Vietnam. Un solo partito, tante speranze


Le prove di avvicinamento tra uno degli ultimi Paesi comunisti e il Vaticano sembrano dare frutti. Ma i punti di vista sono diversi e occorre tempo. Intanto la società vietnamita evolve rapidamente. E la Chiesa locale fatica a stare al passo. Reportage.

Hanoi. È sera. Siamo seduti sulle basse sedie che si usano qui, sul marciapiede di fronte al piccolo bar, bevendo una bibita per contrastare il caldo e l’umidità della giornata. Siamo sul ciglio di una strada che si immette nella rumorosissima e centrale via Hang Bong. I marciapiedi sono usati come parcheggio di motorini, posizionamento di mercanzia di ogni tipo, e, appunto, come spazi per sedie e tavolini. Per camminarci sopra, occorre fare uno slalom continuo.

Ci troviamo nel centro della città, vicino al cosiddetto quartiere vecchio, e non lontano dal lago Hoan Kiem, ombelico di questa metropoli di otto milioni di abitanti. Qui, al contrario di altri quartieri più moderni, ci sono ancora gli altoparlanti agli incroci che trasmettono messaggi di comunicazione del Governo.

Questa sera, il 19 luglio, sentiamo ripetersi due messaggi di pochi minuti, ma non ci facciamo caso più di tanto, anche perché, essendo in vietnamita, non capiamo nulla.

Sono circa le 18. Solo mezz’ora più tardi mi arriva un messaggio da un’amica di Hanoi che rimanda un appuntamento, perché «è morto il Segretario generale del partito». Verifico rapidamente: Nguyen Phu Trong è deceduto poco dopo le 13, dicono vari siti vietnamiti.

Era l’uomo forte del Paese, la carica più importante. Gli altri tre sono il presidente della Repubblica, che ha compiti più rappresentativi, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale. Trong, inoltre, non è stato un segretario generale come gli altri.

Vietnam. Cartelloni politici a Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Chi era Nguyen Phu Trong

In carica dal 2011, aveva iniziato un terzo mandato nel 2021. Fatto inusuale perché di solito ci si ferma a due. Ma soprattutto è stato un leader che ha saputo posizionare il Paese a livello internazionale e mantenere buoni rapporti con tutte le grandi potenze, applicando la «diplomazia del bambù»: pianta robusta, ma flessibile e con salde radici. Basti pensare che, da settembre 2023 a giugno 2024, Trong ha ricevuto Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. Trong ha condotto una lotta anticorruzione interna al Partito comunista vietnamita (Pcv), chiamata «braci ardenti», e ha spinto lo sviluppo economico che sta avendo il Paese. «È stato un uomo che si è dedicato alla patria», ci dice un osservatore straniero che da anni vive in Vietnam.

Per la sua morte, vengono decretati tre giorni di lutto nazionale e celebrati solenni funerali di Stato in tre località: Hanoi, la capitale, Città Ho Chi Minh, ex Saigon (ma ancora sovente chiamata così) capitale del Sud, e a Lai Dà, il suo villaggio di origine, nei pressi di Hanoi.

Il giorno dopo, l’atmosfera cittadina non pare molto cambiata. Il traffico è caotico come sempre. Migliaia di motorini inondano le strade, mentre a ogni angolo, a ogni via, c’è un localino in cui mangiare e gente seduta davanti a una scodella di zuppa.

I giornali e i siti sono usciti in colore nero anziché rosso, mentre sui social impazzano commenti. Un’amica di Hanoi ci mostra alcune foto del segretario da giovane, prese dal suo profilo Facebook.

Sulla spianata di fronte al mausoleo di Ho Chi Minh, il padre del Vietnam moderno, i turisti stranieri, ma anche molti vietnamiti da varie province del Paese, scattano foto ricordo.

Una presenza sicura

Il Partito comunista del Vietnam (Pcv), partito unico al governo della Repubblica socialista del Vietnam, sembra sullo sfondo. Nella realtà, è bene presente nella società vietnamita.

Arrivati all’aeroporto di Città Ho Chi Minh, la prima cosa che vediamo uscendo all’aperto sono tre gigantesche bandiere rosse con al centro il simbolo della falce e il martello in giallo, la bandiera del partito.

Bandiere grandi e piccole del Paese (stella gialla su sfondo rosso) sono presenti un po’ ovunque, talvolta con discrezione, come sui pali della luce, talvolta in modo più appariscente, come le grandi stelle di neon colorati a Città Ho Chi Minh e Nha Trang, o le centinaia di bandierine appese ai fili che attraversano alcune vie pedonali della movida. Poi, nelle diverse città, ci sono grandi cartelloni propagandistici, come quelli dei 70 anni della vittoria contro i francesi a Diem Bien Phu (maggio 1954) che mise fine all’occupazione coloniale, o quelli su Ho Chi Minh, o ancora sulla scuola o altri servizi dello stato.

Sono cartelloni con disegni in tipico stile comunista, come si vedevano nei paesi socialisti europei e in Unione Sovietica, ma qui stonano accanto ai mega schermi, diffusi nelle grandi città, che promuovono a ritmo continuo le grandi marche occidentali di ogni cosa, lusso compreso.  Eppure, ci conferma un nostro interlocutore straniero, che chiede di mantenere l’anonimato: «C’è un certo controllo da parte del Governo, e anche in modo capillare. Di noi stranieri sanno tutto, in particolare di chi vive nelle città. Dopo la pandemia da Covid-19, inoltre, c’è stata una stretta, dovuta anche alla maggiore instabilità a livello mondiale». Uno degli strumenti usati per monitorare le persone è attraverso i social network e le app di messaggistica, come la vietnamita «Zalo», che il nostro interlocutore dice essere «in mano all’esercito». «Nelle grandi città, a livello di quartieri, la polizia si avvale di informatori locali che riportano di passaggi e movimenti inusuali, come visite dall’estero», conclude.

Vietnam. Città Ho Chi Minh, la via Bui Vien famosa per i locali notturni. (Foto Marco Bello)

Sorrisi e controllo

Un altro straniero, che ha vissuto a lungo nel Paese, ci conferma: «Il governo è presente, deve verificare cosa dice la gente. Se un giornalista o una persona della Chiesa critica, dopo può avere dei problemi. Il Governo dà un po’ di libertà e poi le riprende. Ci sono movimenti di apertura seguiti da altri di chiusura. Ma è difficile sapere qual è il livello di denuncia e controllo, soprattutto quando vivi sul posto».

Continua: «Devo dire però che non è una nazione che vive nell’oppressione ogni giorno. I vietnamiti hanno la propria vita personale, il loro quotidiano, il piacere di mangiare insieme, incontrare gli amici, uscire dalla città a vedere posti nuovi. Ci sono tante cose positive. Non è un paese in cui manchi la gioia».

Questo lo si vede in tutte le città. Dai giovani che affollano i locali di tendenza sul lungofiume del Saigon a Città Ho Chi Minh, dagli innumerevoli ristoranti, dalle manifestazioni musicali e fiere, dai coloratissimi áo dài indossati dalle donne. E dai parchi cittadini o i viali resi pedonali e abbelliti da luci colorate, nei quali le famiglie vanno a passeggiare la sera. Un qualsiasi viaggiatore osserverà molta vitalità, voglia di divertirsi, di stare insieme e mangiare bene.

Sebbene sia un popolo di persone generalmente riservate, notiamo una certa attitudine al sorriso. Basta guardarsi e ci si sorride.

Vietnam. Megaschermo installato sulla riva destra del fiume Saigon, di fronte al centro di città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Le sfide irrisolte

Il vero aspetto negativo di questo sistema sembra essere la presenza di alcune importanti sfide sulle quali non è possibile aprire un dibattito, proprio perché non ci sono gli spazi di confronto, per cui non si discutono e, molto sovente, non vengono affrontate.

Il nostro testimone ce ne elenca alcune. «L’educazione è una grande sfida. È ancora di tipo tradizionale e non prepara i giovani alle difficoltà del lavoro moderno. Occorre allocare dei fondi per andare in questa direzione. Un’altra sfida è l’arricchimento di una piccola parte della popolazione, che poi tende a mandare i figli a studiare all’estero. La speculazione immobiliare, molto diffusa. L’abbandono delle campagne da parte dei giovani, perché la vita è meno confortevole, per andare a ingrossare le città. La mancanza di investimenti sulla cultura e sull’arte. Anche da questo si vede il livello di sviluppo di un Paese. E poi non c’è una rilettura critica della storia».

Per contro, a livello sociale, nelle grandi città del Vietnam non esistono quartieri molto poveri o degradati, come ci sono in Europa, nelle periferie di Parigi o Roma, tanto per fare due esempi.

È pur vero che si tratta di una società che viene dal mondo rurale e si è modernizzata rapidamente, negli ultimi venti o trent’anni.

Vietnam. Il portale di uscita della chiesa Sacro Cuore di Gesù di Cholon, il quartiere cinese di Città Ho Chi MInh. (Foto Marco Bello)

La Chiesa che c’è

A Città Ho Chi Minh visitiamo una comunità dei padri dello Spirito Santo. Attualmente sono tutti vietnamiti. Ci dicono che hanno una buona collaborazione con il Governo. Ad esempio, nelle attività di assistenza alle fasce più disagiate della popolazione. «Un ente dello Stato ci fornisce riso che distribuiamo ai poveri – ci conferma padre Peter -. Inoltre, noi religiosi siamo stati molto apprezzati durante il periodo della pandemia, grazie al volontariato che facevamo per contrastare l’emergenza». I missionari dello Spirito Santo sono presenti nel Paese dal 2007. Stanno lavorando in particolare in una zona rurale di recente urbanizzazione, vicina alla metropoli. Qui c’è una popolazione immigrata, giunta da varie provincie interne del Paese per lavorare nelle grandi fabbriche di manifattura, che in quest’area (come anche alla periferia di Hanoi) si trovano in grande numero.

Ci sono diverse altre congregazioni presenti in Vietnam, come i Salesiani, presenza storica, o i Camilliani, con le loro attività in ambito sanitario. Il rapporto con le autorità è generalmente buono, ma ovviamente, non si deve entrare nella sfera politica.

Più in generale, la Chiesa cattolica in Vietnam è coesa, forse a causa delle persecuzioni che ha subito in passato e anche nella storia recente.

Oggi è diverso, ed è in corso un processo di avvicinamento, anche ufficiale, tra il Vaticano e la Repubblica socialista del Vietnam. Le relazioni diplomatiche ufficiali si erano interrotte nell’aprile 1975, quando la Repubblica democratica del Vietnam (il Nord) insieme alla guerriglia rivoluzionaria del Sud (i cosiddetti vietcong) vinsero la guerra contro la Repubblica del Vietnam (governo del Sud) e i suoi alleati statunitensi.

Un avvicinamento costante

I rapporti sono ripresi timidamente nei primi anni Novanta. Dal 2010 è stato costituito un gruppo di lavoro congiunto Vietnam-Santa Sede che si occupa di questo processo. I lavori hanno inizialmente portato a scambi e visite ufficiali di rappresentanti del Vaticano e poi alla presenza della figura di un Rappresentante pontificio non residente dal 2011. Il 27 luglio 2023 il presidente Vo Van Thuong è stato in visita da papa Francesco. Lo stesso giorno la delegazione vietnamita ha incontrato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ed è stato firmato un accordo per l’istituzione di un Rappresentante pontificio residente (Rpr). Una figura ad hoc che, di fatto, espleta le funzioni di nunzio, senza però esserlo. Il presidente Vo ha anche invitato papa Francesco a visitare il Paese (Vo si è dimesso nel marzo di quest’anno, nell’ambito della campagna anticorruzione, e a maggio è stato nominato l’attuale presidente To Lam).

Il 23 dicembre scorso, monsignor Marek Zalewski, nunzio apostolico a Singapore e già rappresentante non residente in Vietnam, è stato nominato rappresentante pontificio residente. Ha quindi aperto l’ufficio di rappresentanza nella capitale Hanoi, a gennaio di quest’anno. L’auspicio espresso da papa Francesco durante l’incontro con il presidente Vo, ripreso poi da monsignor Zalewski, è stato: «Che cattolici del Vietnam realizzino la propria identità di buoni cristiani e buoni cittadini». Frase che sottolinea l’importanza dello Stato.

Vietnam. Celebrazione di un matrimonio nella cattedrale di Nha Trang. (Foto Marco Bello)

Le porte sono aperte

I cattolici in Vietnam sono circa 7 milioni su 100 milioni di abitanti. Questo rendendo la religione cattolica seconda per fedeli, mentre la prima è il Buddhismo con oltre 10 milioni di vietnamiti che si dichiarano tali. «Il numero di cattolici è in crescita – ci dice don Joseph Ta Minh Quy, rettore della cattedrale di Hanoi, che in passato si occupava di comunicazione per l’arcidiocesi -. Però è un po’ inferiore della crescita della popolazione».

Continua don Joseph, che ci ha accolti nel suo ufficio dietro la cattedrale: «I cattolici del Nord sono molto attivi, amano gli incontri di famiglia, di comunità. Sono molto socievoli. Il concetto di comunità è molto forte. Nel Sud è un po’ diverso, e c’è un investimento maggiore sul rapporto personale e sulla fede».

Nelle diverse città del Vietnam, i cattolici non si nascondono. Abbiamo visto ovunque chiese sormontate da grosse croci e rese molto evidenti, spesso illuminate di notte. Continua don Joseph dicendo che il rapporto con il Governo è buono: «Nei nostri spazi possiamo fare tutte le attività che vogliamo, senza alcun problema. Diverso è se vogliamo occupare suolo pubblico, allora occorrono degli speciali permessi. C’è poi abbastanza differenza tra la città e la campagna. In ogni caso, là dove siamo, le nostre porte sono aperte e invitiamo chiunque a venire».

«Una sfida della Chiesa in Vietnam oggi – ci dice uno dei rari missionari nel Paese -, è l’influenza della società secolarizzata. Tanti, soprattutto i giovani, si stanno allontanando. Anche a causa della migrazione interna. Molti di loro lasciano le province per le grandi città, per studiare o lavorare. Ma qui perdono i riferimenti. Così diminuiscono fede e vocazioni». Nella cattedrale di Nha Trang, vivace città nel centro del Paese, si sta celebrando un matrimonio. La sposa indossa un áo dài candido e lo sposo camicia bianca e cravatta. Nel coro ordinato, una decina di donne sfoggia degli áo dài coloratissimi. Gli uomini sono vestiti all’occidentale. È l’immagine di una società vivace e variopinta ma allo stesso tempo ligia e rispettosa delle regole.

Marco Bello

Vietnam. Famiglie a passeggio di sera nel centrale corso Le Loi nei pressi del municipio di Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)


Il nuovo segretario generale

Il comitato centrale del Partito comunista, il 3 agosto scorso ha nominato To Lam nuovo Segretario generale. Lam è l’attuale presidente della Repubblica, che così concentra su di sé due delle quattro cariche più importanti del Paese. Lam è stato capo della polizia e ministro della Sicurezza pubblica.


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Zambia, Zimbabwe e Malawi in ginocchio. Senza pioggia


La combinazione del cambiamento climatico e di altri eventi ha portato a una scarsa stagione delle piogge. L’agricoltura ne ha risentito e così manca il cibo di base. L’energia elettrica, generata con le dighe, scarseggia. Con gravi ripercussioni per le piccole imprese e gli ospedali.

Da quarant’anni non si registrava una siccità di queste proporzioni. La combinazione di El Niño e dei cambiamenti climatici quest’anno ha colpito duro. La passata stagione delle piogge, da novembre a febbraio, è stata magra. Poche precipitazioni, quindi poca acqua per l’agricoltura e per i bacini idroelettrici. Il risultato è disastroso. L’agricoltura ha perso quasi interamente i raccolti. Le centrali elettriche sono impossibilitate a funzionare. Manca il cibo (soprattutto il mais, base della dieta locale) e non c’è corrente elettrica, né per uso domestico, né per l’industria. Malawi, Zambia e Zimbabwe stanno vivendo una situazione difficile, stretti nella morsa di una crisi climatica senza precedenti. A soffrirne sono la popolazione, che deve fare i conti con risorse sempre più carenti, e l’economia che deve affrontare una sfida complessa in un contesto fragile. Nei tre Paesi, secondo i dati delle Nazioni Unite, la siccità ha portato a perdite agricole catastrofiche, con raccolti di mais in alcune aree ridotti dal 40 all’80%. L’impatto è stato particolarmente duro sulle popolazioni rurali, dove circa il 70% delle persone fa affidamento sull’agricoltura per sopravvivere. Ciò ha innescato l’insicurezza alimentare per milioni di persone, con una fame diffusa.

Niente acqua né corrente

Il mese di febbraio 2024 per lo Zambia è stato uno dei più secchi degli ultimi decenni, le precipitazioni si sono ridotte del 20%, esacerbando una crisi idrica già in corso almeno dall’autunno 2023. Ciò ha bruciato i raccolti, con perdite fino all’80% in alcune regioni. Secondo le stime ufficiali del Governo, il Paese affronta un deficit di 2,1 milioni di tonnellate di cereali (mais, riso e altri raccolti fondamentali). Secondo i dati forniti dall’autorità governativa, a risentirne sono più di sei milioni di persone su una popolazione complessiva di 20, di cui la metà bambini.

La siccità, però, non ha colpito solo la produzione alimentare, ma anche la produzione di energia. Lo Zambia, nei decenni passati, ha scommesso sulle centrali idroelettriche che forniscono un’energia pulita e continua (a differenza del solare che ha un vuoto durante la notte). Così attualmente le dighe forniscono oltre l’80% dell’energia del Paese. Dopo mesi di siccità però i bacini si sono svuotati. Secondo il ministero dell’Energia di Lusaka, la gigantesca diga di Kariba sul fiume Zambesi, la più grande fonte idroelettrica dello Zambia, ha solo il 10% di acqua disponibile. Danny Kalyala, governatore della Banca dello Zambia, ha affermato che questa crisi energetica non ha precedenti. Gli operatori minerari del secondo produttore di rame africano sono finora riusciti a evitare tagli alla produzione importando elettricità dall’estero. Tuttavia, il deficit energetico, peggiore del previsto e in aumento, sta avendo un impatto su altri settori. Il governo ha tagliato le sue previsioni di crescita economica per il 2024 al 2,3%. Secondo Kalyala, la Banca centrale deve ancora valutare appieno l’impatto economico dell’intensificarsi della crisi. «Chiaramente – ha detto -, la situazione è molto difficile. Le esigenze si stanno moltiplicando anziché ridursi».

A brigade of nutrition peer educators dish into plates cupfulls of the prepared porridge formulation dubbed maworesa, which translates to the very best porridge, which is cooked with readily available ingredients that are locally sourced to prevent children from falling into malnutrition as the El-Nino induced drought, in Mudzi on July 2, 2024. Zimbabwe is one of the countries in southern Africa whose food intake is being affected by a severe drought which experts say was worsened by the El Nino phenomenon. (Photo by Jekesai NJIKIZANA / AFP)

La situazione è tragica

«La situazione è tragica». Così Mariangela Tarasco, rappresentante dell’Ong Celim di Milano in Zambia, definisce l’attuale momento vissuto dallo Stato dell’Africa australe. «Manca l’acqua, manca l’elettricità e scarseggia il cibo. Nei giorni scorsi – spiega Mariangela -, il governo aveva garantito almeno tre ore al giorno di corrente. Ma non è riuscito a mantenere la promessa. Qui è da giorni che siamo al buio. In città, l’acqua viene fortemente razionata. Nelle campagne, però, non arriva né l’acqua né la corrente elettrica».

E aggiunge: «Sta diventando sempre più difficile procurarsi il mais non solo per la siccità, ma anche perché molte tonnellate sono state contaminate da un fungo nocivo e sono state ritirate dal mercato. Aggravando ulteriormente una situazione».

La gente è rassegnata, continua Mariangela, ma in questa fase di crisi dimostra una capacità di resilienza fuori dal comune. «Le donne si svegliano la mattina presto – osserva – per andare a prendere l’acqua in quelle zone dove sanno ce n’è ancora. Fanno chilometri con una forza d’animo invidiabile». Il simbolo delle gravi difficoltà è il deficit idrico del bacino di Kariba. «Che un impianto di quelle dimensioni sia a secco è grave – conclude -. Ciò significa che la crisi è profonda. E, soprattutto, non se ne intravvede la fine».

Tra cicloni e siccità

La situazione non è differente nel vicino Malawi. La siccità ha causato una riduzione del 20% delle precipitazioni, portando a un calo significativo delle rese dei raccolti, in particolare per i piccoli agricoltori che producono la maggior parte del cibo del Paese. La coltura di mais ha subito gravi ripercussioni, causando una fame diffusa.

La mancanza di precipitazioni sta inoltre creando difficoltà nell’accesso all’acqua pulita, il che solleva preoccupazioni sui problemi di salute, con il rischio di epidemie di malattie come il colera.

«Questo è il quarto anno consecutivo che il Malawi affronta un disastro legato al clima – spiega Alessandro Marchetti, project manager di Orizzonte Malawi Onlus -. Nei tre anni passati, il Paese aveva dovuto affrontare precipitazioni abbondanti, culminate con il ciclone Freddy. Ora è arrivata la siccità. Il Paese, che ha una popolazione di circa 20 milioni di abitanti, che vive al 90% di agricoltura di sussistenza, è quindi vulnerabile al cambiamento climatico ed è ormai evidente che necessita di misure di resilienza a lungo termine». La situazione è delicata. Nelle città  è un po’ mitigata perché lì arrivano più facilmente gli aiuti del Governo e delle organizzazioni internazionali. «Nei villaggi – continua Alessandro – la vita è dura. I raccolti sono bruciati. È difficile per la povera gente tirare avanti. Tra l’altro l’inflazione ha fatto aumentare i prezzi, anche quelli dei fertilizzanti e del cibo. I più colpiti sono i bambini, gli anziani e i malati».

La siccità distrugge tutto, secondo padre Pierluigi Gamba, missionario monfortano e grande conoscitore del Malawi. «Mentre i cicloni, le piogge eccessive, fanno disastri – osserva -, dopo si può sperare di raccogliere qualche prodotto come le patate dolci, la cassava, il cotone, la soia; con la siccità invece muore tutto. Oggi sei milioni di persone non hanno nulla. Le prospettive non sono rosee perché fino a marzo 2025 le campagne non daranno nessuna possibilità di raccolto. L’agricoltura del Malawi non è meccanizzata e non ha irrigazione che permetta alternative».

Il poco grano che si trova al mercato costa tanto, spiega il missionario. Dieci anni fa un operaio comperava quattro sacchi di mais al mese ora ne compra uno. Le famiglie sono di almeno sei persone e un sacco di grano non basta nemmeno per un pasto al giorno. La gente sopravvive solo con la crusca, un tempo riservata agli animali. «È una tragedia non avere cibo per un Paese come il Malawi che deve confrontarsi con una sovrappopolazione che lo rende lo Stato a più alta densità di questa area dell’Africa».

Da settimane, in tutto il Paese manca anche l’energia. L’Escom, la compagnia elettrica nazionale, non conosce la causa di questa mancanza che distrugge tutte le piccole imprese.

A livello sanitario, gli ospedali, ad esempio, non possono conservare i vaccini. «È un ritorno a un passato che si sperava fosse stato superato – osserva il missionario – garantendo alla popolazione dei servizi che non ci sono più».

Le Chiese cristiane fanno il possibile per assistere bambini e i pochi anziani che rischiano di non sopravvivere a questa emergenza.

«Ormai la gente torna nella foresta per cercare radici o erbe che gli antenati avevano imparato a mangiare – conclude padre Gamba -. Ora il più delle volte finisce per avvelenarsi perché non sa più distinguere cosa è buono e cosa no. Sono necessari aiuti immediati».

Ladias Konje, a communal farmer, walks through her wilting maize field, which suffered from moisture stress at tasseling during a long mid season dry spell, in the Kanyemba village in Rushinga on March 3, 2024. More than 13 million people across southern Africa can’t put enough food on the table and the number is expected to surge in the coming months as the effects of months of poor rains kick in, according to the United Nations.
In Zimbabwe, officials urged people to tighten their belts as authorities scramble to find alternative food supplies. (Photo by Jekesai NJIKIZANA / AFP)

La crisi nella crisi

Anche lo Zimbabwe è stato travolto dalla siccità. Qui si è abbattuta su un’economia già resa fragile da un ventennio di politiche velleitarie che hanno messo sul lastrico un sistema produttivo un tempo florido.

Le statistiche riguardanti la siccità in Zimbabwe nel 2024 mostrano un quadro allarmante sia in termini di impatto sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare, sia sulle risorse idriche. La carenza di precipitazioni ha messo in crisi la produzione di mais che, stimano le autorità di Harare, è diminuita di oltre il 30% rispetto alla media storica. Questo comporta una riduzione del raccolto a meno di un milione di tonnellate, quando il fabbisogno nazionale supera i 2,2 milioni. Il Governo e l’Onu prevedono che più di 5 milioni di persone, su una popolazione di 15 milioni, soffriranno di insicurezza alimentare nel 2024, un incremento significativo rispetto agli anni precedenti.

Le principali riserve d’acqua sono a meno del 50% della loro capacità totale. Circa il 40% delle famiglie rurali e 25% delle famiglie urbane affrontano carenze d’acqua giornaliere, con frequenti interruzioni della fornitura idrica soprattutto nella capitale.

L’impatto sull’economia è duro. La siccità, si prevede, causerà perdite economiche stimate attorno al 4-6% del Pil. I prezzi di base per cereali e altri beni di prima necessità sono già aumentati tra il 30 e il 50% rispetto al 2023, colpendo le famiglie più vulnerabili. Il presidente Emmerson Mnangagwa ha sottolineato la gravità della crisi e la necessità di un sostegno internazionale. «La persistente siccità che stiamo affrontando – ha detto – non è solo una minaccia per il nostro settore agricolo, ma anche per la sopravvivenza stessa di milioni di zimbabweani. Dobbiamo agire con decisione, come nazione e con i nostri partner, per garantire la sicurezza alimentare e l’accesso all’acqua per tutta la nostra gente».

Gli aiuti internazionali

Il Programma alimentare mondiale (Pam) ha lanciato l’allerta: c’è bisogno di 409 milioni di dollari per sostenere le sue operazioni nei prossimi sei mesi e aiutare 4,8 milioni di persone.

Nelle scorse settimane, l’organizzazione ha mobilitato oltre 14 milioni di dollari in finanziamenti anticipati per assistere coloro che si prevede saranno colpiti. Da parte loro, le Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale almeno 228 milioni di dollari ma, finora, solo il 10% di questa cifra è stata finanziata. A mobilitarsi è stata anche l’Unione europea, che ha donato 4,5 milioni di euro per il supporto nutrizionale tramite l’Unicef, e Usaid (la cooperazione governativa statunitense), che ha promesso 67 milioni di dollari per migliorare gli sforzi per la sicurezza alimentare e la resilienza. La Banca mondiale ha inoltre fornito una sovvenzione di 207,6 milioni di dollari per sostenere l’assistenza di emergenza in contanti per oltre 1,6 milioni di famiglie in Zambia.

I Governi della regione hanno dichiarato lo stato di calamità e stanno lavorando con partner internazionali per garantire aiuti aggiuntivi. La Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (Sadc, organizzazione economica regionale) ha lanciato un appello per raccogliere 5,5 miliardi di dollari. Gli aiuti basteranno a ridurre l’impatto di questa calamità?

Enrico Casale

A wooden boat lies on the dry lake bottom at the dried inland Lake Chilwa’s vacated Kachulu Harbour in Zomba District eastern Malawi, on October 18, 2018. Lake Chilwa is the second-largest lake in Malawi after Lake Malawi. It is in eastern Zomba District. Approximately 60 km long and 40 km wide, the lake is surrounded by extensive wetlands. The dying of the lake is having an adverse effect on the livelihoods for communities around the wetlands who use the lake as the source of their livelihoods. (Photo by AMOS GUMULIRA / AFP)




Argentina. L’«asado» indigesto di Milei


Il miglioramento dei dati macroeconomici dell’Argentina non deve trarre in inganno. La cura del nuovo presidente è pagata per intero dai cittadini più deboli. Come dimostrano i numeri sulla povertà, che ormai riguarda oltre la metà degli argentini.

Per alcuni analisti il primo anno di Javier Milei alla guida dell’Argentina (è in carica dal 10 dicembre) è stato un successo: primo avanzo finanziario dal 2012, inflazione in discesa (lo scorso anno aveva raggiunto il 276,4 per cento), buone prospettive di crescita economica per il 2025, rapporto recuperato con il Fondo monetario internazionale (Fmi), principale creditore del Paese.

Insomma, i dati macroeconomici e le previsioni paiono indicare un miglioramento della situazione. La realtà quotidiana della gente comune sembra però dire altro.

Meno Stato, più libertà

Diciamo subito che le idee politiche ed economiche di Milei non sono per nulla rivoluzionarie: si tratta della ripresa di principi ultraliberisti già conosciuti. La sostanza della sua politica è molto semplice: meno Stato, più libertà individuale.

Autocelebratosi come «anarco capitalista», Milei ha espresso più volte il suo disprezzo per lo Stato nel corso di interviste o durante i suoi viaggi all’estero (ben 14 tra dicembre e settembre con una spesa di milioni di dollari pagati da quello Stato che tanto denigra). Per esempio, lo scorso maggio, a Madrid, nel corso di un incontro organizzato dall’estrema destra spagnola, Milei ha invitato a «difendere più che mai la vita, la libertà e la proprietà privata degli individui». Il presidente ha avvertito che «le élite globali sono state affascinate dal canto delle sirene socialiste» e ha sottolineato l’importanza di «combattere la battaglia culturale» e di salvare il mondo «rimpicciolendo lo Stato per allargare la società». E ancora: «Nonostante le grida della sinistra, il libero mercato genera prosperità per tutti, non solo per alcuni», ha affermato il presidente argentino.

I primi passi formali del neopresidente sono stati stabiliti nella Ley de bases y puntos de partida para la libertad de los argentinos (Ley ómnibus), inviata al Congresso a fine 2023. Il progetto iniziale conteneva la bellezza di 664 articoli, poi ridotti a 238. Dopo sei mesi di passaggi nel Congresso, la legge (contrassegnata dal numero 27.742) è stata approvata lo scorso 28 giugno e pubblicata il 7 luglio.

Il cuore della norma è il suo articolo 1 che dichiara l’emergenza pubblica in materia amministrativa, economica, finanziaria ed energetica per un anno. Questa condizione permetterà all’esecutivo nazionale (Milei e i suoi ministri) di prendere alcune decisioni senza rispettare tutte le procedure amministrative abituali o senza avere l’approvazione del Congresso nazionale.

Il Régimen de incentivo para grandes inversiones (Rigi) è una delle proposte più controverse.

Essa prevede benefici fiscali, doganali e valutari per 30 anni, per progetti superiori a 200 milioni di dollari, al fine di incoraggiare grandi investimenti, sia nazionali che esteri, a lungo termine. Si rivolge a settori considerati strategici per lo sviluppo del Paese, come l’energia, l’agricoltura, l’attività mineraria (compresa l’estrazione del prezioso litio) e le infrastrutture.

La legge approvata consentirà al governo di mettere in vendita alcune società pubbliche. Ma, per il momento, l’idea iniziale è stata molto ridimensionata e le aziende più importanti dovrebbero rimanere in mano allo Stato. Sia la compagnia petrolifera statale Ypf (Yacimientos petroliferos fiscales) che la compagnia aerea di bandiera Aerolíneas Argentinas continuerebbero cioè ad appartenere allo Stato, così come i media pubblici (Radio e televisione argentina). Tuttavia, il loro destino non è certo.

Un governo negazionista

Il presidente Milei si distingue anche in altri campi. Come Donald Trump e Jair Bolsonaro, nega il cambiamento climatico, considerandolo una bugia diffusa dal socialismo e dal marxismo culturale.

Inoltre, a livello nazionale sostiene che, durante la dittatura militare (1976-1983), le persone scomparse (i desaparecidos) non furono trentamila, ma meno di novemila.

Nell’attuale amministrazione nazionale i negazionisti nei confronti della dittatura ricoprono cariche apicali. Per esempio, la vicepresidente di Milei e presidente del Senato, Victoria Villarruel, ha più volte minimizzato o negato i crimini commessi in quel periodo. Nel dibattito elettorale del 2023, quando le era stato chiesto quale fosse stata la sua posizione, aveva apertamente dichiarato: «Basta mentire, non furono trentamila», riferendosi al numero dei desaparecidos.

Villarruel, 48 anni e di famiglia militare, ha dedicato la sua carriera a contrastare il consenso diffuso sulla violenza politica degli anni Settanta e sui crimini contro l’umanità. Inoltre, promuove la cosiddetta «teoria dei due demoni». In Argentina si chiama così l’idea che equipara la gravità dei crimini perpetrati da agenti statali, nell’ambito del cosiddetto «terrorismo di Stato», ad atti di violenza commessi da organizzazioni guerrigliere (come i Montoneros). Significativa la chiusura del programma «Madres de Plaza de Mayo» (l’associazione delle madri dei desaparecidos), in onda da 16 anni sulla televisione pubblica.

Una povertà dilagante

La «motosega» di Milei, uno dei simboli (buffoneschi) della campagna elettorale del neopresidente, è entrata in azione, ma meno del previsto e, comunque, soprattutto per togliere ai deboli.

Oltre ad aver tagliato il numero dei ministeri (passati da 18 a 9), una delle prime trovate del nuovo governo è stato il cambio dei loro nomi (cosa capitata anche in altri paesi, pure in Italia). Uno di essi ha una denominazione veramente accattivante: è stato, infatti, chiamato «ministerio de capital humano». Guidato da Sandra Pettovello, il ministero si occupa di «sviluppare politiche di protezione e rafforzamento per la società e, in particolare, per la popolazione vulnerabile». Così si legge sul sito, ma si tratta soprattutto di una descrizione propagandistica. Nei mesi scorsi, proprio davanti alla sede del ministero, alcune persone avevano esposto un cartello con la scritta: «No se puede ajustar con el hambre del pueblo» ovvero non si possono sistemare i conti dello Stato con la fame della gente.

A febbraio, anche monsignor Oscar Ojea, presidente della Conferenza episcopale argentina (Cea), aveva criticato la ministra per aver – tra l’altro – tagliato gli alimenti alle mense dei poveri (comedores populares). «Le famiglie si privano di molte cose. Ad esempio, una madre può rinunciare a prendere l’autobus e andare a piedi per risparmiare, ma non può assolutamente non dare da mangiare ai propri figli. Cioè, il cibo non può essere una variabile di aggiustamento. […] Come vescovi, nella pastorale con la gente semplice, abbiamo imparato che: “a nessuno è negato un piatto di cibo”. Il fatto è che nel nostro Paese nessuno dovrebbe soffrire la fame, poiché è una terra benedetta dal pane. Oggi, però, centinaia di migliaia di famiglie trovano sempre più difficile alimentarsi bene. […] L’inflazione cresce di giorno in giorno da anni e ha un forte impatto sui prezzi dei prodotti alimentari. Lo sentono chiaramente la classe media operaia, i pensionati e coloro che non vedono crescere i propri stipendi. Anche l’intero universo dell’economia popolare, dove le persone lavorano praticamente senza diritti. Pensiamo agli ambulanti, ai riciclatori, ai venditori dei mercati, ai piccoli agricoltori, ai manovali, alle sarte, a chi svolge diverse mansioni di cura e di servizio».

Affermazioni queste che trovano conferma negli ultimi dati sulla povertà, che possono cambiare di qualche punto percentuale a seconda della fonte, ma che rimangono sempre drammaticamente alti. Secondo le stime dell’Osservatorio argentino del debito sociale dell’Università cattolica argentina (Odsa-Uca), nella prima metà del 2024, la povertà ha riguardato il 52% della popolazione e l’indigenza il 17,9%. Questi dati rappresentano un aumento significativo rispetto al 41,7% e all’11,9% registrati dall’Instituto nacional de estadísticas y censos (Indec) nel 2023, e sono i valori più alti dal 2004.

Sulla stessa linea, l’indagine Unicef sulla condizione dei bambini e degli adolescenti: secondo questi dati, il reddito del 48% delle famiglie argentine non è sufficiente a coprire le spese mensili correnti (maggio 2024).

Un piatto di «asado», divenuto un lusso per molti argentini. Foto José Ignacio Pompe-Unsplash.

Bastonate ai pensionati

Ci conferma tutto questo anche padre José Auletta, da quasi mezzo secolo missionario nel paese latinoamericano. «La situazione – ci spiega – è critica, anzi disastrosa. Perón diceva, non sbagliando, che “la única verdad es la realidad”, l’unica verità è la realtà. E la realtà s’impone sulle teorie, sul “libretto di Milei”: i consumi della classe media sono in caduta libera; migliaia di posti di lavoro sono spariti; il salario minimo è caduto del 30%; la disoccupazione è in aumento».

In base all’articolo 83 della Costituzione, Milei ha posto il veto all’aumento dell’8,1% delle pensioni approvate a larga maggioranza dal Congresso. E non si è limitato a questo, ma ha anche offeso (una pratica diffusa tra gli emuli di Trump) chi aveva votato a favore dell’aumento. Milei ha definito «eroi» gli 87 congressisti che hanno appoggiato il suo veto e «degenerati fiscali» quelli che lo hanno contrastato.

Attualmente la pensione minima è di 234mila pesos (circa 220 euro). Per capire, la sola canasta basica alimentaria (paniere alimentare di base) per una famiglia di tre persone è pari a 335mila pesos (310 euro).

«Eh, sì – conferma padre Auletta – i pensionati appartengono ormai alla classe (sempre più numerosa) dei poveri. Molte delle loro medicine non vengono più passate. E Milei ha vietato l’aumento delle pensioni. E alle manifestazioni di protesta il governo ha risposto con bastonate e gas lacrimogeni».

La violenza delle forze dell’ordine è stata criticata (con parole forti) anche da papa Francesco, nel corso del Simposio dei movimenti sociali tenutosi a Roma il 20 settembre. «Invece di pagare per la giustizia sociale, [il governo] ha pagato lo spray al peperoncino», ha detto l’argentino più famoso al mondo.

«Tutto è condizionato dall’obiettivo “il deficit zero non si negozia” – spiega ancora padre Auletta -. Sebbene sia ragionevole che non si possa spendere di più di quanto si ha, il modo di portarlo avanti significa sacrificare ambiti in cui la popolazione in generale fa sempre più fatica a vivere: educazione, salute, lavoro, pensioni. Purtroppo, anche con pesanti contraddizioni: subito dopo la sua vittoria al Congresso, il presidente ha invitato a un asado nella sua residenza di Quinta de Olivos gli 87 deputati che avevano approvato (alcuni con un voltafaccia vergognoso) il suo veto all’aumento delle pensioni, alla faccia dei sacrifici richiesti.

È vero che ognuno ha pagato di tasca propria i 20mila pesos (poco meno di 20 euro, ndr) richiesti, però nella situazione in cui si vive attualmente in Argentina, per moltissimi l’asado è diventato un lusso. Come allora non essere d’accordo con la pensionata che, nei pressi della residenza presidenziale, sosteneva un cartello con la scritta “Asado per i deputati, pane e acqua per i pensionati”?».

Paolo Moiola

Manifestazione in favore della legge 26.160 (sulle terre indigene) davanti al Congresso, a Buenos Aires. Foto Maru Bleger_almargen.org.ar.


Con i popoli indigeni

I 44 anni di Endepa

L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) ha appena compiuto 44 anni, tutti trascorsi ad accompagnare le comunità indigene dell’Argentina. Il primo incontro degli agenti della pastorale è datato, infatti, 28 agosto 1980. Fu realizzato da persone decise a condividere con gli indigeni di questo Paese lotte, dolori e speranze. Provenienti da varie regioni, si riunirono per condividere e conoscere le diverse situazioni vissute dai popoli e rivedere le proprie pratiche e, soprattutto, per ascoltare, lasciarsi interpellare dagli indigeni. Da questo incontro scaturì un documento che rispecchiava il desiderio di costituire la pastorale indigena e si fece richiesta formale alla Chiesa cattolica argentina.

Fino a quel momento la Chiesa accompagnava le comunità indigene con molto impegno, ma in modo non articolato. Nelle diocesi le realtà indigene erano poco conosciute, non facevano parte della pastorale e non esistevano le équipe diocesane di pastorale aborigena. L’incontro del 1980 fece comprendere la necessità di unione, riconoscendo che, sebbene i popoli indigeni (se ne contano 44) fossero diversi e ognuno avesse la propria cultura, condividevano problematiche comuni. Quattro anni dopo, era l’agosto del 1984, la Chiesa creò formalmente l’Équipe nazionale di pastorale aborigena.

Oggi Endepa accompagna i popoli originari ed è il solo organismo organizzato che promuove il riconoscimento dei diritti indigeni in un Paese multietnico e pluriculturale.

Purtroppo, nel difficile momento storico che vive l’Argentina, la legge 26.160 che prevede il rilevamento tecnico catastale delle terre da restituire alle comunità indigene e impedire sfratti forzati e violenti delle stesse avanza molto molto lentamente. Con tanti intoppi giudiziari che criminalizzano i reclami delle varie comunità. Peggio ancora con questo governo che permette intromissioni di imprese che avanzano con progetti di investimenti legati allo sfruttamento delle risorse minerarie (litio, idrocarburi) e forestali.

José Auletta (Imc)

 




Dieci anni dopo, l’Isis c’è ancora


Era il 2014 quando l’Isis entrò a Mosul instaurando il Califfato. Furono tre anni di dominio drammatico, soprattutto per le minoranze yazida e cristiana. L’organizzazione islamista non è però scomparsa. Anzi, si sta riorganizzando in vari paesi.

Sono trascorsi dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq. Il sogno era quello di costituire uno Stato islamico (Daesh), tra l’Iraq e la Siria, con leggi e regole che mettevano una dura ipoteca su diritti e libertà da poco conquistati, sia pure in misura limitata, in un’area del pianeta comunque da sempre instabile.

A farne le spese fino alla liberazione (avvenuta nel 2017), furono le minoranze, soprattutto quella cristiana e quella yazida. Ma stragi e lutti colpirono anche la stessa comunità musulmana, soprattutto la minoranza sciita.

Nadia Murad

Nadia Murad a Washington, nel 2018.

Simbolo della resistenza a quella che è stata una delle pagine più cupe della storia recente, è senza dubbio Nadia Murad. Nata a Kocho (distretto di Sinjar), sulle alture irachene di Ninive, di religione yazida, nell’agosto del 2014, come tante ragazze della sua comunità, venne rapita e tenuta in ostaggio dai terroristi del Daesh. Resa schiava, picchiata, violentata, riuscì a scappare, nel novembre dello stesso anno, dalla sua prigione. Da allora non ha mai smesso di testimoniare la sua storia e quella del suo popolo perseguitato tanto da essere insignita, nel 2018, del Premio Nobel per la pace.

Nelle celebrazioni del decennale, che si sono tenute all’inizio del mese di agosto di quest’anno nella sua terra, il Sinjar, regione irachena incastonata tra il Kurdistan, la Turchia e la Siria nordorientale, Nadia Murad ha sottolineato: «Dieci anni fa, la mia vita e quella di centinaia di migliaia di yazidi furono sconvolte e distrutte. Ritrovarci insieme ad altri sopravvissuti dieci anni dopo per commemorare il decimo anniversario a Sinjar lancia un messaggio potente a coloro che hanno cercato di sradicarci dalla nostra patria e di metterci a tacere attraverso una campagna di genocidio e violenza sessuale: avete fallito. I sopravvissuti sono più resistenti che mai e hanno smascherato la malvagia ideologia dell’Isis».

Per non dimenticare quanto accaduto in quei mesi del 2014 nel Sinjar è sorto, anche grazie al coraggio e all’intraprendenza dell’attivista, ormai nota in tutto il mondo, lo Yazidi genocide memorial.

La fuga e un parziale ritorno

Dolori e lutti hanno investito e decimato anche la comunità cristiana. Era il 10 giugno del 2014 quando l’Isis dichiarò l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica. I cristiani furono costretti a scegliere tra lasciare le loro città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà. Qualche giorno dopo, le porte delle loro case vennero segnate con la lettera «n» in arabo, marchiati perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Era solo la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone che dalla piana di Ninive raggiunsero il più sicuro Kurdistan, e si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil. Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con sé soltanto quanto avevano indosso.

A distanza di dieci anni solo una parte di loro è tornata nei villaggi dove abitavano fino al 2014, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021. Con la papamobile Francesco ha attraversato e toccato le macerie della guerra e della devastazione. Dalla cattedrale di Qaraqosh, dedicata all’Immacolata Concezione, che i jihadisti avevano trasformato in un poligono di tiro, ma che era stata tirata a lucido proprio per la visita, il Pontefice ha esortato: «Non smettete di sognare! Non arrendetevi, non perdete la speranza!».

Per tanti cristiani, però, non è stato possibile ricominciare. Non c’erano solo le case e le chiese da ricostruire, ma anche una vita intera, dalle attività economiche chiuse al rapporto di fiducia con i vicini di casa che, in quei cupi mesi di dieci anni fa, fu compromesso, quando non completamente disintegrato.

Le cicatrici, dunque, sono ancora profondamente impresse in quei territori, nonostante siano stati liberati nel 2017 e le case, scuole e chiese rimesse in piedi dalle Chiese locali sostenute da agenzie umanitarie, come la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre o la Caritas. «Solo il 60 per cento circa dei cristiani ha fatto rientro a Mosul e nei villaggi della piana di Ninive», ha detto in una recente intervista al Sir il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca dei caldei. «Tanti – ha spiegato – hanno scelto di restare nel Kurdistan», la regione che li aveva accolti nel momento della disperazione.

L’Isis non dorme

Sembra un secolo fa, con il mondo alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico, continua ad esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista, ma troppo spesso lontane dai riflettori. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.

Non solo: l’attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, nel mese di maggio di quest’anno, costato la vita ad oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis. Più precisamente dall’Isis-K, la nuova sigla che abbiamo imparato a conoscere proprio con l’eccidio che ha sorpreso Mosca nel corso di un concerto che aveva richiamato tante famiglie. Di fatto, Isis-K è una delle configurazioni territoriali dello Stato islamico, che ha l’obiettivo di creare un califfato nella regione storica del Khorasan. Secondo lo stesso gruppo, esso comprenderebbe parti di Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e Iran.

Ancora edifici distrutti a Sinjar. Foto Levi Meir Clancy – Unsplash.

Minacce e attentati

I jihadisti hanno anche minacciato gli Europei di calcio in Germania, come pure i Giochi olimpici che si sono svolti ad agosto a Parigi. Tutte occasioni, fortunatamente sventate dalle intelligence occidentali, che avrebbero potuto ridare visibilità ai terroristi.

Secondo quanto riferito dalle forze di sicurezza americane, militanti dell’Isis si erano preparati a colpire anche grandi eventi musicali, con la partecipazione di migliaia e migliaia di persone, soprattutto giovani, come i concerti in Europa della cantautrice statunitense Taylor Swift.

Porterebbe il timbro dell’Isis anche l’attacco al Festival cattolico che si stava tenendo ad agosto a Solingen, in Germania. Tre morti e otto feriti nell’attentato per il quale è stato arrestato un uomo siriano che, secondo la Procura federale tedesca, è «fortemente sospettato» di essere affiliato proprio all’Isis. D’altronde, l’organizzazione terroristica aveva subito rivendicato l’azione: «L’autore dell’attacco a un raduno di cristiani nella città di Solingen in Germania era un soldato del gruppo dello Stato islamico», si sottolineava in una dichiarazione dell’agenzia di stampa jihadista Amaq su Telegram, il giorno dopo. L’attacco è stato effettuato «per vendetta per i musulmani in Palestina e ovunque», si aggiungeva.

Il conflitto in Medio Oriente, dunque, viene messo al centro della nuova azione di coloro che vorrebbero rivedere in auge quella bandiera nera issata dieci anni fa nelle città conquistate dall’Isis. Cellule dormienti, ma non troppo.

Il nuovo salto di qualità è arrivato anche con la recente creazione di un notiziario governato dall’intelligenza artificiale, nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dallo stesso Daesh. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta -ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group -. Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».

L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il target privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che, sotto attacco, ci sono state, e ci sono tuttora, anche le altre minoranze religiose. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto dell’Ong Save the children due anni fa.

Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. E sempre lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.

Lo «Yazidi genocide memorial», voluto dall’organizzazione di Nadia Murad, a Sinjar. Foto Nadia’s Initiative.

Migliaia di miliziani

Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq.

A fine agosto, nell’Iraq occidentale, un’operazione militare ha colpito ed eliminato una quindicina di combattenti, come comunicato dal «Comando militare statunitense per il Medio Oriente» (Centcom). Il gruppo era dotato di numerose armi, granate e cinture esplosive. «L’Isis rimane una minaccia per la regione. I nostri alleati e il nostro Paese – ha sottolineato in una nota ufficiale il Centcom – continueranno a perseguire attivamente questi terroristi», ha aggiunto.

Gli Stati Uniti hanno circa 2.500 soldati in Iraq e 900 in Siria come parte della coalizione internazionale anti Isis.

Peraltro, lo scorso settembre Baghdad e Washington hanno annunciato un accordo per il ritiro delle truppe, accordo graduale che culminerà nel settembre del 2026.

Papa Francesco a Mosul, nella piazza di fronte alle rovine della chiesa siro cattolica dell’Immacolata Concezione durante il suo viaggio iracheno del marzo 2021. Foto Vincenzo Pinto – AFP.

Quel viaggio papale

Al momento, la risposta internazionale sembra, dunque, basarsi solo sulla forza militare e non anche su quella opera di riconciliazione, invocata dal Papa nel suo viaggio del marzo del 2021. Un viaggio che Francesco volle affrontare nonostante la pandemia del Covid in corso e la minaccia di attentati che si ripeterono fino a pochi giorni dalla sua partenza.

«Questo è il momento di risanare non solo gli edifici, ma prima ancora i legami che uniscono comunità e famiglie, giovani e anziani», aveva detto Papa Francesco in uno dei suoi discorsi. Dopo avere ascoltato la struggente testimonianza di Doha, una donna che aveva visto ucciso il suo bambino che giocava nel cortile di casa a Qaraqosh e che disse di avere perdonato, il Papa invitò la gente a seguire questa via, anche se dolorosa e difficile.

«Perdono: questa è la parola chiave. Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra».

Dal Medio Oriente all’Africa

Dall’Iraq e dalla Siria all’Africa: è in questo continente la nuova centrale delle cellule terroristiche che portano altri nomi ma sono affiliate o – comunque – si ispirano ai terroristi del Daesh.

Nel mese di agosto 2024 la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, con le sue fonti locali, ha messo in evidenza la carneficina attuata in Burkina Faso, dove gli attentati terroristici sono sempre più frequenti.

Il 25 agosto scorso nel villaggio di Sanaba, diocesi di Nouna, nell’Ovest del Paese, un folto gruppo di miliziani affiliati all’Isis ha circondato la comunità, radunato la popolazione e legato tutti i maschi di età superiore ai 12 anni di religione cristiana o tradizionale e, in generale, quanti erano stati considerati oppositori dell’ideologia jihadista. I terroristi hanno poi condotto gli uomini in una vicina chiesa protestante e lì ne hanno sgozzati ventisei, tra cui cattolici. L’attacco è avvenuto il giorno dopo la strage di Barsalogho, diocesi di Kaya, dove erano state uccise almeno 150 persone, «anche se il numero effettivo potrebbe essere a 250, secondo fonti locali, con 150 feriti gravi», riferisce ancora Acs. Le stesse fonti riferiscono di attacchi verificatisi nei giorni scorsi ai danni di tre parrocchie vicino al confine con il Mali, sempre nella diocesi di Nouna. «Circa cinquemila donne e bambini hanno cercato rifugio nella città di Nouna. Non c’è un solo uomo tra loro. Il luogo in cui si trova la popolazione maschile è ancora incerto, non sappiamo se siano fuggiti, se si nascondano o se siano stati uccisi», riferiva la fonte locale all’organizzazione umanitaria.

La diocesi di Nouna ha visto altri attacchi negli ultimi mesi, con un gran numero di luoghi di culto cattolici, protestanti e tradizionali saccheggiati o bruciati. Si ritiene che, dal maggio 2024, circa cento cristiani siano stati uccisi nella regione pastorale di Zekuy-Doumbala, mentre altri sono stati rapiti, senza che si sappia dove si trovino.

Dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda, le sigle sono diverse ma i metodi sono sempre gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla papa Francesco.

Manuela Tulli

 




«Non intendiamo fermarci»


Tra le centinaia di migliaia di migranti che attraversano il Centroamerica, molti hanno patologie. Altri si sono ammalati durante il viaggio. Tutti vogliono proseguire e arrivare a destinazione. Lungo la strada, alcune Ong cercano di dare loro un po’ di sollievo.

«Appena siamo usciti dalla selva del Darién, tra Panama e Colombia, la polizia panamense mi ha perquisita e ha gettato le mie medicine nella spazzatura. Io li ho pregati di non farlo, ma mi hanno impedito di attraversare il confine con dei farmaci nella borsa». Rosa, 39 anni, è venezuelana e da qualche tempo assume regolarmente l’Olanzapina per curare il disturbo bipolare che le è stato diagnosticato anni fa. A giugno di quest’anno ha deciso di vendere la casa, l’auto e tutti i suoi averi, per un totale di 4.500 dollari e, insieme a suo marito e ai figli, è partita a piedi verso gli Stati Uniti, nella speranza di trovare un lavoro retribuito dignitosamente e potersi finalmente permettere le cure che non può più ricevere nel suo Paese di origine. «Una scatola di Olanzapina di tipo generico costa circa 12 dollari, mentre l’originale si aggira intorno ai 38 dollari. Il problema però è che in Venezuela guadagniamo pochi dollari al mese, che non bastano a coprire i costi dell’assistenza sanitaria, perché è già tanto se riusciamo a mangiare e in molti casi, onestamente, facciamo pure la fame». Rosa è seduta in un piccolo studio medico sul retro del «Centro de descanso temporaneo Alivio del Sufrimiento» (centro di riposo temporaneo, ndr), un ricovero per migranti gestito da una piccola fondazione di El Paraíso, città honduregna a 11 chilometri dal confine di Las Manos tra Honduras e Nicaragua. È appena stata visitata dalle dottoresse presenti nel centro e ha ricevuto un buono per recarsi alla prima farmacia e comprarsi due scatole di medicine. Sorride, perché finalmente si sente sollevata, dopo oltre 15 giorni in cui l’ansia la stava attanagliando. «Senza i miei farmaci mi sento persa, soprattutto in questi mesi di viaggio che è davvero difficile da gestire psicologicamente, perché siamo sempre a rischio di violenza da parte di bande criminali e polizia, che in tutti gli stati provano a rubarci i soldi o le quattro cose che abbiamo con noi, per non parlare delle violenze fisiche che rischiamo soprattutto noi donne. In queste condizioni sfido chiunque a rimanere sano di mente».

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Disidratazione

Seduta su una panca poco distante c’è Kimberly. Ha 28 anni e anche lei è venezuelana. Tra le sue braccia dorme la figlia Karlys, che ha già due anni ma pesa come una bambina di poco più di un anno. Hanno appena lasciato l’ospedale della città di Danlí, a qualche chilometro di strada dal centro per migranti dove si trovano. La piccola Karlys è stata ricoverata nella struttura sanitaria per due giorni interi a causa di una forte disidratazione dovuta all’influenza intestinale che la tormentava da qualche settimana, dopo aver bevuto l’acqua malsana dei fiumi della selva del Darién, forse uno dei punti più impervi da attraversare per tutte le persone che migrano dall’America del Sud verso il centro e il Nord. La selva del Darién è letteralmente una giungla, piena di paludi e montagne scoscese dove, se non è la stessa natura a decimare la gente che osa entrarvi, sono le bande criminali della zona a fare vittime anche solo per rubare qualche dollaro in una zona geograficamente fuori da qualsiasi controllo.

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Camminare è obbligatorio

Kimberly sta parlando con sua madre Criselda, seduta su una sedia a rotelle. Le sue gambe rivelano una storia di interventi chirurgici passati e di un’artrite degenerativa che le ha reso la vita difficile lungo tutto il viaggio che ha dovuto fare a piedi con il solo aiuto di un bastone. Criselda ha in mano un borsello dentro il quale ci sono i suoi ultimi risparmi che sta contando con l’attenzione di chi ha troppe necessità e un budget troppo ristretto. «Qua bisogna scegliere: o mangiamo, o viaggiamo, o mi compro una scatola di paracetamolo per sopportare il dolore alle gambe che mi distrugge da giorni», dice Criselda con la tristezza di chi sa di dover rinunciare a cibo e medicine se vuole continuare il suo viaggio.

Secondo Life Honduras, un consorzio di organizzazioni umanitarie coordinato dalla Ong internazionale Azione contro la fame, che fornisce assistenza medica e psicologica lungo la rotta migratoria che attraversa l’Honduras, ogni giorno decine di migranti in transito verso gli Stati Uniti si rivolgono al loro ambulatorio per una visita o richiedere medicine. La maggior parte si sono feriti durante il viaggio e riportano contusioni, fratture e distorsioni. Di fatto, un numero incalcolabile di persone cade nei fiumi o scivola sulle cime scoscese del Darién, oppure soffre di problemi gastrointestinali per aver bevuto l’acqua di fiume. Tuttavia, c’è anche chi decide di partire dalle proprie case già in gravi condizioni di salute. Si tratta di un dato spesso sottovalutato, ma, secondo i medici del consorzio, almeno il 5% delle persone visitate nell’anno erano affette da malattie preesistenti come cancro, diabete, problemi cardiovascolari, ernie, disabilità motorie, asma, leucemia, autismo nei bambini e problemi psichiatrici come depressione e disturbo bipolare. Si tratta di un numero considerevole, tenuto conto che solamente in Honduras transitano una media di 500mila persone all’anno, secondo i dati dell’Istituto nazionale di migrazione. Queste persone partono nonostante il dolore, per mancanza di assistenza medica gratuita nei propri Paesi di origine o perché gli stipendi sono troppo bassi per potersi permettere cure private. E chi, per esempio, ha un cancro, ma ancora la forza nelle gambe, decide di migrare nella speranza di essere accolto da parenti negli Stati Uniti che possano aiutarlo a pagare una terapia adeguata.

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Bambini migranti

Tra i bambini la situazione è ancora più grave, perché durante il viaggio difficilmente riescono a fare un buon pasto e, secondo gli ultimi dati del consorzio, l’8,5% dei minori sotto i 10 anni visitati nell’ambulatorio sono a rischio di malnutrizione severa.

«Datemi un cucchiaio per favore, mia figlia non ce la fa a mangiare con la forchetta», dice una donna seduta nella grande sala del centro per migranti di El Paraíso, dove viene servita la cena. È la voce di Norel, venezuelana di 36 anni, che sta imboccando sua figlia Narcibeth, 19 anni per 32 kg di peso, nata con una paralisi cerebrale. Insieme ad altri tre figli e al suo compagno, Norel si è fatta forza e ha portato a spalle Narcibeth tra frontiere, strade, cammini terrosi e, ovviamente, attraverso la selva del Darién, dove nessuna sedia a rotelle può farsi spazio tra il fango, lagune e sentieri montagnosi. «Io sono sicura che negli Stati Uniti ci aiuteranno con la bambina. In Venezuela ci sono centri specializzati per persone disabili, ma mancano i letti, i pannolini, il cibo e spesso anche il personale e noi genitori non possiamo pagare di nostra tasca tutto questo».

Nel centro per migranti di El Paraíso, invece, Narcibeth e la sua famiglia trovano gratuitamente un po’ di tutto, dai prodotti per l’igiene, il cibo, i letti e persino una sedia a rotelle dove può essere agevolmente trasportata per qualche ora, almeno fino a quando non si rimetteranno in viaggio.

Per non perdere tempo

«Abbiamo visto migranti con il cancro che camminano trascinandosi dietro la bombola di ossigeno, ma anche in questi casi cercano di fermarsi qui il meno possibile – spiega Indira Auxiliadora Mejía Sarantes, medico di Azione contro la fame -. Se hanno le forze non passano neppure una notte nel centro per migranti. Quando li vediamo arrivare, è perché stanno davvero male e hanno bisogno urgente di medicine che spesso perdono nella selva del Darièn. In casi gravi, indirizziamo le persone all’ospedale di Danlí, ma molti migranti decidono di non farsi curare per non perdere tempo e proseguire il viaggio».

Dal 2022, l’Istituto di migrazione dell’Honduras permette ai migranti considerati irregolari di richiedere un salvacondotto gratuito di cinque giorni, tempo considerato sufficiente per attraversare il Paese e procedere verso il Guatemala. Non si tratta di una vera e propria regolarizzazione. Di fatto il salvacondotto è un pezzo di carta con il nome della persona e la data di ingresso che viene riconsegnato alla polizia quando si esce dal Paese.

Il procedimento serve ai migranti per essere visibili ed evitare di essere vittime di deportazione ed estorsione da parte della polizia, ma in fondo il vero interesse del governo della presidentessa Xiomara Castro è che le persone transitino il prima possibile e se ne vadano dal Paese senza generare disturbo alla popolazione locale. Tuttavia questa forma di «legalizzazione» parziale e temporanea non preserva le persone da violenze ed estorsioni che puntualmente avvengono su tutto il territorio honduregno.

Lo sa bene Jonathan, 45 anni, che, insieme a suo nipote e sua sorella, ha lasciato la Colombia dove viveva da circa sei anni, da quando, cioè, la crisi economica in Venezuela e un salario troppo basso lo avevano spinto a migrare in prima battuta nel Paese più vicino culturalmente e geograficamente al suo.

Soprusi ed estorsioni

«Qua tutti approfittano di noi – racconta Jonathan -. Abbiamo ottenuto il salvacondotto all’Istituto di migrazione appena entrati in Honduras dalla frontiera con il Nicaragua, ma da quel momento hanno cominciato tutti a estorcerci soldi, anche la polizia. Onestamente, non so a cosa serva questo pezzo di carta».

Jonathan e la sua famiglia sono rimasti una notte nel centro per migranti de El Paraíso per cenare e dormire in un buon letto e il giorno dopo si sono rimessi in viaggio. Hanno pagato circa 50 euro a testa per un biglietto del bus per arrivare a Ocotepeque, l’ultima città honduregna prima della frontiera con il Guatemala. Un prezzo esorbitante che un locale non accetterebbe mai di pagare. «Lo sappiamo che ci stanno facendo pagare il doppio – continua Jonathan -, ma lo fanno perché sanno che non abbiamo scelta. Ovviamente nessuno di noi vuole rimanere in Honduras, quindi o così o niente».

Il viaggio in bus di lunga percorrenza verso la frontiera del Guatemala dura circa 18 ore. Ogni giorno partono decine di bus pieni di migranti che tirano dritto senza mai fermarsi, a meno di una grave emergenza. Oppure di un probabile, quanto indesiderato, controllo da parte della polizia che, a intervalli regolari, ferma quasi tutti i bus che percorrono l’unica strada ben asfaltata che collega la frontiera del Nicaragua con il Guatemala.

Sorte che è capitata anche a Jonathan e alle altre 80 persone che viaggiavano con lui.

Di notte il bus è stato fermato da una pattuglia della polizia che ha comunicato ai passeggeri la necessità di pagare un prezzo accessorio per poter transitare lungo la strada. «Ognuno ha dato qualcosa e per fortuna si sono accontentati e ci hanno lasciati andare», spiega Jonathan.

Arrivati a Ocotepeque le cose non sono migliorate perché per fare gli ultimi circa otto chilometri necessari ad attraversare la frontiera, Jonathan e la sua famiglia hanno pagato circa 30 dollari di taxi, un prezzo che include anche la tangente che il taxista paga alla polizia di frontiera guatemalteca, per il trasporto di migranti fino terminal di Esquipulas, la prima città guatemalteca oltre il confine con l’Honduras.

«Sono senza forze – dice sconsolato Jonathan, seduto in attesa che un bus di linea guatemalteco li porti fino alla frontiera con il Messico -. Forse ho la febbre e mia sorella sta addirittura peggio di me. Però ormai siamo qui e non intendiamo fermarci. Non importa se arriverò con l’influenza o senza una gamba. Io voglio solamente arrivare il prima possibile e con l’aiuto di Dio ce la faremo, così come abbiamo fatto fino a oggi».

Simona Carnino

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Mal d’Africa


Ormai vescovo emerito, monsignor Virgilio Pante non molla il suo primo amore. Rimane a servizio di una terra e di una Chiesa con le quali ha condiviso negli anni tante lacrime e gioie.

Leggi qui la prima puntata: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

Il tempo passa anche per i vescovi e nel 2023, seguendo le regole canoniche, monsignor Virgilio deve presentare le dimissioni per raggiunti limiti di età. A succedergli è monsignor  Hieronymus Joya (cfr. MC novembre 2022), nato nel 1965 e ordinato sacerdote nel 1998, missionario della Consolata che ha svolto diversi incarichi in Kenya, dalla formazione alla pastorale. È stato anche vicesuperiore e poi superiore regionale della regione Kenya e Uganda.

Fin dalla scelta del motto, il nuovo vescovo si pone nella linea della continuità con il primo vescovo di Maralal: «Omnia vicit amor» (l’amore vince tutto). È la perfetta continuazione del «with the ministry of reconciliation» (con il ministero della riconciliazione) di monsignor Pante, in una regione dove la convivenza tra le varie etnie non è facile e spesso sfocia in scontri, aggravati non solo da ragioni di sopravvivenza in un ambiente difficile, ma soprattutto da influenze di forze esterne che hanno tutto da guadagnare dalla divisione.

Mons Pante con il vescovo novello mons Joya Hieronymus

Il nuovo vescovo

Il 22 ottobre 2023, nella Allamano Hall, vicino allo stesso prato dell’oratorio della missione di Maralal dove monsignor Pante era diventato vescovo, è avvenuta l’ordinazione episcopale e l’installazione del monsignor Joya. Il celebrante principale è stato il nunzio apostolico del Kenya e Sud Sudan, monsignor Hubertus Matheus Maria Van Megan, che è stato accompagnato nella celebrazione da monsignor Peter Kihara Kariuki, vescovo di Marsabit, e dallo stesso monsignor Virgilio Pante, entrambi missionari della Consolata. La celebrazione ha visto un grande partecipazione di gente venuta per vivere nella preghiera questo grande momento di grazia. Era presente una buona parte della conferenza episcopale del Kenya, tanti missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti provenienti da altre diocesi, religiose, i leaders di diverse confessioni religiose, alcuni rappresentanti del governo, e una marea di fedeli, provenienti da località vicine ma anche lontane.

Disoccupato?

Monsignor Pante si è trovato, quindi disoccupato? Tutt’altro. L’ultimo pensiero è proprio quello di rientrare in Italia e fare il pensionato.

«Egoisticamente parlando, voglio avere una vecchiaia contenta, e siccome ho lavorato tanti anni in Kenya e ho vissuto anche delle cose molto belle…», dice il vescovo emerito, per sottolineare che non ha intenzione di rientrare in Italia. E continua: «E poi il nuovo vescovo mi ha detto: “Non andare in Italia, stai qua, io ti trovo un posto, ti do da mangiare e da lavorare”. Ovviamente senza interferire (da parte mia). Adesso non sono più il vescovo titolare, ma visto che il nuovo vescovo mi accetta, mi dà il permesso, io rimango più che volentieri.

Vorrei finire i miei giorni là, perché ho davvero il mal d’Africa dopo oltre cinquant’anni che sono in quel Paese. Era il 1972 quando sono arrivato, avevo 26 anni. Ora ne ho 78, dove vuoi che vada?».

«Volevo sistemarmi in una stanzetta del Centro catechistico, tra la missione e il seminario, per non disturbare, ma monsignor Joya si è rifiutato. Mi ha detto che se andavo a vivere da solo gli avrei complicato la vita, avrebbe dovuto darmi qualcuno che cucinasse per me, mi tenesse in ordine la casa e badasse alla mia salute. “No, stai qui con me, che ci facciamo compagnia, mangiamo insieme, preghiamo insieme e facciamo vita comunitaria”. Quindi ora vivo con il vescovo e lo aiuto per quello che posso, anche perché la diocesi è vasta e insieme possiamo essere più vicini alla gente».

Ritiro per sacerdoti diocesani. Tra loro anche padre Egidio Pedenzini andato alla Casa del Padre nell’ottobre 2022

Fucile appeso al muro e moto sempre «in moto»

Un pensionato per modo di dire, allora. Ma che ne è delle sue antiche passioni, la caccia e la moto? Il fucile è ben tenuto nella sua custodia, e il vescovo emerito non ricorda più quando è stata l’ultima volta che l’ha usato. L’intenzione sarebbe di non rinnovare il porto d’armi, anche perché la vita e l’ambiente sono cambiati rispetto ai suoi primi anni in Kenya, quando l’uso del fucile per andare a caccia era necessario per sopravvivere. Dopo aver fondato il seminario diocesano nel 1979 per tre anni il fucile lo aveva aiutato a nutrire i giovani seminaristi. Inoltre, si era rivelato necessario quando qualche animale della foresta si avvicinava troppo alle capanne, diventando un pericolo per la gente oppure ne distruggeva i piccoli orti. Ora non è più così e le leggi venatorie sono cambiate, per cui il fucile arrugginisce nella sua custodia.

Quanto alla moto, quella proprio non la vuole mollare. Il vecchio amore è molto utile e pratico per andare nelle cappelle più vicine e a dire messa alle suore, fare un salto in banca o altre commissioni. Certo non si parla più dei lunghi viaggi della gioventù o dei primi anni da vescovo, quando partiva in moto con lo zaino in spalla da Maralal per andare a Nairobi (circa 350 km) per la riunione della Conferenza episcopale, oppure quella volta che ha cercato invano di salvarla dalle acque del fiume in piena vicino a South Horr per ritrovarla poi otto km più in basso, o quando ha dovuto spingerla a mano per una ventina di chilometri nei dintorni di Baragoi perché si era rotto il motore.

Una moto regalata dall’Italia (Centro missionario di Belluno) per il vescovo Pante.

Sfide aperte

Monsignor Virgilio Pante vede davanti a sé ancora molte sfide aperte.

La prima è quella della pace che sembra un sogno irraggiungibile, ma per la quale ogni sforzo va fatto. Si va dall’essere spina nel fianco dei politici perché davvero investano nel benessere della gente con strade, scuole, servizi efficienti, alla lotta alla corruzione, al creare comunità cristiane dove davvero ci sia incontro, rispetto, dialogo e accoglienza indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza.

La memoria dei martiri, padre Michele Stallone ucciso a Loyangallani nel 1965, padre Luigi Graiff a Parkati nel 1981 e padre Luigi Andeni nel 1998 ad Archer’s Post, dona una forza speciale in questo impegno.

C’è poi la sfida di far crescere una chiesa locale che sia capace di camminare con le sue gambe ed essere autenticamente evangelizzatrice. Quando i missionari sono arrivati hanno fatto conoscere l’amore di Dio con i fatti: imparando la lingua, costruendo  scuole, curando i malati, dando da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, il tutto con aiuti che venivano da fuori. Ora è tempo che i cristiani locali stessi diventino responsabili della loro Chiesa, anche economicamente, donando dalla loro povertà, per sostenere i loro preti, avere cura delle loro chiese, aiutare i più poveri.

Un’altra sfida è quella di spingere i giovani che hanno studiato, spesso proprio grazie alla missione, a investire le loro capacità nella propria terra, senza restare a Nairobi o emigrare negli Stati Uniti. Certo, il Paese sta ancora vivendo momenti duri e fatica a riprendersi dopo due anni di siccità seguiti da devastanti alluvioni, il tutto aggravato da una crisi di leadership politica. La povertà e il disagio aumentano, soprattutto per chi cerca di vivere con il proprio lavoro (spesso malpagato). Nello stesso tempo l’abitudine delle famiglie di esigere aiuto dai propri parenti salariati minacciando antiche maledizioni, scoraggia i giovani dal ritornare nella propria terra. Anche per affrontare queste difficoltà e cambiare la situazione, sarebbe bello che i giovani preparati tornassero a investire le capacità acquisite nelle proprie terre.

Festa della Pace. Messa sul antico altare di pietraincastrato tra due rami di un albero.La pietra è stata posta da padre Pietro Davoli negli anni ’70 e usata come altare. La pianta crescendo ha inglobato la pietra dell’altare.

Un messaggio ai lettori

«Ai lettori di MC – riprende monsignor Pante – direi: I  missionari che un tempo avete mandato in Africa stanno per morire, sono vecchi. Avete seminato con la vostra bontà, con la vostra preghiera, con il vostro aiuto in Africa, in Asia in tanti paesi. Quello che avete seminato rende frutto e ne riceverete anche voi i benefici perché queste Chiese sono un po’ il vostro vanto.

Il problema è che adesso, lo vedete voi stessi, dovete aiutare la missione qui in Italia, perché stiamo perdendo i valori di una volta. Ora è il tempo della missione dei laici che adesso devono svegliarsi. I preti non ci sono più e dovete voi essere missionari, riscoprire la vostra fede, andare a messa la domenica, educare i vostri figli, insegnare a pregare, non solo a divertirsi, altrimenti la nostra Chiesa antica muore, questa fede la perdiamo.

Grazie a Dio avete aiutato le Chiese dell’Africa, dell’America Latina e ora sono quelle che vi aiutano.

Come istituto, per esempio, noi vediamo già il vantaggio di avere avuto le missioni: oggi siamo per più di metà non italiani. Gli istituti che non hanno avuto missioni muoiono.

Fa tristezza vedere come nella mia Italia dove sono nato, dove ho vissuto la mia fanciullezza, adesso si bestemmia e si pensa soltanto a divertirsi.

Va bene, la vita è difficile, certo ci sono problemi, i salari sono bassi, però ci manca la fede che una volta era l’elemento di forza. Sono i laici che devono testimoniare questo, cominciando dalla famiglia. Se la famiglia è debole il problema si ingigantisce. I giovani hanno paura di sposarsi, di prendersi responsabilità, di soffrire. Bisogna buttarsi nella vita, non aver paura di soffrire.

Per cui, se da una parte io vado in Africa perché voglio morire laggiù, dall’altra mi sento un vigliacco. In Europa non mi sento capace, è troppo difficile».

Gigi Anataloni
(2 – fine)


La prima parte: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

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ORDINAZIONI: 6/7/2013

 




Immagini che parlano – Le foto di San Giuseppe Allamano

 


Negli archivi dell’Imc ci sono oltre cento lastre di vetro e alcune stampe d’epoca che ritraggono il fondatore. La canonizzazione è l’occasione per rivisitare questo materiale e capire quali sono gli originali, quali le copie e controllarne la qualità o provvedere ai necessari restauri. Un lavoro sfidante, ma anche ricco di stimoli e sorprese.

Difficile dire se Giuseppe Allamano fosse allergico alle foto o no, visto che a quei tempi non si scattavano con la facilità a cui siamo abituati oggi e, soprattutto, richiedevano molto più tempo per ognuna. È certo, però, che fosse molto interessato all’uso della fotografia, tanto che, quando con il canonico Giacomo Camisassa nel 1899 fondò la rivista «La Consolata» (da cui nel marzo 1928 nacque la nostra Missioni Consolata), si rivolse ai migliori specialisti, allora a Vienna, per far fare i cliché di piombo e ottenere una qualità di stampa tanto alta da rendere la bellezza delle immagini in maniera superba.

Le fotografie erano poi una parte essenziale dei resoconti che lui chiedeva ai missionari dal Kenya.

Una breve storia

8 maggio 1902, San Allamano alla partenza dei primi 4 missionari

La prima foto che ritrae Giuseppe Allamano risale a prima del 1873, anno della sua ordinazione sacerdotale. Lo si intravede nella foto di gruppo con i suoi compagni di corso. C’è poi una fototessera di lui giovane sacerdote. Il suo formato ovale è un indizio interessante, visto che anche il suo amico e collaboratore don Giacomo Camisassa è ritratto in una di formato simile che porta il timbro dell’Esposizione generale italiana tenutasi di Torino del 1884. Che siano andati insieme all’esposizione dove, tra le molte meraviglie, venivano presentate anche le ultime novità fotografiche? È poi per amore dello zio, don Giuseppe Cafasso (1811-1860), che nel 1895 Allamano si sottopone a una serie di foto per presentarne il nuovo ritratto dipinto da Enrico Reffo (1831-1917). In quel momento aveva una terribile cefalea che gli faceva chiudere l’occhio sinistro (fatto che si vede poi in molte foto). Dei primi anni della sua vita sacerdotale abbiamo solo alcune fotografie generiche in cui lui è presente in mezzo ad altri. Ad esempio una foto lo ritrae con alcuni uomini che avevano partecipato agli esercizi spirituali al santuario di sant’Ignazio e lo avevano convito a fare una passeggiata con loro sui monti vicini.

Ci volle la partenza dei primi missionari nel 1902 per farlo posare insieme ai partenti di maggio in due foto, una da solo con il volto pieno di gioia (particolare foto qui sopra), e una con Camisassa ormai suo stretto collaboratore nel santuario della Consolata e confondatore del nuovo istituto. Un’altra foto è con il gruppo partente a dicembre.

Poi posò diverse altre volte. Uso il verbo «posare» pensando ai lunghi tempi di esposizione e all’immobilità allora necessaria per ottenere buone foto. Due di esse sono particolarmente significative. La prima risale al 1906-1907, quando nel suo studio a Rivoli si fece fotografare mentre compilava il «Direttorio» di vita dell’Istituto. La seconda è del 1923 quando gli fecero fare una serie di foto per la celebrazione del suo 50° di sacerdozio.

Allamano si era anche fatto fotografare nel 1911 al santuario di sant’Ignazio vicino al pilone dedicato alla Consolata che lui aveva appena fatto costruire. E nel 1914, quando un gruppo di seminaristi andarono a visitarlo nella sua casa di Rivoli, durante una delle loro passeggiate del giovedì (che allora era vacanza da scuola), e lo convinsero a posare per loro. Nel 1916 l’occasione per una bella foto di gruppo fu la visita del cardinale Cagliero alla Casa Madre. Ci sono poi alcune altre pose di cui non conosciamo la ragione e il tempo preciso.

Un incontro speciale

Non è, però, questa cronologia delle foto che ritraggono Giuseppe Allamano il cuore di quanto desidero condividere con voi. In questi tempi prima della canonizzazione ho speso molte ore a rivedere, studiare e restaurare tutte le foto del nostro santo che abbiamo in archivio. È stata un’esperienza sfidante dal punto di vista professionale, ma forse, e molto di più, è stata anche un’occasione unica per un incontro ravvicinato molto profondo con lui.

Guardarsi negli occhi

Parto dalla foto che è stata scelta come immagine ufficiale per la canonizzazione. È quella che fu usata nel 1923 per il 50° anniversario di sacerdozio di Giuseppe Allamano.

Ho tra le mani una bella lastra di vetro da 13×18 cm. Con lo scanner posso fare la scansione anche solo del dettaglio del volto, dimenticando il resto della figura. Guardo il risultato, e con mia grande sorpresa scopro che l’occhio sinistro è pesantemente ritoccato e la pelle del viso piena di rigacce. Una maschera, non un bel volto. I ritocchi sulla lastra furono fatti per risolvere due problemi: nascondere lo strabismo causato da una delle sue solite emicranie e rendere il volto più luminoso nella stampa. Il ritocco sul volto fu fatto con tratti di matita, mentre un graffio puntiforme nell’occhio raddrizzava la pupilla.

Non vi dico quante ore ho lavorato per liberare quel volto dai segni di matita e ripristinare l’occhio, ma il momento più bello ed emozionante è stato quello in cui ho ingrandito il lavoro finito e ho guardato dritto nei suoi occhi, anzi lui ha guardato dritto nei miei. È stato come averlo lì davanti a me, faccia a faccia, occhi negli occhi. Non servivano parole. Mi sono sentito amato da lui.

E poi vedere quel volto così pulito, è stato come potergli dare una carezza e un abbraccio, sentendo il calore della sua guancia sulla mia (foto qui sotto).

Guardare a destra

La statuetta della Consolata cara ad Allamano

C’è un particolare che ricorre in quasi tutte le foto che ritraggono Allamano: il suo sguardo è rivolto sistematicamente a destra. Mi sono detto che quella probabilmente era un’abitudine del tempo, forse per non distrarsi e non sbattere le palpebre durante i lunghi tempi di esposizione. Ricordo che anche mio padre, nato nel 1910, aveva l’abitudine di mettersi in posa così. Ma forse, per Allamano c’era qualche ragione in più.

Nelle otto foto del suo 50° si nota una costante: lui è sempre rivolto verso la statuetta della Consolata (foto qui accanto) che sta alla sua destra. Come non pensare alla richiesta dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra di Gesù? Normalmente la destra era il posto del primo ministro, della persona più importante dopo il re.

E forse qui, in questo insistente guardare di Giuseppe Allamano a Maria, stando seduto o in piedi alla sua sinistra, è rappresentata la sua relazione con lei. Da una parte il suo sguardo dice quanto Maria sia centrale nella sua vita, dall’altra dice a Lei che lui è il suo servo fedele, un umile servo, come lei è stata umile serva del Signore.

Ma forse c’è anche un altro significato nel suo porsi alla destra di Maria, dalla parte del suo cuore. È l’atteggiamento del bambino in braccio alla Madre, il bambino che sa di essere amato. Servo sì, ma anche figlio di una Madre amorosa, in cui riporre totale fiducia. Una Madre che ha a cuore ogni persona del mondo, in particolare i più piccoli e i più poveri.

Abito semplice

1923, una delel foto per il 50° di messa. Notare l’abito, la statuetta delle Consolata e il Regolamento ai piedi della Madonna.

Un altro messaggio ce lo danno gli abiti. Ci sono alcune foto dove Allamano indossa di dovere gli abiti da cerimonia, come durante le processioni. Altre volte veste l’abito formale del canonico della cattedrale di Torino, con tricorno e tutto il resto, come nelle foto della partenza dei primi missionari. Con quell’abito che lo identifica con la sua Chiesa di Torino, forse vuole dirci che non è tanto lui che manda i missionari, ma la tutta Chiesa. Ancora una volta, è nelle foto «ufficiali» del suo 50° di sacerdozio che ho colto un messaggio potente sulla sua umiltà e semplicità.

In quell’occasione, non si presentò dopo essersi rivestito con i suoi abiti migliori, quelli che avrebbero meglio espresso il suo rango nella Chiesa di Torino: rettore del principale santuario della città, canonico della cattedrale, responsabile del convitto ecclesiastico, e anche fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata. No, si presentò con una talare di tutti i giorni, come uno che è stato chiamato per le foto senza preavviso, mentre era indaffarato nel lavoro (foto qui accanto). La talare è lisa, evidentemente stropicciata, e forse anche un po’ stretta, tanto che si intravedono i segni delle bretelle che indossa sotto. E lui non pare a disagio, imbarazzato, sminuito nella sua dignità. Anzi. Sembra sentirsi proprio bene come il servo di Maria, l’ultimo servo, onorato solo proprio dal poterla servire in umiltà. Un uomo che davvero non si cura dell’apparenza, ma punta alla sostanza.

Paternità e tenerezza

Allamano accanto al pilone della Consolata al Santuario di Sant’Ignazio il 17 agosto 1911. Doveva essere con lui solo, ma il piccolo Vittorio si intrufolò.

San Giuseppe Allamano non era certo smanioso di farsi fotografare, ma conosceva bene il valore della fotografia. Per questo nel seminario volle anche il laboratorio fotografico (sopravvissuto fino agli anni Settanta) dove i futuri missionari avrebbero studiato e praticato la fotografia aiutati da professionisti della città. In questo contesto accettò diverse volte di posare proprio per far piacere ai suoi amati chierici. Basta guardare alla foto del 17 agosto 1911 al pilone della Consolata presso il santuario di sant’Ignazio. Dal suo occhio chiuso si capisce che stava avendo uno dei suoi attacchi di emicrania, ma non si tirò indietro e accettò anche la birbonata del giovane Vittorio Merlo Pich che volle farsi fotografare con lui intrufolandosi nella foto (ragazzo in primo piano foto accanto).

La sua disponibilità a lasciarsi fotografare si vede poi nel suo volto rilassato della foto del 1914 con gli studenti sotto il grande cedro della villa di Rivoli, oppure in quella del 1915, quando cede alle insistenze del chierico Mario Borello, oppure, infine, nella simpatica foto di lui, ormai anziano, che sorride divertito al fotografo, ancora una volta nel giardino di Rivoli.

Lo spirito ve lo do io

C’è poi un ultimo elemento che le foto mi suggeriscono. Diverse volte Allamano diceva ai suoi missionari: «Lo spirito ve lo do io», per sottolineare come dovessero avere uno stile missionario specifico e non agire di istinto secondo i gusti di ciascuno o seguire modelli presi a prestito da altri. Ci sono diverse foto che sottolineano questo e che dicono ai suoi missionari: «Non siete gente qualsiasi, ma Missionari della Consolata».

Nella foto della partenza del primo gruppo, ad esempio, lui ha saldamente in mano il Regolamento dell’Istituto. Significative poi sono le due foto che lo riprendono allo scrittoio a Rivoli, dove non sta scrivendo un testo qualsiasi, ma il Direttorio dell’Istituto, un documento che vuole precisare l’identità e lo stile dei suoi missionari. In più, nelle foto del 50° di messa il Regolamento è sempre in evidenza.

Statuetta della Consolata e testo del Regolamento: i suoi due amori, la Madre di Gesù e la Missione, gli stessi che devono plasmare la vita dei suoi missionari e di ogni sacerdote.

Gigi Anataloni


Per vedere tutte le foto di San Allamano

Potete osservare tutte le foto del nostro santo sul sito a lui dedicato attraverso una presentazione pdf completamente revisionata e aggiornata.
https://giuseppeallamano.consolata.org/index.php/guardare-san-giuseppe-allamano-negli-occhi




La guerra calda globale


Mentre l’umanità è sull’orlo di una nuova guerra mondiale, decisori e grandi media ripetono: «Se vuoi la pace prepara la guerra». Un pensiero magico che occorre contrastare con strumenti razionali e nonviolenti.

Nel 2007 le Nazioni Unite, su proposta del governo indiano, dichiararono Giornata internazionale della nonviolenza il 2 ottobre, anniversario della nascita di Mohandas
Karamchand Gandhi.

Allora, quasi nessuno immaginava che nel giro di tre lustri l’umanità si sarebbe trovata sul punto di precipitare nel baratro di una nuova guerra mondiale.

La Seconda guerra fredda

Scrivo quasi nessuno, perché nel 2008 venne pubblicato in italiano il volume Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, firmato da Johan Galtung, fondatore dei Peace studies, gli studi internazionali per la pace ispirati dall’opera di Gandhi.

In quelle pagine, lo studioso norvegese svolgeva un’operazione di diagnosi-prognosi-terapia riferita ai molti conflitti di quegli anni e agli scenari futuri sulle diverse scale (micro, meso, macro e mega), soffermandosi anche su quello della «Seconda guerra fredda», imputata all’agenda geopolitica degli Usa. «L’espansione globale a Est con la Nato, e a Ovest con l’Anpo, il Trattato di sicurezza Usa-Giappone», diagnosticava Galtung, aveva interesse a portare le alleanze «a linee di rottura radicali ed esplosive», tra Usa-Anpo-Nato da un lato e Russia-India-Cina dall’altro. Ma ciò, ed ecco la prognosi, non sarebbe durato a lungo: prevedeva Galtung, infatti, che sarebbe bastato «un incidente minore lungo il confine tra Polonia ed Ucraina, […], e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con potenze nucleari dappertutto e senza alcun Paese neutrale in mezzo a fare da cuscinetto, come lo furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la “Prima guerra fredda”».

U.S. Navy photo by Mass Communication Specialist 2nd Class Evan Diaz

«Si vis pacem para bellum»

Oggi, finita la «Seconda guerra fredda», siamo dentro alla guerra calda globale. Questa si svolge contemporaneamente su molti fronti, dal Mediterraneo al Mar Rosso al confine russo-ucraino. Fronti che potrebbero rapidamente saldarsi, con seri rischi di carattere nucleare.

Di fronte a questo terrificante scenario, mentre Galtung con il suo lavoro propone precisi passi di disarmo e una radicale rifondazione dell’Onu – avendo anche elaborato e sperimentato manuali di «trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici» per i mediatori -, i decisori e i media spingono per una nuova corsa agli armamenti.

Una corsa sempre più folle, fondata sulla menzogna originaria, una vera e propria formula magica, che recita «si vis pacem para bellum», se vuoi la pace prepara la guerra.

Un esempio su tutti è quello della lettera mandata a molti quotidiani europei da Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, al suo secondo mandato in scadenza il prossimo 30 novembre, che anticipava l’esito dell’assemblea dello scorso marzo chiudendosi proprio con queste parole: «Se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla guerra». Per non parlare del vertice Nato svoltosi a Washington il 10 e 11 luglio scorsi per i 75 anni dalla sua fondazione, che ha rilanciato la già massiccia corsa globale agli armamenti, cosa, quest’ultima, che per il nostro Paese comporta l’impegno a raggiungere velocemente una spesa militare pari al 2% del Pil, ossia a trasferire altri 10-12 miliardi all’anno di risorse pubbliche da scuola, università, sanità e welfare all’acquisto di nuovi armamenti, in aggiunta a quelli che già si spendono.

Il pensiero magico e guerra

Eppure, non è difficile dimostrare che preparare la guerra per avere la pace è un’illusione fondata sul pensiero magico, tenuta ancora in circolo per giustificare il trasferimento alle spese militari, e dunque all’industria bellica, di risorse pubbliche sottratte agli investimenti sociali e civili.

I governi di tutto il mondo non hanno mai speso così tanto per preparare la guerra (2.443 miliardi di dollari nel 2023, dati Sipri) e questo non ha impedito ai conflitti armati di dilagare ovunque (169 sul pianeta nel 2023, di cui 59 coinvolgono Stati, dati Uppsala conflict data program), facendo impennare il numero di vittime civili (il 72% in più nel 2023 rispetto al 2022, dati Onu), con il conseguente aumento di profughi e rifugiati (117 milioni nel 2023, giunti a 120 milioni nei primi sei mesi del 2024, dati Unhcr).

Preparando le guerre, dunque, non si ottiene – ovviamente – la pace, ma più guerre e più vittime, in un perverso circolo vizioso nel quale la prossima tappa – annunciata lo scorso 24 luglio dal nuovo Capo di stato maggiore britannico Roly Walker – prevede la Terza guerra mondiale entro il 2027.

Economia di guerra

In questa nuova corsa agli armamenti è pienamente coinvolto, da tempo, anche il nostro Paese: nel periodo 2013-2023 la spesa militare in Italia – rileva il Rapporto «Economia a mano armata» della campagna Sbilanciamoci – è aumentata del 30% e quella per i soli nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi a 5,9 miliardi di euro (+132%). Mentre, nello stesso periodo, l’investimento per la sanità è aumentato solo dell’11%, la spesa per la protezione ambientale del 6% e la spesa per l’istruzione appena del 3%.

Inoltre, specifica la Rete italiana pace e disarmo, la spesa militare italiana complessiva per il 2024 sarà di circa 28,1 miliardi di euro, con un aumento di oltre 1.400 milioni rispetto al 2023. Una crescita derivante soprattutto dagli investimenti in nuovi sistemi d’arma.

Ancora, come se non bastasse la spesa annuale, il milex.org, l’Osservatorio che monitora la dinamica delle spese militari italiane, informa che dall’inizio dell’attuale legislatura e fino a ora, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha trasmesso alle commissioni Difesa del Parlamento per avere il loro parere, sempre favorevole, ventisette nuovi programmi militari per un onere finanziario pluriennale di 34,6 miliardi di euro.

Insomma, mentre l’Istat segnala la crescente povertà assoluta nel nostro Paese, che colpisce ormai il 14% dei minori (il valore più alto della serie storica dal 2014), sul sito web di Leonardo, azienda di cui il Governo italiano è il principale azionista, che per il 75% produce armamenti, si legge: «Nei primi tre mesi del 2024 prosegue l’ottima performance del Gruppo già registrata nel 2023, con una solida redditività in tutti i segmenti di business, in ulteriore sensibile crescita rispetto al periodo precedente», con un +18,2% di ordini e un +20,8% di ricavi.
Una vera e propria economia di guerra.

Foto di Alexander Popovkin su Unsplash

Essere contro la guerra non è sufficiente

Quale uscita di sicurezza può esserci, dunque, da questo scenario nazionale e internazionale che si avvita perversamente nella logica bellica?

È di nuovo Galtung che ci viene incontro: «Essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione», scriveva in Pace con mezzi pacifici (Esperia, 1996). Ossia, occorre ricercare, formare e agire rispetto a tutta la filiera della violenza.

La violenza non si esprime solo nella dimensione manifestamente dispiegata ed esplicitamente distruttiva, come accade nei conflitti armati, ma ha delle componenti più profonde che, pur essendo implicite e nascoste, sono necessarie affinché la punta dell’iceberg della violenza propriamente detta emerga.

In un ideale «triangolo della violenza», se il vertice in alto è rappresentato dalla «violenza diretta», i due vertici della base sono la violenza strutturale e quella culturale.

La violenza strutturale è una violenza in sé – per esempio nelle forme dello sfruttamento economico o della repressione del dissenso -, ma anche la predisposizione delle strutture organizzative ed economiche che consentono la violenza e, in riferimento ai conflitti armati, le guerre: dagli eserciti alle spese militari, dagli armamenti alle cosiddette «banche armate».

La violenza culturale è quella forma pervasiva di giustificazione della guerra diffusa attraverso gli apparati formativi, i dispositivi mediatici, le curvature linguistiche che rendono la preparazione della guerra – e il suo impiego, variamente aggettivato – un fatto ovvio, da non mettere in discussione. Alimentando anzi, al bisogno, il bellicismo e l’odio verso il «nemico», ossia la propaganda di guerra.

E spesso chi produce e vende strumenti di guerra, produce e vende anche i media che la promuovono.

Trascendere i conflitti

Per queste ragioni l’impegno nonviolento, a differenza di quello genericamente pacifista, è indirizzato a decostruire tutto il sistema di violenza – non solo a contrastare questa o quella specifica guerra – e a costruire alternative nonviolente in riferimento a tutti i livelli esaminati. A cominciare dalla messa in campo della capacità di «trascendimento dei conflitti» (Galtung), ossia della loro trasformazione nonviolenta.

Ciò significa che non è il conflitto in sé a dover essere eradicato, in quanto i conflitti sono fisiologicamente generati dai differenti bisogni, ma la modalità violenta – e dunque patologica – della loro conduzione.

«Il maggior numero delle parti in conflitto», scriveva ancora Galtung, «ha qualche posizione valida: il lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e sostenibile a partire dal quel “qualcosa di valido”, per quanto minuscolo possa essere». È necessario, dunque, aiutare le parti a uscire dalla polarizzazione e dalla reciproca deumanizzazione.

Le tre caratteristiche necessarie, i tre saperi, per lavorare seriamente alla trasformazione de-polarizzante e umanizzante dei conflitti, sono l’empatia, ossia la capacità di vedere le cose anche dal punto di vista dell’avversario, la creatività, in quanto ricerca di soluzioni non scontate e prevedibili, e la nonviolenza, in quanto metodo che porta oltre il conflitto violento, lo trascende, appunto. Questi saperi sono indispensabili per stare al mondo in maniera non reciprocamente distruttiva, all’interno di sistemi complessi naturalmente generatori di conflitti. Agli antipodi di quelli messi in campo oggi da tutti gli apprendisti stregoni che alimentano le guerre anziché impegnarsi a spegnerle risolvendone i conflitti alla base.

EU Civil Protection and Humanitarian Aid_flickr

Mezzi nonviolenti

Di fronte al bellicismo dei governi, ogni livello di violenza ha bisogno di essere dunque contrastato dal basso con adeguati strumenti e mezzi di nonviolenza, che interagiscono in modalità complessa e coerente.

Per esempio, rispetto alla violenza diretta delle guerre, è in corso la campagna nazionale e internazionale di «Obiezione alla guerra» del Movimento Nonviolento. Chi la sottoscrive, sostiene i tanti obiettori di coscienza, disertori e renitenti alla leva di tutte le parti coinvolte nei conflitti armati, e, allo stesso tempo, dichiara la propria personale obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione, esplicitando l’indisponibilità a qualunque «chiamata alle armi».

Rispetto alla violenza strutturale dell’accumulo degli strumenti di guerra, inoltre, è necessario intensificare l’impegno per il disarmo, a cominciare da quello nucleare, imponendo l’adesione anche del nostro Paese al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari – come prevede la campagna «Italia ripensaci» – e per la riconversione sociale delle spese militari e quella civile delle industrie belliche, oltre a interrompere l’invio di armi e le collaborazioni militari con tutti i Paesi in guerra.

Rispetto alla violenza culturale, infine, la più difficile da decostruire, è necessario, prima di ogni altra cosa, contrastare il doppio standard etico che viene generalmente utilizzato per affrontare la violenza nei conflitti interpersonali e in quelli internazionali.

Per i conflitti interpersonali, infatti, è comune l’idea che si possano affrontare e risolvere in modo nonviolento anche tramite dispositivi formativi e giuridici di regolazione pacifica e sanzionamento della violenza. Per quelli armati, nazionali o internazionali, invece, è prevalente il pensiero magico dei vertici politico mediatici secondo il quale si ottiene più pace preparando più guerra, «etificando» la violenza, quando voluta dallo Stato, e sanzionando il suo rifiuto.

Il superamento di questo doppio standard morale, che promuove l’etica nonviolenta nei conflitti interpersonali ma il suo repentino «disapprendimento» e l’etica della violenza nei conflitti internazionali, metterebbe in crisi l’intero sistema della violenza: «Immagina che fanno la guerra e che nessuno ci va», scrisse Wolfgang Ness.

Qui si gioca, in ultima analisi, l’impegno formativo nonviolento, che deve contaminare i dispositivi culturali, mediatici ed educativi.

Pasquale Pugliese

 




Giordania. Nel paese di Rania


Pur senza vere risorse, la monarchia hashemita è vitale per l’area mediorientale. Da sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra mondo arabo e Occidente, ospita circa tre milioni di palestinesi.

Umm Qays (Gadara). Infuocate dalla luce del sole del tramonto, le antiche facciate di Petra raccontano storie di un tempo passato, mentre le caotiche strade della capitale Amman pulsano di una vita vibrante e moderna. La Giordania è un crocevia di culture e tradizioni, un luogo dove il passato incontra il presente in una danza armoniosa che si interrompe subito al di là del fiume Giordano e del Mar Morto.

I territori di Israele e della Palestina sono sempre ben visibili a chi percorre la strada che da Umm Qays, nell’estremo Nord del Paese, raggiunge Aqaba, quattrocento chilometri più a Sud. Sullo sfondo delle proprie foto, i turisti vedono il lago di Tiberiade, il sito del battesimo di Gesù, la sponda palestinese del Mar Morto, le luci di Gerusalemme. Tutti dovrebbero ricordare che questa terra, spesso trascurata dai pellegrinaggi, è parte integrante di quella che i cristiani chiamano Terra Santa.

I luoghi che rimandano a storie bibliche ed evangeliche, si intrecciano con destinazioni turistiche alla moda, ma anche con castelli arroccati su aride alture che celebrano le gesta degli ordini monastici crociati che, in queste aree, sono nati e hanno scritto la loro storia.

Per i giordani, invece, osservare le Alture del Golan occupate da Israele (dal 1981), la città di Gerico, i grattacieli di Gerusalemme, la recinzione che delimita il confine con Israele ad As Safi, significa ricordare quanto sia precaria la pace sociale e politica che il regno hashemita – dal 1999 guidato da re Adb Allah II e dalla regina Rania – è riuscito a ottenere negli anni Novanta. E questo dopo il conflitto con Israele del 1967 (nota come «Guerra dei sei giorni»), ma anche i massacri e la guerra tra la stessa Giordania e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) del settembre 1970 (passata alla storia come «Settembre nero»).

La famiglia reale hashemita al completo (i coniugi con i due figli e le due figlie). Foto dal sito queenrania.jo.

Tra Israele e Palestina

Se la contrapposizione con Tel Aviv pulsa ancora nel cuore della popolazione giordana, i drammatici fatti del Settembre nero sembra siano stati dimenticati, almeno dalla gente comune. I giordani sono teoricamente solidali con il popolo palestinese (anche se, in realtà, molti palestinesi residenti nel Paese continuano a essere relegati ai margini della società), mentre il governo, conscio della potenziale destabilizzazione che potrebbero portare frange estremiste, è più cauto nell’esprimere il proprio appoggio, anche se la voce più autorevole per la difesa dei diritti dei palestinesi proviene dall’interno della stessa casa reale.

La voce della regina

Nata in Kuwait da genitori palestinesi, la regina Rania, amatissima dai giordani, all’indomani dell’invasione di Gaza, ha sempre criticato la narrazione occidentale affermando che «la maggior parte delle reti televisive sta coprendo la storia con il titolo di “Israele in guerra”, ma per molti palestinesi dall’altra parte del muro di separazione e del filo spinato, la guerra non se n’è mai andata. Questa è una storia vecchia di 75 anni; una storia di morte e di sfollamento per il popolo palestinese. Il contesto di una superpotenza regionale dotata di armi nucleari che occupa, opprime e commette quotidianamente crimini documentati contro i palestinesi è assente dai racconti fatti in Occidente».

Il suo accorato appello, assieme alle posizioni progressiste a favore dell’emancipazione femminile e alle sue campagne per garantire l’istruzione capillare a tutta la popolazione giordana, è un ammonimento che però non ha pieno riscontro nella politica di Amman, sempre attenta a rispettare un equilibrio tra le istanze filoarabe e quelle filoccidentali.

Dromedari nel deserto di Wadi Rum; questi animali sono ancora parte importante dell’economia beduina; oltre a fornire latte e carne, il dromedario è stato inserito nell’industria turistica e nei circuiti delle corse che si tengono a Wadi Rum. Foto Piergiorgio Pescali.

La Giordania è Palestina?

La narrazione secondo cui il piano a medio termine del governo di Netanyahu sarebbe quello di costringere tutta la popolazione di Gaza a trasferirsi nel Sinai egiziano e quella della Cisgiordania (o West Bank) nella Transgiordania (o East Bank) giordana, trova moltissimi sostenitori in Giordania ed è uno dei temi più caldi che oggi il governo di Amman si trova ad affrontare.

Storicamente si basa sulla teoria in voga sin dagli anni Settanta nella destra israeliana, secondo cui «la Giordania è Palestina». Teoria che, agli occhi dei nazionalisti, giustificava la politica di espansione di Israele verso i territori appartenenti ai palestinesi a occidente del Giordano.

Nonostante la regina Rania sia palestinese e la Giordania sia l’unico Stato arabo a concedere la cittadinanza ai palestinesi, la Casa reale non vuole che il regno si trasformi in uno Stato palestinese. Non lo vogliono soprattutto i transgiordani, gli abitanti della vecchia Transgiordania, la parte a est del Mar Morto e del fiume Giordano, che si reputano i legittimi rappresentanti della cultura giordana e, come tali, i legali amministratori politici ed economici della nazione.

Da qui il risentimento dei giordani di cultura palestinese che dal 1970 (dopo Settembre nero), si sono sentiti esclusi dalla vita politica. Mentre i transgiordani dominano il settore pubblico, agricolo e rurale, i cisgiordani palestinesi prevalgono in quello privato e religioso, contribuendo in maniera consistente alle entrate della West Bank e penetrando in modo massiccio i movimenti islamici.

Questa polarizzazione caratterizza la vita sociale giordana.

Da una parte i transgiordani accusano i grandi proprietari privati di alimentare la corruzione che le riforme introdotte dal governo su richiesta del re non sono riuscite a mitigare. Dall’altra, i giordani palestinesi e i rifugiati palestinesi accusano la casa reale di impotenza nella gestione dei luoghi santi di Gerusalemme.

Lo «Status quo», un accordo informale redatto nel 1967 a conclusione della guerra dei Sei giorni che vede il Waqf islamico giordano amministrare la Spianata delle moschee mentre Israele ne controlla la sicurezza e l’accesso, è stato più volte infranto dalle forze israeliane e da gruppi di ebrei che, in violazione dell’accordo, entrano nella spianata a pregare, a volte anche a voce alta. Questo ha causato non solo scontri a Gerusalemme e in Palestina, ma ha minato il prestigio stesso della casa hashemita, impotente di fronte a queste trasgressioni, attirando le critiche dei gruppi palestinesi più radicali.

La piazza principale di As Salt, città in cui nel 1921 i britannici proclamarono l’emirato di Transgiordania ponendo alla sua guida la dinastia hashemita. Foto Piergiorgio Pescali.

Per la stabilità del Regno

Nonostante le enormi divergenze ideologiche e politiche, re Adb Allah II e Netanyahu condividono l’idea che rapporti pacifici fra i due Stati siano indispensabili per mantenere la stabilità della Giordania (e, quindi, della dinastia hashemita) e contenere le minacce iraniane e siriane.

Questo ruolo di mediatore ha trasformato una terra composta da miriadi di tasselli tribali, difficile da governare ed economicamente priva di interesse, in uno dei fulcri nevralgici per la pace in Medio Oriente. «È il miracolo della dinastia hashemita di Giordania che, dopo la Grande rivolta araba, l’assassinio di re Adbullah I da parte di un palestinese, le disastrose guerre con Israele, è comunque riuscita a sopravvivere alle faide tribali diventando un solido punto d’appoggio per gli Stati Uniti nell’area», ci dice Rawan Rawa- shdeh, studentessa alla Irbid national university.

Secondo l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente, in Giordania vivrebbero 2,2 milioni di palestinesi, ma in realtà, il loro numero raggiungerebbe i tre milioni. In più si aggiungono i 717mila rifugiati, principalmente siriani (643mila) e iracheni (52mila), ma anche sudanesi, yemeniti, somali che fuggono dalle guerre in atto nei loro Paesi e 80mila lavoratrici domestiche, per lo più filippine, srilankesi, indonesiane.

In totale, il governo di Amman deve garantire acqua, cibo, alloggio, servizi essenziali ad altri quattro milioni di persone, oltre agli 11,3 milioni di cittadini giordani. Una percentuale enorme che pesa come un macigno sulla già non florida economia dello Stato arabo e che sarebbe insostenibile senza gli aiuti che provengono dalla comunità internazionale, in particolare da Stati Uniti e Unione europea.

Il Jordan Compact, l’accordo che nel 2016 il governo ha stipulato con i Paesi donatori per garantire l’integrazione nel mondo del lavoro e dell’istruzione ai rifugiati siriani, ha permesso a 252mila di loro di trovare un’occupazione, ma solo al 25% dei rifugiati in età scolare di frequentare una scuola. La maggior parte dei 230mila profughi potenzialmente in diritto di avere un’istruzione, ne è impedito per motivi culturali, logistici (mancano le infrastrutture e i trasporti) ed economici.

Il lavoro minorile è ormai una costante tra le file non solo dei rifugiati, ma tra gli stessi giordani, soprattutto nelle zone rurali.

Il problema parte dalla scuola primaria e dalla differenza di genere. I dati, ricavati dai rapporti della Banca mondiale e delle varie agenzie dell’Onu, sono preoccupanti: solo il 37% degli studenti che affrontano il secondo e terzo grado della scuola primaria sono in grado di leggere e comprendere un testo semplice e se è vero che la carriera lavorativa della donna si prepara sin dalla adolescenza, quando la famiglia deve investire nella scolarizzazione, il 38% della popolazione femminile non è iscritta ad alcun programma scolastico, liste di disoccupazione o di addestramento professionale.

Solo il 13,8% della forza lavoro è composta da donne nonostante esse rappresentino il 50,4% dei giordani in età di lavoro, mentre la disoccupazione femminile è il doppio rispetto a quella maschile. Il 90% delle donne che non ha un diploma di scuola secondaria rimane disoccupata, percentuale che cala al 61% per le donne che ha un diploma di scuola media secondaria o universitario.

Tutto questo pone la Giordania al 126° posto su 146 Paesi nella classifica del Global gender gap index report.

Sebbene questo sia dovuto principalmente a una tradizione discriminante verso la donna, l’emancipazione femminile è in parte frenata anche dai recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese.

Nonostante la Giordania sia un Paese sicuro, il turismo, settore in cui le donne ricoprivano il 20% della forza lavoro pre Covid, ha subito una battuta d’arresto. Nei primi due mesi del conflitto di Gaza, le presenze alberghiere in Giordania sono crollate del 50-75% e il turismo proveniente da Israele, che nel 2023 rappresentava il 17% degli arrivi totali, si è azzerato.

Negli alberghi e nei ristoranti, fatta eccezione per le grandi catene internazionali, il personale è per la quasi totalità maschile, così come le guide che accompagnano i turisti nei luoghi più frequentati come Petra, Wadi Rum, i siti archeologici.

Piergiorgio Pescali


In visita al Sesame

I miracoli (a metà) della scienza

Assieme all’Egitto, Israele è il principale fornitore energetico della Giordania. Tel Aviv invia gas naturale al Paese dal giacimento offshore «Leviathan». Se questo dovesse mancare, la Giordania sarebbe costretta a importare gas attraverso il porto di Aqaba a prezzi decisamente superiori a quelli israeliani.

«Quando parliamo di Paesi del Medio Oriente, pensiamo che siano ricchi di petrolio e non abbiano problemi energetici», mi dice Khaled Toukan, già ministro dell’istruzione, ingegnere nucleare. «In realtà la Giordania è una nazione senza grandi risorse energetiche e ha bisogno di importare quasi tutto il suo fabbisogno dall’estero. È per questo che stiamo progettando di costruire una centrale nucleare, in particolare installando reattori Smr (reattori di piccole dimensioni, installabili nel giro di 2-3 anni dall’approvazione, possono alimentare una città di medie dimensioni e producono poche scorie, ndr). Il nucleare ci aiuterebbe anche ad aumentare la disponibilità idrica desalinizzando l’acqua marina».

Oltre a essere una personalità di spicco nel mondo politico e scientifico giordano, Khaled Toukan è soprattutto il direttore di Sesame (Synchrotron-light for experimental science and application in the Middle East), un fiore all’occhiello della ricerca applicata non solo in Giordania, ma in tutto il Medio Oriente. In questo centro, situato a pochi chilometri da Amman, fondato alla fine del secolo scorso con il decisivo supporto dell’Europa e del Cern, si trova l’unico sincrotrone (acceleratore di particelle che produce radiazione elettromagnetica collimata che serve per analizzare la struttura dei materiali in diversi campi, ndr) dell’intera regione araba, ma la sua importanza trascende il  valore scientifico.

Sesame è, infatti, un esempio di «diplomazia scientifica». Oltre alla Giordania e l’Egitto, tra gli otto Stati membri, vi sono nazioni che non hanno relazioni diplomatiche tra loro: Turchia e Cipro, ma anche Israele, Iran, Palestina, Pakistan. «Sin dalla nascita di Sesame, tutti gli Stati membri hanno partecipato alle riunioni semestrali, nonostante i conflitti che attanagliano la nostra regione – ci spiega Toukan -. Sesame è un posto in cui veramente regna la pace». «Sesame è nato prima di tutto nell’ottica del miglioramento dei rapporti tra Israele ed Egitto e il sincrotrone che oggi è l’anima del centro proveniva da Berlino su proposta di Herman Winick, il padre degli ondulatori», spiega il direttore scientifico, l’italiano Andrea Lausi. «È una storia bellissima: una macchina che da una città divisa, Berlino, va a unire due Paesi come Egitto e Israele che, all’epoca, erano ai ferri corti. Dal punto di vista politico era una storia accattivante che, all’epoca, generò titoli suggestivi sui giornali».

Tra tante difficoltà, non solo finanziarie, Sesame è un progetto di cooperazione che continua ancora oggi. Tuttavia, a dimostrazione di quanto sia difficile superare le barriere culturali anche nella scienza, Khaled Toukan confessa che «non abbiamo progetti di ricerca misti che coinvolgano, per esempio, scienziati turchi con scienziati egiziani o scienziati israeliani con quelli iraniani. Eppure – conclude il direttore -, il valore politico di questa cooperazione  è di grande importanza per il futuro del Medio Oriente».

P.P.

Khaled Toukan, ingegnere nucleare, direttore di Sesame, presidente della Commissione giordana per l’energia atomica e più volte ministro. Foto Piergiogio Pescali.

 




Amazzonia, resistenza e proposta


Dall’Amazzonia colombiana a quella boliviana. Due missionari Imc hanno partecipato al Fospa per capire come la resistenza contro la distruzione dell’Amazzonia possa passare dalle parole ai fatti. Perché le idee e i progetti sono tanti, ma il tempo stringe.

Era il 1951 quando, nel Caquetà e Putumayo, in Colombia, arrivarono i Missionari della Consolata, con monsignor Antonio Torasso. All’epoca, l’Amazzonia era un luogo di conquista e colonizzazione. La foresta veniva distrutta per costruire strade, case, paesi, per la creazione di grandi pascoli e coltivazioni estensive per portare il «progresso» secondo la prospettiva occidentale e, infine, convertire le comunità autoctone alla religione cattolica, e vestire le persone con abiti «decenti».

Oggi, settantatré anni dopo, la realtà è molto diversa perché – per fortuna – parliamo di dialogo con le culture, rispetto del territorio, conservazione della foresta amazzonica.

Tutto questo lo sentiamo importante come ci hanno insegnato le comunità indigene del nostro territorio che, da sempre, vivono in equilibrio con la natura e da essa ricevono tutto quello di cui hanno bisogno per vivere.

Alla marcia del Fospa 2024 si è assistito a un tripudio di colori indigeni. Foto Angelo Casadei.

La parrocchia e il parco

Io vivo nella parrocchia di Solano, Caquetà, Amazzonia colombiana. La parrocchia appartiene al Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano, creato nel 2013 da papa Benedetto XVI che nominò come primo vescovo monsignor Joaquin Humberto Pinzón Güiza, Imc, che – da allora – lo guida con molto entusiasmo.

Da sette anni sono parroco di questa parrocchia così estesa che abbiamo dovuto suddividerla in quattro parrocchie più piccole. Si trova nel municipio di Solano a cui appartiene uno dei parchi naturali più estesi e belli dell’Amazzonia colombiana: il parco del Chiribiquete. Nei suoi pressi troviamo comunità indigene autoctone (Coreguaje, Huitoto e Murui) che vivono in riserve riconosciute dal governo colombiano e con una certa autonomia e legislazione propria.

Nel parco vero e proprio è proibito l’accesso a chiunque (anche se, con molta probabilità, al suo interno si sono rifugiati gruppi della guerriglia), ma ci vivono almeno tre comunità indigene in isolamento volontario, ovvero che non sono venute a contatto con la «civiltà» occidentale.

L’Amazzonia e Francesco

In questi ultimi anni, da territorio dimenticato e marginale, l’Amazzonia è diventata luogo di somma importanza per la vita dell’umanità. Anche papa Francesco l’ha posta al centro dell’attenzione a livello ecclesiale sia per la salvaguardia del Creato, sia per le popolazioni che in questo territorio vivono.

Oltre ad aver scritto nel 2015 l’enciclica «Laudato Si’» sulla cura della Casa comune, nel 2019 Francesco ha indetto il Sinodo per l’Amazzonia. Il documento post sinodale è stato accompagnato dalla lettera «Querida Amazonia». Inoltre, il pontefice ha fatto nascere la Ceama, la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia. Prima del Sinodo, era sorta la Repam, la «Rete ecclesiale panamazzonica» per raccogliere tutte le forze presenti nell’Amazzonia, dove sono presenti più di cento giurisdizioni ecclesiastiche.

Fospa 2024, Bolivia: riunione del gruppo di lavoro sulla «Crisi climatica». Foto Angelo Casadei.

La nascita del Fospa

Sapendo che l’unione fa la forza, nel 2002 persone, associazioni e gruppi hanno dato vita a uno spazio d’articolazione per proteggere quello che viene chiamato il «polmone» del pianeta e così è nato il Fospa, il «Foro sociale panamazzonico».

Nel 2017, a Tarapoto, in Perù, avevo partecipato all’ottava edizione del Fospa. Quest’anno l’undicesima edizione dell’incontro si è tenuta dal 12 al 15 giugno scorso, a Rurrenabaque, San Buenaventura y Reyes nell’Amazzonia boliviana dove ho avuto la fortuna di partecipare assieme a padre Fernando Flóres e Tania Ruiz del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano.

Da un’Amazzonia all’altra

Siamo arrivati in Bolivia in anticipo per trascorrere due giorni a La Paz, la capitale amministrativa più alta del mondo, a 3.600 metri sopra il livello del mare. E qui abbiamo avuto modo di vedere – con i nostri occhi – cosa produce il cambiamento climatico.

Con una guida turistica siamo, infatti, stati sul massiccio di Chacaltaya, a 5.421 metri d’altezza, unico centro di sport invernali della Bolivia e anche il più alto del mondo e più vicino alla linea equatoriale.

A causa del riscaldamento globale, dal 2009 il ghiacciaio (risalente a 18mila anni fa) è praticamente scomparso, lasciando il posto a un deserto di rocce. Nel gruppo delle dodici persone in visita al luogo c’era un signore olandese che ha raccontato la sua esperienza negli anni Settanta come sciatore in questo stesso luogo.

Mappa della Panamazzonia senza i confini politici.

Sulla crisi climatica

A quest’ultimo Forum hanno partecipato 1.200 persone provenienti dai nove Paesi dell’Amazzonia, ma anche dall’Africa. I partecipanti sono stati divisi in quattro grandi gruppi, attorno ad altrettanti temi: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre Terra, estrattivismo e alternative, resistenza delle donne.

Io ho fatto parte del gruppo Madre Terra. Il tema è stato diviso, a sua volta, in cinque aree di studio. Personalmente, ho partecipato al gruppo di lavoro sul «Cambio climatico» («Crisi climatica») che noi abbiamo ribattezzato «Collasso climatico».

Inizia così il nostro documento finale: «L’Amazzonia ha raggiunto il punto di non ritorno: il collasso climatico derivante dalla deforestazione e dall’estrattivismo minaccia la sua sopravvivenza, quella delle comunità che la abitano, e mette a rischio la vita dell’intero pianeta».

Si è insistito molto sul fallimento del cosiddetto «accordo di Parigi» (per limitare il riscaldamento globale, entrato in vigore nel novembre 2016) e sulla solidarietà tra i popoli per frenare ogni tipo di meccanismo perverso.

Oggi la situazione è preoccupante: «Senza l’Amazzonia non esiste soluzione alla crisi climatica. Senza una soluzione alla crisi climatica globale non sarà possibile salvare l’Amazzonia».

Abbiamo riflettuto per un accordo a favore della vita, e proposto un cambio dalla base, con una «minga» (termine quechua per indicare un lavoro comunitario) e cioè un tavolo di lavoro collaborativo tra i vari continenti, partendo dal nostro sentire e pensare. Per rendere realtà l’urgente richiesta di «cambiare il sistema capitalista e non il clima» occorrerà: costruire territori liberi da estrazione petrolifera e mineraria, deforestazione, agrocommercio, inquinamento, libero commercio, razzismo, colonialismo, prodotti transgenici, prodotti agrotossici, megaprogetti infrastrutturali, violenza, militarizzazione, genocidio e terricidio.

«Oggi – hanno spiegato i partecipanti – è chiaro che soluzioni reali ed efficaci arriveranno dalle nostre lotte, dai nostri territori, dalla nostra esperienza, dalla nostra capacità di autogestione e dalle nostre alternative».

A casa dei Chimanes

Oltre a partecipare ai lavori di gruppo, abbiamo avuto l’opportunità di visitare una delle tante comunità indigene del territorio. Siamo così stati a San José di Canaan, una comunità di Chimanes (detti anche Tsimané) che vive in una riserva riconosciuta dal governo. Attorno a loro ci sono altri ventitré villaggi indigeni che lo scorso anno hanno vissuto un terribile incendio durato quasi tre mesi. Con tutte le loro forze hanno cercato di domarlo ma l’incendio ha distrutto intere comunità. Anche San José ha perso molti raccolti, ma si è riusciti a circoscrivere la perdita all’esterno del villaggio. È stato un disastro umano e ambientale molto grande. Oggi ci sono famiglie con bambini delle comunità distrutte, che vanno nei ristoranti e negozi dei due paesini di Rurrenabaque e San Buenaventura a chiedere elemosina.

La comunità San José ci ha accolto con una danza e un discorso di benvenuto nella propria lingua.

In seguito, alcuni di loro han- no raccontato il dramma vissuto. Molto interessante è stato vedere come le comunità si siano assunte le loro responsabilità proponendo criteri e metodologie affinché, in futuro, gli incendi non vengano favoriti dagli stessi abitanti.

Sono state stabilite norme precise come non diserbare con il fuoco ma triturare la vegetazione perché rimanga come concime per la terra. E quando, eventualmente, si dovesse pulire un terreno con il fuoco, non farlo nei quattro mesi di tempo secco e cercare sempre la presenza di tutta la comunità perché possa intervenire in caso d’emergenza.

La lezione che abbiamo appreso dall’esperienza di San José è la seguente: non bisogna aspettare che il cambiamento arrivi dall’alto, occorre iniziare da noi stessi a realizzare azioni utili per un futuro migliore.

I nostri comportamenti

Come sanno benissimo i lettori di Missioni Consolata, bisogna rivedere il nostro stile di vita. Quindi, è indispensabile ridurre il consumo di acqua, non sprecare energia elettrica, utilizzare meno carta, muoversi di più a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici, ottimizzare i sistemi di riscaldamento e raffreddamento in casa, ridurre gli sprechi alimentari, piantare alberi, riciclare, recuperare.

Qui, nella nostra parrocchia, stiamo spingendo a non utilizzare recipienti monouso. La stessa gente del paese sta guardando alle istituzioni che rispettano l’ambiente. Questo diventa un incentivo per aumentare la sensibilità verso la custodia della natura e dell’Amazzonia tutta.

Angelo Casadei

In visita alla comunità indigen di San José di Canaan. Foto Angelo Casadei.


Puerto Leguízamo, esperienze concrete a livello di territorio

Dalle parole ai fatti

«L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di apportare cambiamenti negli stili di vita, nella produzione e nei consumi, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano» (Laudato Si’, 23).

Nel 2015, il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano ha iniziato l’attuazione di un progetto sul Cambiamento climatico sotto la direzione del padre José Maria Córdoba Rojas, all’epoca direttore della Pastorale sociale. L’intervento è stato realizzato nella zona di Nuestra Señora de la Mercedes del Comune di Solano Caquetá.

Obiettivo del progetto: aumentare la resilienza delle comunità contro i rischi di siccità e inondazioni, attraverso metodi di produzione adattati e sostenibili, con la partecipazione di cento famiglie (di cui novanta contadine e dieci indigene) situate nelle veredas (comunità rurali con coloni provenienti da altre regioni, ndr) di Mononguete, Las Mercedes, Hericha, Peñas Blancas e nel resguardo (comunità indigena autoctona, ndr) la Teófila.

L’intervento è stato realizzato tenendo conto delle popolazioni più vulnerabili, cercando nelle comunità un cambiamento nei modi di vita in armonia con il territorio amazzonico. Attraverso i processi formativi è stato possibile per le famiglie trasformare un atteggiamento passivo in uno sguardo critico e riflessivo sulla realtà sociopolitica, economica ed ecologica, a partire dalla gestione delle proprie aziende agricole e da come vengono visti il territorio e la comunità.

A livello comunitario è stata rafforzata la leadership, sono state formulate, gestite e realizzate piccole iniziative per progetti infrastrutturali e per la lavorazione del latte e del miele di canna. Attraverso spazi di lavoro comunitario e scambi di esperienze e visite tra produttori, è stato possibile conoscere nuove visioni del territorio, pratiche agroforestali sostenibili, scambio di sementi, riconoscimento e valorizzazione delle tradizioni culturali di alcuni popoli dell’Amazzonia.

Francisco Rodriguez Tovar

Uno dei tanti striscioni esposti durante la marcia da San Buenaventura a Rurrebabaque. Foto Angelo Casadei.


La riflessione

Plurietnici, Pluriculturali, Biodiversi

ARurrenabaque-San Buenaventura ci siamo riconosciuti plurietnici, pluriculturali e biodiversi, ma immersi in una visione d’insieme chiamata Amazzonia, superando così i confini imposti dai nove Stati nazionali in cui il territorio amazzonico è stato suddiviso.

L’Amazzonia vive perché respira attraverso la complessità delle sue foreste, acque, flora, fauna e delle culture che si mostrano nei volti di indigeni e afro, di contadini e residenti fluviali, ma anche abitanti delle città. Questa Amazzonia è però malata e sofferente a causa dei progetti di morte che si sviluppano al suo interno, trasformando la Madre Terra in una semplice risorsa monetaria venduta al miglior offerente.

Se sul pianeta tutto è connesso, una «foresta» non funziona senza l’altra. La foresta eurocentrica di cemento ha bisogno della foresta amazzonica per preservare la vita nelle sue molteplici forme. Al medesimo tempo, la foresta amazzonica ha bisogno che la foresta eurocentrica prenda coscienza che è impossibile sostenere un consumo infinito con risorse finite. Per tutto questo, accanto ai volti amazzonici, il Fospa ha accolto altri volti provenienti da diverse parti del pianeta che si sono alleati nel grido in favore della vita.

È stato interessante sentire che non si deve aspettare che la cura arrivi solo dall’esterno. È da questa constatazione che scaturisce la necessità di passare dalla condizione di vittime a quella di attori, avendo sempre ben chiaro che non c’è cultura senza territorio, non c’è territorio senza conoscenza, saperi e memoria, non c’è territorio senza acqua.

L’autonomia non si ottiene solo da un documento, ma da un territorio con le caratteristiche preesistenti che comprendono spiritualità, cibo e salute. Siamo autonomi quindi se viviamo, se produciamo e se abbiamo la capacità di curarci.

Il Fospa porta avanti il grande sogno di vedere il territorio come la Madre da cui tutti dipendiamo e l’essere umano come fratelli e sorelle diversi, sì, ma uniti da un unico scopo: coltivare, proteggere, guarire e tessere la vita che ci è stata data in eredità dalle nostre antenate e antenati. Il Fospa – infine – è servito per condividere una Parola che è arrivata al cuore e che ognuno di noi partecipanti si è portato con sé per essere risvegliata nei propri territori.

Fernando Flórez Arias (Imc)