Caro Gesu bambino


Non ho più l’età per scriverti la letterina di Natale, ma mi piace tornare un po’ bambino. Ti scrivo mentre il mondo cerca di digerire la notizia dell’elezione di mister Trump a presidente degli Stati Uniti. C’è chi scrive di una rivoluzione, se positiva o negativa non si sa. A me pare però che il fatto che i mercati finanziari non si preoccupino più di tanto la dica lunga. Probabilmente saranno ancora loro a dettare le regole della realpolitik. «Cane non mangia cane», si dice. Dopotutto prima che presidente, Trump è un miliardario e, anche se eletto coi voti degli impoveriti, non me lo vedo dalla parte dei poveri, degli esclusi, degli stranieri e per la pace. Se fosse stato lui il faraone quando la tua famiglia è dovuta fuggire da Betlemme, non so se avreste ottenuto il visto di ingresso in Egitto. A ogni modo lo attendiamo alla prova dei fatti.

Caro Gesù Bambino, come penso ti abbia già ampiamente raccontato papa Francesco, se tu venissi al mondo oggi ti troveresti proprio in un bel casino, non solo per le innumerevoli guerre che fanno stragi di gente indifesa mentre rimpinguano le casse dei signori delle armi, ma anche per le enormi disuguaglianze sociali che stanno riducendo in stato di povertà o semischiavitù gran parte della gente a vantaggio di una minoranza sempre più ricca che può perfino infischiarsene di leggi e governi. Quando sei nato si calcola che ci fossero circa 160/200 milioni di persone in tutto il pianeta, oggi dicono che siamo quasi 7 miliardi e mezzo. Nonostante ai tuoi tempi la schiavitù fosse un fatto normale, non credo che succedesse quello che accade oggi, che cioè le 62 persone più ricche da sole (e lo scrive Forbes) abbiano la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale (3,6 miliardi di persone), e vivano questo senza rimorsi, convinti anzi di essere benefattrici dell’umanità e modelli da imitare. I re Mida di oggi mettono le mani non solo sulle risorse minerarie del pianeta (e dove non ci riescono direttamente lo fanno attraverso i signori della guerra, le mafie, i predoni e i guerriglieri vari), ma anche sulle sementi, sulle piante e i fiori, su tutto, brevettando e patentando a tutto spiano, come se fossero loro i creatori del mondo. Immagina che hanno perfino provato a monopolizzare la pioggia, tassando chi la raccoglieva dal tetto di casa.

E stanno mettendo le mani anche sul tuo Natale, svuotandolo di te per riempirlo di cose. Da festa dell’accoglienza della vita lo stanno trasformando in un mercato planetario all’insegna del buonismo fatto spettacolo. Guardare te, invece, fa bene alla testa e al cuore, perché ci apre a orizzonti nuovi, ci dà la chiave per capire il senso vero della vita, ci inviti ad alzare la testa e a vedere con fiducia questa nostra umanità.

Sai, se c’è una cosa che mi ha sempre colpito molto di te è che hai voluto nascere povero tra i poveri, in periferia, condividendo la sorte della maggioranza degli uomini, la cui ricchezza non sta in quello che possiedono ma nel calore del cuore. E sei nato in disparte, fuori dalla confusione e dal clima da fiera del caravanserraglio (no, non era certo un «albergo» come intendiamo noi) dove tutti i viaggiatori si fermavano. Sei nato in un luogo più adatto a quell’atto «sacro» che è una nascita, nella quiete del luogo dove si tenevano al caldo gli animali più piccoli e deboli. Cucciolo tra i cuccioli, tu sei stato accolto dalla premura semplice, efficace e sbrigativa di donne abituate alla durezza della vita, alla normalità di un parto, capaci di dare sicurezza a tua madre, giovane e inesperta. Hai voluto essere accolto dal calore e dalla fragilità dell’umanità più autentica e più semplice, lontano dalla pompa dei potenti e dal servilismo che li circonda. Nascesti fidandoti della povertà di chi ha nulla ed è capace di dare tutto, come quei bimbi che escono alla vita sui precari gommoni dei migranti, negli ospedali bombardati di Aleppo o nelle tendopoli dei terremotati.

Sei nato «nella pienezza del tempo», dice Paolo ai Galati. Pensa che quand’ero bambino mi hanno perfino fatto credere che tu avessi scelto il tempo migliore per nascere, il «tempo» della pace garantita dal potere di Roma, dominatrice del Mediterraneo. Adesso capisco quanto fosse falso tutto ciò perché ignorava le sofferenze causate da quel dominio, che usava quel censimento non certo per dare una vita migliore ai tuoi genitori e alle gente come loro, ma per sfruttarli meglio.

Nascendo così hai iniziato la vera rivoluzione che continua ancora oggi: quella di affidare il futuro del mondo ai poveri, ai piccoli, a chi non ha mezzi ma ha solo la ricchezza di una «umanità autentica», quella stessa umanità che tu hai scelto diventando uno di noi per farci diventare come te.

Con la tua nascita ci hai detto che credi nell’uomo, che Dio crede in noi. È bellissimo questo. Soprattutto oggi, quando, fiaccati dalla crisi, dalla mancanza di prospettive e dall’incattivimento della società, siamo tentati dalla sfiducia e dallo scoraggiamento. Grazie Gesù Bambino.




Le tre p: pace, perdono, pazienza


A fine settembre e inizio ottobre in redazione si è vissuto col fiato sospeso nell’attesa del risultato del referendum pro o contro l’accordo di pace tra il governo della Colombia e le Farc, accordo che avrebbe dovuto cambiare la vita di quel paese dilaniato da ben 52 anni di instabilità e guerra che hanno causato danni e dolori inenarrabili. Ma il risultato non è stato quello che si sperava e ci ha lasciati con l’amaro in bocca, nonostante il meritato premio Nobel al presidente della Colombia Juan Manuel Santos, e con l’affanno di revisionare il nostro dossier nato nella speranza di celebrare la vittoria del «sì».

In tale contesto è stato abbastanza naturale pensare ad altre situazioni di non-pace e di guerra aperta che esistono nel mondo, così numerose e gravi da far ripetere con insistenza al nostro papa Francesco che stiamo vivendo la terza guerra mondiale. I fronti sono talmente numerosi che non c’è continente che ne sia risparmiato. Le domande che disturbano, guardando a realtà come quelle della Colombia, del Sud Sudan, della Siria sono tante: perché la pace non è possibile? perché, nonostante i millenari fallimenti della guerra, la si preferisce alla pace per risolvere contese? perché, per assurdo, si pensa che ci sia più giustizia in una guerra che in una scelta di pace? perché si crede non ci sia giustizia nel perdono e nella riconciliazione? E in nome della giustizia, della giusta riparazione, si continua a combattere, illudendosi che solo una delle due parti, ovviamente quella nel torto, soffra, mentre l’altra (naturalmente chi è convinto di aver ragione) celebra (o piange?) i suoi caduti eroi. Intanto produttori e venditori di armi giubilano all’impinguarsi dei loro profitti.

Non sta a me dare la definizione di pace (la prima «p»), ma certo non è solo «assenza di guerra». Pace è un modo di esistere, di relazionarsi, di abitare. Pace non è assenza di «conflitto», è anzi riconoscere il conflitto per risolverlo per il bene di tutti, senza vincitori né vinti, ma tutti vincitori. Pace implica armonia, bellezza, gioia, frateità, sicurezza, rispetto, diversità, libertà, solidarietà, equità. Pace è il bene di tutti ma anche la possibilità per ognuno di essere sé stesso, di realizzare la sua vita, di essere felice. Pace è sogno dell’uomo e dono di Dio, punto di arrivo di tutte le nostre aspirazioni. Nella pace fiorisce l’arte, la musica, la cultura.

Ma non c’è pace senza perdono (seconda «p»). Perdono è far prevalere l’amore su tutto il resto. È far sposare il noi con l’io, la gratuità con la legge, il bene comune col diritto individuale; è far prevalere la fiducia sulla diffidenza, la speranza sul pessimismo, la redenzione sulla condanna. Perdonare è riconoscere che il torto non è mai da una parte sola, come la sofferenza e la distruzione. Perdonare è il rifiuto di pensare l’altro come totalmente malvagio e senza redenzione. È credere che l’amore può vincere nel cuore dell’uomo «come scriveva il grande Nelson Mandela: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.” Dobbiamo solo crederci col cuore e con la mente!» (da post su Facebook di G. Albanese).

La terza «p» è pazienza, come quella che Dio ha con noi uomini. Una pazienza talmente grande da aver sconfessato nei secoli tutti i profeti di sventura, minaccianti fuoco e fiamme sui malvagi, fautori di tribunali di inquisizione, amici dei roghi o del taglio di mani e di teste per purificare il mondo da chi non la pensa come loro. Pazienza è saper ricominciare e perseverare ogni giorno, seminando ostinatamente piccoli semi di pace e di amore là dove uno vive, senza la pretesa di fare grandi rivoluzioni, di finire in prima pagina o di ottenere «tutto e subito». Pazienza è tessere relazioni nuove e «farsi prossimo» di chi ti è vicino a cominciare dalla tua scala, dal tuo palazzo, dalla tua via. Pazienza è essere inermi nelle situazioni in cui l’umanità è più violentata, come i missionari e i volontari che danno tutto sé stessi, anche la vita se necessario, nel cuore del Sud Sudan, nelle terre dilaniate da Boko Haram, nell’inferno di Aleppo, nell’isola di Haiti devastata dal ciclone Matthew, nelle foreste dell’Ituri saccheggiate dai predatori di legname e minerali, nelle periferie delle megalopoli … Un’elenco impossibile da completare.

La pazienza dell’amore costruisce la pace offrendo il perdono che dona ai nemici la possibilità di riscoprirsi fratelli, di prendersi carico delle proprie responsabilità, di reinventare relazioni, di aprirsi alla speranza. La pace è il dono che Gesù stesso ci ha dato, pagandolo con l’offerta della sua vita. Un dono troppo prezioso per essere lasciato solo nelle mani dei politici e dei maneggioni di questo mondo. Continuiamo insieme a «sognare» la pace.




Dov’era Dio


«Dio è l’essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra». Così avevo imparato tanti anni fa al catechismo. Chiaro e indiscutibile. Perfetto Dio, perfetta l’opera delle sue mani. Rovinata però dall’uomo che, col suo peccato, ha scombussolato tutto il lavoro di Dio. Tutto chiaro e logico, fino a quando non ti capita una disgrazia, un terremoto, una malattia incurabile. E ti domandi: come è possibile che tutto questo sia colpa dell’uomo? Sarà pure uno che combina disastri e inquina, ma non è lui che ha inventato i terremoti, i tornado, gli tsunami, i virus… È colpa di Dio allora: la disgrazia, la terra che trema, le case crollate, tutti quei morti. E le malattie, le morti degli innocenti e dei bambini. È abbastanza normale prendersela con Dio quando le cose vanno male. Altrimenti di chi è la colpa?
Quando leggerete queste righe l’emozione mediatica sul terremoto che ha distrutto Amatrice e i paesi vicini sarà già scemata, anche se la situazione di chi abita quei paesi continuerà a essere molto dura. Anche se la domanda non avrà ancora ricevuto risposta: dov’era Dio quando sono morti tanti innocenti?
Ho guardato con partecipazione e dolore alle sofferenze di chi in pochi secondi ha perso tutto, casa e persone amate. Anch’io mi sono chiesto «Dov’era Dio quella notte?». Faticando a trovare una risposta che mi appagasse, mi sono allora fatto una seconda domanda: «Dovera l’uomo (prima di) quella notte?».
Da sempre l’umanità conosce terremoti e disastri naturali. Un tempo pensava che fossero frutto di forze oscure, serpentoni, diavoli e mostri vari. Oggi invece abbiamo le conoscenze e i mezzi per capire, prevedere, prevenire. Conosciamo che la terra si muove e si deve muovere, guai se non si muovesse. «Panta rei», diceva Eraclito quasi 2500 anni fa, tutto si muove. E sappiamo che movimento è vita. I terremoti sono «normali» nella dinamica della terra. Sappiamo come costruire in modo sicuro, per prevenire morti e distruzioni irreparabili. Eppure non lo facciamo o lo facciamo male e così un terremoto diventa il catalizzatore che mette a nudo il «lato oscuro» della nostra umanità: l’incuria, il disinteresse, l’approfittare delle disgrazie altrui, l’avidità di chi mette soldi e guadagno al primo posto a spese della vita di altri. L’uomo avrebbe potuto evitare il disastro, ma non lo ha fatto.
Ma quello stesso uomo del prima terremoto, irresponsabile e troppo fiducioso nella sua fortuna, l’ho visto dopo sotto le macerie a chiedere salvezza e sopra le macerie a offrire aiuto.
E ho intravisto una risposta alla domanda «dov’era Dio quella notte». Dio era là: piangendo con chi piangeva, accogliendo nelle sue braccia quelli che la morte non aveva risparmiato, condividendo la sorte di chi si sentiva smarrito, la rabbia di chi si sentiva ingannato e abbandonato. Dio c’era. Era là per farsi carico della speranza, ridare fiducia all’umanità tramite lo slancio generoso dei soccorritori, i volti impolverati di chi scavava a mani nude per salvare una vita, la pietà di chi ricomponeva i corpi martoriati, la dedizione di chi curava i vivi, la presenza instancabile del vescovo di Ascoli.
Dio era là per dire ancora una volta il suo amore per l’uomo, la sua fiducia nelle sue capacità di riscatto, ricostruzione e cura del creato. Dio era là per ripeterci che crede in noi, nella nostra responsabilità, nella nostra libertà e autonomia, nel nostro cuore e nella nostra intelligenza. Era là per riconfermare che non è pentito di aver affidato il creato all’uomo da lui fatto a sua immagine e somiglianza con la capacità «divina» di fare il suo stesso lavoro. Là Dio, ancora una volta, ci ha mostrato di credere nell’uomo più di quanto l’uomo stesso ci creda.




Bestemmie


Appena arrivato in Kenya, i miei confratelli mi hanno raccontato una storia assai popolare tra loro. Era quella di un giovanotto che, avendo lavorato con operai italiani alla costruzione di una strada, si vantava di sapere la nostra lingua. Sfidato a provare il suo talento, aveva snocciolato una bella sfilza di colorite bestemmie. Buffo e penoso, pensai allora, benché, da bresciano quale sono, fossi abituato fin da bambino a sentirne, soprattutto dai muratori, bestemmiatori seriali, e, diventato poi prete, nelle confessioni di Natale o Pasqua, quando sentivo «mi è scappata qualche bestemmia», riuscissi a immaginare la sfilza di perle italiche sparate in automatico.

Non è certo di quelle bestemmie che voglio scrivere ora, anche se mi hanno sempre messo a disagio per la loro gratuita stupidità. Altre sono le bestemmie che oggi trovo davvero repellenti e inaccettabili, perché feriscono e degradano l’immagine di Dio che è l’uomo.

Una è quell’«Allah akbar» gridato con orgoglio dagli assassini dell’Isis e loro aggregati. Ma come si può urlare che «Dio è il più grande» quando si violenta l’immagine stessa di Dio uccidendo persone innocenti, colpendo di proposito i più deboli e indifesi, stuprando e vendendo donne come se fossero oggetti, o trasformando bambini innocenti in portatori di morte? Quale sarebbe la grandezza di questo dio? Un dio che terrorizza e distrugge l’opera stessa delle sue mani non è dio, non certo il Dio dell’Islam, ma il frutto del più ottuso e superbo, anche se inconsapevole, ateismo. È un idolo di morte fatto a immagine e somiglianza degli uomini che lo usano nel loro delirio di onnipotenza. Di fatto sostituendosi a Dio: non gli uomini strumento di Dio, ma Dio strumento degli uomini.

Il Dio di Gesù Cristo è ben altro. È il Dio della vita e dell’amore, un amore gratuito e totale. È il Dio che – citando Osea 11 – «attira con legami di bontà e con vincoli di amore», che, come un padre, solleva il suo «bimbo alla guancia» e, come una madre, «si china su di lui per dargli da mangiare», mentre il suo «cuore si commuove e l’intimo freme di compassione» (cfr. Lc 15). È il Dio che manda i suoi «angeli» (Lc 9,52) a «guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni», senza «oro né argento, né denaro, né sacca da viaggio, né vestiti di ricambio, né sandali di scorta e neppure il bastone» (forse anche per evitare di usarlo come arma), e a portare come dono la pace, senza imporre niente a nessuno, ma offrendo solo la gratuità dell’amore (cfr. Mt 10). Questo è stato Gesù, l’unico cha ha davvero visto Dio (il Padre) ed è stato capace di mostrarcelo attraverso la sua vita, le sue parole, le sue azioni di misericordia e il dono finale di sé (cfr. Gv 12,44; 14,5ss).

È il Dio amato da santa Maria Goretti che abbiamo ricordato il 6 luglio nella settimana in cui la liturgia ci ha offerto i brani di Matteo e di Osea sopra citati, mentre i media ci narravano degli orrori del mercato delle schiave yazide, in Sud Sudan riprendeva con rinnovata violenza la terribile guerra civile di cui parliamo nelle pagine intee, i corpi delle vittime di Dacca venivano restituiti alle loro famiglie, Emmanuel, giovane marito innamorato, veniva pestato a morte a Fermo, e a Dallas avveniva l’ennesima tragedia a sfondo razzista.

Che c’entra Maria Goretti, uccisa da chi diceva di amarla e voleva solo il suo corpo? C’entra, perché aveva capito che il Dio vero è quello delle vittime, non dei carnefici. E poi perché la sua figura smaschera un’altra bestemmia dei nostri tempi, sempre contro l’immagine di Dio che è l’uomo: il fare del corpo un oggetto di desiderio, che porta, tra l’altro, adolescenti in branco a violentare le loro stesse compagne, giovanissime a concedersi o a esibirsi per non essere escluse dal gruppo, adulti a far fiorire il traffico di bambini e donne per il ricchissimo mercato della prostituzione, pedofilia e turismo sessuale, gruppi mafiosi a controllare e promuovere la pornografia online.

E la lista delle bestemmie non finisce qui. È una violenza all’immagine di Dio, cioè all’uomo, anche il gioco d’azzardo che vende illusioni, rovina famiglie, crea povertà e confonde la scala dei valori nella vita delle persone. Non basta la legalizzazione e il controllo da parte dello stato, che ottiene così miliardi di euro imbrattati di lacrime e sangue, per renderlo accettabile o perfino un diritto. Su un livello più alto è violenza all’uomo anche il grande gioco d’azzardo dei mercati azionari, dove, come abbiamo visto in questo ultimo mese, si bruciano, a dispetto degli affannosi interventi delle istituzioni, miliardi su miliardi ipotecando il futuro di intere nazioni e aumentando a dismisura il peso del debito pubblico sulle spalle di ogni persona, il tutto nel nome della libertà di mercato, ma in realtà a solo vantaggio di pochissimi ricchi in delirio di onnipotenza che hanno perso il senso dell’umanità.

Gesù ha detto: «Che vedano le vostre opere di giustizia e rendano gloria al Padre» (Mt 5,16). Contro il moltiplicarsi delle bestemmie ci vogliono opere di bene, fatti di giustizia a opera di «martiri» e «angeli» che con la loro vita rivelino il vero volto di Dio, che è amore.




Orme sull’acqua


I moli galleggianti di Christo, nome d’arte di Vladimirov Yavachev, bulgaro naturalizzato statunitense, sul Lago d’Iseo forse saranno già spariti quando leggerete queste righe, visto che il costosissimo show (dovrei scrivere «installazione artistica») si chiuderà il 3 luglio. L’artista ha promesso: «Vi farò camminare sulle acque, meglio se verrete senza scarpe; sarà una passeggiata dove sentirete le onde sotto i vostri piedi». Beato lui che può permettersi di spendere 10 milioni di tasca sua per realizzare un suo sogno di gioventù e i ben vispi amministratori che hanno colto l’occasione per fare pubblicità al loro lago. Fortunatamente a fine giugno quello è molto più quieto di quanto non lo fosse il Lago di Tiberiade, su cui, circa duemila anni fa, qualcuno aveva camminato durante una tempesta. Non sono rimaste impronte di quella prima camminata e, dicono, neanche quest’ultima ne lascerà, visto che tutto sarà ecologicamente riciclato. Entreranno invece negli archivi della storia, o forse solo nelle memorie dei computer di casa, le migliaia di selfie che i nuovi Pietro, meno spaventati di quello contemporaneo di Gesù, avranno prodotto durante la loro esperienza epocale. Un’esperienza «da Dio».

Già, perché, almeno secondo la Bibbia (Giobbe 9,8), solo Dio cammina sulle acque, non gli uomini. E il salmo 77, confermando che «Tu hai camminato tra acque profonde», aggiunge un particolare interessante: «Nessuno può ritrovare le tue orme». Dio cammina sulle acque e non lascia traccia del suo passaggio. La superficie dell’acqua non le conserva.

Non voglio però entrare nel merito dell’arte di Christo, anche perché sono troppo profano in materia e forse anche un po’ dissacratore. Ho visto le foto di un’altra sua opera in allestimento in Francia. Si tratta della «Mastaba», una piramide di barili di petrolio coloratissimi ammucchiati in bell’ordine in un museo della Provenza. L’immagine mi ha riportato lontani ricordi di centinaia e centinaia di barili dai colori meno sgargianti ma tutti ben ammucchiati uno sull’altro in file ordinate, pronti per essere sepolti per sempre sotto una superstrada in costruzione in Africa. Qualcuno mi ha assicurato che erano vuoti e innocui, interrati là sotto per comodità ed economia. Chissà perché mi è sempre rimasto il dubbio che vuoti proprio non fossero.

Da quel ricordo di barili interrati il mio pensiero è poi andato a Maralal. Con una vena di populismo mi sono chiesto cosa avrebbe fatto con 10 milioni il barbuto vescovo di Maralal che conosce l’odore delle pecore. Forse avrebbe potuto gestire senza angoscia per almeno una decina di anni l’ospedale di Wamba, nella terra dei Samburu in Kenya, là dove i colori artificiali di un maestro dell’arte non servono, perché l’ospedale è circondato dalla bellezza ineguagliabile di splendide siepi di buganvillea sempre in fiore.

Quando vado ad ammirare opere d’arte come quelle di Christo, mi rendo conto di essere un privilegiato, uno dei pochi che può godere di una libertà e di un benessere che la maggioranza degli uomini non hanno. In questo numero della rivista parliamo ampiamente della realtà dell’urbanizzazione massiccia che sta sconvolgendo la vita di interi popoli in Africa, Asia e America Latina. Queste megalopoli hanno un «ventre» di privilegio dove pochi assorbono tutto: servizi, bellezza, cibo, strade, sicurezza, cure mediche, arte, musica, teatri, stadi, palestre e anche magnifiche chiese. Attoo è un immenso serbatornio di manodopera a buon mercato che sopravvive arrangiandosi o vendendosi in un ambiente senza strade, servizi, scuole, acqua, case, sicurezza e arte (e tanto altro!). Chi vive nel «ventre» spesso manco si rende conto della sua situazione di privilegiato e di sfruttatore. Forse capita anche a noi, pure se non viviamo in megalopoli, ma in belle cittadine e paesi italiani ad alta intensità d’arte.

Sono andato a rifare il test delle «orme di schiavitù» (slaveryfootprint.org) che avevo già fatto cinque anni fa. Allora risultava che avevo ben 17 schiavi al mio servizio. Oggi sono peggiorato: ne avrei addirittura 23! Dai jeans dal Bangladesh allo smartphone che va a coltan, dal gas libico per il riscaldamento o il condizionatore ai computer che pur uso per lavoro e non per gioco…

E si ritorna alle «orme». Orme che scompaiono sull’acqua, orme di arte, orme di schiavitù… orme di tanti – missionari, volontari e uomini e donne dal cuore grande – che scelgono di essere con chi è sfruttato dall’avido ventre del mondo, rivelando così l’altra orma, quella invisibile ma vitale di Dio che non ha mai perso la fiducia nell’uomo.




Creare ponti


A fine aprile sui giornali si è scritto del fatto che nelle nostre città la gente si ignora. Notava Alberto Mattioli: «Come vicino di casa potreste avere chiunque: una delizia del genere umano che firma per le vostre raccomandate e vi offre i biscottini cucinati da lui quanto un terrorista dell’Isis che nei ritagli di tempo fabbrica una bomba atomica in cantina. Il problema è che difficilmente lo saprete. Pare infatti che una delle attività più praticate nei condomìni sia quella di evitare i condòmini. Secondo un’indagine on line […] il 61% degli italiani vede con fastidio chi gli vive accanto. Anzi, si sforza proprio di non vederlo. Non potendo eliminarlo, cerca almeno di evitarlo. Siamo passati dal “condominio famiglia” pieno di poveri ma belli dei film Anni Cinquanta al “condominio asociale” di oggi, dove si conosce a malapena il nome di chi vive dall’altra parte della parete e in ogni caso non si ha alcuna voglia di approfondire la conoscenza» (La Stampa, 26/04/2016).

Nello stesso tempo, circolava già il messaggio di papa Francesco per la cinquantesima «giornata mondiale delle comunicazioni sociali» (8 maggio): «L’amore, per sua natura, è comunicazione, conduce ad aprirsi e a non isolarsi. E se il nostro cuore e i nostri gesti sono animati dalla carità, dall’amore divino, la nostra comunicazione sarà portatrice della forza di Dio.

Siamo chiamati a comunicare da figli di Dio con tutti, senza esclusione. […] La comunicazione ha il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione, arricchendo così la società. Com’è bello vedere persone impegnate a scegliere con cura parole e gesti per superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia. Le parole possono gettare ponti tra le persone, le famiglie, i gruppi sociali, i popoli. E questo sia nell’ambiente fisico sia in quello digitale. […] La parola del cristiano, si propone di far crescere la comunione e, anche quando deve condannare con fermezza il male, cerca di non spezzare mai la relazione e la comunicazione».

L’indagine commentata dai giornali, che dava i condòmini milanesi tra i più asociali (69%) seguiti dai torinesi (68%), è specchio di una realtà preoccupante, soprattutto nelle città. È un modo di vita che peggiora in parallelo con la scristianizzazione della nostra società, la quale tende a ridurre tutti a essere individui (uomini centrati sul proprio io) e non favorisce l’essere persone (uomini in relazione). Ne soffre la famiglia, privata degli spazi, costretta in alloggi troppo piccoli e in condomìni allergici ai bambini, e dei tempi di incontro, rubati da un sovraccarico di lavoro e da mille «indispensabili» impegni. Ne soffrono le relazioni tutte, meno «faccia a faccia» e sempre più affidate a supporti digitali. Ne soffre il senso di appartenenza a una comunità e a un luogo reale, con la conseguenza di vantare un sacco di diritti per sé senza assumersi i necessari doveri verso gli altri. Ne soffre anche l’ambiente, violentato da una cementificazione aggressiva, dall’abuso di pesticidi, dall’inquinamento e dall’abbandono. Diventa perfino difficile la vita nelle parrocchie, dove solo alcuni piccoli gruppi riescono a creare relazioni profonde, mentre molti cristiani, pur vivendo nello stesso palazzo e frequentando la stessa chiesa, non si conoscono e si ignorano, nonostante le abitudinarie strette di mano al segno della pace.

Le parole di papa Francesco mostrano invece l’alternativa possibile, che già molti vivono, la vera rivoluzione quotidiana operata da chi crede in Gesù di Nazareth: costruire ponti e abbattere le barriere, creare comunione e fiducia, aprire canali di comunicazione e spazi di incontro. È un’operazione di resistenza, è l’ostinarsi a vedere nell’altro un dono, un arricchimento, un fratello o una sorella. È credere a tutti i costi che non siamo fatti per l’indifferenza, per la guerra, per la paura, ma per la pace e la frateità, per un mondo in cui ognuno si senta accolto e si trovi a suo agio. Dove ogni persona sia trattata con rispetto e dignità e nessuno sia escluso o scartato.

Certamente un’operazione non facile, visto che viviamo in un sistema che crede più nell’accumulare e vendere armi e nell’erigere barriere che nel costruire ponti, ma possibile se ci lasciamo guidare dall’esempio di Gesù che è venuto non per dominare ma per servire, non per escludere ma per accogliere, non per attendere chi vuole andare da lui ma per uscire in cerca di chi è lontano.

Possono sembrare parole retoriche in questi tempi di accese discussioni sull’accoglienza, sulla crisi dell’Unione europea, sul moltiplicarsi di barriere, sull’efficacia o sull’effetto droga della comunicazione digitale, e così via. È vero: non bastano le pie esortazioni, occorre agire. Papa Francesco lo fa e i suoi gesti parlano per lui. Migliaia di missionari e di volontari lo fanno. Lo fanno anche i bambini, almeno quelli non ancora «educati» dai genitori, che sanno dare un sorriso anche agli estranei. Facciamolo anche noi. Diventiamo un po’ bambini.




Schiavi nella paura, liberi nel timore


Stiamo certamente vivendo tempi difficili. Non occorre essere dei maghi per saperlo. E non è una crisi come le tante che abbiamo già vissuto o a cui abbiamo assistito da spettatori nel non lontano passato. La crisi è in casa nostra. Sta sconvolgendo il nostro modo di vivere, le nostre sicurezze, i valori in cui crediamo, le nostre relazioni, il nostro modo di essere, qui in casa nostra. E non solo siamo messi in pericolo nel presente, ma siamo derubati del nostro futuro.

E abbiamo paura.

Non è nuova la paura. È compagna del nostro modo di vivere ormai da molto tempo, anche se fino a oggi avevamo imparato a conviverci senza neanche rendercene conto. È cresciuta pian piano insieme al nostro benessere in contemporanea con l’accorciarsi delle distanze che i nostri bambini possono percorrere senza essere accompagnati. Si è insinuata nelle pieghe della nostra esistenza con l’aumentare dell’ansia e dello stress e la scomparsa del sorriso dalle nostre facce. È aumentata insieme al nostro ego gonfiato da tanti diritti, difesi con sempre maggior bellicosità, mentre calava la tolleranza verso gli altri, soprattutto la fiducia in chi lavora al nostro servizio: medici, insegnati, preti … Sembra svanire tutte le volte che aggiungiamo un amico digitale nei social, ma poi si riaffaccia quando ci rendiamo conto della nostra solitudine priva di amici veri.

E c’è chi ci guadagna sulla nostra paura. Politici l’alimentano ad arte per una manciata di voti. Datori di lavoro la usano per sfruttarci e ricattarci. Avvocati guazzano nella nostra litigiosità. Costruttori trasformano le nostre case in prigioni. Maghi, astrologi, guru di vario tipo, profeti e veggenti, esorcisti e guaritori, apocalittici e imbroglioni, lobbisti e burocrati, costruttori d’armi ed esperti di sicurezza, case farmaceutiche e salutisti, assicuratori ed estetisti, la tengono ben viva per non perdere un’inesauribile fonte di ricchezza.

Come se non bastassero i guai che abbiamo già, ecco migranti, profughi e rifugiati che, ci dicono, ci rubano il lavoro, portano malattie, si prendono tutti i privilegi ignorando i doveri, mangiano le risorse pubbliche che dovrebbero invece andare ai cittadini, sono ladri e delinquenti cacciati dai loro paesi che così hanno svuotato le prigioni, sono vivaio e nascondiglio di terroristi. Ed ecco il terrorismo, l’incubo dei nostri giorni, che ti fa sentire davvero nudo e indifeso.

È il trionfo della paura che ci toglie libertà, gioia, fiducia, speranza, futuro.

Rassegnati al peggio, dunque?

Timore. È una parola abusata perché abbinata a paura, come se fossero madre e figlio. La sua accezione negativa è di sicuro la più popolare. Eppure il timore può essere tutt’altro rispetto alla paura, anzi, ne diventa il miglior antidoto. Un antidoto garantito dallo Spirito Santo, garantito da Colui che lo dona. Mentre la paura nasce dallo scontro con l’orribile, il terrificante e l’oscuro, il timore è risposta al bello, al grande, all’incommensurabile e «abbagliante». La paura vive di sudditanza e dominio, il timore cresce nel rispetto, costruisce relazioni, aumenta fiducia e responsabilità. Il timore sgonfia chi è troppo pieno di sé, rafforza l’autostima di chi non si considera abbastanza, fa vedere chi ci sta attorno come dei compagni di viaggio invece che come nemici e rivali.

Il timore si nutre di rispetto e meraviglia, come quando uno ha in mano un oggetto prezioso e delicato, come un padre che prende in braccio suo figlio appena nato, come il contemplare il cielo stellato dalla cima di un monte nel silenzio della notte. Allora il timore diventa contemplazione, la contemplazione ricerca, la ricerca conoscenza, la conoscenza sapienza, la sapienza relazione, la relazione incontro, l’incontro dono … E trovi la tua dimensione vera, senza superbia, autosufficienza e arroganza, in una realtà di relazioni libere e liberanti, in cui gli altri ti completano e sono da te arricchiti.

E il timore caccia la paura, perché al centro del timore c’è Dio, la meraviglia delle meraviglie, l’amore che sorprende, il paradigma e modello delle nostre relazioni. «Perfetti come il Padre è perfetto; misericordiosi come Dio è misericordioso». «Ama Dio e il tuo prossimo perché Dio ti ha amato per primo». E chi ama il prossimo ama Dio, e timora di Dio, si comporta da Dio. Una prospettiva così grande da indurre timore. Eppure un timore così forte da farti «alzare lo sguardo» e camminare in avanti, non da solo, ma insieme agli altri, nell’esodo della vita.

Buona Pentecoste.




Grandioso


Su Facebook ho trovato una storia scritta da una brillante giovane avvocata africana. L’ho tradotta liberamente dall’inglese, eccetto il nome del protagonista che è in italiano anche nell’originale.
«C’era una volta un uomo chiamato Grandioso. Era un ladro, di quelli d’alto bordo. Eppure tantissimi, affascinati dalla sua grande ricchezza, lo amavano e ne tessevano lodi sperticate. Grandioso era generoso con la sua “corte” e, furbescamente, condivideva il suo bottino con i più fedeli tra i suoi ammiratori diventati guardiani del suo tesoro. Non discriminava Grandioso. Derubava grandi e piccoli, uomini e donne, ricchi e poveri, senza guardare né religione né appartenenza etnica. Era imparziale. Rubava a tutti e faceva sparire i pochi che osavano opporsi al suo strapotere.

2016_04 MC Hqsm_Pagina_03Più rubava, più lo applaudivano. Più lo celebravano, più gli offrivano occasioni di rubare. Certo, perfino lui si meravigliava della stupidità dei tanti che lo ammiravano anche quando, apertamente, svuotava le loro tasche. E nessuno osava alzare un dito contro di lui. Così continuava a rubare senza freni. Era davvero il “ladro” per eccellenza.

Tutti contenti, dunque? Non tutti. Ogni volta che lui si arricchiva rubando, i figli e le figlie dei suoi fan accumulavano un debito, perché ricadeva su di loro il dovere di risarcire i derubati. Così ogni bambino di quel paese veniva al mondo già indebitato. E non finiva mai. Appena un debito era ripagato, Grandioso rubava ancora di più …».

La storia finiva così, in sospeso, rimandando a una seconda puntata. Fin troppo facile vedervici l’allusione a tanti capi di stato africani, da Mugabe a Museveni, da Kabila e Nkurunziza – per fare solo pochi nomi – che «per il bene della nazione» perpetuano se stessi accumulando immense ricchezze di cui rendono partecipi solo una stretta cerchia di cortigiani privilegiati, mentre la maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà.

Non facciamo fatica nemmeno a riconoscervi i «nostri» grandiosi, nascosti sotto i volti noti della politica e anche dei carrieristi del mondo ecclesiale o tra i corrotti e i corruttori di ogni tipo che infestano il nostro paese. Grandiosi con i soldi degli altri, sempre pronti a cavalcare l’onda per una manciata di voti, maestri di trasformismo e manipolatori di opinione. L’abbiamo visto nei fiumi di parole per la legge Cirinnà, nell’ambiguità su Siria, Libia e migranti, nell’affare degli F-35, nei trucchi delle primarie, nei giochi di potere per Roma, nei fallimenti delle banche, nella gestione dei grandi temi che ci agitano come famiglia, eutanasia, coppie dello stesso sesso, utero in affitto e adozioni.

Il nostro patriottismo è gratificato quando vediamo italiani nelle classifiche dei più ricchi del mondo di Forbes e Fortune, ma ci dimentichiamo facilmente che quando la ricchezza è troppa, difficilmente si coniuga con l’onestà ed è spesso accumulata a prezzo di lacrime e sangue, quelli della gente comune, i nostri e quelli di tanti altri poveri sfruttati nel mondo. I Grandioso non ci sono solo in Africa.

Penso invece a un altro grande, Grandioso davvero. Uno che per pagare le tasse si è affidato alla fortuna di una moneta trovata nella bocca di un pesce. Un tale che non si è lasciato abbagliare dal tintinnare delle monete d’oro o d’argento dei ricconi e ha saputo invece vedere i centesimi donati da una povera vedova. Un uomo autentico che ha scelto di vivere da povero per essere libero, pur di non diventare schiavo di ricchezze accumulate sul dolore degli altri. Uno che è finito in croce e ha rivelato tutta la sua grandezza proprio quando i suoi uccisori pensavano di averlo spogliato di ogni dignità. Un grande che il nostro collaboratore don Mario Bandera chiamerebbe certo il «Perdente per eccellenza»: Gesù di Nazareth, figlio di Dio, figlio di Maria, figlio dell’uomo e prototipo di ogni uomo vero.

Un uomo che ha rovesciato i paradigmi del nostro pensare: il primo diventa l’ultimo, il servo è più grande del padrone, l’amore vince l’odio, il perdono è più forte della vendetta, il donare arricchisce e l’accumulare impoverisce e schiavizza, i bambini sono maestri di sapienza, i peccatori e le prostitute vengono prima dei ricchi e dei titolati, la misericordia è la più alta forma di giustizia, il timore di Dio è base della «Politica» e fonte di onestà, trasparenza, responsabilità civile…

Abbiamo appena celebrato la memoria della Pasqua del Signore, l’avvenimento centrale e discriminante della nostra vita cristiana. Viviamolo sul serio perché non resti una bella recita o uno spettacolo a lieto fine. Prendiamo coraggio, resistiamo all’appiattimento dell’indifferenza e dell’abitudine e poniamo concreti gesti d’amore, di gratuità e di sobrietà.




Non si eliminano così anche gli ulivi

Leggo: «“I paesi coinvolti dal virus zika devono autorizzare la contraccezione e l’aborto”. È questo l’ultimo appello sull’epidemia lanciato stavolta non dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ma direttamente dall’Onu. L’alto commissario delle Nazioni unite per i Diritti umani, Zeid Raad al-Hussein, ha fatto sapere che garantirà alle donne in questi paesi anche consulenza su salute sessuale e riproduttiva. Ma soprattutto ha rivolto un invito ai governi e parlamenti: “Le leggi e le politiche che restringono il loro accesso a questi servizi devono essere riviste con urgenza, allineandosi agli obblighi inteazionali sui diritti umani per garantire il diritto alla salute per tutti”, ha affermato al-Hussein. “Chiediamo a questi governi di cambiare tali leggi, perché come possono chiedere alle donne di evitare gravidanze?”, ha aggiunto Cecile Pouilly, portavoce dell’alto commissario» (da repubblica.it, 05/02/2016). Parole pesanti queste, come la morte.

Scusate, ma quando leggo notizie come quella sopra riportata mi viene da chiedermi quale concezione abbiano i burocrati dell’Onu della persona umana. Non vedo molta differenza ideologica tra queste sentenze che escono dal Palazzo di Vetro e quelle che piovono da Bruxelles a proposito degli ulivi pugliesi infettati di Xylella. Gli ulivi si tagliano, i feti si eliminano, tutto nel nome della salute e della sicurezza. Gli ulivi stanno lì dove sono stati piantati 10, 100, 1000 anni fa. Il parassita li attacca e loro non possono neppure scuotere i rami per resistere. Ma la persona umana?

Si dice che non si può «chiedere alle donne di evitare gravidanze». Allora via tutti gli ostacoli e i limiti a «anticoncezionali e aborto», per garantire il «diritto alla salute per tutti». Per tutti, eccetto i nuovi figli e figlie in attesa di nascere. Ma rischiano di nascere malati! E poveri. Allora, per sicurezza, uccidiamoli prima. E per evitare problemi di coscienza, cambiamo le leggi cosicché quella che in realtà è un’operazione di eugenetica diventa un’operazione umanitaria.

Non intendo entrare nel merito della vexata quaestio dei contraccettivi, e neppure mettere in discussione il dovere delle istituzioni nazionali e inteazionali di proteggere la salute di tutti. Neppure mi sogno di sottovalutare il dramma vissuto da migliaia di famiglie nelle regioni colpite dal virus, famiglie, tra l’altro, che già vivono in situazioni di gravissima povertà. Mi voglio limitare a condividere con voi il profondo disagio che provo di fronte alla deriva molto materialista della nostra società. Mi preoccupa un mondo nel quale si ha paura ad accogliere alcune migliaia di bambini probabilmente malati perché, in fondo, non si pensa in termini di sofferenza (per loro e le loro famiglie), ma piuttosto in termini di spesa e guadagno e non si ha nessuna intenzione di investire per migliorare l’habitat degradato in cui nascono. Quello stesso mondo non esita a sganciare migliaia di bombe in Siria e spende miliardi in armamenti, ha i fondi per nuovi stadi e le Olimpiadi, ma non trova i soldi per chi fugge da guerre e miseria, per risanare le periferie urbane e costruire nuove scuole, e non osa credere nella gratuità dell’amore, come quello di genitori disposti ad accogliere e amare un figlio anche malato. Ricordo una giovane famiglia che si rifiutò di permettere ai medici di interrompere l’alimentazione del loro bimbo prematuro per accelerae la morte inevitabile. Visse solo 22 giorni quel piccolo. Ebbe un nome e una storia. Oggi, andando al cimitero, quei genitori possono dire «ti abbiamo tanto amato», senza portare il peso di un «ti abbiamo ucciso».

È proprio la capacità di amare gratis, anche contro il buonsenso, che ci caratterizza ed è una delle dimensioni più belle e sorprendenti del nostro essere uomini. Più bazzico il Vangelo, più rimango affascinato dalla fiducia che Dio ha nell’uomo: una fiducia tale da credere che l’uomo sia capace di comportarsi da Dio, di essere perfetto come Dio è perfetto, di essere misericordioso come Dio è misericordioso, capace della stessa gratuità di Dio.

Il problema è che siamo noi uomini a non credere negli uomini. Si parla tanto di umanità, di «diritti umani». Ci si riempie la bocca di libertà, sicurezza, diritti. Ma chi ha una concezione più alta dell’uomo? Chi promette sicurezza e salute eliminando dolore e sensi di colpa? O chi crede nella capacità di gratuità, d’amore, di dono di sé, di sacrificio e di pensare «noi» e non solo «io»?

Amo gli ulivi e ho perplessità sulle soluzioni drastiche usate per «difenderli», ma gli uomini sono ben più degli ulivi. Sono capaci di amare, e questo è il più grande antidoto alla malattia e alla morte.




Vinci l’indifferenza e conquista la pace

 

Questo è il titolo del Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale della Pace, la terza di papa Francesco. «L’indifferenza nei confronti delle piaghe del nostro tempo è una delle cause principali della mancanza di pace nel mondo. L’indifferenza oggi è spesso legata a diverse forme di individualismo che producono isolamento, ignoranza, egoismo e, dunque, disimpegno. L’au-mento delle informazioni non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da una apertura delle coscienze in senso solidale; e a tal fine è indispensabile il contributo che possono dare, oltre alle famiglie, gli insegnanti, tutti i formatori, gli operatori culturali e dei me- dia, gli intellettuali e gli artisti. L’indifferenza si può vincere solo affrontando insieme questa sfida». Così «Avvenire» presentava il messaggio lo scorso agosto. Mentre scrivo, il testo ufficiale non è ancora stato rilasciato, in forte ritardo sulla data tradizionale della festa dell’Immacolata. Perdonate allora qualche mia considerazione a braccio.

Puntando il dito contro l’indifferenza, papa Francesco mette a nudo uno degli atteggiamenti più tipici di questo nostro mondo. Tutto (governi, istituzioni, banche, pubblicità, apps, sistemi operativi…) ci dice: «Goditi la vita, non preoccuparti, divertiti, rilassati, mangia e dormi. Ai problemi? ci pensiamo noi». Chi siano poi questi «noi», è impossibile definirlo. Non credo nelle teorie complottiste, in una mente oscura che vuole dominare il mondo, ma certamente ci siamo costruiti un sistema che toglie ogni responsabilità personale e culla nell’indifferenza, mentre ali- menta disastri geopolitici, ambientali e sociali che sembrano sfuggire a ogni controllo. Basta ricorda- re quel mostro che è l’Isis. Quel che conta è che si continui a comperare auto (forza trainante della ri- presa!), a consumare sempre di più e a rincorrere gadgets raffinati (computer, cellulari, internet) che danno la sensazione di controllare il mondo, ma in realtà riducono ognuno a essere un sorvegliato speciale 24 ore su 24.

L’indifferenza riduce la visuale, impedisce di vedere al di là di quello che è «mio»: pensiero, coscienza, interesse. Nel mentre, oltre la «mia» linea di visione, si consuma la «terza guerra mondiale» con i suoi milioni di rifugiati, le antiche foreste – polmoni del mondo – scompaiono per mano di eserciti di schiavi che trasformano la terra in una groviera a caccia di oro, coltan e altri minerali, e i nuovi latifondi espandono le monocolture espropriando e affamando innumerevoli piccoli contadini.

Ma non è solo l’ambiente a pagare il prezzo di questo modo insensato di vivere e gestire il mondo. Depressione, solitudine, mancanza di speranza, aumento delle differenze sociali, megalopoli invivibili, perdita del senso di appartenenza a una comunità, delegittimazione della famiglia e logica dello «scarto» (bambini/aborti e anziani/eutanasia), relativismo, ne sono alcuni degli effetti collaterali.

Papa Francesco, in linea con il Vangelo, non accetta questa logica. La vera pace non si costruisce sull’indifferenza e neppure sul privilegio di pochi. Lo aveva detto con forza, benché con parole diverse, anche a Torino, nell’incontro con i giovani, quando ha citato Pier Giorgio Frassati: «Se volete far qualcosa di buono nella vita, vivete, non vivacchiate. Vivete!». Vivere è andare «controcorrente rispetto a quella cultura, a quel modo di vivere. La realtà, vivere la realtà. E se questa realtà è vetro e non diamante, io cerco la realtà controcorrente e faccio la mia realtà, ma una cosa che sia servizio per gli altri». «Non comprate sporcizie che dicono essere diamanti». «Fare cose controcorrente. […] Fare cose costruttive, anche se piccole, ma che ci riuniscano, che uniscano tra noi, con i nostri ideali: questo è il migliore antidoto contro questa sfiducia nella vita, contro questa cultura che ti offre soltanto il piacere: passarsela bene, avere soldi e non pensare ad altre cose». In quell’occasione il papa aveva anche ricordato che c’è un antidoto contro l’indifferenza, contro «l’andare in pensione a vent’anni». «Quello che fa sì che un giovane non vada in pensione è la voglia di amare». Un amore che «è concreto», non romantico, ed è «dialogo e comunione: (un amore che) si comunica», che è «molto rispettoso» e «non usa le persone» perché «l’amore è casto» e «si sacrifica per gli altri».

Che questo amore concreto, dialogante, rispettoso e capace di sacrificarsi per gli altri, sia l’anima di questo 2016 che stiamo cominciando, per vincere la paura e alimentare la speranza.