Cina: esempio per l’Africa?


La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.

«Nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, l’aspetto politico della strategia cinese è emerso in maniera preponderante, ancora più di quello economico. Quello dei rapporti tra Cina e Africa mi sembra un argomento importante, anche per l’Italia, per cui ho deciso di approfondirlo». Chi parla è Alessandra Colarizi, sinologa e analista, con una grande esperienza, tra l’altro, come autrice per testate italiane ed estere, su questioni cinesi. Alessandra ha vissuto diversi anni in Cina, dove ha iniziato, nel 2016, a fare parte del collettivo «China Files» (vedi in fondo a questo testo), per poi diventarne coordinatrice editoriale.

Si è specializzata sui rapporti tra la Cina e i paesi membri della Belt and Road initiative (Bri, detta anche la nuova via della seta), affrontando prima la questione dell’espansionismo cinese in Asia centrale e poi, in tempi più recenti, in Africa. È da questo interesse che nasce «Africa rossa», il suo ultimo libro.

Il volume presenta un vasto studio delle relazioni tra l’impero di mezzo e il continente africano, a partire da alcuni aneddoti storici, tracciando il percorso degli ultimi decenni, fino ad arrivare a descrivere come la strategia si è modificata, e si sta muovendo.

«Africa rossa» è un testo notevole, che ha il pregio di tentare un approccio a 360 gradi della questione. Si consideri, inoltre, che in Italia mancava un approfondimento sul tema da diversi anni.

Leggendolo si scopre che la Cina, dal 2009, è diventata il primo partner commerciale del continente, e che nel 2021 l’interscambio ha raggiunto i 254 miliardi di dollari. La Cina detiene il 14% del debito sovrano dell’Africa.

Abbiamo avuto un colloquio online con Alessandra Colarizi, per parlare di questo suo lavoro.

The 26th Chinese medical team to Benin/Handout via Xinhua (Photo by Ai Fumei / XINHUA / Xinhua via AFP)

Retorica cinese

La Cina si è sempre posta, rispetto ai paesi africani, su un piano di uguaglianza: ex colonizzati, tutti paesi emergenti, sebbene sia la seconda economia mondiale. Ma il rapporto è, indubbiamente, asimmetrico.

«È una contraddizione in termini quella cinese. Il Paese compie piccoli gesti che mettono in mostra l’intenzione di porsi in modo diverso dall’Occidente. Caso simbolo è quello delle Comore, (stato indipendente composto da tre piccole isole nel canale di Mozambico, ndr), dove la Cina ha aperto un’ambasciata, e dove recentemente si è recato il ministro degli Esteri cinese.

Questo mostra una certa sensibilità della Cina. Penso, inoltre, che il comportamento dell’Occidente faccia gioco della strategia cinese. C’è molto risentimento verso alcuni paesi ex colonizzatori. Se ci fosse un comportamento diverso, l’attenzione degli stati africani verso la Cina forse sarebbe minore.

È chiaro che, nell’atteggiamento cinese, c’è molta retorica, ma allo stesso tempo, la strategia è portata avanti con i fatti. Ovvero: attenzione diplomatica, seguita da investimenti».

Alessandra ricorda che ci sono alcune questioni trascurate nel rapporto Cina-Africa: «Poi si può passare sopra ad alcune problematiche. Penso a quelle culturali, alla scarsa accettazione reciproca dal punto di vista umano, agli attacchi razzisti contro i cinesi presso alcune miniere in Africa, o dei quali sono stati vittime gli studenti africani in Cina. Sono problemi giganteschi, che però sono insabbiati a causa di un interesse maggiore».

Per decenni in Africa hanno avuto influenza quasi esclusiva i paesi ex colonizzatori (Francia, Regno Unito, Portogallo), con l’aggiunta di Usa e Urss durante la guerra fredda. Da una ventina di anni a questa parte, invece, gli attori in campo si sono moltiplicati. Oltre alla Cina, è presente con un certo peso la Turchia, e poi l’India, le monarchie del Golfo (come Qatar ed Emirati arabi uniti), e infine la Russia di Putin con una presenza di tipo militare non ufficiale (cfr. MC novembre 2022). Ogni paese con un approccio diverso.

Colarizi scrive in Africa rossa: «Per Washington l’Africa continua ad avere le sembianze di un ring da cui buttare fuori le sfidanti – Cina e Russia – accusate di agire con intenzioni predatorie». Le chiediamo se tra queste potenze straniere, che si incrociano in Africa, ci possa essere anche collaborazione, oltre che competizione.

«Ufficialmente la Cina promuove la cooperazione nei paesi terzi, come è scritto nel memorandum sulla Bri, firmato dall’Italia nel 2019. Aveva invitato Francia e Germania a portare avanti progetti insieme. La Cina collabora con realtà occidentali fino dai primi anni ‘90, in alcuni settori dello sviluppo.

Nel momento in cui gli Usa e l’Europa spingono per dei progetti che prenderebbero il posto della Cina, e non sono aperti a investimenti cinesi, allora diventa una competizione».

«Per quanto riguarda i rapporti con le potenze emergenti, come Russia ed Emirati arabi, non c’è una grossa contrapposizione ed è bassa la possibilità che gli interessi entrino in conflitto. Questi due paesi sono focalizzati sul settore della sicurezza, nel quale la Cina sta aumentando la propria presenza con l’export di armi, ma con un interesse più rivolto all’aspetto economico che a quello militare. Quando estende le sue relazioni sul piano militare, lo fa con programmi di formazione, e solo in rapporti ufficiali. Non vedo possibilità di scontro.

L’elemento Russia è particolare, perché sappiamo che opera non solo attraverso canali ufficiali. Ci sono stati episodi recenti che hanno coinvolto anche dei cinesi, come le morti nella Repubblica Centrafricana (il 19 marzo scorso, 9 cinesi lavoratori di una miniera sono stati giustiziati; ribelli centrafricani e gruppo Wagner si rimbalzano le accuse, ndr). Questi potrebbero essere un elemento destabilizzante, che la Cina non vede con favore».

Quando ci sono elementi d’instabilità, la Cina non è mai contenta. «Con la Russia ci sono anche tentativi di cooperazione a livello ufficiale (in Africa): ci sono foto ricordo di diplomatici dei due paesi in ambasciate africane. C’è poi l’altra dimensione, la questione dei mercenari russi, nella quale non è ben chiaro dove sia il confine tra lecito e illecito.

Con gli Usa, in questa fase, non mi pare ci possano essere grandi cooperazioni».

(Photo by Tang ke / ImagineChina / Imaginechina via AFP)

Mercenari cinesi

Parlando di sicurezza, lo studio di Colarizi riporta che l’84% dei progetti della Bri è a rischio medio alto, con attacchi di varia natura al personale, e rischi di terrorismo islamista. Gran parte dei paesi africani, infatti, ha visto negli ultimi vent’anni aumentare notevolmente la propria insicurezza interna. Tutto ciò crea grossi problemi agli interessi della Cina nel continente. Inoltre: «La vocazione cinese è mantenere la stabilità».

Scopriamo da Africa rossa che anche l’impero di mezzo ha i suoi contractors: «Secondo il

think tank americano Carnegie endowment for international peace, Beijing DeWe Security Service e Huaxin Zhong An Security Group da sole controllano 35mila contractors in 50 nazioni africane». Però, ci dice Colarizi: «I contractors privati cinesi, hanno un ruolo marginale, non possono usare armi da fuoco, sono impiegati in ruoli di consulenza, supporto tecnico e prevenzione dei rischi. Interessante è una cooperazione che si sta attivando con le forze di polizia e sicurezza, a livello di addestramento e fornitura di equipaggiamento».  La sinologa ci spiega inoltre che il governo cinese ha lanciato la Global security initiative. La seconda di tre iniziative, dopo la Global development initiative e prima della Global civilization initiative di pochi mesi fa. «Si tratta di slogan, di iniziative multilaterali che vorrebbero dare un aspetto più pacifico e bonario alla Cina. Ma si basano su principi generici e sono vaghi».

Soft power dalla grande muraglia

Chiediamo all’autrice l’importanza del soft power (cioè l’abilità di guadagnare consenso internazionale grazie all’appeal culturale e valoriale, anziché attraverso la coercizione, dalla definizione del politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., riportato da Colarizi, ndr) cinese sul continente .

La domanda che si pongono i governanti cinesi è: come accrescere il favore delle popolazioni locali nei confronti della Cina?

«Mi sembra che, al momento, il soft power sia più evidente nella sua versione tradizionale, ovvero borse di studio per attrarre giovani africani nel Paese asiatico. È il metodo migliore e più efficace per tentare di avere un impatto forte sulle generazioni future.

A livello di prodotti culturali, la Cina non ha un’industria cinematografica in grado di competere con quella statunitense o sudcoreana, anche se ci sono stati alcuni prodotti più fortunati, ma senza una grande espansione.

C’è il settore controverso della cooperazione mediatica, per la quale sono stati siglati contratti che fanno trasferire le notizie della Xinhua (agenzia stampa ufficiale di Pechino, ndr) direttamente sui media africani, senza che ci possa essere un filtro da parte di giornalisti locali. Ma non tutti i lettori sono in grado di capire qual è la propaganda».

Ci sono anche i social media, che in Africa sono molto diffusi, come ad esempio il cinese Tiktok.

«Sì, ma non so quanto impatto abbia sulla popolazione locale. C’è stato il fenomeno degli influencer cinesi che risiedono in Africa, e fanno vedere la vita dal posto sui social. In Cina sono abbastanza popolari, ma non ho un riscontro su cosa succeda in Africa».

Una nuova strategia

Si assiste, mette in evidenza Africa rossa, a un’evoluzione strategica della presenza cinese in Africa.

Fino a un decennio fa si trattava prevalentemente di costruire infrastrutture e invadere il mercato di manufatti cinesi in sovraproduzione, facendosi pagare in materie prime da portare in patria per alimentare l’industria. Questo approccio ha creato un forte indebitamento degli stati africani, che per motivi diversi, tra i quali l’instabilità sociopolitica, hanno difficoltà a pagare.

Oggi si tratta di esportare il modello cinese, che prevede, tra l’altro, la creazione di Zone economiche speciali (Zes, aree con facilitazioni legislative e fiscali, create per attrarre investimenti stranieri) come quella di Shenzhen.

Fondamentale è questo passaggio del libro: «Abbiamo visto la Cina, riconoscendo se stessa nell’Africa, tende a replicare quanto già collaudato con successo durante il proprio percorso di crescita e sviluppo. Lo ha fatto in passato con la realizzazione di infrastrutture di trasporto in cambio di materie prime. Ci ha riprovato in seguito coniugando la costruzione di aree residenziali, Zes e distretti industriali. Il tutto con l’obiettivo di creare un ecosistema urbano integrato per risolvere il grande dilemma: a differenza della versione cinese l’urbanizzazione africana non è stata accompagnata da uno sviluppo industriale in grado di sostenere la crescita economica del continente. Per porre rimedio, negli ultimi dieci anni lo sviluppo di Zes e parchi industriali è diventato uno dei pilastri della collaborazione sino africana, con un focus particolare sul settore manifatturiero e il trasferimento di tecnologia. Nel 2020 erano già 25 le zone di cooperazione economica istituite dalla Cina e potenzialmente capaci di elevare il continente da fornitore di commodities a esportatore di prodotti industriali».

La svolta

«In Africa – ci spiega Colarizi – il prezzo della mano d’opera è ancora basso, mentre in Cina è in aumento. Inoltre, nell’ultimo anno è stato firmato un accordo per abbattere le tariffe doganali di molti prodotti da diversi paesi in via di sviluppo.

I leader cinesi stanno puntando sul settore agricolo, perché sanno che l’Africa ha un grande potenziale, che si può sviluppare. Stanno investendo in formazione, export di macchinari che possono aiutare i paesi del continente a rendere più produttive le coltivazioni. È anche il settore sul quale hanno ricevuto richieste da parte degli africani».

L’export africano, soprattutto di prodotti alimentari, è dunque aumentato verso la Cina, e si tratta di un’inversione di tendenza, segno di un grande cambiamento.

Colarizi: «Recenti dati sull’export cinese verso paesi emergenti, dicono che c’è un aumento del 30% di semilavorati, che vengono poi utilizzati nel manifatturiero. Questo da l’idea che ci sia l’intenzione di rafforzare lo sviluppo industriale».

Allora la Cina è un esempio per i paesi africani? «C’è l’intenzione da parte della Cina di replicare il proprio modello, anche se io non ci vedo un tentativo di imposizione dall’alto. Piuttosto una proposta. È come se i cinesi dicessero: “il nostro modello ha funzionato da noi, però non è detto che funzionerà da voi. Seguite il vostro percorso, trovate la vostra strada, sperimentate e non è escluso che ce la farete”».

Marco Bello

Ponte Generale Seyni Kountché, realizzato dai cinesi, inaugurato nel 2022, Niamey, Niger. Foto Marco Bello

 Cina-Africa su MC

China Files

  • È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC.
  • Alessandra Colarizi, tra l’altro, cura la rubrica Africa rossa, per aggiornare sulle dinamiche tra Cina e i paesi del continente.
  • www.china-files.com

 

 

 




Bielorussia. A scuola di guerra


Il presidente Lukashenko militarizza il paese sotto la pressione di Putin. E anche i bambini vengono addestrati alla guerra. L’esercito promuove giornate e settimane residenziali per insegnare a obbedire, marciare, sparare. Con l’esca di offrire ai minori in condizioni di povertà cibo, luoghi caldi, una prospettiva di futuro.

Il 24 febbraio 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina anche dal territorio bielorusso.
Minsk non è entrata formalmente in guerra, ma il suo presidente Alexander Lukashenko, al comando del Paese dal 1994, ha sostenuto pubblicamente l’aggressione del suo alleato.

Finora le truppe bielorusse non hanno attraversato il confine ucraino, ma nelle città c’è una chiara consapevolezza che prima o poi Putin vorrà un contingente che combatta al suo fianco.

La Bielorussia è un paese chiuso, con molte nostalgie sovietiche impersonate da Lukashenko.

Al suo interno cresce una minoranza, soprattutto giovanile, con una forte pulsione europeista, ma la repressione del regime, attuata con spietatezza, tiene sotto controllo la popolazione che è sempre più impoverita e sempre meno libera.

Molti dissidenti sono fuggiti e operano in esilio. Il cambiamento per il quale lottano, però, appare ancora lontano.

Screenshot del Campo Doblest

Campi militari per ragazzi

A causa degli eventi legati alla guerra, dall’inizio del 2022 le autorità bielorusse hanno messo tra le loro priorità quella dell’aumento del numero di soldati.

La generale militarizzazione della società ha coinvolto anche i bambini, minori di 16 anni.

Il loro addestramento militare rientra in una strategia a medio e lungo termine che prevede anche l’eventuale coinvolgimento futuro nella guerra in Ucraina.

I contesti nei quali viene messa in atto la formazione militare, con veri e propri addestramenti alla vita di caserma, sono campi estivi, stage di vita all’aperto, corsi sportivi durante l’anno, attività extrascolastiche, come avveniva in Italia durante il ventennio, con l’educazione dei «balilla», organizzazione giovanile paramilitare del fascismo.

Il regime bielorusso sta effettuando un’intensa preparazione di massa dei bambini alla guerra, iniziando fin dall’età di 6-7 anni.

I «campi militari patriottici», ricadono sotto il controllo delle agenzie militari del paese, in primo luogo del ministero della Difesa, ma vedono anche la partecipazione di istruttori ceceni provenienti dalla Russia.

Lo scopo, poi, non è soltanto quello di addestrare tecnicamente i ragazzi alla vita militare, ma anche di formarli secondo l’ideologia del «mondo russo».

Bambini poveri e marginali

Nella sola estate del 2022 si sono tenuti almeno 480 campi ai quali hanno partecipato 18mila minori, pari al 2% della popolazione sotto i 18 anni.

In particolare sono stati coinvolti bambini provenienti da famiglie che vivono in condizioni di marginalità e di degrado sociale, bambini orfani o in precarie situazioni psicofisiche: sono quelli che non hanno una protezione adeguata da parte delle famiglie, le quali non si opporranno al coinvolgimento in future azioni militari.

Una prassi simile l’abbiamo già vista in atto in Russia, dove la base dell’esercito attualmente impegnato sul campo in Ucraina è composta da giovani provenienti da aree depresse, da famiglie marginali, oppure orfani, senza istruzione e senza accesso agli ascensori sociali.

campo forpost sb news

La denuncia di Our house

L’organizzazione pacifista e nonviolenta Our house, fondata in Bielorussia nel 2002 e ora in esilio in Lituania, ha pubblicato di recente un rapporto per denunciare questo processo di militarizzazione dei minori bielorussi.

Le pagine del report, tradotte in italiano e diffuse nel nostro paese dal Movimento Nonviolento (partner di Our house nell’ambito della «Campagna di Obiezione alla guerra per il sostegno agli obiettori di coscienza russi, bielorussi e ucraini»), mettono in evidenza la portata del fenomeno raccogliendo dati e informazioni ufficiali diffusi dai media bielorussi, sia governativi che non.

Il campo Doblest

Nel rapporto di Our house è descritto il tono celebrativo con il quale vengono raccontati i campi patriottici militari.

Si legge, ad esempio, sul campo Doblest (Valore), raccontato dall’agenzia di stampa ufficiale del regime «BelTA», che esso è organizzato negli spazi dell’unità militare 3.214 a Minsk, è attivo durante le vacanze scolastiche ogni giorno dal lunedì alla domenica e fornisce ai bambini che vi partecipano vitto e alloggio per l’intera settimana.

Al campo, proposto in sei sessioni, partecipano gli scolari di tutti i distretti della capitale.

I bambini fanno esercitazioni nelle quali imparano a usare e smontare armi, a capire i propri punti di forza e a muoversi, ad esempio, in un bosco.

Ogni giorno vengono addestrati al combattimento, si esercitano a fornire cure mediche militari, imparano a sparare con armi airsoft, pistole ad aria compressa e armi da fuoco vere.

Partecipano a lezioni su come comportarsi in diverse situazioni di emergenza. Inoltre, familiarizzano con i sistemi d’arma e si cimentano nel combattimento corpo a corpo.

In pochi giorni, i bambini imparano ad allinearsi, a costruire rudimentali nascondigli e a prestare il primo soccorso in caso di ferite. Si esercitano a montare una tenda e ad accendere un fuoco senza accendino o fiammiferi. Imparano l’uso delle mappe attraverso attività ludiche come cercare oggetti nascosti in un certo spazio.

Sono gli stessi addestratori a riportare alcune opinioni dei bambini dopo la prima settimana di formazione paramilitare. Tommy, di 7 anni, afferma: «Sappiamo già come montare una tenda, sparare con un fucile ad aria compressa e un’arma airsoft. Ora sappiamo come preparare correttamente un letto militare, abbiamo imparato come un soldato deve tenere in ordine le cose. Qui impariamo la lotta libera e la medicina. Mi ha particolarmente colpito il fatto di aver sparato con una vera pistola».

Il campo Forpost

Un altro campo descritto nel report di Our house che fa riferimento a un articolo apparso sul sito «Sb news», legato direttamente all’ufficio della presidenza della Repubblica, è il campo Forpost (Avamposto) nel quartiere Zavodskyi di Minsk.

Nel sommario, l’articolo di Sb news scrive: «Il gioco “Zarnitsa”, l’apprendimento delle armi e l’orientamento notturno: un ricco programma attende gli scolari al campo Forpost. Per nove giorni, gli studenti dei distretti Zavodskyi e Leninskyi di Minsk seguiranno un corso accelerato di giovani combattenti. I nostri corrispondenti hanno assistito all’inizio della loro insolita vacanza», e prosegue descrivendo il «gioco di simulazione» proposto ai ragazzi il primo giorno: «Confezioni esplosive e granate fumogene in azione. Il nemico sta minando la strada lungo la quale si muove la colonna. L’auto deve spostarsi sul ciglio della strada. I combattenti del dipartimento di ingegneria e guerra sul veicolo corazzato leggero Drakon respingono l’attacco. Viene catturato un sabotatore, ma poi viene scoperto un oggetto esplosivo.

I militari distruggono il dispositivo con una carica superficiale.

Già nel primo giorno del turno militare patriottico, i ragazzi “hanno sentito odore di polvere da sparo” – prosegue Sb news -. Gli studenti erano felicissimi».

English: President of Russia Vladimir Putin meeting with President of Belarus Alexander Lukashenko at the Constantine Palace in Saint Petersburg, Russia. Date 25 June 2022. Source Meeting with President of Belarus Alexander Lukashenko. Author Presidential Executive Office of Russia

L’appello all’Ue

Alla pubblicazione del rapporto sulla militarizzazione di massa dei minori in Bielorussia, Our house ha affiancato un appello all’Unione europea e alle organizzazioni internazionali per i diritti umani affinché avviino immediatamente una seria campagna contro questa pratica perché, scrive, «se l’Unione europea non compie una serie di passi decisivi, nel giro di 3-5 anni in Bielorussia crescerà un esercito deviato con giovani […] combattenti professionisti che sanno usare le armi da fuoco, fanatici […] [dell’]ideologia del “mondo russo”, giovani senza legami sociali e senza famiglia, ma ossessionati dal desiderio di vendetta […]. La costruzione di muri al confine o altre misure restrittive, come il divieto di rilascio dei visti, non [li] fermeranno […]. Dobbiamo agire immediatamente».

A Vilnius per sostenere i bielorussi

L’organizzazione pacifista che inizialmente lavorava in clandestinità a Minsk, ma poi ha dovuto espatriare per sfuggire alla repressione e ora opera in esilio a Vilnius in Lituania, è guidata da una coraggiosa femminista nonviolenta, Olga Karach (intervista a pag. 58).

Olga è un’attivista, giornalista e politica bielorussa. È stata lei a fondare Our house nel dicembre 2002: inizialmente era un giornale autoprodotto, stampato in uno dei condomini di via Tereshkova a Vitebsk. Nel 2004 si è trasformato in una campagna per i diritti civili nella città.

Mai riconosciuta in Bielorussia, è stata registrata come organizzazione della società civile nel 2014 in Lituania, con il nome di Centro internazionale per le iniziative civili Our house.

Dopo le elezioni presidenziali del 2020 in Bielorussia e le successive proteste, e, ancora di più, dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, un numero enorme di persone in Bielorussia e Lituania ha avuto bisogno di assistenza umanitaria. Our house si è quindi fatta carico di fornirla. Inoltre, continua a monitorare le violazioni dei diritti umani in collaborazione con altre organizzazioni.

Tra queste violazioni, assume un peso sempre maggiore quella del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, aggravata da programmi di militarizzazione di ragazzi e giovani.

Obiettori incarcerati

In Bielorussia gli obiettori di coscienza e i disertori sono perseguitati e incarcerati. Questo ha fatto sì che più di 20mila giovani non abbiano avuto altra scelta se non quella di lasciare il loro Paese e cercare rifugio all’estero.

Un tale movimento di massa di obiettori invia un forte messaggio anche alla Russia: la Bielorussia di Lukashenko finora è stata il più solido alleato di Putin, ma il fatto che i suoi cittadini si rifiutino di partecipare alla guerra è un segno che le narrazioni nazionaliste e militariste, in Bielorussia come in Russia, non sono invincibili.

Mao Valpiana
presidente del Movimento
Nonviolento italiano

Siti:

Intervista a Olga Karach

Rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko

«Il mio nome in bielorusso vuol dire “libertà”, e mi sono data una missione speciale: rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko».

Pensi che l’esercito bielorusso possa partecipare alla guerra in Ucraina?

«Lukashenko sta subendo la pressione politica della Russia, e si sta preparando a farlo, ma incontra una forte opposizione. Sta crescendo, infatti, il numero di pacifisti e obiettori di coscienza nel Paese, sebbene sia molto rischioso. Si va incontro anche alla tortura. Ci sono obiettori di coscienza in carcere per motivi politici e di opinione. Chi può, esce dal paese.

Crediamo che sia ancora possibile rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko. Come potrebbe partecipare alla guerra senza soldati?

Chiedo il vostro supporto e la solidarietà internazionale per promuovere il diritto all’obiezione di coscienza e alla diserzione dei bielorussi, per fermare la guerra e impedire il secondo fronte militare contro l’Ucraina».

Quali azioni state mettendo in campo?

«Dal primo marzo, con il supporto delle reti internazionali, noi di Our house abbiamo promosso la campagna “No vuol dire no”, un motto femminista che però si rivolge anche agli uomini che reclamano il diritto di non toccare le armi, di fare obiezione di coscienza o di disertare.

Posso fare un esempio sull’efficacia del nostro lavoro. Il ministro della Difesa ha inviato oltre 43mila cartoline di chiamata alle armi ai giovani bielorussi. Noi abbiamo fatto una campagna di comunicazione forte, e solo 6mila giovani si sono arruolati. È un risultato straordinario, ma pensate a quanto di più potremmo fare con più forze».

Però il regime sembra fortemente nelle mani del dittatore che lo regge con il pugno di ferro.

«Lukashenko ha paura di noi, ha paura di me. Io sono un’attivista per la pace e i diritti umani, una femminista, ma nel mio paese sono considerata una terrorista e un’estremista di alto livello.

Se tornassi adesso non solo andrei in prigione, ma rischierei la condanna a morte.

Lukashenko ha paura di una persona normale come me, di una donna che non ha altro se non una profonda persuasione per la nonviolenza.

Ha paura di altri come me, ha paura dei movimenti pacifisti, ha paura degli obiettori di coscienza e ha paura delle donne del mio paese che possono essere una grande forza contro questa guerra».

In Italia sentiamo parlare poco di Bielorussia. Cosa succede nel Paese?

«Il 20 febbraio scorso abbiamo lanciato un’iniziativa davanti alle ambasciate bielorusse in diverse grandi città europee per chiedere il supporto e il riconoscimento dei nostri obiettori di coscienza e disertori. È stata un’iniziativa di successo che si è svolta anche a Berlino, Amsterdam, Vilnius, Atene. Il giorno seguente Lukashenko ha presentato in Parlamento un decreto, subito approvato, sul tradimento della patria che prevede per i disertori la condanna a morte.

È un fatto gravissimo. Tuttavia, esso ci fa capire che Lukashenko riconosce che il rifiuto della guerra è il vero grimaldello che può togliere consenso al suo regime e a quello di Putin».

Cosa possiamo fare per aiutarvi?

«Sono in esilio in Lituania, tutti noi lavoriamo soprattutto dall’estero e abbiamo bisogno non solo che la nostra voce venga ascoltata, cosa di cui vi ringraziamo, ma di risorse economiche e strutturali per organizzare le nostre attività».

M.V.




Padre Mino Vaccari, quando l’amore mantiene giovani


Rumuruti, Kenya. La stanza è piccola. Ci sta una branda e poco altro: tanti libri, letti e riletti. È il regno di padre Mino Francesco Vaccari, testimone dell’essenzialità della vita e dello spirito di servizio ai poveri. Accanto, c’è il piccolo studio: una scrivania, altri libri e alcune foto di scene di vita africana.

Padre Vaccari è missionario della Consolata, novanta e più anni portati bene, oltre sessanta dei quali trascorsi ininterrottamente in Kenya. I suoi racconti, attraverso un linguaggio fluido con un simpatico intervallare emiliano di tanti «capissi», lasciano un segno di memorie profonde. Umanissime.

È originario di Baiso, un paesino del reggiano. Il fascino provato nei confronti dei missionari maturò in lui fin da piccolo, quando, durante la Seconda guerra mondiale, conobbe un sacerdote braccato dai nazifascisti. La sua famiglia lo accolse in casa, nonostante i rischi: «Una grande persona, tormentata dalle mie curiosità di ragazzino vivace». Probabilmente maturò così la sua vocazione, cresciuta tra alti e bassi in un ambiente difficile come quello del seminario negli anni preconciliari.

Tutti gli studi furono portati a termine a Torino, nel seminario della casa madre dei Missionari della Consolata.

La disciplina era molto rigida. «Avevo un debole per l’informazione sportiva. Capissi. Ma dovevo leggere i giornali di nascosto, perché erano considerati stampa clandestina. Il mio debole per il Bologna rischiai di pagarlo caro. Uscii di nascosto dal seminario per andare allo stadio di Torino a sostenere la mia squadra del cuore. Capissi che poteva saltare tutto». Il tifo acceso per i rossoblu è rimasto. Padre Vaccari si concede ancora oggi un po’ di privacy per vedersi le partite del Bologna alla tv. Non ne perde una. Nel 1959 fu ordinato sacerdote. Finalmente, nei primi anni Sessanta, il Concilio Vaticano II aprì la Chiesa alla società. La promozione umana, valorizzata dalla fase postconciliare, rafforzò la missionarietà: «Puntavo fortissimamente a una destinazione in Africa, peraltro subito accolta. Dopo lo studio dell’inglese, a Londra e successivamente nel Galles, partii in nave da Venezia per il Kenya. Una lunga navigazione. Non si arrivava più».

Nella «prima» missione

La sua destinazione era Tuthu, nella prima storica missione della Consolata in Kenya.

Fu una meta importante per i contatti con la popolazione kikuyu. Entrò subito nella loro mentalità e cultura. Da Tuthu si trasferì a Nyahururu, nel cuore della contea di Laikipia, nella terra delle savane, sulla linea dell’equatore, con il compito di studiare attentamente i sistemi scolastici: «La promozione umana nasce proprio nei banchi di scuola».

La maturazione dell’attività missionaria avvenne con i tanti anni da parroco a Tetu, nei pressi della città di Nyeri, sugli altopiani centrali. Con l’aiuto delle suore, che costituiscono tuttora una vera forza della natura, ebbe l’opportunità di entrare a contatto con i villaggi dispersi in un territorio vastissimo, in rapporto diretto con le tribù indigene. «Le suore – spiega con il suo dolce sorriso – mi aiutarono a diventare un missionario tra la gente». Completò così il suo percorso in terra africana. In quel periodo maturarono anche le sue battaglie contro la corruzione, contro i giganteschi conflitti di interesse dei latifondisti, contro lo sfruttamento dei lavoratori: «Capissi, non è concepibile lavorare senza tutele per sei settemila scellini al mese (pari a una cinquantina di euro)».

Capita ancora oggi che quando vede qualcuno in grave difficoltà, padre Vaccari inventi un lavoro pur di dare un po’ di soldi per vivere. Non vuole fare l’elemosina, ma investire sulla dignità della persona. La sua denuncia continua contro le disuguaglianze sociali: «L’economia del Kenya corre a perdifiato, ma i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri».

Verso Rumuruti

foto Gigi Anataloni

Padre Vaccari fu chiamato a servire i Missionari della Consolata in Kenya come loro superiore dal 1987 al 1993. Ma amava stare tra la gente: ormai la sua gente. Così, finito il suo secondo mandato nel 1993, maturò la nuova destinazione, quella di una missione molto povera e allo stadio iniziale, Rumuruti, facendo la staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939, ora a Tuthu, dove padre Mino aveva cominciato) che nel 1991 ne era diventato il primo parroco, ma era stato eletto vice superiore regionale. All’inizio di quello stesso 1993 era venuto a mancare padre Giuseppe Ricchetti (classe 1933 di Fiorano Modenese), il quale, grazie al grande cuore di tanti benefattori emiliani, aveva costruito pozzi, scuole, dispensari, fino all’ultimo gioiello: la missione di Banana Hill nella periferia nord di Nairobi.

Rumuruti, la missione sulla remote route (strada remota, da qui il nome) che da Nyahururu portava verso il nord, a Maralal nel Samburu, nacque dal nulla, come cappella della missione di Nyahururu. Quando padre Mino vi arrivò, c’erano sì una chiesa e una casetta per i missionari, ma la povertà attorno era immensa, alimentata anche da tanti conflitti tra i vari gruppi tribali per il controllo delle terre un tempo monopolio dei grandi proprietari terrieri bianchi.

Un ponte con l’Italia

Padre Vaccari ereditò nel 1993 la grande impresa umanitaria avviata da padre Richetti. Un’area economicamente forte, come quella del distretto emiliano della ceramica, si è stretta attorno ai missionari per sostenerli nelle loro attività. A Rumuruti c’è tanta Italia. E l’avventura continua anche oggi con l’impegno solidale della onlus «Africa nel cuore», una rete molto estesa di volontariato, con sede a Fiorano Modenese. Scuola, formazione, cultura e sanità sono le parole che costituiscono il motto che trascina tante iniziative. E la strategia di padre Vaccari è precisa: «I poveri devono avere le stesse opportunità dei benestanti. Il diritto allo studio vale per tutti, così come quello alla sanità».

I cambiamenti sono evidenti e la popolazione locale è pronta per assumersi le proprie responsabilità: «Il futuro è loro. È necessario un nostro passo indietro, perché la terra è degli africani e noi non siamo neo colonizzatori».

Lui però resterà in Kenya, senza creare imbarazzi, anche se ad agosto saranno 93 gli anni sulle spalle: «Non sarò ingombrante, ma non saprei proprio dove andare. Non posso lasciare la mia terra, che ormai è l’Africa». Sono stati così trovati degli spazi di convivenza: «Io sosterrò sempre le loro attività, senza disturbare». E indica orgoglioso la strada maestra: «Il bene della Chiesa è papa Francesco. Lui ci riporta concretamente al Vangelo».

Ora che ha compiuto un capolavoro lungo oltre sessant’anni, al tramonto si ritira per giocare a carte con gli amici più stretti.
E, mentre batte il fante, trova il modo di raccontare qualche aneddoto di vita vissuta.

Vanna Paltrinieri, Annie Munyi, Renato Chiarotto
 e Chiara Vimercati

Per un approdondimento su Rumuruti

Rumuruti, missione di frontiera.
Vangelo ed educazione. Sviluppo e pace.
Dossier MC 3/2015




Fare a pugni con la quotidianità


Non è mai stata facile la vita nell’isola caraibica. Oggi la profonda crisi economica (con l’immancabile embargo) l’ha resa ancora più dura. E le soluzioni non paiono dietro l’angolo.

«Il tramonto di Cuba, irripetibile, specialmente all’Avana, dove il sole va a cadere come un’immensa palla nel mare, nel profumo del sale, della vita, del tropico». Sono le parole con cui lo scrittore Reinaldo Arenas (1943-1990, fu un avversario del governo castrista, ndr) racconta l’amore e la struggente malinconia che, per tutta la vita, lo legheranno alla sua amata Cuba, anche quando ormai sarà emigrato in America in cerca di una vita migliore.

Ed eccolo di fronte a me quel tramonto, proprio uguale a come ce lo descrive lo scrittore: il sole scende sul Malecón, il lungomare dell’Avana, tinge di rosa i muretti, le strade, gli scogli. È una delle fotografie più scattate, uno degli scenari più suggestivi: ogni turista deve necessariamente passare di qui, perdersi nella musica e nel brusio di chi, al tramonto e fino a notte fonda, suona la chitarra seduto sul muretto di fronte al mare o chiacchiera bevendo una birra.

Alle mie spalle, l’Avana: i colori, i suoni, l’allegria, la città viva a ogni ora. La luce calda e potente dei tropici che illumina i palazzi del Parque Central, il Capitolio, gli hotel alla moda, le Cadillac e le altre macchine d’epoca tirate a lucido e parcheggiate proprio di fronte a quegli stessi hotel in attesa di un turista che voglia provare l’ebbrezza di sentirsi per un momento immerso nelle magiche atmosfere degli anni Cinquanta.

Una veduta di l’Avana dall’alto. Foto di Valentina Tamborra.

L’Avana nascosta

E poi c’è «l’altra» l’Avana: quella nascosta che pure esiste e resiste. Palazzi fatiscenti, quartieri dimenticati, strade dissestate, code infinite davanti ai negozi statali che non hanno più tutto ciò che dovrebbero assicurare ai cubani.

È questa l’Avana dove mi trovo a camminare insieme a Karla, una guida giovane e sorridente, che conduce me e altre quattro persone a scoprire il lato nascosto di Cuba.

Karla fa parte di un gruppo chiamato free walking tour: ogni giorno le guide partono dal Parque Central e con una passeggiata di tre ore conducono turisti e curiosi a guardare meglio e più a fondo la città. Il tour è gratuito con un’offerta libera e nasce per divulgare una conoscenza diversa e più precisa su una realtà complessa come la capitale cubana.

Dopo il Covid, infatti, Cuba è precipitata in una situazione davvero difficile. Manca, o comunque scarseggia, tutto, dai farmaci ai generi alimentari, dai beni di uso comune ai materiali edilizi. Eppure, camminando per la zona più turistica dell’Avana, non si direbbe. Lì migliaia di visitatori sono impegnati a sorseggiare mojito e gustarsi la musica che arriva da ogni piccolo locale o casa privata e a chiacchierare fumando uno dei famosi sigari cubani, costosissimi se si pensa che ciascuno di essi può arrivare a 150 dollari mentre lo stipendio medio di un impiegato a Cuba è fra i 15 e i 20 dollari mensili.

Quella turistica è una facciata brillante che nasconde, che cela. Ma i cubani di oggi vogliono parlare di quello che le sta dietro, vogliono spiegare, vogliono mostrare. La loro preoccupazione più grande è quella per il futuro: molti infatti sono i giovani che se ne vogliono andare, legalmente o illegalmente. Karla ci racconta che l’arrivo di internet sull’isola ha aperto una «finestra» sul mondo e ha mostrato come si vive altrove e questo attira, spingendo molti ragazzi verso altri paesi.

Una delle guide del «free walking tour Havana» che aiuta a scoprire la capitale cubana con le sue luci e ombre. Foto Valentina Tamborra.

La scuola di boxe

Impossibile non pensare alla prima casa particular (casa privata) dove ho soggiornato, gestita da una donna e sua figlia. La madre stava preparandosi a partire per San Diego, negli Stati Uniti, lasciando a Cuba la ragazza, non per volontà ma per impossibilità di portarla con sé. Ottenere i documenti e i permessi per lasciare il paese non è facile.

Per molte persone che se ne vogliono andare, altre però decidono di fermarsi, di rimanere, di provare a costruire un futuro diverso. Ed è proprio proseguendo il mio cammino per la città che mi imbatto nel Gimnasio de boxeo: una scuola di boxe costruita in uno dei quartieri più difficili della città, il Colón.

Il gimnasio è racchiuso fra mura scrostate ma per i ragazzi rappresenta un sogno. Foto Valentina Tamborra.

Qui, fra palazzi fatiscenti e cortili abbandonati, un italiano, Samuel Fabri, dopo aver vissuto in diversi paesi e aver partecipato a molte cause umanitarie e contribuito a costruire un orfanotrofio in Kenya, ha deciso di fermarsi e dare forma a un sogno e a una speranza.

Grazie alla scuola, infatti, allontana i bambini dalla strada, spiega loro i pericoli connessi a una vita che a prima vista può sembrare più semplice ma che nasconde insidie e dolori. Affronta il tema del turismo sessuale, insegna a essere solidali con un amico debole, a combattere il bullismo, a creare una «famiglia» con i propri compagni.

Il gimnasio è gratuito, ma c’è un requisito essenziale: bisogna andare bene a scuola. Samuel e i suoi collaboratori, tutti ragazzi cubani, danno anche ripetizioni. Mentre parliamo, sono tre i bambini che, dopo la lezione di boxe, ripassano geografia, storia e spagnolo.

Il Gimnasio de boxeo è una vera eccellenza: i ragazzi che vengono da questa scuola hanno vinto otto campionati provinciali in 11 anni e oggi sono già nove i campioni nazionali. Si allenano nel cortile che separa due palazzi che sembrano dover crollare da un momento all’altro. Boxano su un ring che ha visto tempi migliori, utilizzando corde e guantoni che riescono a fatica a stare insieme. Eppure, lo spirito che anima questi ragazzi è qualcosa di potente, di coinvolgente.

Portare avanti questa realtà è dura: infatti non è una questione economica che impedisce al gimnasio di avere tutto l’occorrente, ma l’impossibilità di trovare gli strumenti essenziali.

Con l’embargo è impossibile procurarsi ciò che serve: ad esempio, guantoni, fasce, calze, sacchi da boxe, paradenti. Al momento, una delle necessità più urgenti sono le corde da ring. Samuel non chiede denaro, ma ciò che serve ai ragazzi per allenarsi, per uscire da una realtà difficile e poter coltivare i propri sogni. Usati o nuovi, poco importa, conta solo riuscire a combattere per un futuro diverso.

L’istruttore di boxe viene da Guantanamo: un duro dal cuore d’oro. Foto Valentina Tamborra.

Senza energia elettrica

Dopo l’Avana, raggiungo Cienfuegos, Viñales e Trinidad: ciò che colpisce, come a l’Avana, sono i continui blackout che rendono la vita in città davvero difficoltosa. A causa della poca energia elettrica disponibile, il governo è costretto a interrompere l’erogazione anche per diverse ore mettendo a dura prova i cittadini cubani.

Il cibo conservato nei frigoriferi, i farmaci, già scarsi, i generi alimentari, così difficilmente reperibili, rischiano di deperire in fretta dato il caldo impietoso e, per una popolazione già allo stremo, questo rende la quotidianità una sfida costante.

Un po’ meglio si vive a Viñales, in quella che possiamo definire «campagna»: qui grazie all’allevamento e all’agricoltura si riesce a reperire più facilmente il cibo e c’è un’atmosfera diversa dalle città.

Lo si nota anche dalle abitazioni: a l’Avana, Trinidad, Cienfuegos e – in generale – nelle città più popolose, non si vede un motorino o una bicicletta o una macchina lasciata incustodita in strada e ogni finestra ha sbarre di protezione mentre a Viñales le sbarre alle finestre non ci sono e non è raro vedere, di notte, auto, moto e motorini parcheggiati in strada.

In un angolo di una vecchia fabbrica un parrucchiere ha aperto il proprio posto di lavoro. Foto Valentina Tamborra.

Laicità e religiosità: la santeria

C’è però un tratto comune che lega le zone più rurali alle grandi città ed è la spiritualità: un mix di credenze religiose che, a prima vista, si potrebbe non notare ma che una volta scoperto affascina e colpisce. Cuba infatti è un paese laico dove convivono, nel pieno rispetto reciproco, diverse religioni: cattolici, protestanti, ebrei, spiritisti e poi i seguaci del culto di origine africana, chiamato santeria. Praticato da una larga parte della popolazione, si tratta di un credo che nasce dalla religione della popolazione Yoruba, proveniente dalla Nigeria, in Africa dell’ovest, e arrivata a Cuba nel periodo del colonialismo e della schiavitù (quest’ultima abolita nel 1880).

La santeria è pratica religiosa sincretica: accanto alle divinità di questa religione, gli Orixa, troviamo infatti alcuni santi appartenenti alla tradizione cattolica, come Santa Barbara.

Interessante da sapere: la parola «santeria» è stata coniata dagli spagnoli e, in origine, si trattava di un termine denigratorio per indicare quelle persone che mostravano un’eccessiva devozione ai santi.

Oggi manifestazioni e processioni di santeria si possono vedere in tutta Cuba, e sono veri e propri momenti di riunione della comunità e di preghiera collettiva per chiedere un anno propizio alle proprie divinità. Uno dei luoghi dove è possibile farsi un’idea più chiara di questa religione è Palmira, sede di diverse confraternite.

Per quanto alcuni riti restino privati, è possibile fermarsi e chiedere informazioni e normalmente un santero, ovvero il celebrante dei riti della santeria, sarà disponibile a raccontarvi qualcosa di più.

Nelle case private si trovano facilmente altari dedicati alla propria fede, sia essa cattolica o legata alla santeria. Foto Valentina Tamborra.

Non basta il tramonto sul Malecón

Il mix di culture, etnie, tradizioni, modernità e realtà ferme nel tempo, rendono Cuba un paese straordinario, dalle mille sfaccettature. Viaggiare lungo le strade di quest’isola significa imbattersi in un caleidoscopio di sensazioni e di emozioni contrastanti e farsi un’idea chiara non è semplice. Ciò che è sicuro, purtroppo, è che la situazione economica è in drastico peggioramento e che senza un cambia-

mento di direzione, senza un nuovo piano di sviluppo, Cuba rischia di perdersi, di vedere andare via i propri giovani e rimanere solo una meta di vacanza, dove turisti senza troppa voglia di porsi domande raggiungono hotel di lusso su cayos da sogno senza scoprire l’altra faccia di questo luogo complesso e affascinante.

Il tramonto sul Malecón è sempre lì, rosso, potente e bellissimo, ma perché continui a illuminare anche i cubani e il loro futuro è necessario uno sguardo più consapevole e scevro da ideali e idealismo, uno sguardo capace di posarsi sulle luci di questa meravigliosa isola ma anche di indagarne le ombre.

«Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera». Sono le ultime parole di Reinaldo Arenas, e oggi è l’augurio che mi viene da rivolgere a questa isola straordinaria e disperata, mentre guardiamo il sole calare ancora una volta sul Malecón.

Valentina Tamborra

Il cardinale Beniamino Stella stringe la mani al Il presidente cubano Miguel Diaz Canel durante la sua visita all’isola (8 febbraio 2023).


Chi resta, chi va

Dollari o rubli?

Sono in tanti a sostenere che Cuba stia vivendo la peggiore crisi economica e sociale della sua storia, addirittura più grave di quella del cosiddetto «periodo speciale», negli anni Novanta. Varie circostanze sembrano confermare questa affermazione. Da ultimo, la cancellazione della sfilata per la festa del Primo maggio a causa della penuria di combustibile.

Nel 2022, sono stati oltre 270mila i cubani emigrati negli Stati Uniti, circa il 2,4 per cento della popolazione complessiva (11,1 milioni di persone), un record. La quasi totalità vi è arrivata illegalmente e quasi sempre con l’aiuto economico degli 1,4 milioni di cubani residenti negli Usa. Oggi la via migratoria più seguita – racconta la Bbc – è quella di volare in Nicaragua (l’unico paese latinoamericano che non richiede visto ai cittadini cubani) e da qui proseguire per duemila chilometri verso il confine statunitense attraversando Honduras, Guatemala e Messico. La seconda via, molto più breve ma più pericolosa, consiste nell’attraversamento dello stretto della Florida con imbarcazioni di fortuna (le cosiddette «balsas»).

Dal punto di vista delle relazioni internazionali, per Cuba questo 2023 è iniziato con due visite distinte, ma entrambe importanti. Tra fine gennaio e inizio febbraio, è stato sull’isola caraibica il cardinale Beniamino Stella, già nunzio apostolico sull’isola (dal 1992 al 1999), inviato di papa Francesco. L’occasione era rappresentata dal 25° anniversario della storica visita di Giovanni Paolo II (1998). Nelle due settimane di permanenza, il cardinale ha incontrato il presidente Miguel Díaz-Canel (poco prima della riconferma di quest’ultimo per altri cinque anni) e ha chiesto la liberazione delle persone (circa 700) imprigionate a seguito della rivolta dell’11 luglio 2021. Ad aprile è, invece, arrivato a l’Avana Sergey Lavrov, ministro degli esteri della Russia, in tour nei paesi latinoamericani per comprare adesioni o rafforzare il sostegno alla politica putiniana.

La Russia, assieme al Venezuela, rifornisce Cuba di petrolio. Inoltre, da aprile, le banche cubane accettano pagamenti effettuati con le carte Mir, il circuito di pagamento gestito dalla Banca centrale di Mosca. E questo per favorire l’afflusso sull’isola di turisti russi.

Paolo Moiola

In un angolo della cucina di un contadino, una statua appartenente al culto della santeria con ai piedi offerte votive. Foto Valentina Tamborra.




Argentina. Meno populismo, più lavoro e responsabilità


Per anni ha operato negli Stati Uniti, in Venezuela e in Argentina, con un breve ma interessante intermezzo a Cuba. Ha visto democrazie e autocrazie, ricchezza e povertà. Le Americhe sono il suo cruccio ma anche il suo pane e per questo, a dispetto dell’età, padre Luigi – oggi in Italia per cure mediche – vuole tornarci.

È un classe 1936. Dunque, l’età c’è, ma lo spirito e l’intraprendenza sono molto più giovani di quanto non dica il dato anagrafico. Padre Luigi Inverardi, bresciano, Missionario della Consolata dal 1970, ha attraversato le Americhe da Nord a Sud: Stati Uniti, Venezuela, Argentina. «Sono stato alcuni mesi anche a Cuba», precisa prima di raccontarsi in un simpatico mix d’italiano e spagnolo. Lo incontriamo a Torino, ma è nelle Americhe che vuole tornare. «Però, vorrei trascorrere in Italia gli ultimi anni», chiosa con naturalezza.

La vicepresidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner con il presidente Alberto Fernandez (giugno 2022); lo scorso aprile, Fernandez ha annunciato che non si ripresenterà alle elezioni di ottobre 2023. Foto Juan Mabromata – AFP.

Dagli Stati Uniti alla dittatura argentina

«Appena ordinato missionario, desideravo andare in Africa. Come tutti, in quel tempo. I superiori mi mandarono invece negli Stati Uniti. In pratica, nel luogo opposto per definizione. Tuttavia, negli Usa ho lavorato con entusiasmo sia nell’animazione missionaria che nel lavoro pastorale». Negli Usa padre Inverardi trascorre oltre vent’anni, divisi in due periodi, tra New York, California e Pennsylvania.

Nel 1977 arriva per la prima volta in Argentina, dove da un anno è al potere una giunta militare. Va a Tartagal, nella provincia di Salta, estremo nord del paese, ai confini con la Bolivia. «Era – ricorda – un tempo molto difficile, complicato, un tempo doloroso. Perché il Paese era retto da una dittatura. I militari combattevano l’opposizione di sinistra con persecuzioni, arresti e sparizioni di persone.
Finalmente, nell’ottobre del 1983, si tennero le elezioni che furono vinte dal partito radicale (di centrosinistra, ndr). Il primo presidente fu Raúl Ricardo Alfonsín. Era un uomo onesto, capace, intelligente, un uomo che conosceva bene la realtà argentina». Una realtà, però, difficile da governare, soprattutto a causa di una situazione economica esplosiva.

«Quando arrivai in Argentina già si parlava d’inflazione. Ho sperimentato cosa significa vivere con aumenti dei prezzi giornalieri. L’inflazione è il cancro della vita economica, il cancro del paese, ma i politici non fanno che litigare invece di affrontare la questione. Il presidente Alberto Fernández ha annunciato (lo scorso 21 aprile, ndr) che non si ripresenterà alle elezioni del prossimo ottobre, forse perché ha capito che la maggioranza della popolazione lo considera un incapace. Sono trascorsi quasi 50 anni, eppure nel 2023 il problema argentino rimane sempre lo stesso». Affermazione veritiera: l’inflazione supera il 102 per cento annuo (una delle più alte al mondo), la povertà interessa 17 milioni di persone (circa il 43 per cento della popolazione argentina).

Daniel Ortega con un Fidel Castro anziano e malato, nel 2014.. Foto Alex Castro – Cubadebate.

Cuba e la libertà

Dopo la dissoluzione della giunta militare, padre Inverardi non fa in tempo a seguire il ritorno alla democrazia e le contorsioni economiche del paese latinoamericano perché viene destinato nuovamente negli Stati Uniti (1983-2000). Le scelte dei superiori gli offrono, quindi, l’opportunità di conoscere realtà sociali, politiche ed economiche molto diverse. E non occorre pregarlo per farsi raccontare la propria opinione.

«Tanto il populismo latinoamericano quanto il capitalismo nordamericano – spiega – hanno grandi difetti. Però, ragionando in base alle mie esperienze e al mio pensiero, io preferisco il capitalismo, anche se spesso è esasperato. Nel 1997 i superiori della Consolata del Nord America pensarono di aprire una missione a Cuba. Per questo mi mandarono in visita all’isola dove rimasi per cinque mesi. Quando vi arrivai, subito gli amici mi avvertirono: “Padre, non dica assolutamente niente contro Castro”. Ecco, per me è importante che l’uomo sia libero di pensare e dire ciò che pensa e non essere obbligato dal governo. Per questo preferisco il capitalismo, perché, nonostante i suoi problemi, ti dà la possibilità di gridare, di manifestare la tua opinione personale».

Il populismo è un’ideologia di sinistra

Nicolas Maduro, presidente del Venezuela. Foto: Xavier Granja Cedeño/Ministerio de Relaciones Exteriores Comercio e Integración.

Forse per i molti anni trascorsi negli Usa, forse per la possibilità di fare un confronto in base alle proprie esperienze in luoghi tra loro molto diversi, forse semplicemente per avere idee diverse, padre Inverardi vede il populismo latinoamericano come una piaga assoluta e contesta le modalità in cui nei paesi dell’America latina è stata portata avanti la lotta alla povertà. Il missionario ritiene che esista soltanto un populismo di sinistra: «Non considero il populismo di destra un’ideologia assoluta com’è stato quello di Chávez e Castro e oggi quello di Ortega e Maduro».

Lui ha vissuto in Venezuela dal 2000 al 2005 negli anni in cui il Venezuela di Hugo Chávez era diventato uno spartiacque nella politica latinoamericana.

Il comandante Chávez ha diviso senza colori intermedi: in genere, o si amava o si odiava. Padre Inverardi non fa eccezione.

«Il populismo è un’ideologia che dice di aiutare i poveri, ma lo fa sempre nell’ottica di interessi particolari (di un partito, di un governo, ecc.) e non per migliorare. I populisti aiutano i poveri, perché, al momento delle elezioni, questi votino per loro. Per esempio, all’inizio della presidenza Chávez, i poveri erano molto aiutati. Allo stesso tempo, però, erano obbligati a partecipare alle riunioni, alle manifestazioni. Quando i poveri sono dominati, non si tratta di un vero aiuto».

«L’Argentina – aggiunge padre Inverardi – ha cercato di imitare le idee di Chávez. Quando Cristina (Fernández de Kirchner, ndr) ricevette il presidente del Venezuela (nel 2009 e nel 2011, ndr), lo accolse come se fosse il liberatore dell’America Latina. Fu un grave errore, perché un paese non può progredire senza diversificare le proprie alleanze. Per esempio, lo stesso Chávez criticava moltissimo gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo vendeva a loro il petrolio del suo paese».

«Dopo cinque anni che stavo in Venezuela, io chiesi di essere trasferito altrove. Perché? Perché parlando con alcuni fanatici e con alcuni cristiani, capii che non si poteva dialogare con chi riteneva la Chiesa cattolica un avversario. Avevo lasciato il Nord America per portare un po’ di aiuto in Venezuela ma sentirmi accusare di essere un nemico del popolo per me fu una grave offesa. E così me ne andai».

Banconote di pesos argentini, sempre in lotta con il dollaro Usa e con un’altissima inflazione. Foto LuisX – Pixabay.

Povertà e responsabilità

«In America Latina manca il concetto della famiglia. Ci sono famiglie composte da 7-8 bambini, ma chi è il padre? Non si sa. Spesso i padri sono due o tre. Gli uomini non si occupano molto dei figli che mettono al mondo e questo crea la povertà. Io dico che essa è data non dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di responsabilità.

Sono convinto che l’uomo sia l’artefice della propria storia: con il lavoro e il sacrificio può migliorare. L’ho visto in California, dove ci sono molti latinoamericani. Oggi hanno una casa, una macchina».

La povertà prolifera anche tra i popoli indigeni. Rispetto ai quali padre Inverardi ha una propria idea. «A Tartagal, mia ultima sede, vivono vari gruppi di indigeni (Wichi, Guaraní, ma anche Qom-Tobas, Chané, Chorotes, ndr), ma ammetto di aver lavorato poco con essi. Io credo nel loro diritto di vivere la propria cultura. Allo stesso tempo, però, sono convinto che se essi vogliono progredire, dovrebbero assumere la cultura argentina. Non possono difendere unicamente la “loro” cultura. Ci vuole un equilibrio. Se pretendi (una casa, un lavoro), devi anche conoscere bene lo spagnolo, studiare, lavorare. Soltanto in questo modo si migliora». Padre Inverardi crede ciecamente nell’etica del lavoro. «Sì, credo nel lavoro. Ho visto in che modo il Nord America è progredito: con il lavoro. Non c’è alcun paese che possa migliorare senza lavoro. E in Argentina sarà così, se vogliono, perché è un paese con molte risorse. Diversamente, rimarrà il paese di oggi: la povertà di troppa gente e la ricchezza nelle mani di alcuni».

Un cartonero per le strade di Buenos Aires; oggi in Argentina i poveri sono 17 milioni (il 43 per cento della popolazione). Foto Dan DeLuca.

Per una fede senza ideologia

In tema di religione, nel continente americano sono nate e cresciute due interpretazioni del cristianesimo, nuove e contrapposte: nei paesi latinoamericani la teologia della liberazione, in Nord America le nuove chiese evangeliche. «La teologia della liberazione – spiega padre Inverardi – può essere un mezzo con il quale possiamo aiutare i popoli a crescere nella fede, a crescere nella libertà e responsabilità. Allo stesso tempo, dobbiamo avere dei limiti chiari. Non possiamo confondere quella teologia con il comunismo. La teologia della liberazione deve essere presentata sempre alla luce di Cristo. È Cristo che è il liberatore. È Cristo che ci guida. Per me, una teologia non può mai trasformarsi in una ideologia umana».

«In America Latina, molti si dicono cattolici, ma praticamente non conoscono molto di Cristo. Hanno una conoscenza superficiale della dottrina cristiana. Chiedono qualcosa. Le Chiese neoevangeliche offrono ciò che piace loro e per questo sono ritenute più vicine alla gente. È così che si spiegano i passaggi da una religione all’altra. Al contrario, la Chiesa cattolica non può dire unicamente quello che piace agli uomini, quello che essi vogliono ascoltare».

Il papa in Argentina?

Papa Francesco ha annunciato di voler visitare l’Argentina nel 2024: sarebbe la prima volta durante il suo pontificato. Foto Annett Klingner – Pixabay.

Dal 2013, al Vaticano siede papa Francesco. Nei suoi dieci anni di pontificato il papa argentino non ha mai trovato modo di visitare il suo paese natale. Chiediamo una possibile spiegazione al nostro interlocutore. «Ci sono varie ragioni. Penso che la ragione fondamentale della sua mancata visita sia riconducibile al fatto di conoscere molto bene la complessa realtà politica dell’Argentina. Quando era cardinale di Buenos Aires, lui soffrì molto gli attacchi della politica. Oggi teme che il suo arrivo potrebbe creare dei problemi. Detto questo, a me personalmente farebbe molto piacere se si recasse in Argentina. Perché sono in tanti ad aspettarlo».

Il desiderio potrebbe essere presto realizzato: da poco, Francesco ha dichiarato (al quotidiano La Nación del 23 aprile 2023) di voler visitare il suo paese nel 2024. «Mi piace molto – continua il missionario – la semplicità di papa Francesco, la sua chiarezza e il suo pensiero teologico, la sua idea che la Chiesa debba essere una Chiesa povera. Tuttavia, allo stesso tempo, con alcuni suoi giudizi ha creato un po’ di confusione. Forse è la gente che non lo intende, però lui offre la possibilità di entrare in campi ambigui. Per esempio, sui temi dell’omosessualità e delle donne nella Chiesa».

Per concludere, chiediamo a padre Inverardi un giudizio sull’anima ambientalista di papa Francesco. «Mi è molto piaciuta la Laudato si’. Io credo nel progresso, ma esso è un autentico soltanto quando rispetta l’armonia della creazione. Quando questo non avviene, nascono i problemi».

Paolo Moiola

 




Migrazioni. Per terra e per mare


Muri, forze di polizia, norme di legge non bastano a fermarli: la forza della disperazione li spinge a proseguire, nonostante tutto. Maurizio Pagliassotti è stato sulle rotte dei migranti e li ha raccontati in due libri, crudi. Come crudo e irrisolto è il fenomeno migratorio.

In cerca di pane e futuro. Sono migranti tunisini, nigeriani, siriani, egiziani, afghani, pachistani, bengalesi. Da un paio di mesi, in seguito al ritorno della guerra in Sudan, ci sono anche molti cittadini di quel paese africano.

Per tentare l’entrata in Europa, questi migranti hanno due possibilità, entrambe molto rischiose: prendere la strada del mare o quella della terra ferma. La prima è più scenografica e, dunque, più raccontata, la seconda è più nascosta e, pertanto, meno conosciuta.

La realtà delle migrazioni verso l’Europa viene descritta in tutta la sua durezza e disumanità nei due libri – forse imperfetti ma sicuramente pregevoli – che Maurizio Pagliassotti, giornalista (Domani, il Manifesto, ma anche Missioni Consolata) e scrittore, ha dedicato al fenomeno, non studiandolo da fuori ma calandosi in esso.

Il primo lavoro – «Ancora dodici chilometri» (2019) – è ambientato sul confine tra Italia e Francia (Claviere, Briançon, Monginevro, Bardonecchia, Colle della Maddalena, …) dove operano soprattutto gendarmi d’oltralpe, molto solerti nel riportare i migranti sul territorio italiano1.

Il secondo – «La guerra invisibile» (2023) – parte dai luoghi del primo, ma allarga l’orizzonte dalle Alpi ai Balcani, attraversando vari confini e arrivando fino al Kurdistan turco (Erzurum, Van, Igdir).

(Photo by Matteo Trevisan / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Vittime e novelli carnefici

«Il mondo delle migrazioni – scrive Pagliassotti – è duro […]. Il migrante sa che per tutto ciò che farà durante il suo viaggio dovrà pagare qualcosa. Con il denaro, con il lavoro, con la schiavitù, con il sesso». Pagine dalla parte dei migranti – le vittime, anzi i nemici di questa «guerra invisibile e silenziosa» -, ma senza paternalismo o pietismo e, soprattutto, senza alcun giro di parole: il racconto di Pagliassotti è crudo e senza sconti per alcuno. Neppure per gli anziani avventori di un bar di montagna che commentano una storia di migranti affogati in mezzo al mare. «L’odio di questi paesi non è quello dei quartieri periferici di Torino, o di un’altra grande città. […] in un posto così, dici “se lo meritano”, “ma chi se ne frega”, “crepino”. Solo così sei accettato. Qui non c’è il nigeriano che spaccia o ti ruba la bicicletta. Qui non c’è nulla. Lo dicono tutti, quindi lo dici anche tu. E tutti ridono nel bar, dandosi di gomito. […] Un sodalizio strapaesano tra vecchi piemontesi e vecchi meridionali accomunati da un rancore irrazionale, soprattutto i secondi: furibondi nei loro “noi siamo venuti qui per lavorare e quelli vengono a fare un c… Che se ne stessero a casa loro”. […] La vittima che diventa carnefice. Infiniti patimenti e angherie, ma poi alla fine è arrivato qualcuno ancora più reietto, ancora più scuro di pelle, ancora più terrone».

Il clima politico di questi anni complicati non aiuta. È ormai annosa la questione delle Ong del Mediterraneo da molti considerate «pull factor» (fattori di attrazione) per i barconi e i barchini dei migranti. Se – come racconta Pagliassotti in Ancora dodici chilometri – anche una piccola associazione come «Il Pulmino verde» viene minacciata perché aiuta i migranti irregolari, significa che il degrado umano è profondo.

«Che vita schifosa deve essere quando tutti ti odiano e tu odi tutti», commenta l’autore a un certo punto de La guerra invisibile. Eppure, non mancano incontri con figure tanto umane da fare notizia. Come a Trieste.

Dopo Bolzano, l’autostrada che conduce al Brennero, il confine tra Italia e Austria. Foto Tibor Pelikan – Pixabay.

Gli «eserciti» del papa

«I loro nomi si protendono lungo la rotta dei Balcani fra migranti, cooperanti, giornalisti e non sempre sono amati neppure tra noi buoni: “troppo mediatici”. Lei è una psicologa clinica, lui un ex docente di liceo in pensione. […] Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi ogni sera, da anni, vanno a ricucire le ferite di chi giunge dalla rotta dei Balcani

[…]. Lei, una signora apparentemente semplice ma dal portamento aristocratico, lava e medica i piedi luridi coperti di fango e sangue di chi arriva qui […]. Due anziani che in cambio di niente salvano la dignità di un continente […]. Indubbiamente sono sotto i riflettori ma questo che problema è?». «Esiste una vasta invidia nel nostro mondo di buoni», chiosa con sarcasmo Pagliassotti. Che non può dimenticare gli operatori e volontari della Caritas.

«Li apprezzo molto – confessa l’autore – , pur essendo ateo e molto molto critico rispetto all’altruismo fondato sulla misericordia. […] La Caritas che ho conosciuto io l’ho trovata nei campi di frutta del Nord Italia

[…]. La Caritas che mi accoglie a Šid (cittadina serba al confine con la Croazia, ndr) fa parte di un esercito della misericordia

[…] che si protende verso l’aiuto degli umiliati e offesi in marcia».

Papa Francesco, capo di questo esercito2, parla spesso in difesa dei migranti. In Ancora dodici chilometri Pagliassotti cita un suo passo: «“Spostarsi e stabilirsi altrove con la speranza di trovare una vita migliore per se stessi e le loro famiglie: è questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”». Ma, come ricorda l’autore, anche il pensiero del papa è spesso derubricato alla categoria denigratoria del «buonismo».

 

C’è profugo e profugo

Le guerre parevano lontane. Almeno fino al febbraio 2022, quando la Russia di Putin ha aggredito l’Ucraina e la guerra è entrata di prepotenza nell’esistenza di noi europei. Maurizio Pagliassotti abbandona il suo percorso narrativo sulla rotta balcanica e turca per portarci più a nord, in Polonia, paese appartenente al cosiddetto «gruppo di Visegrád», ovvero i quattro stati europei (oltre alla Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria di Orbán) «reazionari, cementati, tra le altre cose, dall’ossessione delle frontiere chiuse che hanno trasformato i migranti in nemici».

«Sono stato nei giorni scorsi – racconta l’autore riferendosi all’inizio di marzo 2022 – al confine tra la Polonia e l’Ucraina per vedere cosa è l’umanità in fuga che viene accolta. Io arrivo da un viaggio dove ho incrociato solo l’umanità che viene respinta. Profughi delle guerre in Afghanistan e Siria sono gli esseri umani incontrati nei Balcani e in Turchia: i siriani possono perfino condividere l’origine delle bombe con gli ucraini. Bombe russe».

In definitiva, via libera a milioni di ucraini, stop indefinito per siriani, afghani, africani. Perché – si chiede l’autore – «esistono profughi che sono giustamente degni della nostra umanità e altri a cui viene concessa soltanto la nostra disumanità?».

Dall’esperienza nella stazione polacca di Przemyśl, l’autore esce (anche) con altre stoccate accuminate. «I fotografi – scrive – sono tra i più eccitati e spietati, sono tra quelli che meglio annusano il sangue: i loro obiettivi si avvicinano al volto dei bambini fino ad abusarne, e scavano alla ricerca dello scatto più duro, affamati di lacrime e senza scrupoli; le madri si ribellano, subentra la polizia che vieta di fare le foto, ma tutti se ne infischiano, ci sono discussioni. Sulla pelle dei profughi campa un sacco di gente e la sofferenza è un grande mercato da sfruttare a fondo».

«Ci servono»

I passaggi dei confini tra Italia e Francia, tra Italia e Austria e – soprattutto – tra i paesi della ex Jugoslavia e tra Grecia e Turchia sono pagine dense di storie e ingiustizie, che suscitano l’indignazione e l’impotenza di Pagliassotti.  «Perché – scrive con acuta perfidia – i muri che alziamo e le milizie che schieriamo per mari e per monti sono, in realtà, strumenti per evitare la tragedia: questo è il messaggio mai esplicitato, ma nemmeno troppo sottinteso. Una forma di bontà e altruismo con il mitra in mano».

C’è la guerra degli Stati contro i migranti e, all’interno di questa, la guerra dei penultimi contro gli ultimi. «“Ci odiano perché lavoriamo”, mi ha raccontato un ragazzo (siriano, ndr) di Erzurum. “Dicono che rubiamo il lavoro ai turchi. Ma questo non è vero […]. Lo stipendio medio di un muratore siriano è di circa 400 euro, contro gli 800-1.000 di un turco. Un panettiere 300 contro 600.

[…] il rifugiato siriano è percepito come un concorrente sleale che si vende per pochi soldi pur di non tornare al suo Paese».

Odio, razzismo, guerra: i due libri di Pagliassotti lasciano poco spazio alla speranza. Anzi, proprio non ne lasciano. Ma come si fa a dargli torto?

È triste ammetterlo, ma oggigiorno il mondo e il sistema sono questi. Prendiamo, ad esempio, l’Italia. Oggi, escludendo alcune chiese (cattolica, valdese, ecc.) e diverse organizzazioni della società civile, chi non si oppone3 all’arrivo di migranti lo fa quasi esclusivamente sulla base di un calcolo di mera convenienza: «Ci servono». Per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, per garantire le nostre pensioni, perché gli italiani invecchiano e non fanno più figli.

D’altra parte, meglio essere cinicamente pratici piuttosto che dare spazio a concetti (guerra etnica, difesa della razza, suprematismo bianco, teoria della grande sostituzione, purezza razziale) bocciati dalla storia e dalla morale. Ma che potrebbero anche tornare.

Paolo Moiola

Le montagne attorno a Claviere, zona di confine con la Francia molto battuta dai migranti. Foto Piero Mobile – Unsplash.


Note

(1) Sulla questione migranti lo scontro tra Francia e Italia è aspro. Dopo aver rafforzato il confine con altri gendarmi, i transalpini hanno accusato il governo Meloni di incapacità nella gestione del problema (4 maggio).

(2) Peraltro, anche la Caritas ha i suoi problemi. Lo scorso novembre papa Francesco ha deciso di commissariare Caritas Internationalis, la confederazione delle 162 Caritas nazionali operanti nel mondo.

(3) Il clima culturale vigente è stato sintetizzato (con toni esasperati) da una copertina (riprodotta sopra) e un’inchiesta del settimanale «Panorama»: «Un’Italia senza italiani» (3 maggio).

 

I MIGRANTI SU MC

Tra i molti articoli sul tema leggibili sul sito della rivista, ne segnaliamo alcuni:




Certosa missionaria. In alto e in profondità


Tra le realtà belle dei Missionari della Consolata in Europa c’è n’è una speciale: la Certosa di Pesio. Un luogo di preghiera nato 850 anni fa e abitato fino al 1802 da monaci certosini. Da quasi novant’anni è parte del patrimonio dei figli del beato Allamano: casa di spiritualità che irradia il Vangelo nel mondo.

Quando l’istituto dei Missionari della Consolata è nato nel 1901, la Certosa di Santa Maria, più nota come Certosa di Pesio, aveva già 728 anni.

Posta a 859 metri di altitudine nell’alta Valle Pesio, sulle Alpi Marittime in provincia di Cuneo, non distante dal confine francese, per diversi secoli era stata il punto di riferimento spirituale e materiale per l’intera valle.

Dal 1802, a causa della soppressione degli ordini monastici da parte di Napoleone, non era più un luogo di preghiera, ed era diventata per alcuni decenni un centro idroterapico, ospitando personaggi come Camillo Benso di Cavour, Giovanni Giolitti, Massimo d’Azeglio, ma cadendo poi gradualmente in disuso.

Quando la sua lunga storia si è intrecciata con quella dei Missionari della Consolata era il 1934: le sue imponenti strutture sviluppate su tre lati del grande chiostro centrale e aperte in direzione della montagna, i 250 metri di porticato con le sue colonne romaniche sul quale si affacciavano le celle dei monaci, le sue due chiese abbaziali, e il resto delle costruzioni sorte dal grande lavoro dei certosini, erano in stato di abbandono.

Oggi è un luogo aperto a tutti che accoglie centinaia di persone per esperienze di silenzio, ricerca di Dio e riscoperta della bellezza dell’annuncio del Vangelo.

Piemonte, Kenya, Mongolia

Incontriamo in videochiamata padre Daniele Giolitti, superiore della comunità Imc della Certosa. È fine aprile: il freddo dell’inverno inizia a mollare la presa, e i colori della primavera, ci dice, si mostrano luminosi.

Classe 1974, alto e snello, barba castana brizzolata, occhiali dall’esile montatura in metallo. Voce calda. Lo sguardo tranquillo e, all’apparenza, un po’ timido. Padre Daniele ha l’aspetto e il modo di fare di un «vero muntagnin» cuneese. Nello schermo lo vediamo vestito con camicia e maglione di pile. Per il resto, lo immaginiamo come tutte le volte che lo abbiamo incontrato: jeans e scarponi.

Padre Daniele è originario di Verzuolo, in provincia di Cuneo. Ha conosciuto i Missionari della Consolata a Torino durante gli studi da ingegnere civile.

Nel ‘98 ha compiuto il suo primo viaggio in Kenya per lavorare alla tesi di laurea sul noto acquedotto di fratel Giuseppe Argese.

Dopo quel viaggio ha fatto il noviziato a Rivoli (To), poi due anni di filosofia a Roma e quattro di teologia a Nairobi. «L’ordinazione diaconale è stata nel 2007 a Wamba – racconta -: una bellissima esperienza con i nomadi samburu nel nord del Kenya».

L’ordinazione sacerdotale nel 2008, proprio alla Certosa di Pesio. «Qui ho ricevuto la destinazione della Mongolia, dove poi sono stato per sei anni. Un’esperienza ricca con l’attuale cardinale Giorgio Marengo.

Poi sono rientrato in Italia, e nel 2014 mi hanno destinato alla Certosa. Sono contento di essere tornato, dopo 12 anni fuori dall’Italia, per un po’ di tempo, alle mie montagne del Piemonte».

La comunità di missionari che abita in Certosa e la tiene viva, oggi è composta da sei confratelli: oltre a padre Daniele, «fratel Gaetano Borgo, nato nel 1939, ha fatto 44 anni in Kenya; padre Lino Tagliani, del 1943, che arriva dalla Colombia; padre Beppe Cravero, del 1956, anche lui dalla Colombia; padre Ermanno Savarino, del 1977, dal Portogallo e, infine, arrivato da poco, fratel Gerardo Secondino, del 1959, che è stato in Mozambico e poi, ultimamente, in Portogallo».

Spalatura della neve dai tetti, febbraio 1972, dopo nevicata eccezionale. Per l’occasione sono venuti anche dal seminario di Torino a dare una mano.

Luogo di ricerca

Quest’anno ricorrono gli 850 anni dalla fondazione della Certosa. Per i Missionari della Consolata, ci dice padre Daniele, è una gioia celebrarli e, allo stesso tempo, una responsabilità che chiede loro un grande lavoro.

«La Certosa di Pesio è uno dei luoghi più insigni del Piemonte e monumento nazionale. Per noi rappresenta anche una parte importante della nostra identità: qui, infatti, si sono formate generazioni di miei confratelli. La Certosa è stata sede del noviziato fino agli anni ‘80. Poi, negli ultimi 30 anni, è diventata una casa di spiritualità aperta a tutti: giovani, famiglie, religiosi.

La nostra missio oggi è quella di ospitare e accogliere persone bisognose, alla ricerca di Dio, del silenzio, della meditazione.

La frenesia e i ritmi accelerati della vita spingono molti a cercare luoghi come questo. Abbiamo bisogno di decelerare e di cercare le cose essenziali della vita, quelle che contano e che riempiono di senso il cuore.

Questo è uno spazio pieno, uno spazio dello spirito nel quale la gente percepisce che c’è Dio».

Gruppo di novizi anni Sessanta

Cemento e cazzuola

La Certosa di Pesio è stata terza tra le molte a essere fondate dai Certosini di san Bruno. «Questo luogo – spiega padre Daniele – è nato nel 1173 da un gruppo di monaci provenienti dalla Gran Certosa di Grenoble.

Posero la prima pietra lungo il fiume Pesio quando la valle era quasi disabitata, e realizzarono il monastero che divenne un polo di vita religiosa, culturale e sociale importantissimo.

Oltre alle strutture proprie della Certosa, il monastero comprendeva anche alcune grange (fattorie legate all’abbazia, ndr) sia in montagna che in pianura. Oggi si potrebbe dire che i monaci hanno trasformato l’ambiente della valle in modo sostenibile.

Dopo la soppressione degli ordini monastici, la Certosa è rimasta vuota, poi è stata trasformata in uno stabilimento idroterapico, infine è stata di nuovo abbandonata. Nel 1934 l’Imc acquistò un edificio fatiscente».

I primi missionari che l’hanno abitata e che hanno iniziato a ristrutturarla sono stati i fratelli Imc. D’estate andavano ad aiutarli anche i seminaristi del liceo, della filosofia e della teologia.

Negli anni ‘41 e ‘42 il governo l’ha sequestrata per ospitare anziani in fuga dalla guerra.

Dopo di che, i lavori di ricostruzione sono ripresi, e il primo anno di noviziato è stato il ‘49.

I Missionari della Consolata, oltre a pregare e studiare, quindi, hanno usato cemento e cazzuola. Padre Daniele sottolinea che quegli stessi missionari, dopo l’esperienza in Certosa, sono poi partiti per i quattro continenti dove hanno costruito scuole, ospedali, acquedotti. «È bello che da questo antico luogo di spiritualità monastica si sia diffusa la missione nel mondo». Poi, tornando alle esigenze pratiche, lancia un piccolo appello: «Ancora oggi, le sfide nella Certosa, non mancano: ora sono in cantiere il progetto di rifacimento delle facciate e il restauro dell’affresco di San Bruno. Per sostenere le spese di gestione abbiamo realizzato, cinque anni fa, una centrale idroelettrica, installando una nuova turbina sull’impianto dell’antico mulino certosino: energia pulita dall’abbon-
dante acqua del Pesio che ci aiuta a coprire una parte delle spese da affrontare. Ma da soli non ce la facciamo: tanti lavori sono stati fatti e verranno fatti solo grazie all’aiuto dei benefattori».

Missionari della Consolata nel 2012 celebrano nell’antica chiesa abbaziale.

Le porte si aprono

Nel settembre 1982, ci dice ancora padre Daniele per concludere l’excursus storico, la Certosa ha smesso di essere sede del noviziato Imc, ed è diventata casa di ospitalità per gruppi parrocchiali, scout, associazioni, anche laiche, campi scuola, ciascuno con il suo programma.

Nel 1995 la direzione generale l’ha destinata in modo più specifico alla spiritualità missionaria. È proseguita, quindi, l’ospitalità per gruppi, ma i missionari hanno iniziato anche a offrire proposte proprie: incontri mensili, ritiri estivi, convegni, esercizi spirituali, settimane bibliche. Allo stesso tempo, però, la Certosa non ha smesso di avere una funzione anche «interna», continuando a essere un luogo nel quale i confratelli di padre Daniele vanno per periodi di riposo e preghiera, proprio nell’ottica del nutrimento fisico e spirituale necessario per annunciare il Vangelo nel mondo.

Certosa «in uscita»

Negli 850 anni della sua storia, a parte la parentesi laica dal 1802 al 1934, la vita della Certosa è stata quasi sempre interna, di clausura. L’apertura data dai missionari della Consolata, soprattutto con l’avvio delle accoglienze, che ha fatto passare l’antico monastero da una dimensione contemplativa a una missionaria e attiva, ci sembra una vera rivoluzione.

«A volte gli opposti si toccano – continua padre Daniele -. Apparentemente, la vita contemplativa, quella di clausura dei monaci, e quella dei missionari in uscita, che girano per il mondo, sono agli estremi opposti, ma in realtà sono in continuità tra loro. E questo a me riempie il cuore dando un profondo significato a ciò che sto facendo.

L’ora et labora dei monaci, anche noi missionari lo viviamo nei progetti, nella promozione umana, e in una spiritualità che ogni giorno è da rinnovare.

La continuità si potrebbe vedere anche nello specifico carisma dei monaci certosini. Il loro fondatore San Bruno li aveva pensati eremiti, ma nella vita di un cenobio. Erano, e sono, eremiti con un senso di comunità.

Il cenobio consisteva nel ritrovarsi una volta al giorno per l’eucaristia, e una volta alla settimana per il cosiddetto spaziamento, una passeggiata a due a due nei boschi qui intorno.

Tutti siamo chiamati a riscoprire questa dimensione di vita: chi riesce a vivere bene da solo, riesce a vivere anche con gli altri e, viceversa, chi vive bene con gli altri deve ritagliarsi momenti di solitudine e di silenzio per portare avanti la propria missione.

Con i Missionari della Consolata le porte della Certosa si sono aperte. Il nostro compito, bello per me, è di offrire questi spazi a chi fatica a trovare profondità. Questo è un luogo che parla al cuore dell’uomo e offre non delle risposte, ma delle domande di senso, sul senso della vita».

Bellezza, via di missione

In occasione degli 850 anni, i Missionari della Consolata, insieme a vari enti, tra cui la provincia di Cuneo, il comune di Chiusa Pesio, la regione Piemonte, l’Ente di gestione aree protette Alpi Marittime, hanno ideato a un nutrito calendario di eventi: giornate spirituali e trekking meditativi, concerti, convegni, escursioni e visite guidate.

A giugno è previsto il convegno intitolato «Bellezza come via di evangelizzazione». Chiediamo a padre Daniele il motivo di questo tema: «La bellezza è lampante in questo contesto dove l’arte e la natura si esaltano a vicenda. Come dice papa Francesco in Evangelii gaudium: “Annunciare Cristo significa mostrare che credere in lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di gioia”. Noi crediamo che la bellezza vera può toccare le corde profonde del cuore e aiutare a seguire il Vangelo come una cosa bella. Non solo come uno sforzo volontaristico, ma scoprendo quella dimensione di gioia e bellezza che, a volte, dimentichiamo. La bellezza ci porta in alto e in profondità nella nostra vita. E quindi diventa via di evangelizzazione».

I bisognosi dell’Europa

Nell’immaginario collettivo, quando si parla di missione, normalmente si pensa ai missionari che aiutano i poveri, bisognosi dal punto di vista materiale. Padre Daniele, all’inizio di questa chiacchierata, ha detto che in Certosa i missionari accolgono bisognosi, riferendosi però a bisogni di altro tipo: di spirito, profondità, senso.

«Questa forse è una delle nuove dimensioni della missione nella nostra Europa, ma anche in tutto il mondo. Nella mia piccola esperienza, vedo che c’è un tremendo bisogno di essere ascoltati. Le persone hanno bisogno di qualcuno che stia con loro e che possa ascoltare le loro storie. Purtroppo, sono sempre meno quelli che hanno tempo o possibilità per farlo.

Una casa di spiritualità come questa è un luogo per l’ascolto.

Personalmente anche io sono stato aiutato qui alla Certosa dai missionari che c’erano all’epoca e che mi hanno offerto un accompagnamento spirituale.

Gli incontri oceanici sono importanti, ma non bastano.

Trovo più importante, invece, che le persone, i giovani, possano fare un cammino personale di dialogo nel quale, se c’è una certa sensibilità da ambo i lati, si può andare davvero in profondità, toccando anche punti difficili che ciascuno si porta dentro.

Questo accompagnamento crea una relazione che può diventare una vera amicizia spirituale.

Ritengo che l’apertura all’ascolto realizzi veramente lo stile missionario, uno stile che non dimentica i bisogni materiali, ma che è capace di guardare anche i bisogni del cuore, la solitudine, le ferite interiori che, a volte, sono più devastanti della povertà materiale. Solo con un dialogo profondo si possono affrontare.

Qui accogliamo anche persone fragili che a volte non trovano spazio nelle parrocchie o in forme di Chiesa troppo strutturate. Persone che hanno difficoltà a credere, ma anche che vivono traumi o fatiche particolari, come ad esempio una qualche forma di dipendenza».

Un luogo per tutti

Tra le attività proposte dai Missionari della Consolata in Certosa, ci sono corsi di preparazione al matrimonio, esercizi spirituali per laici e religiosi, trekking spirituali, la scuola di preghiera per giovani e giovanissimi, i fine settimana per famiglie e adulti, il deserto giovani, il ritiro di agosto per famiglie.

Il target di persone che frequentano l’antico monastero è ampio.

«La Certosa è aperta tutto l’anno. È bello accogliere persone che stanno compiendo una ricerca e che vogliono fare un cammino serio di vita cristiana.

Quest’anno stiamo facendo un cammino sugli incontri di Gesù, sottolineando che la spiritualità vera è vera umanità: siamo chiamati ad approfondire l’umanità di Cristo per umanizzare la nostra vita.

Poi ogni anno proponiamo iniziative come il capodanno, il triduo pasquale, una settimana biblica nella quale quest’anno affronteremo la missione tramite le lettere di san Paolo e l’inizio della comunità cristiana».

 

Un piccolo Tabor

Nel contesto del ripensamento che i Missionari della Consolata stanno compiendo sulla propria missione in Europa, il ruolo che la Certosa si ritaglia è molto particolare. «Possiamo citare alcuni documenti dell’Imc che ci invitano a essere sempre più una presenza significativa di ricerca di senso e spiritualità in funzione di una crescita nell’umano.

L’icona del monte è molto appropriata per questo luogo: la Certosa è un piccolo Tabor nel quale uno può raccogliersi insieme ad altri per fare l’esperienza di una trasfigurazione, l’esperienza di un Dio vicino. È un luogo abitato dove si respira una presenza secolare di preghiera.

Come i certosini avevano il motto di san Bruno che recitava “la croce resta fissa mentre il mondo ruota”, anche noi missionari della Consolata vogliamo costruire la nostra vita attorno a ciò che è essenziale (il Vangelo, il silenzio, la relazione con Dio e con gli uomini) e condividerlo con tutti».

Luca Lorusso


Per un tuffo nel passato

Dalla Certosa ai monti della Valle di Pesio, e tanto altro. Uno squarcio nella vita degli «apprendisti» missionari negli anni Quaranta.
Un eccezionale documentario in bianco e nero di padre Alfredo Deagostini, ora conservato e digitalizazto dall’l’Archivio Nazionale Cinema Impresa di Ivrea, e reso disponibile sul canale Youtube Cinemareligioso nel Fondo IMC-Istituto Missioni Consolata.

 




Cinquant’anni di relazioni Italia Vietnam. Stabilità e crescita


Le relazioni con l’Italia risalgono ai primi missionari. Ma l’amicizia è stata rinnovata durante la Guerra contro gli Usa. E poi si è sviluppata sui piani economico e culturale. Ce ne parla la console a Torino.

Civiltà quadrimillenaria, «paese del mito», il Vietnam è rimasto nel cuore e nelle coscienze di più di una generazione di italiani che, al tempo dell’invasione Usa, sono scesi nelle piazze e hanno manifestato per l’indipendenza di quel piccolo, lontano Paese aggredito dalla maggior potenza militare del mondo. Al Vietnam del resto, tutti noi siamo debitori perché il suo popolo ci ha insegnato che «indipendenza e libertà non sono mai merci barattabili».

L’evangelizzazione, primi contatti

Le relazioni dell’Italia con il Paese del Sud Est asiatico hanno radici antichissime. Dal XVII secolo, periodo in cui la Chiesa romana estese l’opera di evangelizzazione al Vietnam meridionale, in particolare, presero avvio rapporti sempre più intensi: nel 1695, Francesco Buzomi, religioso italiano della Compagnia di Gesù, residente nella concessione di Macao, dopo aver udito le impressioni di un viaggiatore portoghese di ritorno dal Vietnam, chiese e ottenne il permesso di stabilirsi in quel luogo per diffondervi le parole del Vangelo.

Nacque così la «Missione cocincinese», la cui data di fondazione può essere identificata con il giorno in cui Buzomi e il suo confratello portoghese, Diego Carvalho, sbarcarono al Porto di Kean, nella regione di Da Nang e celebrarono la loro prima messa. Undici anni dopo, sarebbe sorta, nel Nord del Paese, la «Missione del Tonchino» per opera di un altro italiano, padre Giuliano Baldinotti e di un francese, Alexandre de Rhodes che sarebbe diventato in seguito una figura di grande rilievo nella storia del Vietnam.

A differenza del suo confratello portoghese, che rimase in Vietnam per un solo anno, Buzomi visse nel Paese per oltre vent’anni; fondò numerose parrocchie e si dedicò all’opera di conversione ottenendo la fiducia degli Nguyen, i signori del Sud.

Sebbene all’epoca i religiosi stranieri presenti nell’area fossero per la maggior parte portoghesi – in ragione di una precisa ripartizione della sfera di influenza ecclesiastica che assegnava come territorio di evangelizzazione l’emisfero orientale al Portogallo – Alexandre de Rhodes individuò proprio in padre Buzomi, «il vero apostolo della Cocincina».

Nei primi dieci anni di attività della missione cocincinese, fra i ventuno componenti del clero presenti, si potevano contare dieci portoghesi e cinque italiani. Essi «inventarono» e diedero forma ad una nuova scrittura, il Quoc ngu, trascrizione fonetica della lingua vietnamita in caratteri latini, ancora oggi scrittura nazionale del Vietnam unificato, libero e indipendente.

Tra le figure di maggior spicco nel panorama ecclesiastico troviamo: Francesco de Pina, portoghese giunto nel Sud Vietnam nel 1617, il già citato Alexandre de Rhodes, francese, giunto nel 1624 – che apprese la lingua vietnamita proprio da de Pina – e l’italiano Cristoforo Borri (1583-1632), originario di Milano, che si stabilì nel Paese nel 1618 e visse prevalentemente a Nuoc Man (Regione di Binh Dinh).

A quanto pare, quest’ultimo aveva una particolare attitudine allo studio delle lingue. Contrariamente a de Rhodes che confessava di essere particolarmente scoraggiato di fronte alla complessità della fonetica vietnamita, simile al «cinguettio degli uccellini», Borri entrò in immediata sintonia con i toni e le ricche sonorità della lingua locale. Scriveva infatti: «La lingua vietnamita, con le sue numerose vocali, è soave e dolce ed essendo altresì ricca di toni e suoni, è melodiosa e armoniosa. Ritengo che, per tutti coloro che possiedono orecchio musicale e riescono a distinguere la differenza di toni e suoni, la lingua vietnamita sia in assoluto la più facile da apprendere».

Evidentemente, i missionari occidentali, nell’inventare il Quoc ngu, perseguivano il fine dell’evangelizzazione; tuttavia questa scrittura in caratteri latini avrebbe assunto un ruolo determinante nella storia e nella vita culturale del Vietnam. Ancora oggi, a oltre quattro secoli dal suo impiego in seno alla comunità vietnamita, non ci si è ancora resi pienamente conto del grande significato e della portata storica di tale evento. Occorre dire che, nel momento in cui la Chiesa portoghese non poté più assicurare la «propaganda» religiosa in Asia orientale, in seguito alla creazione della Société des missions étrangères, sorta nel 1668, furono i missionari francesi a concentrare nelle proprie mani la gestione dell’evangelizzazione in Vietnam, opera che assunse di fatto il significato di attività preliminare alla dominazione coloniale francese.

Modernità

Oggi, nel centro del Sud Est asiatico, il Vietnam è in rapido sviluppo economico. Uno sviluppo, anche culturale e umano, che il Paese vuole durevole e sostenibile. Prosegue un’esperienza sociale ed economica di grande interesse, con la crescita delle sue variabili macroeconomiche (dai flussi di import export all’attrazione di investimenti stranieri). A fronte di un avanzamento della sua popolazione, è divenuto un partner ambito e affidabile dell’Occidente. Ha senso pertanto oggi avvicinarsi, conoscere e visitare questo Paese per cercare di cogliere la sempre più articolata complessità di questo universo in transizione, poiché le impressioni vaghe e talvolta pregiudizievoli – di cui, da sempre, questo Paese è oggetto -, non si addicono al Vietnam, né alla sua gente, un popolo, come recita un antico adagio vietnamita, «che non smette di crescere». E, per avvicinarci a questo affascinante e orgoglioso Paese è inevitabile risalire al passato, per scovare le radici lontane di quella realtà che, di mutamento in mutamento, ha costituito, seppure sotto diverse denominazioni, l’odierno Vietnam.

Il cinquantenario

Quest’anno si celebra il 50° anniversario delle relazioni Italia-Vietnam. La ricorrenza segna un nuovo, importante tassello nella storia del rapporto fra i due Paesi. Le relazioni diplomatiche vivono oggi una stagione di grande intensità. L’Italia fu uno dei primi Paesi europei a stabilire relazioni diplomatiche ufficiali con il Vietnam (23 marzo 1973), nonostante l’orientamento della politica americana – volta allora a isolarlo dal contesto internazionale -, così come, nei lunghi anni dell’embargo statunitense, fu tra i primi Paesi a fornire aiuti.

Negli anni della cosiddetta «guerra americana», l’Italia fu protagonista di una vasta ondata di solidarietà a favore della popolazione vietnamita; il sostegno di quel tempo ha forgiato i sentimenti di amicizia e la volontà di scambio e cooperazione che ancora oggi legano la penisola italiana al Vietnam.

Nel corso dei cinquant’anni trascorsi, le relazioni si sono costantemente sviluppate e sono giunte oggi al culmine del consolidamento. Il partenariato strategico siglato nel 2013, ha sancito una nuova fase del comune percorso e ha determinato non solo il punto d’arrivo di un rapporto antico e fecondo, ma altresì l’esordio di nuovi scenari nelle relazioni bilaterali. Nel quadro della cooperazione economico-commerciale bilaterale, le istituzioni vietnamite hanno avviato efficaci collaborazioni con vari ministeri, enti e istituzioni italiane.

Accanto all’intensificazione delle relazioni diplomatiche ed economiche, nel corso di questi 50 anni, si è assistito, inoltre, allo sviluppo delle relazioni culturali e scientifiche fra i due Paesi.

In questo contesto, nel 2013, furono siglati memorandum d’intesa e programmi di azione in materia di cooperazione tra i due governi, nell’ambito dell’istruzione, della formazione e della ricerca scientifica. Negli ultimi anni, questi settori, hanno registrato importanti sviluppi e lo scambio in ambito accademico, scientifico e culturale, si è fortemente incrementato.

Tali risultati sono frutto di visite istituzionali, missioni ufficiali e tavoli di lavoro che i due Paesi hanno messo in atto dando prova di una cooperazione ad ampio raggio e di un dialogo costruttivo.

Gli aspetti più importanti di questo comune percorso hanno riguardato altresì la sicurezza: la collaborazione tra i rispettivi ministeri della Difesa, ad esempio, si è incentrata anche sull’elaborazione di strategie per garantire la sicurezza marittima, mantenere la pace e la stabilità nella regione Asean (Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico).

Si tratta, per il Vietnam, di una questione antica, ma di grandissima attualità dal punto di vista geopolitico, strategico, e giuridico. Il Mare orientale (Mar cinese meridionale, ndr) – quel «Mediterraneo d’Oriente» su cui si affaccia il Vietnam – è divenuto infatti uno dei grandi polmoni dell’economia mondiale.

Nazione in crescita

In un contesto di crisi globali, sfide climatiche e ambientali, epidemie e guerre, il Vietnam continua a mantenere la sua crescita grazie al rispetto dei principi essenziali del diritto internazionale, della carta delle Nazioni Unite, degli interessi nazionali e del suo popolo. È oggi un paese che mantiene una certa stabilità macroeconomica e promuove la crescita della nazione, aumentando le esportazioni e sostenendo nel contempo lo sviluppo a lungo termine.

Il Vietnam intende oggi preservare un ambiente pacifico, proteggere la sua indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale e migliorare la sua posizione internazionale.

Il 2022 è stato un altro anno di successo per il Vietnam che, negli ultimi trent’anni, ha ottenuto notevoli risultati, permettendogli di costruire una rete diversificata di partenariati globali e strategici per mantenere un alto livello di sviluppo socio-economico e guadagnare prestigio a livello regionale e internazionale. Fra questi, il partenariato siglato dall’Italia e altre nazioni. Oggi il Vietnam continua a promuovere la sua partecipazione attiva e responsabile e a offrire i suoi contributi a importanti organizzazioni multilaterali come le Nazioni Unite, l’Asean, l’Apec (Asia-Pacific economic cooperation).

Nel corso del 2022, il Paese è stato eletto a molti incarichi da importanti organizzazioni internazionali, tra cui quelli di vicepresidente della 77a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e di membro del Comitato intergovernativo dell’Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale per il mandato 2022-2026.

La diplomazia economica da parte del Vietnam ha contribuito a mantenere la stabilità macroeconomica promuovendo la crescita economica della nazione, aumentando le esportazioni e attingendo a varie risorse esterne, sostenendo nel contempo la riforma economica e lo sviluppo a lungo termine.

La società vietnamita del terzo Millennio

Il Vietnam è poco più grande dell’Italia ma ha una popolazione di circa cento milioni di abitanti. Un popolo giovane, colto e laborioso. La società vietnamita è estremamente aperta e ricettiva al cambiamento; è inoltre la più ottimista del mondo (secondo la Gallup international). Sono oggi emerse nuove classi e nuovi ceti e il contrasto tra città e campagna ha assunto moderni connotati. Nonostante i risultati raggiunti, sono numerose le sfide che il Paese deve ancora affrontare, come ad esempio nel campo della qualificazione professionale. È pur vero che il partito comunista vietnamita, evitando di contrapporre modernità e tradizione ed evocando la società civile in ragione della sua conclamata coesione, insiste su temi come la «socializzazione culturale», la solidarietà, il comune interesse nel contesto dello sviluppo economico della nazione e, così facendo, per certi aspetti, solletica l’orgoglio nazionale.

I principali tratti del discorso ufficiale, pur nell’interesse della collettività, puntano sulla promozione dell’individuo e sulla sua unicità: per mantenere l’alto grado di fiducia che la popolazione gli riserva, lo stato-partito deve oramai recepire e adattarsi alle nuove aspettative e alle nuove costruzioni identitarie e simboliche della comunità nel suo insieme. Il Paese è destinato a divenire il centro di gravità nell’Asia del sud est, hub strategico per commercio e business nonché punto nevralgico delle relazioni internazionali. Posta di fronte a precise scelte, pur nell’attuale prosperità, la nazione vietnamita (che con l’adozione della politica del Doi Moi ha mostrato di saper affrontare le incognite dello sviluppo), deve inoltre confrontarsi con una congiuntura mondiale particolarmente complessa. Del resto, è difficile mettere in discussione la leadership del partito che è riuscito a ridare dignità internazionale, indipendenza, unità e crescita al paese.

Prospettive di cooperazione

La salda amicizia che lega Italia e Vietnam è cresciuta sia sul piano della cooperazione sia sul piano istituzionale, sino alla ratifica del partenariato strategico nel 2013. Essa si è via via intensificata sino a coprire, accanto ai tradizionali ambiti economici, turistici e culturali, nuovi settori: dall’economia verde a quella digitale e altro ancora. Nel corso di questi cinquant’anni sono stati raggiunti numerosi traguardi al punto che, oggi, il Vietnam è il principale partner commerciale dell’Italia tra i Paesi dell’Asean mentre l’Italia è il quarto partner commerciale del Vietnam tra i Paesi Ue. Basti soltanto considerare che nel 2022, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, l’interscambio commerciale bilaterale ha raggiunto quota 6,2 miliardi di dollari, in crescita dell’11% rispetto all’anno precedente.

Il Vietnam è un Paese che non evoca più soltanto la memoria di una lunga guerra ma si compone di una realtà complessa, affascinante e dinamica.

Sandra Scagliotti*

 *Docente di storia e letteratura del Vietnam all’Università di Torino, e visiting professor presso università in Canada, Francia e Vietnam; cofondatrice del «Centro studi vietnamiti», cofondatrice della «Camera di commercio Italia-Vietnam»; cofondatrice della «biblioteca di studi vietnamiti Enrica Collotti Pischel»; è console onorario del Vietnam a Torino.


Nota: in un prossimo numero, approfondiremo con il contributo di un collaboratore dal Paese.

 

 




«La fotografia della Consolata»


Dal bollettino del santuario condividiamo – nello stile originale – il racconto di come sia stata realizzata la prima «esatta riproduzione» del quadro della Madonna tanto amata a Torino e poi considerata fondatrice dei missionari e missionarie che da lei prendono il nome.

Coll’animo pieno di gioia diamo ai nostri lettori la bella notizia, e la stampiamo in capo al periodico: ben presto, fra una quindicina di giorni al più, i divoti di Maria potranno contemplare, ammirare, possedere la vera fotografia della Madonna della Consolata.

– Oh come mai! – chiederà taluno stupito a quest’annunzio – non esisteva già la riproduzione esatta della cara e venerata Immagine? A centinaia, a migliaia corrono tuttodì i lavori litografici, eliotipici, fotografici con l’epiteto di vera effigie di Maria SS. della Consolata: tra tutti questi non avremo la copia genuina del quadro miracoloso? –

Domanda naturalissima, alla quale rispondiamo: – Esisteva e non esisteva. – Un po’ di storia spiegherà per noi. Il desiderio di avere riprodotta, di portar via con sé la soave figura della Vergine Consolatrice è antico, crediamo, quanto antica è la divozione alla Celeste Patrona di Torino e del Piemonte. Ma parecchi erano gli ostacoli che si opponevano al compimento del pio desiderio. L’antichità del quadro, il conseguente affievolimento dei colori, la sua posizione, la gelosa custodia in che era tenuto, tutto si opponeva, tutto concorreva a renderne difficile, quasi impossibile la esatta riproduzione a mano libera. Ma non per questo ristavano i divoti dal provare e riprovare. L’invenzione ed il primo perfezionarsi dell’arte fotografica parvero schiudere finalmente l’adito alle speranze più fondate, e non mancò chi tosto s’accingesse all’opera.

Nel 1872 il Direttore dell’Ospizio delle Suore Cieche di S. Paolo a Parigi, ottenuta una grazia segnalatissima ad intercessione di Maria Consolatrice (Vedi N. 6 del Periodico), ne fa fotografare, col permesso dell’Arcivescovo di Torino, la divota Immagine dall’avv. Pietro Ferdinando Giani; porta una copia della fotografia con sé a Parigi; un’altra è umiliata ai piedi di S. S. Pio IX, che, graditala, di suo pugno vi scrive su parole di benedizione e di lode agli autori. Di questa prima prova, quantunque infelicissima, a migliaia andarono a ruba le copie.

Nel 1879 il Rettore del Santuario, Canonico Bartolomeo Roetti di v. m., per ottenere un risultato migliore, dà incarico di un nuovo tentativo di riproduzione al fotografo distintissimo signor Berra, che, quantunque armato di apparecchi buoni e di migliore volontà e valore artistico, non riesce purtroppo nell’intento. L’antichità, come dicemmo, del quadro, la debolezza delle tinte, i colori antifotogenici che abbondano nel dipinto, il poco o nessun distacco dei panneggiamenti dallo sfondo, fecero sì che nel fototipo (lastra negativa) non si ebbe che una figura molto indeterminata, disturbata da una grande quantità di macchie e macchiette tanto da parere, diremmo una ragnatela. Furono perciò necessari molti ritocchi, i quali resero la riproduzione fotografica, che è quella attualmente in commercio, molto lontana dal vero.

Il desiderio dei divoti rimaneva perciò vivissimo ed a soddisfarlo finalmente ha pensato e provvisto l’attuale Rettore, invitando a ritrarre la taumaturga effigie l’egregio avvocato Secondo Pia, che i numerosi e insuperabili lavori artistici e l’insperata riproduzione della SS. Sindone resero conosciutissimo ed ammirato dagli intelligenti e dal popolo.

Ed egli vi si accinse con tutto l’amoroso zelo e l’accurato studio che la nobiltà e la difficoltà dell’impresa richiedevano, e, come già per la SS. Sindone, senza altro corrispettivo che la riconoscenza dei divoti, le cui preghiere gli attireranno, siam certi, le più elette benedizioni della Consolata.

Di due sorta erano le difficoltà che gli stavano di fronte: l’illuminazione conveniente del quadro; le tinte poco fotografabili.

A vincere la prima, col permesso di S. E. l’Arcivescovo, rotti i sigilli alla presenza dei testimoni, la miracolosa effigie fu tolta dalla sua cornice d’argento e posta in un ambiente ad arte illuminato, inondato di luce gialla. Chi non è dentro le segrete cose dell’arte fotografica non potrà mai immaginarsi quante cure e minuziose attenzioni siano richieste per evitare su di un quadro antico da ritrarre i riflessi, le luci false, la disuguaglianza d’illuminazione che si deve produrre sulle sue diverse parti.

A vincere la seconda, invece delle lastre fotografiche ordinarie (sulle quali certi colori producono effetti esagerati, altri troppo deboli, altri contrari affatto all’impressione che fanno nell’occhio) furono adottate quelle di invenzione recentissima dette ortocromatiche, le quali ricevono l’impressione delle tinte con la stessa intensità graduale e con la stessa tonalità con cui l’occhio le percepisce, non dànno assolutamente, per questo lato, effetti falsi, non richiedono ritocchi lunghi e delicati sul fototipo.

Con la stessa macchina che servì per la SS. Sindone, producente fotografie di cm. 60 x 50, si fecero parecchie pose, nessuna delle quali richiese meno di quattro ore di esposizione; e finalmente, dopo un assiduo lavoro di più giorni, si riuscì ad ottenere una copia fotografica così buona da superare le aspettative degli intelligenti. L’avvocato Secondo Pia, fotografo della Sindone, sarà anche d’ora innanzi il fotografo della Consolata!

Tra l’una posa e l’altra la cara effigie venne sempre ricollocata alla venerazione dei fedeli, che con le loro preghiere, senza saperlo, hanno certamente concorso alla felice riuscita del difficile lavoro.

Ed ora, data la bella notizia, non ci rimane che coronarla con un augurio.

La figura, fedelmente ritratta della nostra dolce e soave Consolata, presto entri in tutte le case, in tutti gli istituti, in tutte le famiglie, in tutte le camere della città e della campagna, nel Piemonte, nell’Italia, e porti seco la benedizione materna di Maria. Affissandosi in Lei ritrovi ciascuno la forza del bene, la consolazione nel dolore, la speranza vivace del Paradiso!

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Abbiamo riportato alla lettera il testo come pubblicato sul periodico «La Consolata» nel numero di dicembre del suo primo anno di vita, il 1899.
È una pagina davvero speciale di storia della fotografia, ma soprattutto di amore alla
Consolata.

Il testo non è firmato, ma il direttore della rivista è il canonico Giacomo Camisassa, con l’aiuto di Gilardi Antonio, gerente responsabile.

a cura di Gigi Anataloni

 




Un missionario medico per amore


Dopo due anni di attesa e rinvii a causa della pandemia, il missionario comboniano è stato finalmente riconosciuto beato il 20 novembre scorso, durante una celebrazione eucaristica nella sua missione di Kalongo, nel nord dell’Uganda. Il suo nome compare ora nella schiera di Santi e di Beati che la Chiesa già venera.

Medico missionario comboniano, spese la sua vita a servizio degli ultimi facendosi interprete del Mandatum novum conferito da Nostro Signore agli Apostoli duemila anni fa. Fonte inesauribile di idee e di iniziative, padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), oltre che interlocutore mai banale e generoso di spunti e suggestioni, non temeva di parlare della morte, ma lottava per tenerla lontana dai suoi pazienti, sfidando ogni sorta di malattia. Per lui la medicina era un modo concreto per rendere intelligibile la Buona Notizia e, da questo punto di vista, la testimonianza da lui manifestata in sala operatoria o in corsia era, a dir poco, strabordante.

Appassionato del Regno di Dio, era pienamente consapevole delle proprie responsabilità. Emblematico è quanto egli scrisse ai suoi cari: «Le persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura».

Il servizio agli ammalati per lui era una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione. Come ha scritto pertinentemente di lui padre Arnaldo Baritussio, postulatore della sua causa: «Padre Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa come annuncio attraverso la Parola e i sacramenti in vista della fondazione di una Chiesa locale. Pur senza mettere in discussione questa opzione di fondo, ha contribuito con l’offerta della sua professionalità medica ad allargare il concetto e la realtà dell’annuncio. Il servizio agli ammalati è una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione».

Medico e missionario

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, in provincia di Como, era uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Dal 1942 al 1950, il giovane Ambrosoli completò la sua formazione classica e professionale e pose le basi di una solida spiritualità che aveva già avuto modo di manifestarsi nell’apostolato tra i giovani dell’Azione Cattolica.

Con grande zelo, si iscrisse alla facoltà di medicina con il desiderio di partire per la missione: «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore»,  spiegò ai propri familiari.

Nel 1949 fece visita al superiore dei Comboniani di Rebbio (Como) con l’intento di mettere a servizio della missione ad gentes la sua qualifica di medico. Ricevuto l’assenso, chiese un periodo di riflessione prima di decidere definitivamente di entrare nella congregazione. Conseguita la specializzazione in medicina tropicale al «Tropical Hygiene» di Londra, con entusiasmo e senza rimpianti, si lasciò alle spalle l’agio della condizione familiare e una carriera medica che si prospettava brillante in patria.

Fece il suo ingresso nel noviziato comboniano di Gozzano, in provincia di Novara, il 18 ottobre 1951, e quattro anni dopo, il 17 dicembre 1955, venne ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano e futuro papa Giovanni Battista Montini. Questo periodo segnò propriamente il completamento della formazione religiosa e teologica di padre Ambrosoli.

Uganda

Il 10 febbraio del 1956 partì per l’Uganda, con destinazione Gulu, capoluogo dei territori nord del Paese. Da qui si trasferì a Kalongo nell’East-Acholi, mentre seguiva e terminava gli studi dell’ultimo anno di teologia al seminario intervicariale di Lachor a Gulu. Il suo servizio missionario si svolse in quella porzione del popolo Acholi che occupava l’estremo Est dell’attuale arcidiocesi di Gulu.

La geografia di quelle terre, è bene rammentarlo, è anni luce distante dal nostro immaginario non foss’altro perché rappresenta un unicum all’interno della stessa Africa subsahariana. Stiamo parlando dell’Uganda settentrionale, un’immensa pianura ondulata, con un’estensione di circa 50mila chilometri quadrati, rotta di quando in quando da qualche boscaglia e da montagne rocciose che si ergono maestosamente e danno un’immagine plastica a un paesaggio in cui il cielo equatoriale sembra abbracciare tutto ciò su cui veglia.

L’altitudine media di questo territorio si aggira attorno ai mille metri sul livello del mare, ma questo non impedisce che sia una delle zone più calde dell’Uganda. A settentrione la pianura s’innalza leggermente verso le montagne di Ogoro e di Paloga, che servono come confine naturale con il Sudan meridionale; si tratta di alture che un tempo venivano utilizzate come rifugio dai ribelli. Il paesaggio è comunque seducente agli occhi di qualunque viaggiatore. Vi sono immense savane, nella stagione delle piogge, dall’erba altissima, con qualche boscaglia in cui è possibile trovare refrigerio quando il sole è allo zenit.

Kalongo

È proprio nel settore orientale di questo territorio, a valle di un’enorme e suggestiva spina vulcanica di granito con un dislivello di 500 metri, il monte Oret, che si erge la piccola e ospitale cittadina di Kalongo. è qui che padre Ambrosoli trascorse il resto della sua vita, esattamente 31 anni, dal 19 febbraio 1956 al 13 febbraio 1987.

Quando vi giunse, trovò un piccolo centro di maternità e un dispensario che trasformò in un vero e proprio ospedale. Nel 1959 fondò, sempre a Kalongo, con l’aiuto della consorella comboniana suor Eletta Mantiero, la Scuola per ostetriche e infermiere. Nel 1972 poi, si fece carico anche dei lebbrosari di Alito e Morulèm.

Gli unici intervalli in cui si assentò da Kalongo, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate in autentici tour de force per accrescere le sue molteplici competenze nel campo chirurgico e procurare fondi per il complesso ospedaliero. La comboniana suor Caterina Marchetti descrive così una giornata di lavoro di padre Ambrosoli: «Incominciava con la sala operatoria verso le 7.30 del mattino e finiva alle 13.30 e a volte anche oltre. Rientrava per il pranzo; poi una breve pausa di riposo e quindi in dispensario a visitare gli ammalati fino alle 8 di sera. Subito dopo rivedeva gli operati della mattina e poi andava a cena. In seguito lo si vedeva recitare il rosario camminando nel cortile della missione, poi andava in chiesa dove rimaneva parecchio tempo. Prima di andare a letto rivedeva i conti o scriveva lettere. Le sue ore di sonno erano molto poche. Spesso di notte lo chiamavamo in maternità per emergenze di ostetricia. Uno si domanda come facesse, anche perché molto tempo lo dedicava alla preghiera».

Aneddoti

La fama di questo medico missionario si diffuse un po’ ovunque, non solo in territorio Acholi, ma anche tra altri gruppi etnici della regione come i Lango, i Kuman e i Teso. A questo proposito sono numerosi gli aneddoti che ne descrivono la popolarità.

Chi scrive, ad esempio, una volta ricevuta l’ordinazione diaconale, nel maggio del 1985, un giorno si recò per impartire i battesimi in un villaggio, nei pressi del lebbrosario di Alito, a un folto gruppo di catecumeni. Il primo di loro pretese di essere battezzato con il nome di «Doctor Ambrosoli». All’obiezione se non fosse più conveniente essere chiamato «Giuseppe», si oppose strenuamente perché era stato il «Doctor Ambrosoli» a salvargli la vita nel suo ospedale. Sta di fatto che da quelle parti sono molti coloro che portano quel nome.

Ciò che colpiva maggiormente i pazienti di Kalongo era la straordinaria capacità di padre Ambrosoli di infondere speranza. Non si trattava di semplice coerenza professionale, ma di una partecipazione totale, dal profondo del proprio essere, a quello che stava testimoniando, tanto da suscitare nella gente un religioso rispetto nei suoi confronti. D’altronde era un contemplativo con l’anima e con il cuore.

«Ajwaka Madid»

Inizialmente venne soprannominato «Ajwaka Madid», lo «stregone bianco». Poi, per la sua carica spirituale, venne chiamato «medico della carità».

Il servizio missionario di padre Ambrosoli venne scandito da diversi avvenimenti che segnarono positivamente e anche tragicamente la storia d’Uganda della seconda metà del Novecento. Visse infatti la parte finale della stagione coloniale britannica, a cui seguirono l’indipendenza, l’ascesa al potere di Milton Obote, l’avvento del dittatore Idi Amin Dada, il ritorno di Obote e l’ascesa dell’attuale presidente Yoweri Museveni.

Gli ultimi anni della sua vita furono segnati in particolare dalla guerriglia di cui ancor oggi il nord Uganda conserva profonde ferite.

Proprio in seguito ai ripetuti scontri tra forze governative e fazioni ribelli, il 13 febbraio 1987, fu costretto a evacuare l’ospedale di Kalongo. Si pose allora per lui la questione più spinosa: quella di trovare un posto conveniente alla sua creatura più amata: la scuola per ostetriche e infermiere. Sottopose così la sua salute, già gravemente compromessa, a sforzi enormi che, alla fine, lo condussero alla morte per insufficienza renale.

Il pomeriggio del 27 marzo 1987 si spense a Lira, 44 giorni dopo essere stato costretto ad abbandonare la sua Kalongo.

1958, Kalongo, padre Giuseppe Ambrosoli con le allive della scuola infermiere e suore Comboniane

Il miracolo

Com’è noto, per la beatificazione è necessario il miracolo, vale a dire il sigillo che la Chiesa affida a Dio per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per la sua congregazione, per la Chiesa locale che l’ha visto nascere, e poi per quella comunità che l’ha accolto nell’adempimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha poi conservato il corpo e la memoria.

Di guarigioni e cure straordinarie padre Ambrosoli ne aveva ottenute in vita, ma quella che canonicamente è stata riconosciuta come un vero e proprio miracolo dalla Chiesa è quella avvenuta nel 2008 nell’ospedale di Matany, nella regione del Karamoja, nell’estremo nord est dell’Uganda, che ha coinvolto una giovane mamma di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir.

La donna, perso il figlio che portava in grembo, stava per morire di setticemia. Dal punto di vista clinico, non c’erano più speranze di salvarla. Ma il medico che la stava seguendo, Eric Dominic, di origini torinesi, le mise sul cuscino l’immagine di padre Ambrosoli e chiese ai familiari di invocare «il grande dottore». La mattina dopo Lucia apparve come rinata.

L’allora vescovo di Moroto, monsignor Henry Apaloryamam Ssentongo, sotto la cui giurisdizione si trovava la parrocchia di Matany, venuto a conoscenza del fatto, volle che si raccogliesse tutta la documentazione per sottoporla allo studio della Congregazione delle cause dei santi.

Così il 17 settembre 2010 iniziò il processo del presunto miracolo. Vennero convocati i testimoni presenti al fatto, oltre a due medici specialisti e due periti. Raccolta anche tutta la documentazione clinica, il processo si concluse positivamente quasi un anno dopo a Moroto, il 21 giugno 2011. Successivamente, questa guarigione venne decretata come «straordinaria e inspiegabile» dalla commissione medica istituita dalla Congregazione per le cause dei santi.

Una scelta d’amore

Un medico che lavorò fianco a fianco con padre Ambrosoli, ha scritto questa testimonianza: «Egli può essere considerato una figura radicalmente esemplare: non tanto per la sua bravura e polivalenza chirurgica, né per la sua capacità organizzativa e gestionale, e neppure per la scelta degli “ultimi”, come si usa dire oggi. Nonostante tutto ciò rimanga innegabilmente vero, è soprattutto per aver fatto una scelta di servizio e quindi di amore, supportata da una forte capacità organizzativa, che la sua figura diviene esemplare. La sua fu una scelta operata non per vanagloria o smania ascetica e autorealizzativa, quanto invece per rispondere, in umiltà e ubbidienza, quindi “negando se stesso”, a un invito di amore e di servizio basato sulla fede che è come attuazione del comandamento divino di “amare il prossimo”». Questo è l’elemento fondamentale che, secondo il postulatore della causa, padre Baritussio, conferisce all’opera di padre Ambrosoli un significato universale: «Accessorio e accidentale è il fatto che tutto questo egli lo abbia realizzato in un ospedale della savana africana. Essenziale invece, è che tale scelta di servizio “tecnico”, basata sulla fede come adesione operativa al Padre celeste, egli l’abbia realizzata integrandola direttamente in una prospettiva pastorale: carità al servizio del Vangelo ossia al servizio di un “annuncio di salvezza”. Questa è la ragione per cui padre Ambrosoli, nel suo operare, non è rimasto succube di una contraddizione tra sacerdozio e professione, ma ha saputo utilizzare l’una a vantaggio dell’altra realizzando tra le due una perfetta integrazione al servizio dell’uomo in un’ottica di fede».

L’ospedale vive

L’opera del beato Ambrosoli ha trovato un felice prosieguo nell’impegno profuso da un altro medico missionario, padre Egidio Tocalli (che riaprì l’ospedale nel 1990) e dalla Fondazione Ambrosoli, costituita nel 1998 dai suoi familiari e dai comboniani. Motivo per cui ancora oggi i pazienti di Kalongo non possono fare a meno di dire: «Apwoyo, Brogioli», grazie padre Ambrosoli. Una testimonianza, la sua, di fedeltà all’ideale comboniano di «salvare l’Africa con l’Africa».

Giulio Albanese

Tomba del beato nel cimitero di Kalongo