Un tuffo nel futuro


C’è un gioco di «iniziazione» interessante che ho visto fare in gruppi di giovani e ragazzi: sei bendato, in piedi in mezzo ad un cerchio di amici, e devi lasciarti cadere all’indietro senza paura, sicuro che ci sono braccia pronte a raccoglierti, sostenerti e proteggerti. È un esercizio ansiogeno, ma aiuta a cementare la coesione e far crescere la fiducia gli uni negli altri. Una scena simile a quella di Pietro che vuole andare da Gesù sulle acque in tempesta. La risposta di Gesù è semplice: «Vieni». Pietro si butta. Cammina sull’acqua, ma la tempesta è forte, il vento impetuoso. Si spaventa, comincia a dubitare, affonda. Un grido: «Salvami!». Ed ecco, subito, una mano tesa è lì per lui. «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Ho davanti agli occhi queste due scene, Pietro e i ragazzi, mentre penso a quanto stiamo vivendo noi missionari della Consolata. Il prossimo 22 maggio, a Roma, inizieremo il tredicesimo capitolo generale al quale ci stiamo preparando ormai da molti mesi. Il capitolo è un incontro che avviene ogni sei anni. Ci vanno di diritto i superiori dei vari gruppi sparsi nel mondo e poi diversi missionari liberamente eletti dai confratelli. In tutto una cinquantina di persone che hanno il compito di analizzare e valutare il cammino fatto, ma soprattutto di tracciare il camino per il futuro. Tutto semplice in tempi ordinari, ma l’oggi della missione sembra più un mare in tempesta che un tranquillo lago alpino. Quello che un tempo era chiaro, oggi non lo è più. Ieri essere missionario era uscire dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, da un ambiente «cristiano» e andare lontano verso chi «cristiano» non era. Oggi ci si chiede «dov’è la missione?» e la risposta non è più univoca: la missione è ovunque. Essere «Chiesa in uscita» non significa più soltanto «attraversare i mari», non si qualifica più per la dimensione geografica, ma è un movimento di incontro con l’uomo, l’altro, secondo lo stile di Gesù che ha scelto le periferie, i peccatori, i poveri, gli ammalati, gli «scarti»… ovunque essi siano, anche appena fuori dell’uscio di casa o addirittura dentro casa, dove arrivano «calandosi dal tetto».

Tutto bello, tutto nuovo, anzi, tutto antico e collaudato, visto che si rifà a Gesù stesso. Dove sta il problema allora? Dov’è il mare tempestoso? Presentando il capitolo, il nostro superiore, padre Stefano Camerlengo, ricorda due obiettivi: rivitalizzazione e riorganizzazione. Riorganizzazione significa prendere atto del fatto che (dal punto di vista religioso) l’Italia (e l’Europa) non è più al centro ma è diventata periferia. Questo è ormai evidente, ma non per questo accettato da tutti. Riorganizzare indica efficienza, essere al passo coi tempi, stare attenti alle «leggi del mercato», prendere atto che i missionari italiani sono una «specie in via di estinzione» e che le nuove forze vengono dal Sud del mondo e quindi bisogna «delocalizzare». È un processo doloroso che richiede sacrifici, tagli, abbandoni, ma ha una sua logica ineluttabile, come ci dimostrano le decine e decine di conventi, case religiose e chiese in vendita in ogni angolo del Belpaese. Potremmo dire allora che riorganizzare è una questione di «quantità» e di «fare».

Rivitalizzare è invece tutta un’altra storia in un tempo in cui i «vecchi» sono tentati dallo scoraggiamento e i «giovani» dalla globalizzazione della modernità. Parla di vita e tocca profondamente la «qualità» e l’«essere». Prendo un esempio per tutti. È più facile dire «impegniamoci affinché il beato Allamano sia dichiarato santo» o dire «diventiamo santi come ci vuole il beato Allamano»? Ed è proprio su questo punto che si gioca il futuro dei missionari della Consolata e del loro bellissimo servizio al mondo e al Vangelo. O imparano a fare come i bambini che si fidano ciecamente dei loro amici e come Pietro che si aggrappa alla mano di Gesù nel lago in tempesta, oppure anche le strategie più belle finiranno in niente.

Il beato Allamano ha ripetuto più volte che a fondare l’Istituto non è stato lui ma la Consolata. Da Maria, Consolatrice e Consolata, i suoi missionari devono imparare a fare un tuffo di fiducia nelle mani di Dio. Solo così, con occhi e orecchie, cuore e mente aperti per scoprire il sentiero che Dio ha tracciato per loro in questo oggi difficile, saranno «semplici servi» che «fanno bene il bene» senza lasciarsi condizionare dalle paure o sentirsi arrivati. «Prima santi», diceva l’Allamano, «e poi missionari», professionisti che agiscono con prudenza e coraggio, con realismo e creatività.

Ci aspetta un tuffo coraggioso nel futuro della Missione. Per questo abbiamo bisogno di voi, nostri amici, nostri tifosi, la nostra «curva». Contiamo sul vostro affetto e la vostra preghiera per vincere la partita contro lo scoraggiamento, la mediocrità, la tentazione del «si è sempre fatto così», la presunzione di essere indispensabili, la paura del nuovo.

Grazie a nome di tutti i capitolari e di tutti i missionari della Consolata.




Interrogativi


Scrivo in un giorno particolare, l’8 marzo, quando si dedicano fiumi di parole alla «donna». Parole dovute, parole sincere e anche (troppe) parole d’occasione e d’opportunità. Confesso di avere almeno due interrogativi in proposito. Uno: quando diciamo «donne», a che donne pensiamo? Riusciamo a includere anche le donne rom che rovistano tra gli scarti dei supermercati, le schiave-prostitute sulle nostre strade o nei più discreti centri di benessere, le migranti sfruttate e abusate durante il calvario per venire da noi e poi rinchiuse in centri di raccolta o addirittura campi di prigionia della nostra Europa? Due: fa piacere vedere così tante iniziative in favore della donna, ma mi piacerebbe vederne qualcuna anche per quell’altra parte dell’umanità che è l’uomo per aiutarlo a cambiare testa e cuore nel suo modo di relazionarsi con la donna.

Ho conosciuto in Kenya una giovane donna africana di successo, lavora con una multinazionale, ha un ottimo salario e un grosso cruccio: non riesce a trovare uno che la voglia sposare perché «è troppo su» e un uomo con un salario più basso del suo si sentirebbe inferiore a lei.

È davvero possibile migliorare la condizione della donna senza offrire anche all’uomo gli strumenti per cambiare la sua mentalità, senza aiutarlo a trovare una nuova identità sociale e culturale che lo faccia sentire realizzato e felice? Il problema non è far diventare le donne uguali agli uomini, ma creare le condizioni perché nella diversità e complementarietà, uomini e donne vivano insieme con pari dignità, rispetto e opportunità. Non sono così sicuro, per esempio, che le donne soldato siano davvero una conquista.

Un altro interrogativo: sono i morti tutti uguali? L’infelice Dj che si suicida in Svizzera finisce sulla bocca di tutti, con molti pronti a usare il suo dramma per i propri interessi. Una persona qualunque, cronicamente depressa, che si butta da un balcone del suo palazzo o da un ponte, scompare invece nel silenzio e nel pudore delle lacrime dei suoi cari, impotenti di fronte alla sua malattia o disagio. Che una persona si tolga la vita non è una conquista di civiltà, ma una sconfitta, indice di come la nostra società non sia sempre capace di comunicare speranza e di sostenere i più deboli e fragili. E la soluzione non mi pare stia nel promuovere l’eutanasia, ma nel dare senso alla vita, difenderla, promuoverla, renderla vivibile e dignitosa per tutti. La questione delicata dell’eutanasia o del suicidio assistito è, forse, il segnale d’allarme di una cultura che ha perso la speranza nel futuro, vive l’immediato e si consegna alla morte. Un segnale che le statistiche rese note recentemente sulla denatalità e invecchiamento sembrano confermare: 86 mila italiani in meno nel 2016; quasi 100mila aborti; età media del primo parto quasi 32 anni; aumento degli ultra 65enni… Non è forse una società, la nostra, che rischia di perdere la gioia di vivere? Magari ci si diverte anche, ma senza trovare gioia e alcuni tipi di divertimento sembrano utili solo a chiudere gli occhi davanti a un futuro che spaventa e che sa di morte.

E parlando del peso mediatico e politico di alcune morti, i morti dell’Africa sono uguali a quelli di Parigi, Berlino o … Rigopiano? Quante sono le vittime di Boko Haram in Nigeria? Quante quelle della guerra fratricida per il petrolio in Sud Sudan? E quelle dell’ennesima siccità in Kenya, Etiopia, Somalia? Quanti scheletri segnano la pista che dall’Africa Subsahariana portano al Mediterraneo?

Guardavo pochi giorni fa la lista del «martirologio di Beni-Lubero», che è costata la vita a padre Vincent Machozi massacrato il 20 marzo 2016 nel Nord del Kivu, RD Congo. Contiene i nomi e le foto (terribili a dir poco) di oltre 1.000 uomini, donne e bambini uccisi negli ultimi anni da bande armate e anche dall’esercito regolare, che lottano per il controllo dell’estrazione del coltan e altri minerali. Vittime scomparse in un silenzio utile a farci dimenticare che siamo complici involontari di quegli assassinii, visto che il coltan è un «minerale raro costituito da columbite e tantalite, utilizzato per la costruzione di conduttori elettrici e nell’industria bellica, spaziale e delle comunicazioni», fondamentale per i cellulari e i computer ormai onnipresenti nella nostra vita.

Un pensiero positivo per concludere. Una sera ho guardato quasi per caso e con curiosità un pezzo di una serie Tv girata nel bellissimo scenario delle Dolomiti. C’erano due donne in dialogo. Una raccontava di aver scelto di licenziarsi per stare col figlio che stava per nascere, un figlio che sarebbe morto presto a causa di una patologia incurabile. «Perché non hai abortito?», ha chiesto l’altra. «Perché anche un solo attimo di amore vale tutto», ha risposto.

Vale tutto! Come il «bicchiere d’acqua dato al più piccolo» o gli insignificanti spiccioli della vedova nel tintinnante tesoro del tempio. Forse davvero è tempo di meno parole e più piccoli fatti di amore, nel quotidiano, nelle relazioni di ogni giorno per ridirci che vale la spesa vivere, che l’amare «vale tutto» ed è più forte della morte e della disperazione.




Priorità


C’è veramente da essere confusi di questi tempi. Dovessimo misurare il livello di felicità degli italiani in base alle notizie riportate da giornali, Tv e social, ci sarebbe da piangere. Evito di entrare nei particolari del catalogo di tristezze che insistentemente, ossessivamente, ogni giorno ci vengono buttate addosso. Un catalogo abbellito da «fatti alternativi» (alternative facts, come definiscono le menzogne gli uomini di Trump), che spopolano sui social perché piacciono tanto a chi cerca la conferma di quanto già pensa e non la verità spesso scomoda, e reso stuzzichevole dal collaudato sport nazionale che è la «caccia al colpevole». Uno sport interessante, perché ha il pregio di a) permetterti di rifiutare la realtà; b) dare la colpa a qualcun altro; c) assolverti dalle tue responsabilità; d) farti sentire dalla parte del «giusto».

Così come «giusti» si sono sentiti quelli che a Roma, nascondendosi nel buio e nell’anonimato, hanno tappezzato la città di manifesti per contestare papa Francesco che sta mettendo a nudo i «fatti alternativi» e le ipocrisie di un certo modo di dirsi cristiani e poi essere immanicati con giochi di potere, arrivismi economici, favori politici e stile di vita mondano. «Giusti» si sentono i paladini della «grandezza» che costruisce muri, esclude e schiavizza i poveri, rafforza i privilegi di chi è già ricco, sfrutta il pianeta come se fosse proprietà esclusiva di pochi, detta le regole su chi ha il diritto di vivere e su chi invece non deve neppure nascere, su chi può lavorare con dignità e chi può essere sfruttato e precario…

Nel messaggio per la Quaresima di quest’anno, papa Francesco prende ispirazione dalla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), affinché ci lasciamo «ispirare da questa pagina così significativa, che ci offre la chiave per comprendere come agire per raggiungere la vera felicità e la vita eterna, esortandoci ad una sincera conversione». Le parole del papa sul ricco senza nome sono illuminanti per decodificare l’atteggiamento da «giusti» (chiedo scusa se abuso così di questa parola, che in altri contesti ha invece un significato molto positivo). Nel ricco, scrive il papa, «si intravede drammaticamente la corruzione del peccato, che si realizza in tre momenti successivi: l’amore per il denaro, la vanità e la superbia».

Amore al denaro: «Dice l’apostolo Paolo che “l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,10). Essa è il principale motivo della corruzione e fonte di invidie, litigi e sospetti. Il denaro può arrivare a dominarci, così da diventare un idolo tirannico. Invece di essere uno strumento al nostro servizio per compiere il bene ed esercitare la solidarietà con gli altri, il denaro può asservire noi e il mondo intero a una logica egoistica che non lascia spazio all’amore e ostacola la pace».

Vanità: «La cupidigia del ricco lo rende vanitoso. La sua personalità si realizza nelle apparenze, nel far vedere agli altri ciò che lui può permettersi. Ma l’apparenza maschera il vuoto interiore. La sua vita è prigioniera dell’esteriorità, della dimensione più superficiale ed effimera dell’esistenza».

Superbia, il «gradino più basso»: «L’uomo ricco si veste come se fosse un re, simula il portamento di un dio, dimenticando di essere semplicemente un mortale. Per l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze non esiste altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non entrano nel suo sguardo. Il frutto dell’attaccamento al denaro è dunque una sorta di cecità: il ricco non vede il povero affamato, piagato e prostrato nella sua umiliazione».

Lazzaro è invece il povero che ha un nome: «un nome carico di promesse, che alla lettera significa Dio aiuta. Perciò questo personaggio non è anonimo, ha tratti ben precisi e si presenta come un individuo a cui associare una storia personale». Anche se sembra «un rifiuto umano … Lazzaro ci insegna che l’altro è un dono. La giusta relazione con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore. Anche il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita».

In un tempo nel quale la tentazione è quella di costruire muri per tener fuori chi è altro, diverso, povero, migrante; di credere ai «fatti alternativi» per non vedere ed essere obbligati a cambiare stile di vita; di mettere se stessi al centro del mondo e sentirsi vittime di un’aggressione continua; in questo tempo la Parola di Dio e la voce del papa ci invitano invece a «convertirci», a rivedere le nostre priorità, a creare relazioni, a lasciarci interpellare e coinvolgere dagli «scarti» del mondo. Finché sarà prioritario «l’io» sul «noi», continueremo ad alimentare gli stessi atteggiamenti di vanità, superbia e litigiosità che da sempre caratterizzano il nostro mondo europeo. L’occasione che ci viene invece offerta dalla presente crisi globale è quella di costruire relazioni nuove, diventando veramente cittadini del mondo e, soprattutto, vivendo davvero quella che è la nostra identità più profonda, quella di uomini e donne «figli e figlie di Dio», membri della famiglia umana.




La non violenza: stile di una politica per la pace


Il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace 2017 è talmente intenso e profondo da meritare una lettura nella sua integralità senza essere annacquato da commenti. Buona lettura. Originale da vatican.va

 


1 All’inizio di questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Goveo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa «dignità più profonda»[1] e facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.

Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «È finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie inteazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».[2] Colpisce l’attualità di queste parole, che oggi non sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa.

In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli inteazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.

Un mondo frantumato

2 Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i modei mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa.

In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”?

La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti.

La Buona Notizia

3 Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».[3]

Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio».[4] Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”».[5] Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».[6]

Più potente della violenza

4 La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo».[7] Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».[8] Nello scorso mese di settembre ho avuto la grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità verso tutti attraverso «l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. […] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi».[9] In risposta, la sua missione – e in questo rappresenta migliaia, anzi milioni di persone – è andare incontro alle vittime con generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito, guarendo ogni vita spezzata.

La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.

Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».[10] Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie intee ed alla guerra in quelle inteazionali».[11]

La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.

Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».[12] Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».[13] La violenza è una profanazione del nome di Dio.[14] Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!».[15]

La radice domestica di una politica nonviolenta

5 Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentirnero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.[16] Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.[17] D’altronde, un’etica di frateità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica.[18] Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.

Il Giubileo della Misericordia, conclusosi nel novembre scorso, è stato un invito a guardare nelle profondità del nostro cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio. L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana. «L’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Una ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».[19]

Il mio invito

6 La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni inteazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni inteazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[20] Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.[21] Certo, può accadere che le differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e nonviolenta, così che «le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita», conservando «le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[22]

Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».[23] Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace.

In conclusione

7 Come da tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla nascita di suo Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra agli uomini e donne di buona volontà (cfr Lc 2,14). Chiediamo alla Vergine di farci da guida.

«Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla».[24] Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».[25]

Dal Vaticano, 8 dicembre 2016

Francesco




Caro Gesu bambino


Non ho più l’età per scriverti la letterina di Natale, ma mi piace tornare un po’ bambino. Ti scrivo mentre il mondo cerca di digerire la notizia dell’elezione di mister Trump a presidente degli Stati Uniti. C’è chi scrive di una rivoluzione, se positiva o negativa non si sa. A me pare però che il fatto che i mercati finanziari non si preoccupino più di tanto la dica lunga. Probabilmente saranno ancora loro a dettare le regole della realpolitik. «Cane non mangia cane», si dice. Dopotutto prima che presidente, Trump è un miliardario e, anche se eletto coi voti degli impoveriti, non me lo vedo dalla parte dei poveri, degli esclusi, degli stranieri e per la pace. Se fosse stato lui il faraone quando la tua famiglia è dovuta fuggire da Betlemme, non so se avreste ottenuto il visto di ingresso in Egitto. A ogni modo lo attendiamo alla prova dei fatti.

Caro Gesù Bambino, come penso ti abbia già ampiamente raccontato papa Francesco, se tu venissi al mondo oggi ti troveresti proprio in un bel casino, non solo per le innumerevoli guerre che fanno stragi di gente indifesa mentre rimpinguano le casse dei signori delle armi, ma anche per le enormi disuguaglianze sociali che stanno riducendo in stato di povertà o semischiavitù gran parte della gente a vantaggio di una minoranza sempre più ricca che può perfino infischiarsene di leggi e governi. Quando sei nato si calcola che ci fossero circa 160/200 milioni di persone in tutto il pianeta, oggi dicono che siamo quasi 7 miliardi e mezzo. Nonostante ai tuoi tempi la schiavitù fosse un fatto normale, non credo che succedesse quello che accade oggi, che cioè le 62 persone più ricche da sole (e lo scrive Forbes) abbiano la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale (3,6 miliardi di persone), e vivano questo senza rimorsi, convinti anzi di essere benefattrici dell’umanità e modelli da imitare. I re Mida di oggi mettono le mani non solo sulle risorse minerarie del pianeta (e dove non ci riescono direttamente lo fanno attraverso i signori della guerra, le mafie, i predoni e i guerriglieri vari), ma anche sulle sementi, sulle piante e i fiori, su tutto, brevettando e patentando a tutto spiano, come se fossero loro i creatori del mondo. Immagina che hanno perfino provato a monopolizzare la pioggia, tassando chi la raccoglieva dal tetto di casa.

E stanno mettendo le mani anche sul tuo Natale, svuotandolo di te per riempirlo di cose. Da festa dell’accoglienza della vita lo stanno trasformando in un mercato planetario all’insegna del buonismo fatto spettacolo. Guardare te, invece, fa bene alla testa e al cuore, perché ci apre a orizzonti nuovi, ci dà la chiave per capire il senso vero della vita, ci inviti ad alzare la testa e a vedere con fiducia questa nostra umanità.

Sai, se c’è una cosa che mi ha sempre colpito molto di te è che hai voluto nascere povero tra i poveri, in periferia, condividendo la sorte della maggioranza degli uomini, la cui ricchezza non sta in quello che possiedono ma nel calore del cuore. E sei nato in disparte, fuori dalla confusione e dal clima da fiera del caravanserraglio (no, non era certo un «albergo» come intendiamo noi) dove tutti i viaggiatori si fermavano. Sei nato in un luogo più adatto a quell’atto «sacro» che è una nascita, nella quiete del luogo dove si tenevano al caldo gli animali più piccoli e deboli. Cucciolo tra i cuccioli, tu sei stato accolto dalla premura semplice, efficace e sbrigativa di donne abituate alla durezza della vita, alla normalità di un parto, capaci di dare sicurezza a tua madre, giovane e inesperta. Hai voluto essere accolto dal calore e dalla fragilità dell’umanità più autentica e più semplice, lontano dalla pompa dei potenti e dal servilismo che li circonda. Nascesti fidandoti della povertà di chi ha nulla ed è capace di dare tutto, come quei bimbi che escono alla vita sui precari gommoni dei migranti, negli ospedali bombardati di Aleppo o nelle tendopoli dei terremotati.

Sei nato «nella pienezza del tempo», dice Paolo ai Galati. Pensa che quand’ero bambino mi hanno perfino fatto credere che tu avessi scelto il tempo migliore per nascere, il «tempo» della pace garantita dal potere di Roma, dominatrice del Mediterraneo. Adesso capisco quanto fosse falso tutto ciò perché ignorava le sofferenze causate da quel dominio, che usava quel censimento non certo per dare una vita migliore ai tuoi genitori e alle gente come loro, ma per sfruttarli meglio.

Nascendo così hai iniziato la vera rivoluzione che continua ancora oggi: quella di affidare il futuro del mondo ai poveri, ai piccoli, a chi non ha mezzi ma ha solo la ricchezza di una «umanità autentica», quella stessa umanità che tu hai scelto diventando uno di noi per farci diventare come te.

Con la tua nascita ci hai detto che credi nell’uomo, che Dio crede in noi. È bellissimo questo. Soprattutto oggi, quando, fiaccati dalla crisi, dalla mancanza di prospettive e dall’incattivimento della società, siamo tentati dalla sfiducia e dallo scoraggiamento. Grazie Gesù Bambino.




Le tre p: pace, perdono, pazienza


A fine settembre e inizio ottobre in redazione si è vissuto col fiato sospeso nell’attesa del risultato del referendum pro o contro l’accordo di pace tra il governo della Colombia e le Farc, accordo che avrebbe dovuto cambiare la vita di quel paese dilaniato da ben 52 anni di instabilità e guerra che hanno causato danni e dolori inenarrabili. Ma il risultato non è stato quello che si sperava e ci ha lasciati con l’amaro in bocca, nonostante il meritato premio Nobel al presidente della Colombia Juan Manuel Santos, e con l’affanno di revisionare il nostro dossier nato nella speranza di celebrare la vittoria del «sì».

In tale contesto è stato abbastanza naturale pensare ad altre situazioni di non-pace e di guerra aperta che esistono nel mondo, così numerose e gravi da far ripetere con insistenza al nostro papa Francesco che stiamo vivendo la terza guerra mondiale. I fronti sono talmente numerosi che non c’è continente che ne sia risparmiato. Le domande che disturbano, guardando a realtà come quelle della Colombia, del Sud Sudan, della Siria sono tante: perché la pace non è possibile? perché, nonostante i millenari fallimenti della guerra, la si preferisce alla pace per risolvere contese? perché, per assurdo, si pensa che ci sia più giustizia in una guerra che in una scelta di pace? perché si crede non ci sia giustizia nel perdono e nella riconciliazione? E in nome della giustizia, della giusta riparazione, si continua a combattere, illudendosi che solo una delle due parti, ovviamente quella nel torto, soffra, mentre l’altra (naturalmente chi è convinto di aver ragione) celebra (o piange?) i suoi caduti eroi. Intanto produttori e venditori di armi giubilano all’impinguarsi dei loro profitti.

Non sta a me dare la definizione di pace (la prima «p»), ma certo non è solo «assenza di guerra». Pace è un modo di esistere, di relazionarsi, di abitare. Pace non è assenza di «conflitto», è anzi riconoscere il conflitto per risolverlo per il bene di tutti, senza vincitori né vinti, ma tutti vincitori. Pace implica armonia, bellezza, gioia, frateità, sicurezza, rispetto, diversità, libertà, solidarietà, equità. Pace è il bene di tutti ma anche la possibilità per ognuno di essere sé stesso, di realizzare la sua vita, di essere felice. Pace è sogno dell’uomo e dono di Dio, punto di arrivo di tutte le nostre aspirazioni. Nella pace fiorisce l’arte, la musica, la cultura.

Ma non c’è pace senza perdono (seconda «p»). Perdono è far prevalere l’amore su tutto il resto. È far sposare il noi con l’io, la gratuità con la legge, il bene comune col diritto individuale; è far prevalere la fiducia sulla diffidenza, la speranza sul pessimismo, la redenzione sulla condanna. Perdonare è riconoscere che il torto non è mai da una parte sola, come la sofferenza e la distruzione. Perdonare è il rifiuto di pensare l’altro come totalmente malvagio e senza redenzione. È credere che l’amore può vincere nel cuore dell’uomo «come scriveva il grande Nelson Mandela: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.” Dobbiamo solo crederci col cuore e con la mente!» (da post su Facebook di G. Albanese).

La terza «p» è pazienza, come quella che Dio ha con noi uomini. Una pazienza talmente grande da aver sconfessato nei secoli tutti i profeti di sventura, minaccianti fuoco e fiamme sui malvagi, fautori di tribunali di inquisizione, amici dei roghi o del taglio di mani e di teste per purificare il mondo da chi non la pensa come loro. Pazienza è saper ricominciare e perseverare ogni giorno, seminando ostinatamente piccoli semi di pace e di amore là dove uno vive, senza la pretesa di fare grandi rivoluzioni, di finire in prima pagina o di ottenere «tutto e subito». Pazienza è tessere relazioni nuove e «farsi prossimo» di chi ti è vicino a cominciare dalla tua scala, dal tuo palazzo, dalla tua via. Pazienza è essere inermi nelle situazioni in cui l’umanità è più violentata, come i missionari e i volontari che danno tutto sé stessi, anche la vita se necessario, nel cuore del Sud Sudan, nelle terre dilaniate da Boko Haram, nell’inferno di Aleppo, nell’isola di Haiti devastata dal ciclone Matthew, nelle foreste dell’Ituri saccheggiate dai predatori di legname e minerali, nelle periferie delle megalopoli … Un’elenco impossibile da completare.

La pazienza dell’amore costruisce la pace offrendo il perdono che dona ai nemici la possibilità di riscoprirsi fratelli, di prendersi carico delle proprie responsabilità, di reinventare relazioni, di aprirsi alla speranza. La pace è il dono che Gesù stesso ci ha dato, pagandolo con l’offerta della sua vita. Un dono troppo prezioso per essere lasciato solo nelle mani dei politici e dei maneggioni di questo mondo. Continuiamo insieme a «sognare» la pace.




Dov’era Dio


«Dio è l’essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra». Così avevo imparato tanti anni fa al catechismo. Chiaro e indiscutibile. Perfetto Dio, perfetta l’opera delle sue mani. Rovinata però dall’uomo che, col suo peccato, ha scombussolato tutto il lavoro di Dio. Tutto chiaro e logico, fino a quando non ti capita una disgrazia, un terremoto, una malattia incurabile. E ti domandi: come è possibile che tutto questo sia colpa dell’uomo? Sarà pure uno che combina disastri e inquina, ma non è lui che ha inventato i terremoti, i tornado, gli tsunami, i virus… È colpa di Dio allora: la disgrazia, la terra che trema, le case crollate, tutti quei morti. E le malattie, le morti degli innocenti e dei bambini. È abbastanza normale prendersela con Dio quando le cose vanno male. Altrimenti di chi è la colpa?
Quando leggerete queste righe l’emozione mediatica sul terremoto che ha distrutto Amatrice e i paesi vicini sarà già scemata, anche se la situazione di chi abita quei paesi continuerà a essere molto dura. Anche se la domanda non avrà ancora ricevuto risposta: dov’era Dio quando sono morti tanti innocenti?
Ho guardato con partecipazione e dolore alle sofferenze di chi in pochi secondi ha perso tutto, casa e persone amate. Anch’io mi sono chiesto «Dov’era Dio quella notte?». Faticando a trovare una risposta che mi appagasse, mi sono allora fatto una seconda domanda: «Dovera l’uomo (prima di) quella notte?».
Da sempre l’umanità conosce terremoti e disastri naturali. Un tempo pensava che fossero frutto di forze oscure, serpentoni, diavoli e mostri vari. Oggi invece abbiamo le conoscenze e i mezzi per capire, prevedere, prevenire. Conosciamo che la terra si muove e si deve muovere, guai se non si muovesse. «Panta rei», diceva Eraclito quasi 2500 anni fa, tutto si muove. E sappiamo che movimento è vita. I terremoti sono «normali» nella dinamica della terra. Sappiamo come costruire in modo sicuro, per prevenire morti e distruzioni irreparabili. Eppure non lo facciamo o lo facciamo male e così un terremoto diventa il catalizzatore che mette a nudo il «lato oscuro» della nostra umanità: l’incuria, il disinteresse, l’approfittare delle disgrazie altrui, l’avidità di chi mette soldi e guadagno al primo posto a spese della vita di altri. L’uomo avrebbe potuto evitare il disastro, ma non lo ha fatto.
Ma quello stesso uomo del prima terremoto, irresponsabile e troppo fiducioso nella sua fortuna, l’ho visto dopo sotto le macerie a chiedere salvezza e sopra le macerie a offrire aiuto.
E ho intravisto una risposta alla domanda «dov’era Dio quella notte». Dio era là: piangendo con chi piangeva, accogliendo nelle sue braccia quelli che la morte non aveva risparmiato, condividendo la sorte di chi si sentiva smarrito, la rabbia di chi si sentiva ingannato e abbandonato. Dio c’era. Era là per farsi carico della speranza, ridare fiducia all’umanità tramite lo slancio generoso dei soccorritori, i volti impolverati di chi scavava a mani nude per salvare una vita, la pietà di chi ricomponeva i corpi martoriati, la dedizione di chi curava i vivi, la presenza instancabile del vescovo di Ascoli.
Dio era là per dire ancora una volta il suo amore per l’uomo, la sua fiducia nelle sue capacità di riscatto, ricostruzione e cura del creato. Dio era là per ripeterci che crede in noi, nella nostra responsabilità, nella nostra libertà e autonomia, nel nostro cuore e nella nostra intelligenza. Era là per riconfermare che non è pentito di aver affidato il creato all’uomo da lui fatto a sua immagine e somiglianza con la capacità «divina» di fare il suo stesso lavoro. Là Dio, ancora una volta, ci ha mostrato di credere nell’uomo più di quanto l’uomo stesso ci creda.




Bestemmie


Appena arrivato in Kenya, i miei confratelli mi hanno raccontato una storia assai popolare tra loro. Era quella di un giovanotto che, avendo lavorato con operai italiani alla costruzione di una strada, si vantava di sapere la nostra lingua. Sfidato a provare il suo talento, aveva snocciolato una bella sfilza di colorite bestemmie. Buffo e penoso, pensai allora, benché, da bresciano quale sono, fossi abituato fin da bambino a sentirne, soprattutto dai muratori, bestemmiatori seriali, e, diventato poi prete, nelle confessioni di Natale o Pasqua, quando sentivo «mi è scappata qualche bestemmia», riuscissi a immaginare la sfilza di perle italiche sparate in automatico.

Non è certo di quelle bestemmie che voglio scrivere ora, anche se mi hanno sempre messo a disagio per la loro gratuita stupidità. Altre sono le bestemmie che oggi trovo davvero repellenti e inaccettabili, perché feriscono e degradano l’immagine di Dio che è l’uomo.

Una è quell’«Allah akbar» gridato con orgoglio dagli assassini dell’Isis e loro aggregati. Ma come si può urlare che «Dio è il più grande» quando si violenta l’immagine stessa di Dio uccidendo persone innocenti, colpendo di proposito i più deboli e indifesi, stuprando e vendendo donne come se fossero oggetti, o trasformando bambini innocenti in portatori di morte? Quale sarebbe la grandezza di questo dio? Un dio che terrorizza e distrugge l’opera stessa delle sue mani non è dio, non certo il Dio dell’Islam, ma il frutto del più ottuso e superbo, anche se inconsapevole, ateismo. È un idolo di morte fatto a immagine e somiglianza degli uomini che lo usano nel loro delirio di onnipotenza. Di fatto sostituendosi a Dio: non gli uomini strumento di Dio, ma Dio strumento degli uomini.

Il Dio di Gesù Cristo è ben altro. È il Dio della vita e dell’amore, un amore gratuito e totale. È il Dio che – citando Osea 11 – «attira con legami di bontà e con vincoli di amore», che, come un padre, solleva il suo «bimbo alla guancia» e, come una madre, «si china su di lui per dargli da mangiare», mentre il suo «cuore si commuove e l’intimo freme di compassione» (cfr. Lc 15). È il Dio che manda i suoi «angeli» (Lc 9,52) a «guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni», senza «oro né argento, né denaro, né sacca da viaggio, né vestiti di ricambio, né sandali di scorta e neppure il bastone» (forse anche per evitare di usarlo come arma), e a portare come dono la pace, senza imporre niente a nessuno, ma offrendo solo la gratuità dell’amore (cfr. Mt 10). Questo è stato Gesù, l’unico cha ha davvero visto Dio (il Padre) ed è stato capace di mostrarcelo attraverso la sua vita, le sue parole, le sue azioni di misericordia e il dono finale di sé (cfr. Gv 12,44; 14,5ss).

È il Dio amato da santa Maria Goretti che abbiamo ricordato il 6 luglio nella settimana in cui la liturgia ci ha offerto i brani di Matteo e di Osea sopra citati, mentre i media ci narravano degli orrori del mercato delle schiave yazide, in Sud Sudan riprendeva con rinnovata violenza la terribile guerra civile di cui parliamo nelle pagine intee, i corpi delle vittime di Dacca venivano restituiti alle loro famiglie, Emmanuel, giovane marito innamorato, veniva pestato a morte a Fermo, e a Dallas avveniva l’ennesima tragedia a sfondo razzista.

Che c’entra Maria Goretti, uccisa da chi diceva di amarla e voleva solo il suo corpo? C’entra, perché aveva capito che il Dio vero è quello delle vittime, non dei carnefici. E poi perché la sua figura smaschera un’altra bestemmia dei nostri tempi, sempre contro l’immagine di Dio che è l’uomo: il fare del corpo un oggetto di desiderio, che porta, tra l’altro, adolescenti in branco a violentare le loro stesse compagne, giovanissime a concedersi o a esibirsi per non essere escluse dal gruppo, adulti a far fiorire il traffico di bambini e donne per il ricchissimo mercato della prostituzione, pedofilia e turismo sessuale, gruppi mafiosi a controllare e promuovere la pornografia online.

E la lista delle bestemmie non finisce qui. È una violenza all’immagine di Dio, cioè all’uomo, anche il gioco d’azzardo che vende illusioni, rovina famiglie, crea povertà e confonde la scala dei valori nella vita delle persone. Non basta la legalizzazione e il controllo da parte dello stato, che ottiene così miliardi di euro imbrattati di lacrime e sangue, per renderlo accettabile o perfino un diritto. Su un livello più alto è violenza all’uomo anche il grande gioco d’azzardo dei mercati azionari, dove, come abbiamo visto in questo ultimo mese, si bruciano, a dispetto degli affannosi interventi delle istituzioni, miliardi su miliardi ipotecando il futuro di intere nazioni e aumentando a dismisura il peso del debito pubblico sulle spalle di ogni persona, il tutto nel nome della libertà di mercato, ma in realtà a solo vantaggio di pochissimi ricchi in delirio di onnipotenza che hanno perso il senso dell’umanità.

Gesù ha detto: «Che vedano le vostre opere di giustizia e rendano gloria al Padre» (Mt 5,16). Contro il moltiplicarsi delle bestemmie ci vogliono opere di bene, fatti di giustizia a opera di «martiri» e «angeli» che con la loro vita rivelino il vero volto di Dio, che è amore.




Orme sull’acqua


I moli galleggianti di Christo, nome d’arte di Vladimirov Yavachev, bulgaro naturalizzato statunitense, sul Lago d’Iseo forse saranno già spariti quando leggerete queste righe, visto che il costosissimo show (dovrei scrivere «installazione artistica») si chiuderà il 3 luglio. L’artista ha promesso: «Vi farò camminare sulle acque, meglio se verrete senza scarpe; sarà una passeggiata dove sentirete le onde sotto i vostri piedi». Beato lui che può permettersi di spendere 10 milioni di tasca sua per realizzare un suo sogno di gioventù e i ben vispi amministratori che hanno colto l’occasione per fare pubblicità al loro lago. Fortunatamente a fine giugno quello è molto più quieto di quanto non lo fosse il Lago di Tiberiade, su cui, circa duemila anni fa, qualcuno aveva camminato durante una tempesta. Non sono rimaste impronte di quella prima camminata e, dicono, neanche quest’ultima ne lascerà, visto che tutto sarà ecologicamente riciclato. Entreranno invece negli archivi della storia, o forse solo nelle memorie dei computer di casa, le migliaia di selfie che i nuovi Pietro, meno spaventati di quello contemporaneo di Gesù, avranno prodotto durante la loro esperienza epocale. Un’esperienza «da Dio».

Già, perché, almeno secondo la Bibbia (Giobbe 9,8), solo Dio cammina sulle acque, non gli uomini. E il salmo 77, confermando che «Tu hai camminato tra acque profonde», aggiunge un particolare interessante: «Nessuno può ritrovare le tue orme». Dio cammina sulle acque e non lascia traccia del suo passaggio. La superficie dell’acqua non le conserva.

Non voglio però entrare nel merito dell’arte di Christo, anche perché sono troppo profano in materia e forse anche un po’ dissacratore. Ho visto le foto di un’altra sua opera in allestimento in Francia. Si tratta della «Mastaba», una piramide di barili di petrolio coloratissimi ammucchiati in bell’ordine in un museo della Provenza. L’immagine mi ha riportato lontani ricordi di centinaia e centinaia di barili dai colori meno sgargianti ma tutti ben ammucchiati uno sull’altro in file ordinate, pronti per essere sepolti per sempre sotto una superstrada in costruzione in Africa. Qualcuno mi ha assicurato che erano vuoti e innocui, interrati là sotto per comodità ed economia. Chissà perché mi è sempre rimasto il dubbio che vuoti proprio non fossero.

Da quel ricordo di barili interrati il mio pensiero è poi andato a Maralal. Con una vena di populismo mi sono chiesto cosa avrebbe fatto con 10 milioni il barbuto vescovo di Maralal che conosce l’odore delle pecore. Forse avrebbe potuto gestire senza angoscia per almeno una decina di anni l’ospedale di Wamba, nella terra dei Samburu in Kenya, là dove i colori artificiali di un maestro dell’arte non servono, perché l’ospedale è circondato dalla bellezza ineguagliabile di splendide siepi di buganvillea sempre in fiore.

Quando vado ad ammirare opere d’arte come quelle di Christo, mi rendo conto di essere un privilegiato, uno dei pochi che può godere di una libertà e di un benessere che la maggioranza degli uomini non hanno. In questo numero della rivista parliamo ampiamente della realtà dell’urbanizzazione massiccia che sta sconvolgendo la vita di interi popoli in Africa, Asia e America Latina. Queste megalopoli hanno un «ventre» di privilegio dove pochi assorbono tutto: servizi, bellezza, cibo, strade, sicurezza, cure mediche, arte, musica, teatri, stadi, palestre e anche magnifiche chiese. Attoo è un immenso serbatornio di manodopera a buon mercato che sopravvive arrangiandosi o vendendosi in un ambiente senza strade, servizi, scuole, acqua, case, sicurezza e arte (e tanto altro!). Chi vive nel «ventre» spesso manco si rende conto della sua situazione di privilegiato e di sfruttatore. Forse capita anche a noi, pure se non viviamo in megalopoli, ma in belle cittadine e paesi italiani ad alta intensità d’arte.

Sono andato a rifare il test delle «orme di schiavitù» (slaveryfootprint.org) che avevo già fatto cinque anni fa. Allora risultava che avevo ben 17 schiavi al mio servizio. Oggi sono peggiorato: ne avrei addirittura 23! Dai jeans dal Bangladesh allo smartphone che va a coltan, dal gas libico per il riscaldamento o il condizionatore ai computer che pur uso per lavoro e non per gioco…

E si ritorna alle «orme». Orme che scompaiono sull’acqua, orme di arte, orme di schiavitù… orme di tanti – missionari, volontari e uomini e donne dal cuore grande – che scelgono di essere con chi è sfruttato dall’avido ventre del mondo, rivelando così l’altra orma, quella invisibile ma vitale di Dio che non ha mai perso la fiducia nell’uomo.




Creare ponti


A fine aprile sui giornali si è scritto del fatto che nelle nostre città la gente si ignora. Notava Alberto Mattioli: «Come vicino di casa potreste avere chiunque: una delizia del genere umano che firma per le vostre raccomandate e vi offre i biscottini cucinati da lui quanto un terrorista dell’Isis che nei ritagli di tempo fabbrica una bomba atomica in cantina. Il problema è che difficilmente lo saprete. Pare infatti che una delle attività più praticate nei condomìni sia quella di evitare i condòmini. Secondo un’indagine on line […] il 61% degli italiani vede con fastidio chi gli vive accanto. Anzi, si sforza proprio di non vederlo. Non potendo eliminarlo, cerca almeno di evitarlo. Siamo passati dal “condominio famiglia” pieno di poveri ma belli dei film Anni Cinquanta al “condominio asociale” di oggi, dove si conosce a malapena il nome di chi vive dall’altra parte della parete e in ogni caso non si ha alcuna voglia di approfondire la conoscenza» (La Stampa, 26/04/2016).

Nello stesso tempo, circolava già il messaggio di papa Francesco per la cinquantesima «giornata mondiale delle comunicazioni sociali» (8 maggio): «L’amore, per sua natura, è comunicazione, conduce ad aprirsi e a non isolarsi. E se il nostro cuore e i nostri gesti sono animati dalla carità, dall’amore divino, la nostra comunicazione sarà portatrice della forza di Dio.

Siamo chiamati a comunicare da figli di Dio con tutti, senza esclusione. […] La comunicazione ha il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione, arricchendo così la società. Com’è bello vedere persone impegnate a scegliere con cura parole e gesti per superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia. Le parole possono gettare ponti tra le persone, le famiglie, i gruppi sociali, i popoli. E questo sia nell’ambiente fisico sia in quello digitale. […] La parola del cristiano, si propone di far crescere la comunione e, anche quando deve condannare con fermezza il male, cerca di non spezzare mai la relazione e la comunicazione».

L’indagine commentata dai giornali, che dava i condòmini milanesi tra i più asociali (69%) seguiti dai torinesi (68%), è specchio di una realtà preoccupante, soprattutto nelle città. È un modo di vita che peggiora in parallelo con la scristianizzazione della nostra società, la quale tende a ridurre tutti a essere individui (uomini centrati sul proprio io) e non favorisce l’essere persone (uomini in relazione). Ne soffre la famiglia, privata degli spazi, costretta in alloggi troppo piccoli e in condomìni allergici ai bambini, e dei tempi di incontro, rubati da un sovraccarico di lavoro e da mille «indispensabili» impegni. Ne soffrono le relazioni tutte, meno «faccia a faccia» e sempre più affidate a supporti digitali. Ne soffre il senso di appartenenza a una comunità e a un luogo reale, con la conseguenza di vantare un sacco di diritti per sé senza assumersi i necessari doveri verso gli altri. Ne soffre anche l’ambiente, violentato da una cementificazione aggressiva, dall’abuso di pesticidi, dall’inquinamento e dall’abbandono. Diventa perfino difficile la vita nelle parrocchie, dove solo alcuni piccoli gruppi riescono a creare relazioni profonde, mentre molti cristiani, pur vivendo nello stesso palazzo e frequentando la stessa chiesa, non si conoscono e si ignorano, nonostante le abitudinarie strette di mano al segno della pace.

Le parole di papa Francesco mostrano invece l’alternativa possibile, che già molti vivono, la vera rivoluzione quotidiana operata da chi crede in Gesù di Nazareth: costruire ponti e abbattere le barriere, creare comunione e fiducia, aprire canali di comunicazione e spazi di incontro. È un’operazione di resistenza, è l’ostinarsi a vedere nell’altro un dono, un arricchimento, un fratello o una sorella. È credere a tutti i costi che non siamo fatti per l’indifferenza, per la guerra, per la paura, ma per la pace e la frateità, per un mondo in cui ognuno si senta accolto e si trovi a suo agio. Dove ogni persona sia trattata con rispetto e dignità e nessuno sia escluso o scartato.

Certamente un’operazione non facile, visto che viviamo in un sistema che crede più nell’accumulare e vendere armi e nell’erigere barriere che nel costruire ponti, ma possibile se ci lasciamo guidare dall’esempio di Gesù che è venuto non per dominare ma per servire, non per escludere ma per accogliere, non per attendere chi vuole andare da lui ma per uscire in cerca di chi è lontano.

Possono sembrare parole retoriche in questi tempi di accese discussioni sull’accoglienza, sulla crisi dell’Unione europea, sul moltiplicarsi di barriere, sull’efficacia o sull’effetto droga della comunicazione digitale, e così via. È vero: non bastano le pie esortazioni, occorre agire. Papa Francesco lo fa e i suoi gesti parlano per lui. Migliaia di missionari e di volontari lo fanno. Lo fanno anche i bambini, almeno quelli non ancora «educati» dai genitori, che sanno dare un sorriso anche agli estranei. Facciamolo anche noi. Diventiamo un po’ bambini.