mira a espandere la propria rete di supporto militare e logistico in tutto il mondo.

Mentre la vicinanza geografica agli Stati Uniti rende gli stati latinoamericani degli avamposti troppo vulnerabili per un attacco navale in caso di guerra, la stessa prossimità fisica si rivela invece strategica per portare avanti operazioni di disturbo a livello di comunicazione elettronica. A questo proposito giocano a favore della Repubblica popolare gli accordi commerciali stretti a livello locale dalle big tech cinesi: ad esempio il G5 Huawei (azienda privata ma legata al governo cinese, accusata di spionaggio in vari paesi).

Come sottolinea sempre Ellis, lo scenario bellico più probabile coinvolge proprio Taiwan, definita da Pechino il «rischio più importante» per le relazioni con Washington. Un coinvolgimento degli Usa al fianco di Taipei potrebbe rendere necessario il supporto delle nazioni dellʼAmerica Latina.

(Photo by Ecuadorian presidential palace / XINHUA / Xinhua via AFP)

«Fratellanza Sud-Sud»

Ma lʼinvasione cinese dellʼisola – salvo colpi di scena – non sembra imminente. Più che a imbracciare le armi, nellʼimmediato, il sostegno della regione latinoamericana è teso perlopiù alla promozione di valori e aspirazioni condivise. La chiamano «fratellanza Sud-Sud», è la solidarietà che lega Cina e molti paesi emergenti, accomunati da un passato simile. Nel 1840, centinaia di migliaia di immigrati cinesi furono portati dai colonizzatori portoghesi e americani a Cuba e in Perù per lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o nelle miniere dʼargento. Oggi gli echi di quellʼimperialismo occidentale nel cosiddetto «Sud globale» sono amplificati dal malcontento accumulato negli ultimi decenni a causa della mancata riforma dellʼordine internazionale. Da noi si parla di «revisionismo», ma per molti paesi emergenti lʼarchitettura mondiale è composta da istituzioni ormai obsolete che non rispecchiano adeguatamente i nuovi equilibri economici e geopolitici.

Nuovo ordine mondiale

Prendiamo i Brics, lʼacronimo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nata nei primi anni Duemila, lʼorga-nizzazione ha acquisito nuovo vigore dopo la guerra in Ucraina e la contestuale rinascita di un terzo blocco di nazioni «non allineate», ovvero non favorevoli allʼinvasione russa, ma critiche nei confronti della Nato. Sono sempre di più i paesi a valutare un ingresso nella piattaforma.

Nel 2022, anticipando lʼadesione dellʼArgentina, il presidente (uscente, ndr) Alberto Fernández ha definito il gruppo «unʼalternativa cooperativa a un ordine mondiale che ha lavorato a beneficio di pochi». Lo stesso vale per il Venezuela. Incontrando a Brasilia lʼomologo Luiz Inacio Lula da Silva alcuni mesi fa, Nicolas Maduro ha affermato che Caracas è pronta a contribuire alla «costruzione della nuova architettura geopolitica mondiale che sta nascendo». Si tratta di un supporto simbolico ma non solo, considerata la vagheggiata intenzione di introdurre una moneta dei Brics in grado di affrancare gli stati membri dal dollaro.

Ecco che, mentre oggi tutti gli occhi sono puntati su Taiwan e le acque agitate dellʼIndo-Pacifico, lʼepicentro della competizione tra Cina e Stati Uniti si sta spostando proprio in America Latina.

Alessandra Colarizi

Nel numero di ottobre abbiamo pubblicato un articolo sulla Russia in America Latina.


La storia infinita del canale del Nicaragua

Doppio canale

Agli inizi del Novecento gli Stati Uniti avevano due opzioni per la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il Pacifico con l’Atlantico: passare per il Nicaragua o attraverso Panama. Il Congresso votò per la seconda opzione. Non solo perché era il percorso più breve, ma anche perché permetteva di aggirare i vari vulcani attivi che costellano l’America Centrale.

Un secolo dopo, con l’aumento del traffico marittimo, l’idea di un’alternativa nicaraguense torna d’attualità. Stavolta sono i cinesi a fiutare l’affare, incoraggiati dalla nascente Bri e dal contestuale interesse economico di Pechino per i mercati emergenti.

Nel giugno 2013, la Hk Nicaragua canal development investment group (Hknd), società registrata a Hong Kong e guidata dall’imprenditore Wang Jing, ottiene una concessione di 50 anni per finanziare e gestire l’opera. Ma nel 2015 il terremoto del mercato azionario cinese compromette fortemente la stabilità finanziaria dell’ex miliardario e del suo impero economico. Tre anni dopo il progetto è praticamente da considerarsi defunto: non solo, nel frattempo la Cina ha ormai spostato molti dei suoi investimenti a Panama.

A seguito di difficoltà finanziarie, nel 2018 la Hknd chiude i suoi uffici e sparisce nel nulla. È solo nel novembre 2021 che Wang ricompare con una lettera di congratulazioni per la conferma del presidente Daniel Ortega a un quarto mandato. «Il Gruppo Hknd e io abbiamo fiducia nel progetto del Canale grande», scrive l’affarista quasi a voler esorcizzare le pile di debiti che in patria lo hanno messo nei guai. E non è l’unico: passività e insolvenze da anni rallentano l’espansione della Bri.

C’è chi ritiene che Managua non abbia mai pensato seriamente di cedere la costruzione del canale ai cinesi. Piuttosto, il governo nicaraguense voleva dimostrare agli Stati Uniti di avere altre valide alternative, spiega alla Bbc la ricercatrice Sarah McCall Harris.

Poco dopo la vittoria elettorale, Ortega ribadisce il messaggio interrompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan per allacciare contatti ufficiali con Pechino.

Lo scorso 31 agosto i due paesi annunciano la firma di un trattato di libero scambio che coinvolge pratiche doganali, tariffe, servizi finanziari e accordi ambientali multilaterali. Ma del famigerato canale, oltre la Grande muraglia, non se ne parla più.

A.C.




Pakistan. La chimera della libertà


I rapimenti e le conversioni forzate di ragazze cristiane e di altre minoranze religiose sono solo la punta dell’iceberg delle violazioni alla libertà religiosa nel Paese asiatico. L’instabilità politica, le leggi anti blasfemia, le formazioni estremiste rendono pericolosa la vita del 4% di popolazione non musulmana.

Huma Younous, Zarvia Pervaiz, Meerab Mohsin, Arzoo Raja. Sono alcune delle ragazze pachistane che in questi anni hanno subito rapimenti, violenze, matrimoni forzati e conversioni all’islam.

Conosciamo i loro nomi perché le loro famiglie hanno avuto il coraggio di denunciare, ma rappresentano solo la punta di un iceberg. Il fenomeno delle ragazze rapite in Pakistan a causa della loro fede è una piaga enorme della quale non si conosce precisamente la dimensione.

Si tratta di giovani cristiane in un Paese in cui il 96 per cento della popolazione è musulmana. A finire in questa spirale di violenze, però, ci sono giovani anche delle altre minoranze religiose.

Una tragedia inascoltata

Secondo un rapporto del Center for social justice (Csj), Ong guidata dal cattolico pachistano Peter Jacob, nel 2021 si sono verificati 78 casi di donne e ragazze (cristiane e indù) rapite, convertite con la forza e sposate da uomini musulmani. Il 76 per cento di queste erano minorenni.

Il numero di casi registrati nel 2021, afferma il Csj, è aumentato dell’80 per cento rispetto all’anno 2020. Ma le famiglie che, per mancanza di soldi o coraggio, vivono nel silenzio questa situazione sono molto più numerose di quelle registrate.

Una tragedia che spesso si consuma nell’indifferenza della comunità internazionale.

C’è voluto il docufilm The losing side, presentato al Festival di Cannes 2022 e vincitore di un premio nella categoria Best human rights film, per fare conoscere al grande pubblico questo dramma.

Protezione legale

A sostenere da anni i diritti di alcune di queste giovani c’è una coraggiosa avvocata cattolica, Tabassum Yousaf. Lei stessa in passato ha ricevuto minacce e ora è schierata per la difesa dei diritti delle minoranze. «Fornisco assistenza legale alle nostre donne vulnerabili e alle ragazze minorenni che sono state vittime di abusi sessuali, discriminazioni, conversioni e matrimoni forzati», cioè soggetti non adeguatamente tutelati «a causa delle lacune nella legge».

Il Pakistan, spiega l’avvocata che porta avanti progetti sui diritti umani anche con la diocesi di Karachi, è «firmatario di trattati internazionali» per cui «abbiamo fatto leggi, ed emendamenti alle leggi, per dare protezione alle minoranze, alle donne e ai bambini», ma, nonostante ciò, «molti di questi provvedimenti sono rimasti sulla carta».

Le minoranze

Se il fenomeno dei rapimenti e delle conversioni forzate delle giovani donne è tra le questioni più gravi, complessivamente in Pakistan si registrano violazioni della libertà di fede tra le maggiori nel mondo.

La popolazione è quasi interamente musulmana, composta principalmente da sunniti (circa l’85 per cento della popolazione) mentre gli sciiti rappresentano il 10 per cento. Le minoranze religiose, prevalentemente cristiane, indù e ahmadi, più alcuni baha’í, sikh, parsi e una comunità ebraica, sono in calo. Tutte le minoranze messe insieme costituiscono complessivamente tra il 3,6 e il 4 per cento della popolazione. Tutte subiscono discriminazioni, quando non vere e proprie persecuzioni.

La comunità ebraica è praticamente in via di estinzione: secondo le statistiche ufficiali conterebbe tra le 2.000 e le 2.500 persone, ma fonti della stessa comunità ritengono che nel Paese ne siano rimaste circa ottocento, sugli oltre 200 milioni di abitanti complessivi.

Per quanto riguarda la persecuzione relativa alla minoranza cristiana, il Pakistan, nella World watch list della ong Open doors, è collocato al settimo posto nel mondo, ovvero tra i Paesi dove meno è rispettata la libertà di fede (dopo Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia e Nigeria).

Le leggi sulla blasfemia

Lo status delle minoranze religiose è ulteriormente influenzato dalle cosiddette «leggi sulla blasfemia», introdotte nel Paese dal generale Zia-ul-Haq tra il 1982 e il 1986. Non si tratta propriamente di leggi, ma di emendamenti al codice penale pachistano che, di fatto, limitano la libertà di religione e di espressione. I reati punibili includono la «profanazione» del Corano e le offese al profeta Maometto, che comportano rispettivamente come pena massima l’ergastolo e la condanna a morte.

Nonostante i richiami, a dire il vero timidi, della comunità internazionale affinché venga abolita questa normativa, essa, dall’inizio del 2023, ha invece visto un’ulteriore stretta.

Se prima veniva condannato chi era accusato di avere insultato il Corano o il profeta Maometto, «ora può essere applicata anche per sanzionare chiunque è accusato di avere insultato persone legate al Profeta. Il giro di vite è stato disposto dal Parlamento per inasprire le già rigide leggi nazionali», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

Quanti vengono accusati di avere «insultato» mogli, compagni o parenti del profeta Maometto rischiano, dall’inizio del 2023, 10 anni di carcere, pena che può essere estesa all’ergastolo, oltre a una multa di un milione di rupie.

L’accusa di blasfemia diventa inoltre un reato per il quale non è possibile la cauzione.

L’inasprimento delle pene scaturisce da un disegno di legge presentato da Abdul Akbar Chitrali, parlamentare appartenente a un partito politico religioso.

«L’approvazione del disegno di legge rappresenta un segnale estremamente preoccupante», commenta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia. «La normativa finora ha di fatto favorito la persecuzione ai danni delle minoranze religiose, a cominciare da quelle cristiana e induista. Ora la situazione inevitabilmente peggiorerà», aggiunge Monteduro. «Spesso i cristiani vengono accusati strumentalmente di blasfemia da soggetti che vogliono semplicemente perseguire interessi privati. Il risultato è che gli accusati o vengono arrestati o diventano preda della reazione violenta delle folle.

La normativa anti blasfemia viene usata anche come arma contro gli avversari politici e il suo inasprimento creerà maggiori opportunità per un suo uso improprio. Così le minoranze religiose, a cominciare da quella cristiana, sono ancora più minacciate».

AFP PHOTO/ Rizwan TABASSUM (Photo by RIZWAN TABASSUM / AFP)

Il caso di Asia Bibi

Il caso più noto, rispetto all’uso di questa legge sulla blasfemia, è quello di Asia Bibi. Per lei, che ha subito dieci anni di carcere duro per essere stata accusata ingiustamente di blasfemia, e che ha rischiato fino all’ultimo momento la pena di morte, c’è stata una mobilitazione internazionale che ha visto in prima linea l’Italia e la Francia.

Il 31 ottobre del 2018 è stata scagionata dalla Corte suprema del Pakistan, ma la donna e la sua famiglia hanno comunque dovuto lasciare il loro Paese per le minacce degli islamisti. Ora vivono in Canada.

«In Pakistan ci sono ancora troppe “Asia Bibi”, nelle prigioni», fa presente Shahid Mobeen, fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia e docente di Filosofia presso la Pontificia università urbaniana.

Mobeen contesta il fatto che, in questi anni, quando si è parlato delle minoranze religiose, in Pakistan si è fatto riferimento al «modello della Carta di Medina dei tempi di Maometto» che stabiliva diritti per gli immigrati di altre religioni. «La protezione ben venga ma noi non siamo immigrati sul territorio – sottolinea Shahid Mobeen -, noi abbiamo fondato il Pakistan insieme a Mohammad Ali Jinnah e siamo figli di quella terra. Come cristiani siamo presenti in quel territorio prima ancora che arrivasse l’islam e quindi chiediamo di essere trattati con uguali diritti, con pari dignità e pari opportunità nell’istruzione e nel lavoro perché vogliamo contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese».

Anche nei casi in cui non ci siano veri e propri atti persecutori, i cristiani e gli altri appartenenti a fedi diverse dall’islam sono comunque discriminati nella quotidianità, dall’accesso al lavoro agli aiuti. Nei mesi del Covid sono stati diversi gli appelli alla comunità internazionale affinché venisse condannata anche la discriminazione sanitaria.

I fedeli non appartenenti alla grande comunità musulmana sono a lungo rimasti privi dei dispositivi di protezione o comunque delle condizioni minime che potevano evitare il contagio da coronavirus.

Ahmadi: musulmani, anzi no

In questa situazione nella quale la libertà di fede in Pakistan risulta essere una chimera, c’è il caso particolare degli ahmadi, comunità nata nel 1898 a Qadian, in India, nel periodo in cui vigeva il potere britannico. Il suo fondatore è Mirza Ghulam Ahmad Ahmad.

Alcuni articoli del codice penale pachistano, promulgati nel 1984, hanno reso un reato penale per gli ahmadi definirsi musulmani o chiamare la propria fede islam.

«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita a una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo», spiegava Ataul Wasih Tariq, imam della comunità ahmadi in Italia nell’ambito di un incontro interreligioso in Vaticano con papa Francesco il 5 settembre del 2022.

Secondo Omar Waraich, responsabile del Dipartimento dell’Asia del Sud di Amnesty international, «ci sono poche comunità in Pakistan che hanno sofferto tanto quanto gli ahmadi».

«Alcune fonti – afferma Aiuto alla Chiesa che soffre nel Rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo – riportano che tra il 1984 e il 2019, 262 ahmadi sono stati uccisi a causa della loro fede, 388 hanno subito violenze e 29 moschee ahmadi sono state distrutte. Per legge gli ahmadi non possono avere moschee proprie, né chiamare alla preghiera e, per poter votare, devono essere necessariamente classificati come non musulmani o aderire a una delle correnti principali dell’islam».

Le tensioni politiche, nuovi rischi per i cristiani

Il Pakistan non ha mai goduto di grande stabilità politica e questo ha consentito negli anni la crescita di formazioni estremiste.

I ripetuti attentati nei luoghi di culto e nei quartieri delle minoranze, compresa quella dei musulmani sciiti, non hanno trovato mai una risposta decisa da parte del governo.

Da aprile 2022, con il cambio della guardia, dal governo di Imran Khan a quello del suo principale avversario Shahbaz Sharif, l’instabilità è aumentata. Le sanguinose manifestazioni, sia pro che contro l’ex premier, accusato anche di corruzione, mostrano che la nuova leadership politica è tutt’altro che salda.

L’11 agosto scorso, poi, Sharif ha sciolto l’Assemblea nazionale al termine della legislatura. Il presidente Arif Alvi, al posto di Sharif, ha nominato primo ministro provvisorio Anwaar-ul-haq Kakar per guidare il Pakistan verso le elezioni nazionali.

Il Paese, tra l’altro, ha vissuto in questi ultimi anni anche rovinose alluvioni causate dai cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, questa situazione di incertezza «non aiuta di certo», afferma la ong Open doors. «Negli ultimi anni, con il premier Imran, la radice e i danni del passato sono rimasti intatti, anzi, una certa “narrazione estremista” ha continuato ad essere perpetuata e a far breccia nella popolazione a vari livelli. Quell’estremismo strisciante, spesso sfociato in attacchi alle comunità cristiane oltre [che in] minacce a chiunque difendesse cause [contro le] violazioni dei diritti umani […], non è sparito e purtroppo in momenti di instabilità politica come questo – sottolinea ancora Open doors -, rischia di aumentare la propria influenza».

Presto un giovane santo?

La persecuzione religiosa è talmente radicata in Pakistan che i cristiani di fatto vivono in una perenne trincea. Nella capitale Karachi, la maggior parte dei cristiani vive nel quartiere Essa Nagri (tradotto dall’urdu «il quartiere di Cristo»), dove vivono ammassati e, in qualche modo, trincerati innalzando muri di protezione per sentirsi più sicuri.

Essa Nagri è un quartiere dove le fogne sono a cielo aperto, i collegamenti elettrici precari e anche la sicurezza non è sempre garantita. Nel 2016 qui sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani dai fondamentalisti islamici.

Nella città di Lahore, nel nord del Paese, il quartiere cristiano è invece quello di Youhanabad. Qui vivono circa 130mila cristiani tra cattolici e membri di altre confessioni. Nel quartiere si trovano due chiese, la Saint John, cattolica, e la Christ church, protestante, entrambe attaccate in due attentati contemporanei il 15 marzo del 2015.

In quell’attentato persero la vita molte persone tra le quali il giovane cattolico Akash Bashir, proclamato Servo di Dio (il primo nella storia della Chiesa del Pakistan) il 31 gennaio del 2022, festa di San Giovanni Bosco.

Akash Bashir, nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pachistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa, era uno studente del Don Bosco technical institute di Lahore, ed era tra i giovani attivi nella comunità parrocchiale.

Akash era in servizio al cancello d’ingresso della chiesa, quel 15 marzo del 2015, quando notò un uomo che voleva entrare con una cintura esplosiva sul corpo.

Il giovane ha abbracciato l’uomo, bloccandolo e tenendolo fermo al cancello d’ingresso, facendo sì che il piano del terrorista, quello di fare una strage all’interno della chiesa, fallisse.

L’attentatore si è allora fatto esplodere uccidendo se stesso e il giovane Akash.

Nel 2019, durante un nostro viaggio in Pakistan per documentare la situazione dei cristiani, abbiamo incontrato a Lahore Emmanuel Bashir e Naz Bano, il padre e la madre del giovane. «È morto per salvare la vita degli altri, è un martire della Chiesa e noi ne siamo orgogliosi perché questo è testimoniare il Vangelo», ci hanno detto, auspicando che il Papa potesse riconoscere il loro Akash martire e santo, anche per dare coraggio alla martoriata comunità cristiana locale.

Manuela Tulli




Somalia. Sognando la normalità


Uno Stato debole ma che c’è, e ha promesso di sconfiggere i fondamentalisti entro un anno. Occorre rilanciare l’economia piegata da tre decadi di guerra. Forse questo sarà un anno di svolta. Intanto cresce l’influenza della Turchia. E l’Italia che fa?

I fucili mitragliatori a tracolla pronti a essere utilizzati. Addosso elmetti e giubbotti antiproiettili in kevlar. Gli sguardi sempre puntati intorno, verso possibili minacce. Gli agenti della scorta sono all’erta. Hanno l’adrenalina al massimo anche se, per loro, questa è una missione come un’altra in una delle città più pericolose del mondo: Mogadiscio, la capitale della Somalia. Sono una decina sul pick-up che ci precede. Un’altra ventina sui due mezzi che ci seguono. Tra noi e loro il fuoristrada del comandante della scorta, un sudafricano alto due metri e massiccio come una roccia. «Qualsiasi cosa succeda – dice prima di partire -, non scendete dal fuoristrada se non ve lo ordino io. E, una volta a terra, continuate a seguire le mie indicazioni». Questo è quanto attende un europeo che voglia lasciare il compound dell’aeroporto di Mogadiscio per avventurarsi in città.

Lo scalo, costruito dagli italiani e ristrutturato dai turchi, è una sorta di città fortezza dove c’è di tutto: alberghi, negozi, aziende. La struttura è protetta da mura solide sormontate da chilometri di filo spinato. Rinunciare alla scorta è impossibile: militari, contractors o uomini di compagnie di sicurezza devono accompagnare qualsiasi convoglio sia all’interno dell’aeroporto sia all’esterno.

Appena fuori dall’hotel, troviamo un primo posto di blocco con sbarre, gestito da soldati ugandesi armati con Ak-47. Poi un altro, sempre composto da soldati ugandesi. A fianco delle sbarre un mezzo dell’Unione africana simile agli Iveco Lince in dotazione delle forze armate italiane. Più avanti un altro blocco. Questa volta la colonna è costretta, da una fila di jersey in cemento a rallentare drasticamente e a fare una serpentina. Si entra in città.

African Union Mission to Somalia (AMISOM) soldiers carry the wreckage of a vehicle at the scene of suicide bombing that targeted AMISOM forces in Mogadishu, Somalia, on November 11, 2021. (Photo by AFP)

Mogadiscio è viva

L’immagine che avevamo prima di arrivarci era quella di una metropoli spaventata, chiusa in sé, con poco traffico e poca gente. Invece le strade sono piene di uomini, donne, animali (soprattutto capre e asini). Ai bordi, piccoli mercati, negozi, locali affollati. C’è un continuo viavai di piccoli taxi apecar. Mogadiscio è viva. C’è fermento.

Certo le strade sono malridotte, sporche (anzi, sporchissime), il traffico è caotico, ma non è una metropoli spenta. Nell’aria, però, c’è una tensione palpabile. Ogni volta che il nostro convoglio rallenta o si ferma, gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e controllano intorno. Raggiunta la nostra meta, un’altra scena di guerra. Tutti gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e bloccano la via. La nostra jeep entra nel compound e, solo dopo che i nostri uomini hanno accertato che le condizioni sono buone, possiamo scendere.

La portiera del mezzo pesa moltissimo. Si fa fatica ad aprirla, la blindatura è consistente. Dopo una breve sosta, dobbiamo andare verso un’altra meta.

Passiamo il Km4, rotonda già teatro di attentati di al-Shabaab. Poco più in là. Due camion ostacolano la strada. Li superiamo. Poi, uno, due, tre colpi di arma da fuoco. La colonna prosegue, ma arriva l’ordine: «Rientrare!». Più avanti, ci viene detto, c’è una manifestazione di studenti. La polizia ha sparato per disperdere i manifestanti. La colonna fa dietro front. Ci aspettano ancora i posti di blocco. Rientriamo nella nostra bolla di sicurezza.

(Photo by Hassan Ali ELMI / AFP)

Sconfiggere al-Shabaab

La Somalia vive ancora nell’insicurezza. Nonostante il governo guidato dal presidente Hassan Sheikh Mohamud, sostenuto da Usa, Unione africana, Unione europea e Turchia, abbia lanciato un’offensiva a tutto campo contro al-Shabaab, le milizie fondamentaliste legate ad al-Qaeda hanno ancora molte basi nell’entroterra. Covi dai quali lanciano continuamente attacchi contro le istituzioni e le caserme federali.

«Nell’arco di un anno – ha detto il capo dello Stato – sconfiggeremo gli islamisti». Un ottimismo forse eccessivo, ma al quale la popolazione vuole dare credito. «Il nostro presidente ha detto che al-Shabaab sarà sconfitto nell’arco di un anno. Io penso che ce ne vorranno almeno due per eliminare le milizie fondamentaliste». Non ha dubbi Jamila, giovane insegnante somala. Secondo lei il destino della filiale locale di al-Qaeda è segnato.

Al-Shabaab arruola giovani poveri, non istruiti, con nessuna formazione professionale né lavoro. Al-Shabaab ha promesso loro una vita migliore e loro ci vedono un’opportunità.

Sono ragazzi vittime di anni in cui la Somalia era uno Stato senza autorità, senza legge, senza servizi per la popolazione. «Oggi – continua Jamila – le cose stanno cambiando. Lo Stato c’è, anche se è debole. Le scuole hanno riaperto. I ragazzi e le ragazze possono studiare. Persone istruite e con un lavoro non hanno interesse ad aderire a una formazione estremista che offre, ora lo sappiamo, un’unica prospettiva, quella della morte, della violenza e della distruzione».

I militari hanno ottenuto numerosi successi sul campo. La vera incognita è se riusciranno da soli a respingere l’offensiva di al-Shabaab. Le forze Atmis (African union transition mission in Somalia, è la missione dell’Unione africana che ha sostituito la precedente, Amison nell’aprile 2022, ndr) hanno infatti annunciato che, gradualmente, si ritireranno lasciando la sicurezza interamente in mano ai somali. «Gli attentati, anche nella capitale, sono sempre dietro l’angolo – conclude l’insegnante -. Il futuro però è segnato. I fondamentalisti saranno sconfitti nei fatti e noi potremo tornare a essere un Paese normale che si gioca il suo futuro sui binari della pace e dello sviluppo. A partire dai giovani».

Sicurezza ed economia

Se la sicurezza è una priorità del governo somalo, il rilancio dell’economia è altrettanto fondamentale. Più di trent’anni di guerra civile hanno messo al tappeto un sistema economico già fragile. Eppure le risorse per il rilancio non mancano. Il Paese può contare su un mare pescoso, su un allevamento di animali (cammelli soprattutto) molto forte, su risorse naturali (petrolio), terreni fertili (vicino ai principali corsi dei fiumi).

Il 2023 potrebbe poi essere un anno di svolta per la Somalia anche per il riconoscimento internazionale della ristrutturazione del suo debito estero. «La Somalia potrà tornare sul mercato internazionale per ottenere fondi – osserva Ygor Scarcia, responsabile a Mogadiscio di Unido (agenzia Onu per lo sviluppo industriale -. Si tratta di un segno importante per l’intero Paese. Mogadiscio dovrà però essere capace di investire questi fondi secondo priorità precise evitando gli errori del passato. Un passaggio nel quale la Somalia dovrà dimostrare serietà e nel quale la comunità internazionale dovrà accompagnare le autorità locali».

(Photo by Hassan Ali Elmi / AFP)

Presenza turca

A lavorare attivamente in Somalia c’è la Turchia. Ankara ha scommesso sul Paese quando era ancora quasi interamente in mano ad al-Shabaab.

Era il 19 agosto 2011, in pieno Ramadan, quando Recep Tayyp Erdogan atterrava nella capitale somala, accompagnato da moglie e figlia, dai suoi ministri e dalle loro famiglie, portando con sé una parte dei 250 milioni di dollari raccolti in Turchia da privati cittadini a sostegno dell’appello contro la carestia.

Un gesto che fece scalpore e fu seguito da altre azioni di soft power come la concessione di borse di studio, la possibilità offerta ai giovani somali di studiare in università turche, aiuti alle regioni più svantaggiate economicamente, ecc.

Alla Turchia si sono aperte le porte della Somalia. Le aziende di Ankara hanno ristrutturato l’aeroporto e il porto di Mogadiscio. Molti nuovi quartieri della capitale sono stati ricostruiti da imprese edili turche.

E l’Italia? L’ex potenza coloniale quale ruolo può avere nel rilancio della Somalia? «L’Italia – ha detto Hamza Abdi Barre, premier somalo, intervenuto al forum Somalia economic conference che si è svolto Mogadiscio il 30 e il 31 maggio – in passato ha sostenuto l’agricoltura somala e ha permesso al nostro Paese di godere di maggiore sicurezza alimentare. L’Italia deve continuare su questa strada per garantire stabilità e sviluppo».

Il governo somalo spera che l’Italia diventi il principale investitore nel Paese. «Stiamo lavorando per garantire stabilità e sicurezza combattendo al-Shabaab – ha osservato -. Questa conferenza può e deve essere un punto di partenza per rafforzare i legami tra i nostri Paesi».

Gli ha fatto eco Abdirizak Osman Giurile, consigliere del presidente somalo per la democratizzazione e il buon governo e incaricato di sostenere il capo dello Stato nelle relazioni con il nostro paese. «Il rapporto con l’Italia – ha detto all’agenzia InfoMundi – negli ultimi trent’anni ha avuto alti e bassi. Ora non va male. L’incontro dei vertici italiani e somali a febbraio a Roma è stato un momento importante».

Il funzionario ha però lamentato uno scarso impegno economico italiano. «Uno stanziamento di 20 milioni è troppo basso. Lo ha riconosciuto lo stesso ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. L’Italia deve fare di più e sostenerci nei settori di punta della nostra economia».

Anche sotto il profilo culturale i somali chiedono un maggiore intervento italiano. «Chiediamo – ha sottolineato ancora Giurile – che l’Italia riattivi e riattualizzi l’accordo del 1973 che prevedeva un sostegno economico importante per aiutare la nostra università, finanziando gli stipendi dei professori e le attrezzature per le facoltà. Il Governo di Roma ha detto che lo farà. Stiamo aspettando».

Phil Moore/IRIN

L’Italia tornerà?

Da parte italiana c’è stata un’apertura. Alberto Vecchi, ambasciatore d’Italia in Somalia, ha dichiarato sempre all’agenzia InfoMundi: «Questa conferenza è il frutto di un impegno che il presidente somalo ha preso nel corso della sua visita a Roma. Sono felice che siamo riusciti a dare seguito a quell’impegno. La Somalia ha relazioni speciali con il nostro Paese che affondano le radici nella storia, e che sono proseguite nel tempo».

Il paese africano, secondo il diplomatico, è unico per la sua posizione particolare e per le sue grandi risorse naturali: «Vogliamo contribuire a dare alla Somalia la possibilità di sfruttare queste risorse e diventare un importante punto di riferimento per la regione».

«L’Italia ci ha lasciato, perché? Perché da trent’anni non investe più da noi? I legami antichi sono spariti?», così parla un vecchio professore somalo che insegna italiano all’università di Mogadiscio. Nelle sue parole c’è il rimpianto per una vecchia amicizia che c’era un tempo e che oggi sembra appannata.

«Ve ne siete andati – osserva – e ora il vostro posto è stato preso da altri. I turchi soprattutto. In Somalia c’erano molte imprese italiane, ma adesso è tabula rasa. Non c’è più nulla. Eppure le opportunità ci sono. La comunità somala in Italia è grande e può fare da ponte tra le due nazioni. L’amore per l’Italia non è svanito».

Se gli si fa notare che la Somalia è un Paese instabile in cui molte regioni sono ancora sotto il giogo dei fondamentalisti islamici, lui risponde duro: «I turchi sono venuti qui nel periodo peggiore. Non c’era sicurezza, né possibilità economica. Ma loro c’erano, voi siete spariti. Tornerete? Me lo auguro. La nostra storia è la vostra e viceversa. Non possiamo dimenticarlo».

Enrico Casale

Somalia’s President Hassan Sheikh Mohamud (Photo by Hassan Ali Elmi / AFP)




Piccoli soldati crescono


Le scuole italiane aprono le porte alle Forze armate. La società civile si organizza per reclamare la priorità del valore della pace e della nonviolenza come colonna portante del percorso formativo dei minori.

L’Osservatorio, nato solo pochi mesi fa, raccoglie e  diffonde informazioni su questa pericolosa deriva.

Pochi giorni prima della chiusura delle scuole, il 5 giugno scorso, 200 studenti di Messina, di età compresa tra i 9 e i 16 anni, hanno partecipato alla festa dell’Arma dei Carabinieri nella locale base della Marina militare.

Ne hanno dato notizia con entusiasmo diverse testate locali: «La cerimonia – scrive, ad esempio, messinamagazine.it – ha visto la presenza […] del vicecomandante generale dell’Arma dei Carabinieri […], affiancato dal sottocapo di stato maggiore della Marina militare, […], nonché del presidente della regione Calabria, dei prefetti delle province di Sicilia e di Calabria e delle più alte cariche istituzionali, civili, militari e religiose delle due Regioni. […] Anche quest’anno – aggiunge l’articolista -, particolare attenzione è stata rivolta ai giovani […] simbolo del legame e della condivisione dei valori tra l’Arma di oggi e le nuove generazioni». L’uscita didattica aveva come motivazione ufficiale l’educazione alla legalità.

L’8 giugno, più a nord, in provincia di Siena, durante la festa di fine anno della scuola dell’infanzia Walt Disney di Barontoli, frazione di Sovicille, i bambini si sono esibiti in canti e balli in presenza delle loro famiglie, del comandante del reggimento paracadutisti della Folgore di Siena e del sottoufficiale di corpo del 186° reggimento. «Accompagnare i più piccoli alla cittadinanza attiva – recita un post della pagina Facebook dell’istituto comprensivo Lorenzetti – significa soprattutto porre le fondamenta in ambito democratico […]. La scuola dell’infanzia è il primo gradino d’ingresso nella società e i piccoli alunni hanno trascorso un momento di festa condivisa insieme alle famiglie, alle autorità celebrando con la cerimonia dell’alzabandiera istituzionale il ritorno alla normalità».

Militarizzazione martellante

Gli esempi appena citati di presenza delle Forze armate nel percorso scolastico delle nuove generazioni, sono solo due dei moltissimi che si potrebbero elencare e che vengono raccolti quotidianamente dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole, nato nei primi mesi del 2023 dall’iniziativa di alcune sedi del sindacato dei Cobas scuola (Confederazione dei comitati di base della scuola) in collaborazione con le rispettive sedi del Cesp (Centro studi per la scuola pubblica) e con l’adesione di Pax Christi e «Mosaico di pace».

Da alcuni anni, infatti, denuncia l’Osservatorio, si registra una «progressiva e martellante militarizzazione della società civile, a partire dalla scuola».

In questo contesto può capitare, allora, che studenti di Caltagirone facciano la propria gita scolastica di cinque giorni nelle basi militari pugliesi, accompagnati da ufficiali e sottufficiali istruttori. O che bambini di una scuola dell’infanzia di Scordia e Gravina di Catania festeggino Halloween in compagnia dei piloti del gruppo Antisom VP-26.

Dall’infanzia all’università, la scuola ha aperto le braccia alle mimetiche per delegare loro parte della formazione o esperienze di alternanza scuola-lavoro – oggi chiamate Pcto, Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento – allo scopo di promuovere la carriera militare come possibile professione futura.

Le tecnologie avanzate usate dall’Esercito, le visite nelle basi aeronautiche o della Marina, la partecipazione a parate, i corsi di vela o gli incontri in aula sugli argomenti più vari, dal bullismo alle dipendenze, alla violenza di genere, all’insegnamento dell’inglese da parte di soldati Usa provenienti dalle basi Nato, sono i portoni d’ingresso dei militari negli edifici scolastici. Suscitando fascino nei giovanissimi (complici «war games» e serie Tv), confermano l’idea che «armi-è-bello», che la guerra è «normale», che marines è cool.

Osservare per denunciare

Per chi, come noi, è cresciuto all’ombra del Papa buono, ben prima che fosse «promosso», ahinoi, a «patrono dell’Esercito», e di don Lorenzo Milani, i tempi attuali sono preoccupanti.

Gradatamente, in ogni ambito, vediamo avanzare le mimetiche.

Continuiamo a sentire chiamare «missioni di pace» quelle che sarebbe più corretto chiamare «missioni militari in zone di guerra»; vediamo ogni anno celebrare con parate militari, Frecce tricolori, carri armati e aerei da guerra, la festa della nostra Repubblica, nata dalle macerie di un conflitto mondiale dal quale i padri costituenti avevano preso le distanze, ripartendo dal lavoro, dalla pari dignità di tutti e dal ripudio della guerra.

La militarizzazione è sistemica. È culturale. Lo è nei linguaggi così come nella silenziosa delega della sicurezza alle Forze armate. E lo è anche nella scuola.

Papa Francesco può anche continuare a ripetere che «viviamo in una terza guerra mondiale a pezzi» o che la guerra è crudele, assurda, folle. Le nostre orecchie e i nostri cuori sono assuefatti, silenti e accondiscendenti.

La pandemia poi ha accelerato questo processo: non solo le uniche fabbriche rimaste aperte nel periodo di lockdown sono state quelle di armi, ma gli hub vaccinali o i centri per i tamponi sono stati spesso allestiti in tende militari. Il linguaggio, tramite metafore belliche, ha fatto la sua parte: «Siamo in trincea», «mascherine come munizioni», «è una guerra». Il servizio d’ordine è stato affidato alle forze armate alle quali è stato chiesto di vigilare sul rispetto delle regole, degli ingressi limitati nei luoghi d’arte o dinanzi alle scuole.

Per questo è stato costituito l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole: per raccogliere dati e monitorare le attività formative delegate dalle scuole ai militari e per – come recita l’appello dei fondatori – «una decisa e costante attività di denuncia».

Le campagne di Pax Christi

La connessione tra scuola e mondo militare era stata già oggetto della campagna «Scuole smilitarizzate», promossa nel 2013 e ripresa nel 2020 da Pax Christi Italia, in collaborazione con Mir Italia e Sos diritti.

La campagna nasceva dalla consapevolezza che la scuola è un luogo privilegiato di educazione al rispetto, alla solidarietà e ai diritti e al rifiuto di ogni forma di violenza, compresa, quindi, la guerra. Si chiedeva «ai collegi dei docenti e ai consigli di istituto, così come ad ogni singola/o insegnante, […] [di] valorizzare e promuovere l’educazione alla pace e alla nonviolenza […] [ed] escludere dall’offerta formativa qualsiasi progetto, iniziativa e materiale finalizzati alla divulgazione, promozione e celebrazione della guerra, del militarismo e delle attività connesse, quali, ad esempio, la produzione e la vendita di armi».

Intese per militarizzare

La collaborazione tra scuole e mondo militare non nasce dal nulla o all’insaputa dei vertici delle due istituzioni. Tra i molti documenti e protocolli d’intesa firmati da diversi organi istituzionali, possiamo citare, ad esempio, quello del 14 dicembre 2017, intitolato «Rafforzare il rapporto tra scuola e mondo del lavoro», siglato dal Miur (l’allora ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), dal ministero delle Politiche sociali e del Lavoro e dal ministero della Difesa allo scopo di diffondere nel mondo scolastico, accademico e scientifico i «valori etico-sociali, della storia delle tradizioni militari, con un focus sulla funzione centrale che la cultura della difesa ha svolto e continua a svolgere a favore della crescita sociale, politica, economica e democratica del Paese».

Scuola a mano armata

Mentre noi abbiamo la convinzione che la scuola può e deve essere laboratorio di pace, oggi le frequenti occasioni in cui gli studenti vedono militari in veste di formatori contribuiscono a radicare in loro la convinzione che la pace possa essere portata dalle armi (o addirittura che le armi siano l’unico strumento per conquistarla). Che la sicurezza sia un bene da garantire a mano armata e non piuttosto il frutto di un welfare efficace, di servizi pubblici per tutti, di lavoro, di sanità e di scuola pubblica.

Vediamo marines che insegnano inglese (come accaduto a Nissoria, Gravina di Catania, Lentini, Bronte), studenti che svolgono i loro Pcto presso la base militare Usa-Nato di Sigonella (come in alcune scuole tra Catania, Ragusa, Messina e Caltanissetta).

Nell’ottobre 2022, la brigata Folgore di Pisa ha ospitato alcune scuole presso il centro di addestramento paracadutisti, per celebrare l’80° anniversario della battaglia di El Alamein, combattuta al fianco del regime nazista, reo di un inenarrabile genocidio. Si è proposto uno «scambio culturale» tra studenti e paracadutisti, con una conferenza e un vero e proprio open day presso la caserma Gamerra.

 

Tenere alta l’attenzione

Nel settembre 2022, dopo la concessione a un ente privato dell’utilizzo della palestra dell’Istituto comprensivo Fucini di Pisa per svolgere lezioni di prova di ginnastica dinamica militare, il gruppo Una città in comune del consiglio comunale ha denunciato: «Decine di persone, vestite rigorosamente allo stesso modo, che si muovono all’unisono, rispondendo a comandi volutamente urlati e violenti come qualche esercito nel secolo scorso al passo dell’oca o, per restare a pratiche a noi più familiari, a quanto veniva imposto ai preadolescenti per tutta la giornata del sabato nelle scuole italiane. L’obiettivo, neanche troppo nascosto è evidentemente una militarizzazione del sistema prima educativo e poi scolastico italiano. Allenando all’obbedienza più che ai principi sportivi».

Il collegio dei docenti dell’istituto ha così espresso il proprio dissenso, perché l’utilizzo di una palestra scolastica per quella pratica sportiva è diseducativo. Del resto anche la normativa in vigore prevede che le strutture scolastiche prestate ad attività fuori dall’orario di lezione debbano rispondere «a finalità di promozione culturale, sociale e civile», e in questa definizione non rientra quella che il collegio docenti ha definito «una ginnastica a corpo libero programmaticamente dura e vocata all’aggressività in cui vi è una conduzione dell’allenamento da parte dell’istruttore con comandi in stile militare».

Costituzione e ripudio della guerra

Perché la scuola da ente educativo diviene luogo di attività performative e di addestramento?

Perché non tenere al centro l’educazione alla cittadinanza attiva fondata sulla Costituzione e sul ripudio della guerra? Perché demandare alle Forze armate la formazione dei nostri ragazzi?

Sovviene don Milani con il suo noto «Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri». E «le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto». Aggiungiamoci pure la cultura, quella che libera e che restituisce la parola a chi non ce l’ha. Perché la parola libera. Sempre. Libera i sogni, dà ai giovani le ali per costruire una comunità umana nuova, solidale, fraterna, equa.

Rosa Siciliano
direttore editoriale di «Mosaico di Pace»


L’Appello dell’Osservatorio

Di fronte al costante incremento delle spese militari e della circolazione di armi in un contesto internazionale nel quale la guerra nucleare si profila purtroppo come possibile nefasto orizzonte, ci prefiggiamo da oggi una decisa e costante attività di denuncia di quel processo di militarizzazione delle nostre istituzioni scolastiche già in atto da molto, troppo tempo.

Le scuole stanno sempre più diventando terreno di conquista di una ideologia bellicista e di controllo securitario che si fa spazio attraverso l’intervento diretto delle forze armate (in particolare italiane e statunitensi) declinato in una miriade di iniziative tese a promuovere la carriera militare in Italia e all’estero, e a presentare le forze armate e le forze di sicurezza come risolutive di problematiche della società civile.

Questa invasione di campo vede come protagonisti rappresentanti delle forze militari addirittura in qualità di «docenti» che tengono lezioni su vari argomenti (dall’inglese affidato a personale Nato a tematiche inerenti la legalità e la Costituzione) e arriva a coinvolgere persino i percorsi di alternanza scuola-lavoro (Pcto) attraverso l’organizzazione di visite a basi militari o caserme. Il tutto suffragato da protocolli di intesa firmati da rappresentanti dell’Esercito con il ministero dell’Istruzione, gli Uffici scolastici regionali e provinciali e le singole scuole.

Riteniamo molto grave che tali attività vengano presentate mascherando quella che è la vera natura della forza militare, nel tentativo di creare consenso attraverso un utilizzo improprio e fuorviante di valori quali «coraggio», «orgoglio» e «forza» o di idee astratte quali «difesa della patria» e «missioni di pace».

È oltremodo preoccupante il livello di collaborazione che molti atenei italiani intrattengono con l’industria bellica attraverso cospicui finanziamenti alla ricerca o la sottoscrizione di protocolli tra università pubbliche e forze armate. L’intreccio è talmente forte che nel comitato scientifico della fondazione di Leonardo Medor troviamo ben sedici rettori delle università italiane.

Il ruolo che la scuola riveste non è in alcun modo compatibile con l’ideologia brutale che sta alla base di ogni guerra: questo processo di militarizzazione promuove pratiche antitetiche a qualsiasi effettivo e sano processo educativo.

«Smilitarizzare» le scuole e l’educazione vuol dire rendere gli spazi scolastici veri luoghi di pace e di accoglienza, opporsi al razzismo e al sessismo di cui sono portatori i linguaggi e le pratiche belliche, allontanare dai processi educativi le derive nazionaliste, i modelli di forza e di violenza, l’irrazionale paura di un «nemico» (interno ed esterno ai confini nazionali) creato ad hoc come capro espiatorio. «Smilitarizzare» la scuola vuol dire restituirle il ruolo sociale previsto dalla Costituzione italiana. Crediamo nel ruolo fondamentale della scuola come laboratorio dove costruire insieme a bambine/i e ragazze/i una società di pace e di diritti per tutte/i, e pertanto chiediamo a dirigenti scolastici, insegnanti, educatori/educatrici, studenti/esse, intellettuali, cittadine/i di aderire all’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole firmando questo appello e dichiarando la propria scuola luogo di pace, accoglienza e rispetto.

Chiediamo anche di farsi parte attiva nella denuncia che porteremo avanti, territorio per territorio, di ogni intervento nelle scuole da parte delle forze militari e di sicurezza e di ogni uso improprio delle strutture scolastiche. Chiediamo di partecipare a un’azione coerente di informazione e di mobilitazione per estromettere la cultura della guerra dal mondo della scuola.

Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole

 

Sito: https://osservatorionomilscuola.com/

Per sottoscrivere l’appello e aderire all’Ocms:

Adesioni e Contatti

Per contattare l’Osservatorio, segnalare la presenza nelle scuole di forze armate, comunicare iniziative di contrasto alla militarizzazione, scrivere a osservatorionomili@gmail.com

Il 9 marzo 2023 è stato presentato presso la sala stampa della Camera dei deputati il primo dossier dell’Osservatorio, scaricabile in pdf dal sito.




Torino. Il progetto Migrantour. «Oggi vi accompagniamo noi»


A Torino, migranti di diversi paesi sono diventati «accompagnatori interculturali» nella città che li ha accolti. Gli obiettivi sono importanti: promuovere la coesione sociale e la convivenza, valorizzare il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso. Il successo del progetto è stato tale che oggi viene proposto in altre città italiane ed europee.

«L’altro giorno stavo andando a fare la spesa a Porta Palazzo, quando all’angolo tra piazza della Repubblica e via Milano mi sono imbattuto in una comitiva di turisti. Francesi? No. Tedeschi? Nemmeno. Americani? Neanche. Giapponesi? Neppure. Si trattava di turisti ancora più esotici. Italiani.  Lì per lì, a dire il vero, mi è sembrato quasi normale, anche se appena una decina di anni fa la cosa sarebbe stata inimmaginabile. Così ho tirato dritto. Poi però, con la coda dell’occhio, ho intravisto qualcosa che mi ha fatto dapprima rallentare e infine fermare. Mi sono voltato. Ho guardato meglio. Sì, non c’erano dubbi. La guida che stava illustrando le meraviglie di Porta Palazzo alla comitiva di connazionali era una ragazza nordafricana con tanto di chador, che tra l’altro si esprimeva usando un italiano perfetto».

La «Tettoia dell’orologio», a Torino, passeggiata interculturale di Migrantour «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

Itinerari urbani: Torino e le altre

Quello che avete appena letto è un estratto di un articolo dello scrittore torinese Giuseppe Culicchia che, forse inconsapevolmente, qualche anno fa poté osservare l’esito di un lungo lavoro iniziato a Torino nel 2009.

Gli itinerari urbani ideati dagli «accompagnatori interculturali» della rete Migrantour sono oggi una realtà quotidiana, non solo nel capoluogo piemontese, ma anche in moltissime altre città italiane ed europee, nonché da un paio d’anni in alcuni piccoli borghi e località rurali e montane.

Si tratta di passeggiate di un paio d’ore, in cui persone che hanno vissuto a livello personale o familiare l’esperienza della migrazione accompagnano concittadini, studenti e turisti alla scoperta dei quartieri mostrando come le migrazioni abbiano trasformato la città nel corso del tempo, arricchendone il patrimonio culturale tangibile e intangibile. Si cammina insieme per vie e piazze, si attraversano mercati, si entra in luoghi di culto, si osserva il tessuto urbanistico e architettonico da prospettive inusuali.

Al centro di tutto vi è la dimensione dell’incontro, del dialogo, del confronto capace di lasciare la traccia di un’esperienza significativa nei ricordi di chi partecipa alle passeggiate Migrantour.

Nascita ed espansione della rete

Il progetto Migrantour è stato ideato e sperimentato inizialmente dalla cooperativa Viaggi solidali, tour operator attivo nel campo del turismo responsabile e socio fondatore dell’«Associazione italiana turismo responsabile» (Aitr) che, nel 2009-2010, a Torino, realizzò il primo corso per «accompagnatori interculturali», rivolto a venti migranti di prima e seconda generazione residenti in città.

A partire da quel progetto pilota, Fondazione Acra e Oxfam Italia diedero poi il loro fondamentale contributo ottenendo, nel 2013-2015, il primo finanziamento dalla Commissione europea per consolidare l’iniziativa in Italia ed estenderla ad altri paesi (Francia, Spagna e Portogallo).

Nacque così un network costituito da nove città che includeva, oltre a Torino, anche Milano, Genova, Firenze, Roma, Marsiglia, Parigi e Valencia, con partner locali incaricati di realizzare le attività in ogni città. Una seconda, importante fase di sviluppo dell’iniziativa si ebbe poi nel 2018-2019, grazie a due nuove progettualità: l’Asylum migration and integration fund (Amif) della Commissione europea e l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) permisero in quegli anni l’ingresso nella rete di altre città italiane (Bologna, Napoli, Catania, Cagliari e Pavia) ed europee (Bruxelles in Belgio e Lubiana in Slovenia) e soprattutto di organizzare delle specifiche attività per coinvolgere nell’iniziativa richiedenti asilo e rifugiati.

Nel corso degli anni successivi, la rete Migrantour ha continuato ad ampliarsi (aggregando le città di Parma e Bergamo).  Anche nel terribile 2020, segnato dalla pandemia, la rete ha dato vita a due programmi di scambio «Erasmus+» che le hanno permesso di estendere il progetto ad altre città (Barcellona in Spagna, Copenaghen in Danimarca, Utrecht nei Paesi Bassi) e, per la prima volta, in una serie di aree non urbane: Borgata Paraloup in Piemonte, Camini in Calabria, e altre località rurali in Slovenia, Grecia e Bulgaria. Oggi Migrantour è, dunque, una rete molto ampia, coordinata da Fondazione Acra e Viaggi solidali, ma sempre aperta ad accogliere nuovi partner e avviare nuove collaborazioni.

Mirela (Romania), accompagnatrice interculturale, la «Tettoia dei contadini», passeggiata «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

La formazione

Come funziona concretamente l’ideazione degli itinerari interculturali di Migrantour? Tutto comincia con un percorso formativo partecipato, offerto – sempre gratuitamente – a un gruppo di cittadini con background migratorio in seguito all’apertura di una call pubblica.

Il gruppo in formazione si impegna, dunque, per alcuni mesi in un lavoro fatto di momenti di approfondimenti sulla storia delle migrazioni, sul patrimonio culturale, sul turismo responsabile. Soprattutto cerca di sviluppare, attraverso lo scambio e la condivisione delle conoscenze tra i partecipanti (cui i formatori forniscono strumenti utili per l’identificazione e la restituzione dei contenuti delle passeggiate): le tecniche di narrazione autobiografica e di storytelling, la realizzazione di brevi ricerche di campo di tipo etnografico, attraverso la pratica dell’osservazione partecipante, la raccolta di interviste e la produzione di documentazione visuale, la produzione di mappe mentali ed emozionali del territorio urbano.

Le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali divengono così, giorno dopo giorno, una «comunità di pratiche», che si fa gradualmente anche «comunità patrimoniale», nella misura in cui si impegna nel salvaguardare e trasmettere un patrimonio interculturale ritenuto rilevante per promuovere la coesione sociale, la valorizzazione del pluralismo culturale e del dialogo interreligioso.

I risultati

Considerata l’ormai lunga durata di questa iniziativa e l’ampiezza della rete delle città coinvolte, può essere interessante domandarsi quali siano i risultati tangibili ottenuti finora dal progetto.

A tal proposito, negli anni 2018-2019, l’International research centre on global citizenship education dell’Università di Bologna ha realizzato uno studio per valutare l’impatto del progetto Migrantour prendendo a campione le città di Torino, Bologna, Napoli e Cagliari.

Dal report finale emergono due cambiamenti rilevanti: i partecipanti alle passeggiate interculturali Migrantour cambiano le proprie percezioni sul fenomeno migratorio in termini di sicurezza e di contributo allo sviluppo della società rivalutando i quartieri in cui si svolgono le passeggiate; le accompagnatrici e accompagnatori interculturali migliorano la percezione del sé, rafforzandosi e affrancandosi attraverso il lavoro e trovando una modalità di realizzazione personale.

Nel report si legge ancora: «Da un’iniziale motivazione personale, legata alla possibilità di trovare un impiego, di mettere in pratica alcuni temi studiati all’università, o di migliorare l’italiano, per molti partecipare a Migrantour diventa qualcosa di più importante di un semplice lavoro o dello studio. Può favorire una più effettiva integrazione e contribuire alla preparazione di una nuova generazione alla convivenza multiculturale».

In effetti l’impatto più significativo, ancora oggi nel 2023, riguarda – a nostro avviso – proprio le accompagnatrici e accompagnatori interculturali. Lasciamo, dunque, la parola alle protagoniste e ai protagonisti di Migrantour.

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo, San Salvario (Torino), passeggiata interculturale «United colors of San Salvario». Foto Ornella Orlandini.

Cosa dicono

«L’impatto su di me – spiega Romina – è assolutamente positivo perché ho modo di confrontarmi, conoscere, capire, sentire altre storie di migrazioni. Lavorare a fianco di altri migranti mi dà un senso di appartenenza, mi sento capita, senza dovermi giustificare o spiegare, ma semplicemente raccontandomi in maniera naturale e spontanea direi».

Adriana: «Per me fare l’accompagnatrice interculturale è un privilegio perché è uno spazio in cui puoi autoraccontarti, autodefinirti, al di là di quello che le altre persone possono pensare di te semplicemente sapendo che sei nata in Colombia oppure che vivi a Barriera di Milano, come nel mio caso. Ti permette di raccontare come vedi e come vivi la città in uno spazio protetto e in generale di non giudizio».

Migrantour appare, dunque, come uno spazio in cui potersi confrontare liberamente e senza barriere. Un luogo in cui le storie personali o familiari di migrazione s’intrecciano e le narrazioni trovano spunti di riflessioni e linguaggi comuni. È significativa la consapevolezza del potere di rappresentazione tanto più in un contesto dove prevale nella comunicazione pubblica un punto di vista esterno (giornalisti, esperti, ricercatori, politici). Gli itinerari interculturali, al contrario, si fondano su uno sguardo interno, quello di chi ha vissuto personalmente l’esperienza della migrazione e sceglie di voler connettere la propria storia individuale con quella collettiva di altri migranti e della città.

Come abbiamo visto introducendo le modalità del percorso formativo, Migrantour è un luogo di scambio reciproco in cui costruire una comunità di pratiche. La costruzione degli itinerari è il risultato di un percorso partecipativo. Esso prevede uno scambio di competenze: si condivide, si insegna, si impara e si trasmette non solo quanto si sa personalmente ma anche i saperi degli altri partecipanti per costruire un dialogo autenticamente interculturale, capace di restituire la complessità degli scambi tra culture che, quotidianamente, avvengono nei quartieri dove si svolgono le passeggiate.

Come ricorda Mirela: «Essere accompagnatrice interculturale vuol dire anche essere parte di una grande famiglia dove ognuno di noi ha l’occasione sia di imparare sia di insegnare qualcosa agli altri. Questo senso di appartenenza fa bene a tutti, ci fa stare bene, ci fa voler portare avanti questo progetto».

Il sentirsi parte di una comunità rappresenta anche un’opportunità di emancipazione e di partecipazione alla società civile, nel rivendicare il proprio contributo nei processi di trasformazione della società.

«Diventare – spiega Monica –  un’accompagnatrice interculturale ha significato una grande svolta per la mia vita: quella dell’emancipazione come persona e come cittadina perché sono uscita da quella emarginazione nella quale mi ero lasciata collocare come immigrata. Avevo assunto su di me i pregiudizi sull’immigrazione e, soprattutto, i pregiudizi sulla mia comunità di appartenenza, quella rumena, vergognandomene purtroppo. Grazie a Migrantour ho capito e visto la ricchezza culturale che mi porto dentro e che posso condividere con gli altri. Ho cambiato prospettiva nel guardare me stessa, la mia comunità e le migrazioni in generale. Ora sono diventata consapevole delle mie molteplici identità, della bellezza del mondo che emigra e sento la necessità di ripagare Torino, questa bellissima città che mi ha accolta, diventando una cittadina attiva che si prende cura del proprio luogo del cuore».

Noi e la città

Un elemento che accomuna le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali è il rapporto che, man mano, si costruisce e rafforza con la città. Una città fatta di persone e storie con cui entrare in contatto, in cui si ha un ruolo per fare qualcosa per gli altri (Mirela), in cui sentirsi cittadine attive e sempre più torinesi (Adriana, Monica e Romina), in cui sentirsi a casa (Hassan).

Si sviluppa un senso di responsabilità, che sprona a formarsi di continuo, per inserire le proprie narrazioni nel quadro più ampio di una città in continua trasformazione grazie all’incontro tra culture e per restituire un discorso non stereotipato sulle migrazioni. In altre parole, un senso di responsabilità per aprire luoghi, relazioni, significati, possibilità, per rigenerare e costruire comunità.

Rosina (Italia-Perù), coordinatrice e accompagnatrice interculturale, passeggiata interculturale «Borgo San Paolo sin fronteras» per il progetto Detour, promosso da Fondazione Merz. Foto Matteo Montenegro.

«Città chiusa» versus «città aperta»

È proprio su questo impegno che, in conclusione, vorremmo richiamare l’attenzione: aprire la città. Potremmo riassumere così, in estrema sintesi, l’orizzonte ideale del progetto Migrantour.

Come ha giustamente indicato il sociologo americano Richard Sennett, una delle più cruciali sfide politiche della nostra contemporaneità è quella tra i fautori della «città chiusa», segregata, segmentata e sottoposta a un regime di controllo antidemocratico, e coloro che, invece, sostengono la possibilità di una «città aperta», che presuppone un diverso modo di pensare e abitare lo spazio urbano.

Una città «storta e sbilenca», scrive Sennett nel suo libro Costruire e abitare. Etica per la città (2018), una città diversa e molteplice, che riconosce di contenere al suo interno «ineguaglianze accecanti».

Per «aprire la città» e renderla maggiormente «accessibile», ciascun cittadino è chiamato dunque a «praticare un certo tipo di modestia: vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso», e in cui a contare è «la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato».

Rosina I. Chiurazzi Morales
e Francesco Vietti


Gli autori

  • Rosina Irene Chiurazzi Morales, torinese per nascita ma con origini peruviane. Ha sempre mantenuto un forte legame con la terra d’origine, anche in campo professionale partecipando a progetti di ricerche archeologiche in Perù. Dal 2014 al 2019 ha coordinato le attività sul campo della «Missione Etnologica» in Ecuador del Cesmap di Pinerolo e dell’Università di Torino. Dal 2009 collabora con Viaggi solidali al progetto Migrantour, come accompagnatrice interculturale e come coordinatrice per Torino e per la rete europea.
  • Francesco Vietti, antropologo, insegna all’Università di Torino. Ha svolto ricerche sul nesso tra mobilità e patrimonio culturale nell’Europa Orientale e nel Mediterraneo. In Italia, collabora da molti anni con istituzioni e soggetti del terzo settore in progetti per la coesione sociale e il dialogo interculturale. Dal 2009 collabora al coordinamento scientifico della rete europea Migrantour. Pubblicazioni: Il paese delle badanti (Meltemi 2010), Hotel Albania. Viaggi, migrazioni, turismo (Carocci 2012), Etnografia delle migrazioni (con C. Capello e P. Cingolani, Carocci 2014).

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La Russia in America Latina. Le mosse dello zar


La presenza di Mosca nei paesi latinoamericani è mutata nel corso degli anni: da estemporanea (con i flussi migratori) è diventata politica ed economica. In tempi recenti, ha amplificato la sua influenza tramite i suoi canali informativi (Rt e Sputnik). Dopo l’aggressione all’Ucraina, cos’è cambiato? E come sono le relazioni con la Cina, alleata a livello politico ma concorrente in America Latina?

Le relazioni tra Russia e America Latina hanno radici profonde, non sono cioè limitate ai primi decenni del XXI secolo. Gli immigrati russi comparvero per la prima volta in Sud America e nei Caraibi all’inizio del XIX secolo. Si trattava di ondate migratorie costituite in gran parte da lavoratori provenienti dalla parte europea dell’Impero russo e, in misura minore, dalle file dell’opposizione politica delle province baltiche, dalla Polonia e dall’Ucraina occidentale. Posteriormente, dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, un piccolo numero di russi in fuga dal regime comunista scelse la regione latinoamericana come luogo di esilio volontario.

Tra questi è doveroso ricordare il caso di Lev Davidovich Bronstein, meglio conosciuto come León Trotsky. Quello che fu il promotore della rivoluzione permanente terminò i suoi giorni a Città del Messico (il 21 agosto 1940), ucciso da Ramón Mercader (agente segreto spagnolo naturalizzato sovietico) su ordine di Stalin.

Trotsky visse i suoi ultimi anni in Messico da rifugiato grazie all’asilo politico che gli venne concesso dall’allora presidente messicano Lázaro Cárdenas e fu circondato dall’affetto di figure iconiche della storia della regione quali Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera (entrambi pittori di grande fama, ndr).

La seconda ondata di migrazione russa in America Latina si verificò dopo la Seconda Guerra mondiale. Era formata in gran parte da cittadini sovietici che vivevano nel territorio liberato dagli alleati occidentali, persone che non volevano tornare in Unione Sovietica. In questo modo si ampliò la presenza della diaspora nella regione, in particolare in Argentina, Brasile, Cile, Messico, Paraguay, Uruguay e Venezuela, gettando le basi per importanti scambi culturali tra la Russia e i paesi delle Americhe, connessione oggi vitale per le politiche e per l’influenza russa nella regione.

Dalla guerra fredda a Vladimir Putin

Durante la Guerra fredda (12 marzo 1947 – 26 dicembre 1991) anche la regione latinoamericana fu teatro dello scontro multilivello delle due superpotenze, terreno di lotta ideologica e indirettamente anche militare, nel quale l’Urss mantenne stretti legami con Cuba e con il Nicaragua. L’influenza sovietica ebbe un ruolo importante per creare un’alternativa all’egemonia esercitata dagli Stati Uniti d’America in una regione che, per molto tempo, fu considerata il giardino di casa («patio trasero») degli Usa.

Con la dissoluzione dell’Urss (dicembre 1991) e il lungo processo di riassetto politico, economico, sociale e diplomatico che ne seguì, la Russia perse molto peso sulla scena internazionale, anche nei confronti del paesi latinoamericani, Cuba in primis.

Agli inizi degli anni Novanta, il Paese, che oggi occupa più di due terzi del territorio della vecchia Urss e comprende metà della sua popolazione, aveva un volume di scambi commerciali con l’America Latina ridotto all’osso.

Dalla seconda metà degli anni Novanta la situazione iniziò a migliorare con un riavvicinamento e rafforzamento delle partnership strategiche, una ripresa del commercio e il susseguirsi di visite reciproche dei capi di stato. La vera svolta avvenne però nell’anno 2000 con il cambio dello scenario politico all’interno della Russia e l’arrivo ai vertici del potere di Vladimir Putin.

Già nell’agosto del 1998, come capo del governo, l’uomo aveva guidato la seconda guerra cecena diventando uno dei politici più popolari della Federazione russa. Successivamente, quando Boris Eltsin annunciò le sue dimissioni il 31 dicembre 1999, in conformità con la Costituzione, Putin diventò presidente ad interim iniziando una leadership che lo vede ancora oggi come l’uomo più potente e temuto della Russia.

I piani dello zar

L’arrivo dell’ex agente del Kgb al Cremlino ha cambiato completamente il posizionamento della Russia a livello globale e questo ha avuto effetti importanti anche sulla regione latinoamericana.

Già dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 (Munich security conference, spazio internazionale che si tiene annualmente dal 1963) Putin ha confutato la narrazione di un mondo «unipolare» sotto il protagonismo e l’egemonia degli Usa e della Ue, aprendo la porta a nuove interpretazioni ed equilibri di potere. L’anno prima, infatti, il 20 novembre 2006, si era tenuta la prima riunione dei Brics, acronimo di un’associazione economico-commerciale tra le cinque economie nazionali emergenti che, nel decennio del 2000, erano le più promettenti del mondo.

Si tratta del gruppo composto da  Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (quest’ultimo unitosi nel 2011) che si pone come contrappeso all’autoreferenzialità occidentale e che esplora misure alternative di commercio inter-

nazionale, ad esempio la possibilità di non utilizzare il dollaro come valuta di riserva mondiale.

Putin si è proposto, dunque, come un portabandiera di un mondo «multipolare» ricollocando la Russia (che è anche membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu con potere di veto) come protagonista nello scenario internazionale.

Le parole di Monaco del 2007 sono diventate «reali» con la guerra in Georgia del 2008 e con l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e le conseguentii sanzioni economiche che hanno diviso la comunità internazionale.

Proprio le sanzioni economiche imposte dall’Ue dopo i fatti di Crimea hanno spinto Mosca ad accelerare la ricerca di alleati sia a livello diplomatico che livello commerciale. È in questo contesto che l’America Latina è tornata al centro degli interessi russi e dove paesi come Uruguay, Argentina e Brasile hanno iniziato a sostituire i «vecchi» partner commerciali europei per l’esportazione di frutta, verdura e carne verso la Russia.

La strategia del vaccino

Con l’inizio del nuovo secolo, la Russia guidata da Vladimir Putin ha ripreso a guardare con interesse all’America Latina , espandendo la sua presenza commerciale e tessendo importanti alleanze con governi sia di destra che di sinistra. Armi, gas e petrolio sono stati il principale «grimaldello» con il quale è iniziata questa nuova era delle relazioni russo-latinoamericane, una dimensione che però molto presto ha acquisito un carattere più geopolitico, in opposizione alle azioni sanzionatorie di Washington nei confronti della Russia.  La politica estera russa ha così creato un’area di intervento multisettoriale nella regione latinoamericana, promuovendo relazioni commerciali ed econo-

miche, insieme a una cooperazione tecnica, militare e sanitaria.

Nello scenario creato dalla pandemia da Covid-19, la Russia ha infatti giocato un ruolo da protagonista aumentando la sua proiezione regionale grazie alla strategia di approvvigionamento del suo vaccino Sputnik a diversi paesi dell’area come Argentina, Bolivia, Guatemala, Guyana, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Panama e Venezuela.

I megafoni di Rt e Sputnik

A questo si aggiunge la diffusione massiccia di narrazioni favorevoli a Mosca attraverso la forte presenza nella regione di mass media russi come Russia today (Rt) e l’agenzia di stampa Sputnik. Questi sono megafoni potenti che permettono al Cremlino e a Putin di mettere in discussione, nei paesi latinoamericani, il modello democratico targato Stati Uniti d’America e Unione europea.

Nel corso degli anni, sono proprio quei paesi che hanno intrapreso cammini fuori dagli argini dello stato di diritto – Cuba, Nicaragua e Venezuela – ad avere instaurato legami molto stretti con Mosca. Rappresentano i primi alleati di Putin, paesi nei quali le narrazioni utilizzate dagli organi di stampa russi sono sostenute e ripetute acriticamente, compresa quella sull’invasione dell’Ucraina. Questi tre stati rappresentano oggi terreno di scontro politico e ideologico per le stesse sinistre della regione (come, ad esempio, il Venezuela, appoggiato dal brasiliano Lula ma criticato dal cileno Boric).

A questi stati la Russia ha offerto aiuti politici, economici e finanziari in cambio del loro sostegno a livello internazionale per rafforzarel’opposizione all’influenza degli Usa in America Latina.

In Nicaragua si assiste a continue esercitazioni militari, marittime e aeree, allo sviluppo di centri di addestramento militare o di sistemi di monitoraggio satellitare come «La Gaviota», tutto sotto il controllo operativo-amministrativo della missione diplomatica russa.

Con il Venezuela esistono più di  venti accordi bilaterali di cooperazione militare, scambio di personale e di addestramento, mentre con Cuba la collaborazione à ancora più estesa e comprende anche varie aree di influenza nel commercio, negli investimenti e negli aiuti umanitari. Sempre a Cuba, da marzo 2023 è possibile usare carte di credito russe negli sportelli dell’isola e a maggio tre banche russe hanno presentato le richieste necessarie per aprire succursali nel paese caraibico: in relazione a ciò si specula che presto L’Avana accetterà pagamenti anche in rubli.

Rt e Sputnik sono oggi, dunque, un importante volano degli interessi russi in America Latina, trovando il plauso delle sinistre più radicali e più in generale delle forze illiberali dello spettro politico latinoamericano.

TASSO Kirill, patriarca della Chiesa ortodossa russa e grande sostenitore di Putin, in una cerimonia al Cristo Redentore di Rio de Janeiro nel febbraio 2016. Foto Tasso Marcelo – AFP.

Chi commercia con Mosca

La generazione di consenso che ne deriva rende gli accordi economici e militari tra i paesi latinoamericani e la Russia politicamente molto più agevoli e accettabili da parte delle opinioni pubbliche nazionali. Tra questi spicca la cooperazione militare, dove l’industria bellica russa gioca un ruolo di primo piano.

Oltre a Cuba, Nicaragua e Venezuela si sono rafforzati negli ultimi anni i legami con i governi di Nayib Bukele nel Salvador, Alberto Fernandez in Argentina, Jair Bolsonaro in Brasile (che, a gennaio 2023, ha lasciato il posto a Lula) e Andrés Manuel Lopez Obrador in Messico. Questi ultimi tre paesi rappresentano i mercati più importanti per la Russia in America Latina e nel caso particolare di Brasile (membro dei Brics) e del Messico (membro del G20) parliamo di esportazioni vitali per l’economia di Mosca, come zucchero di canna, semi di soia, caffè, carne, birra, apparecchi meccanici, autovetture, e telefoni. Un commercio bilaterale che ha visto un notevole aumento nel XXI secolo e con l’era Putin, dove tra tutti spicca il Brasile, paese che mantiene con la Russa il più grande  flusso di importazioni e di esportazioni di merci di tutta l’America Latina. In totale, nel 2020 il Brasile ha importato beni per un valore di 2,9 miliardi di dollari dalla sua controparte russa e ha esportato un valore di 1,5 miliardi di dollari, essendo i fertilizzanti i prodotti con il più alto valore di importazione. Il fiorente commercio con l’economia più grande dell’America Latina (il Brasile ha fatto registrare nel 2022 un Pil di 1.900 miliardi di dollari ed è l’undicesima economia mondiale, proprio dietro all’Italia) è dunque uno dei pilastri della proiezione russa nel continente. Considerando inoltre che, proprio ad aprile 2023, l’ex presidentessa brasiliana Dilma Rousseff ha assunto la guida della Nuova banca di sviluppo (New development bank, Ndb) dei Brics.

La sede centrale della «Nuova banca di sviluppo», punto di riferimento dei Brics, a Shanghai, e il logo del summit dei Brics, tenuto a Johannesburg, in Sudafrica, dal 22 al 24 agosto.

La crescita esponenziale della Cina

L’America Latina però è una regione estremamente eterogenea nella quale l’appeal russo non si espande in modo uniforme in ogni contesto nazionale.

I forti legami commerciali con Brasile e Messico e i legami politico finanziari con Cuba, Nicaragua e Venezuela (che hanno potuto godere di ingenti prestiti, donazioni e lucrosi affari con le aziende russe) hanno creato un gruppo di paesi «di appoggio» che hanno sostenuto Putin durante l’ultimo anno, astenendosi dal votare all’Onu contro la Russia per la guerra in Ucraina.

Basti ricordare, infatti, la posizione ambigua, quando non dichiaratamente opportunista, assunta nella votazione sull’espulsione del paese dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, durante la quale Messico, Brasile ed El Salvador si sono astenuti, mentre Nicaragua, Cuba e Bolivia hanno votato contro (7 aprile 2022).

Il fatto che la Russia non sia riuscita a generare una completa area di influenza diplomatica ed economica in America Latina è però dovuto anche alla Cina, le cui relazioni commerciali con la regione sono cresciute in modo esponenziale.

Basti pensare che Pechino ha assegnato ad Argentina, Brasile, Cile, Ecuador, Messico, Perù e Venezuela il massimo livello di cooperazione strategica e che la Banca cinese di sviluppo è uno dei principali investitori in progetti di costruzione di infrastrutture nella regione.

La Russia mantiene, però, un potere geopolitico importante in America Latina, dove la sua industria bellica fornisce armi a diversi governi (Venezuela su tutti) e dove continua a mantenere un grado di impegno mediatico e diplomatico ad alta intensità. A livello geostrategico però il suo peso economico è molto inferiore a quello della Cina, suo partner politico ma, appunto, rivale in America Latina.

Visioni del mondo

Russia e Cina condividono una visione «multipolare» del mondo, una visione cioè che vuole contrastare la leadership e l’egemonia statunitense. Tralasciando la spinosa questione della guerra russa contro l’Ucraina, questa visione è anche quella di buona parte dei governi progressisti della sinistra latinoamericana: in questo senso l’America Latina risulta una regione strategica per il conseguimento di questo obiettivo.

La convivenza nella regione degli interessi di due giganti come Russia e Cina rappresenta una grande sfida, considerando anche e soprattutto la necessità dei nuovi governi e delle nuove leadership dei paesi latinoamericani, più o meno allineati con la narrazione di Washington e della Ue, di trovare un proprio spazio di manovra politica ed economica.

Diego Battistessa

 Prossimamente su MC: la Cina in America Latina.

(230823) — JOHANNESBURG, Aug. 23, 2023 (Xinhua) — Chinese President Xi Jinping, South African President Cyril Ramaphosa, Brazilian President Luiz Inacio Lula da Silva, Indian Prime Minister Narendra Modi and Russian Foreign Minister Sergei Lavrov pose for a group photo during the 15th BRICS Summit in Johannesburg, South Africa, Aug. 23, 2023. The 15th BRICS Summit was held in Johannesburg on Wednesday. (Xinhua/Li Xueren) (Photo by LI XUEREN / XINHUA / Xinhua via AFP)


La Russia e i Brics: il multilateralismo delle dittature

Con sulla testa un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale (Icc), Vladimir Putin ha preferito non recarsi alla tre giorni del XV Brics Summit, tenutosi a Johannesburg, in Sudafrica dal 22 al 24 agosto scorso. Si è, pertanto, limitato a inviare un discorso preregistrato di 17 minuti. In esso il leader del Cremlino si è concentrato soprattutto sull’«operazione speciale» in Ucraina e sulle cattiverie dell’Occidente verso l’incolpevole Russia, non cambiando di una virgola il suo ormai consueto canovaggio di bugie e ossessioni.

Al vertice sudafricano erano presenti gli altri quattro leader dei Brics (acronimo dei cinque paesi aderenti all’alleanza): il cinese Xi Jinping, l’indiano Narendra Modi, il brasiliano Luiz Inacio Lula e Cyril Ramaphosa, presidente del paese ospitante.

Attualmente, i paesi Brics rappresentano oltre il 42% della popolazione globale, il 30% del territorio mondiale, il 23% del Pil e il 18% del commercio internazionale. Numeri già importanti che aumenteranno con il prossimo allargamento del gruppo.

Al Summit sudafricano è stata, infatti, annunciata la lista dei nuovi membri: dal primo gennaio 2024, dovrebbero entrare Iran, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Argentina. Insomma, come si può capire, tanti paesi con un pedigree dittatoriale, Iran e Arabia Saudita in testa.

Perché – allora – tanti aspirano a entrare in questa alleanza? La risposta principale è talmente ovvia da apparire semplicistica: per le opportunità di sviluppo economico che, aderendo, si potrebbero aprire. Si pensi, ad esempio, ai vantaggi per il Brasile di Lula o per un’Argentina sull’orlo del suo ennesimo fallimento economico.

Con la Russia impegnata nella guerra, oggi i Brics sono una creatura dominata dalla Cina, seconda potenza economica mondiale in competizione con gli Usa. Anche a Johannesburg il vero vincitore è stato Xi Jinping, che ha blandito molti paesi, soprattutto africani (dove Pechino ha da tempo piantato le proprie bandiere). Il leader cinese ha anche incontrato Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica dell’Iran, paese che, pur non avendo mai smesso la persecuzione nei confronti dei dissidenti, è stato accolto nei Brics. Come per l’aggressione russa all’Ucraina, anche davanti alla repressione di Tehran, Pechino chiude gli occhi. D’altra parte, i cinesi sono i primi a non voler parlare di democrazia e diritti umani avendo i loro problemi in Tibet, Xinjiang, Hong Kong e Taiwan.

Che il capitalismo occidentale abbia prodotto e produca troppe ingiustizie (economiche, sociali e ora anche ambientali) è fatto indubitabile e non più tollerabile. Che l’alternativa sia un modello multilaterale guidato da una o più dittature è però una toppa peggiore del buco.

Paolo Moiola