Natale, il pane nella cesta


Ricordo il mio primo presepio «da grande».
Ero in prima media. Mamma mi aveva lasciato usare tutta la tavola bella della «sala». Alla cartoleria del paese con le mance da chierichetto (battesimi e matrimoni) ero riuscito a comperare due palme. Solo due, ma mi sembravano un’intera oasi. Fatto il deserto con la crusca, avevo messo le due palme, uno specchio e un po’ di muschio: l’oasi perfetta con i re Magi parcheggiati in attesa di partire per andare alla capanna dall’altro lato del tavolo. Emozioni da infinito, nostalgia di sogni e di piccole cose come la stella cometa di cartone dipinta con l’«argento» dei tubi della stufa o la culla per il Bambino fatta di paglia vera. Ricordi. Come quello del mio primo presepe africano, Natale dell’89, a Maralal, Kenya. Con i giovani avevamo raccolto scatole di cartone e riprodotto il paese con le sue strade e botteghe. E le mucche d’argilla cruda modellate dai bambini e la stalla con una lampadina rossa, l’unica «Luce» che illuminava il tutto, a ricordarci che Gesù nasceva proprio là, per noi.
Ora, è proprio ripensando alla vita dei pastori nomadi del Nord del Kenya che mi pare di capire più da vicino il racconto del Natale. Il freddo e il gelo, l’esclusione, l’albergo, la solitudine di Maria, la mancanza di pannolini … forse non è andata proprio così. Provo a calarmi in quella realtà, in Betlemme, la «città/casa del pane», un piccolo villaggio di contadini e pastori sulle colline attorno a Gerusalemme. Non è inverno, perché pecore e pastori sono sui pascoli, anche di notte. Forse è già primavera, prima dei raccolti estivi, tempo giusto per far muovere la gente per il censimento. Nell’area riservata alle carovane, vicino al pozzo, è una confusione unica: animali, bambini, fuochi accesi, andirivieni, schiamazzi, litigi, canti, danze, chiacchiere a non finire… Non è certo quello il posto più adatto per far nascere un bambino. Le donne della famiglia di Giuseppe si mobilitano e trovano una casa per quella loro parente, mamma ancora bambina, al suo primo figlio. Ma l’unica stanza comune, lì dove tutta la vita si concentra, dove di notte tutti stendono la loro stuoia per dormire, non è certo la «sala parto» ideale. Meglio la stalla, la grotta sotto casa, dove la mucca e l’asino sono al sicuro e gli agnelli e i vitelli appena nati trovano un riparo. Lì nasce il bimbo, sano e bello. Maria non è sola, le donne sono con lei perché nessuna donna, in quel mondo, lascerebbe sola una mamma che deve partorire! Mani esperte e premurose si curano della giovane madre e del bimbo. Lo lavano, lo avvolgono in fasce, lo passano a Maria per la prima poppata e poi cercano un posto sicuro per metterlo a dormire. In un angolo c’è il basto di un asino, proprio quello di Maria. Da una parte ha una cesta con le poche cose di famiglia, dall’altra c’è quella del cibo per il viaggio, pane soprattutto. Il pane è finito e la cesta è vuota. Una culla perfetta per il bimbo. Così, colui che un giorno dirà «Io sono il pane della vita» è messo in quella culla e lì lo trovano i pastori venuti a cercare il «bambino avvolto in panni e adagiato nella cesta del pane». La cesta dalla quale tutti i viaggiatori possono servirsi.
Che bello, un Bambino, il pane della vita per saziare la fame d’amore dell’umanità.
Andiamo anche noi a mangiare di quel «pane». Andiamo, l’angelo ci invita …

Andare. Ma dove? Come trovare oggi la «città del pane»?
E poi, perché andare alla ricerca di semplice pane? Nel frigo c’è di tutto e di più e se manca qualcosa o quel che ho non mi piace, basta un salto al supermercato sotto casa dove ho solo l’imbarazzo della scelta. E non solo, posso anche permettermi di sprecare e buttare quel che non mi piace più e gli avanzi.
Ma la pigrizia e la pancia piena non sono l’unica difficoltà che oggi abbiamo. Vai per cercare la «città del pane» e ti ritrovi nel «villaggio di Babbo Natale», così simpatico con quel suo vocione e barba bianca, capace di accontentare tutti i tuoi desideri. Appena fuori, le «luci d’artista» ti prendono per mano e ti accompagnano in quelle luminosissime cattedrali del consumo dove sei invitato a concederti tutto ciò che puoi senza sensi di colpa. Non importa se poi in mano ti ritrovi più cose di quelle di cui avevi bisogno. È Natale, ci si può concedere qualcosa. Ti scappa l’occhio, là in quel punto d’incontro gli anni scorsi c’era un presepio. Non lo fanno più per rispetto a gente di altre religioni. Giusto, naturalmente. E ti affretti al cenone, quello di Natale appunto. Come mancare? Tacchino all’americana, panettone e spumante all’italiana. Mezzanotte! «A che ora è la messa di mezzanotte?». Meglio non andarci. Quel prete, con le sue prediche sul «pane da condividere con i poveri, sull’amore gratuito, su quelli che vengono da lontano e seguono la stella mentre noi non sappiamo più vederla, su un “Dio talmente pazzo e pazzesco che non riesce a vivere senza noi” tanto da farsi dono da spezzare e condividere», è capace di rovinarti la festa.
Il «pane della vita» è sempre là nella cesta, pronto a saziare la nostra fame, quella vera.




Lacrime nascoste di missionari


A Capodanno del 2012 ero a Campi Garba (periferia Nord di Isiro, Nord del Kenya), una sosta non programmata in quello che doveva essere il mio viaggio nel Meru er il centenario della Chiesa locale. La notte del 30 dicembre 2011 erano stati assassinati il catechista e alcuni abitanti di una parrocchia nella periferia Sud della città, e i campi da gioco attorno alla cattedrale erano pieni di gente terrorizzata dalla possibilità di ulteriori attacchi da parte di banditi manovrati da politicanti senza scrupoli (vedi «L’altalena non danza più» su MC 3/2012). Ho iniziato l’anno nuovo con padre Pierino Tallone in un villaggio dove erano concentrati molti di quelli che erano dovuti scappare dalla violenza. Nel pomeriggio, prima di proseguire il mio viaggio, ho scambiato un po’ di impressioni con lo lui, per cercare di capire le cause di quei cosiddetti «scontri tribali». Padre Pierino era un veterano del Kenya, nel quale era arrivato nel 1963, e dal 1965 viveva nel Nord del paese. Nella sua vita era passato attraverso sofferenze e disagi di ogni genere ed era stato temprato dall’aspra bellezza della terra Samburu. Ma quel pomeriggio, guardando alla desolazione e al dolore causato da tanta violenza, aveva la voce rotta dal pianto. Non era un pianto dirotto, anzi, lui faceva di tutto per nasconderlo.

Il ricordo di quel vecchio missionario commosso e desolato dalle sofferenze della gente da lui tanto amata è qualcosa di indelebile nel mio cuore. Un ricordo tanto più forte perché padre Pierino era abile a mascherare i suoi sentimenti dietro un carattere un po’ burbero che poco concedeva alla debolezza. Un ricordo tornato di prepotenza alla notizia della sua morte, avvenuta a Nairobi il 21 settembre scorso, dopo ben 54 anni passati a servire Samburu, Turkana, Pokot e tanti altri nelle loro splendide e dure terre.

Quel ricordo è tornato leggendo le parole misurate di padre Rinaldo Do, dal Nord del Congo. «Continuano devastazioni, saccheggi, uccisioni, … in altre regioni interi villaggi abbandonati, migliaia di persone in fuga. Fino a quando?», scrive nella lettera che pubblichiamo in questo numero. «Abbandonare il Congo, andare in un altro paese più tranquillo, ritornare a casa…», una grande tentazione, vinta solo da un amore più grande. Scusa, padre Rinaldo, se mi permetto di andare oltre il significato più immediato delle tue parole e provo a intuire quello che c’è nel tuo cuore. Ma il mio mestiere di lunga data mi ha fatto incontrare tanti amici e confratelli che, come te, hanno il cuore straziato dai drammi che condividono con le persone con cui vivono, magari nei posti più dimenticati del mondo, senza avere nemmeno il lusso di poter piangere.

Non è cosa di tutti i giorni vedere piangere un adulto, ancor meno un prete e per di più un missionario. Quando rientrano nei loro paesi di origine, di solito, raccontano solo le cose belle, la gioia di vivere, la fede, l’intensità dei mille impegni, la crescita delle comunità, le danze e i canti. Poco o niente dicono di sé, delle loro fatiche, dei dubbi, delle lacrime versate nel silenzio della propria stanza o nell’intimo della cappella di comunità, lontano da occhi indiscreti. Il loro non è il pianto incontrollabile del dolore fisico, ma quello del «beati quelli che piangono» perché si fanno carico delle sofferenze delle vittime dell’ingiustizia e della violenza. È il pianto che sgorga di fronte della durezza di cuore di chi il male lo fa o di chi è diventato indifferente e si è chiuso nella torre delle sue certezze, dei suoi diritti e della sua autosufficienza. È il pianto di chi si sente impotente a fermare la violenza e l’ingiustizia cieca che priva i poveri dei diritti più elementari.

È anche il pianto nascosto di chi non capisce più il nostro mondo «moderno» che vive di pregiudizi, fake news, dipendenze e paure, allontanandosi da Dio e dal suo modello di umanità incarnato in Gesù per seguire mode politicamente e consumisticamente corrette. Il pianto di chi ricordando la gioia festosa della sua ordinazione e la partecipazione comunitaria alla sua partenza per le missioni, trova, tanti anni dopo, nel suo stesso paese comunità scristianizzate, allo sbando e senza preti, e giovani, anche tra i pochi cristiani impegnati, indifferenti o troppo occupati in altro per pensare di mettersi a servizio a vita di quell’incredibile avventura d’amore che è la missione, quella lontano, tra altri popoli, lingue e culture.

Sono le lacrime dell’amore, di chi si affida totalmente, nella sua povertà e piccolezza, a Colui che tutto può e sulla pietra gettata via dai costruttori, scartata, costruisce nuove incredibili meraviglie.

Benedetto sia il Signore.




Missione … e malaria


In una valle delle nostre splendide Alpi un gruppo di giovani di una parrocchia di città, a fine agosto, sta facendo il campo estivo. Accanto alla casa che li ospita cresce una alberello di prugne, che, ormai mature, dolcissime e assolutamente bio, cadono sul sentiero che i giovani percorrono più volte al giorno. In terra prugne calpestate. In alto rami carichi di blu profondo. Passano i ripassano i giovani. Non vedono le prugne. Non allungano la mano per cogliere quella bontà fresca e gratuita.

Un’altra storia. Da un altro mondo. Africa, Tanzania. Un missionario scrive entusiasta ad amici e benefattori delle meraviglie che il Signore sta operando: le ordinazioni di tre nuovi missionari, dieci giovani che hanno completato il loro periodo di noviziato e iniziano gli studi di teologia, e molti altri che finita la scuola secondaria entrano in seminario per iniziare il cammino di formazione per essere un giorno testimoni di Gesù nei più remoti angoli del mondo.

Due storie apparentemente slegate tra loro, da due mondi molto diversi.

Missione, gioia contagiosa

Ho pensato a questi due fatti leggendo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale del 22 ottobre. «La missione della Chiesa, destinata a tutti gli uomini di buona volontà, è fondata sul potere trasformante del Vangelo. Il Vangelo è una Buona Notizia che porta in sé una gioia contagiosa perché contiene e offre una vita nuova: quella di Cristo risorto», scrive papa Francesco. Un messaggio trasformante, realizzato attraverso l’annuncio del Vangelo, nel quale Gesù si fa «sempre nuovamente nostro contemporaneo».

Leggendo queste parole ho pensato a quei ragazzi di città talmente abituati alla frutta del mercato o del frigo di casa da non accorgersi di quella ancora sull’albero. Forse ci rappresentano un po’, abituati come siamo a lasciarci saziare da social, televisione, giornali, fake news, opinione pubblica, guru, politicanti e specialisti vari che ci sommergono di «ricette» per vivere felici senza problemi, al punto da trascurare l’ascolto di quella Parola di Vita che è Gesù stesso, Parola spesso relegata a una frettolosa oretta domenicale – ferie, ponti e settimane bianche permettendo -.

Ho pensato anche ai giovani del Tanzania, più poveri e con meno mezzi di noi, perché sono ancora capaci di «arrampicarsi sugli alberi per cogliere la frutta fresca» della Parola di Dio che li apre alla gioia contagiosa e trasformante dell’incontro con il Cristo risorto e con gli altri.

Beati noi, però, perché Dio non si stanca mai di offrirci la sua «frutta fresca e gratuita».
Beati noi, perché Dio crede nell’uomo più dell’uomo stesso.

Malaria e manipolazione della verità

Malaria. Cambio argomento, provocato dalle assurdità che vedo, leggo e sento in questi giorni a proposito di malaria. Comincio autodenunciandomi come suo possibile «portatore sano» e potenziale fonte di contagio (cfr. articolo pag. 62) per chi mi sta vicino con zanzara anofele di mezzo. Questo perché dopo 21 anni di Kenya e un po’ di Tanzania, di punture di zanzare portatrici del parassita ne ho prese a volontà, anche se la malaria vera e propria non l’ho mai avuta. Mi vergogno come italiano della strumentalizzazione della morte di una bambina e del dolore della sua famiglia per diffondere notizie false che alimentano odio e razzismo, sfruttando buon cuore, ignoranza e paure della gente. Certo la malaria non è una bella malattia. L’ho visto di persona. Ricordo che all’ospedale di Wamba nel Nord del Kenya, durante i periodi di siccità e fame moriva almeno un bambino al giorno di malaria. Inoltre so bene che più di un missionario ha perso la vita per lo stesso motivo, tra di essi alcuni cari amici. Ma usare il pretesto della malaria per alimentare il razzismo e aumentare l’odio verso persone come i migranti dall’Africa che di dolore, violenze e sofferenze sono carichi, mi sembra ingiusto e indegno del nostro essere italiani.

Queste manipolazioni a scopi di politica elettorale non sono accettabili, né per i migranti che ne pagano il prezzo con ulteriori sofferenze, né per ogni italiano, perché come italiani ci meritiamo più rispetto di quello che certi nostri politici ci danno. Solidarietà e volontariato sono due impagabili caratteristiche del nostro paese che noi missionari conosciamo bene. Due forze di vita che si manifestano sia sul nostro territorio sia nella miriade di associazioni e gruppi che aiutano a livello internazionale. Solo che non fanno rumore, come la foresta che cresce. «L’italiano qualunque», quello che ama la pace, quello dal cuore grande, ha gli anticorpi al plasmodio dell’intolleranza e del razzismo. Usiamo l’insetticida della fraternità, della compassione e della vera umanità contro le zanzare dell’odio e del razzismo che si nutrono delle nostre paure.




Editoriale: Ciao, non solo un saluto

Ciao
Titolo non proprio originale, lo ammetto. Ciao è un saluto facile, immediato, familiare, informale, perfino un po’ trasandato e quasi universale. Nelle sue variazioni è diventato un saluto internazionale che si trova bene sulle bocche di giovani e adulti in Francia e in Russia, in Vietnam come in Brasile e in tanti altri paesi del mondo, anche dove si parla inglese. Usato originariamente nel Veneto, nell’Ottocento ha conquistato la Lombardia e poi anche la Toscana, diventando il saluto informale comune di tutta l’Italia del Novecento. Ma se i Veneti di un tempo (forse) ne conoscevano bene il significato, abituati com’erano a togliersi il cappello di fronte ai signori quando li salutavano, dubito che i giovani e meno giovani che lo usano con disinvoltura in ogni angolo del mondo siano preoccupati di saperne il significato etimologico. Se questo saluto fosse davvero capito e messo in pratica alla lettera, potrebbe innescare la più grande rivoluzione pacifica del pianeta e cambiare le relazioni tra persone e popoli. Sì, proprio il semplice «ciao». Ma andiamo con ordine.
Ciao «deriva infatti dal termine veneto (più specificamente veneziano) s’ciao, proveniente dal tardolatino sclavus, traducibile come “[sono suo] schiavo”. Si trattava di un saluto assolutamente reverenziale». Così su Wikipedia e, similmente, su la Treccani, su Focus e su altri dizionari facilmente consultabili online. Ovvio che in origine era il saluto dei servi ai padroni, soprattutto i grandi proprietari terrieri e latifondisti che controllavano gran parte delle terre di tutta Europa fin dai tempi dei Romani. Retaggio di tempi in cui il fattore, longa manus del padrone, poteva entrare nelle case dei contadini e controllare quello che mangiavano per verificare che non ci fossero cibi non autorizzati e riservati soltanto ai signori. Era il saluto da servo a padrone, ma il tempo e l’uso l’hanno modificato e reso patrimonio comune. Nessuno oggi ne ricorda la dimensione servile, ma solo la familiarità, la gioiosità e l’uguaglianza tra persone che esso esprime.
Eppure il significato che questo saluto nasconde è davvero rivoluzionario. Immaginate solo per un momento che quello che si dice con la bocca (ciao = «sono suo/tuo schiavo») esprima davvero quello che si porta nel cuore, che davvero voglia dire: «Mi metto al tuo servizio» e, quindi, non penso ai miei interessi ma faccio tutto quello che è necessario per la tua felicità, il tuo benessere, la tua pace e la tua gioia. E che chi risponde al saluto con il suo «ciao» abbia gli stessi sentimenti e sia pronto ad aiutare, sostenere, accogliere, «servire» la persona che lo ha salutato. Immaginate un «ciao (= sono tuo servo)» che non sia di maniera né di opportunità, libero da timore e dipendenza, non corrotto da relazioni di tipo mafioso. Un «ciao» che esprima rapporti nuovi tra le persone, nei quali ognuno metta il benessere e la felicità dell’altro al centro. Un «ciao» che faccia sentire benvenuta, accolta, rispettata e, perché no?, servita la persona che è salutata.
Ve la vedete la scena di un qualsiasi ufficio pubblico dove l’impiegato/funzionario di turno ti dice «ciao» e veramente ti guarda e ti serve come una persona e non un numero o un rompiscatole? Un avvocato che dicendoti «ciao» pensa «come posso aiutare questa persona?» e non «quanto ci posso guadagnare?». Un prete che ti vede con gli occhi di Gesù e non con quelli del diritto canonico? I vicini di casa che non aumentino i divieti e i cancelli, ma dicano veramente «ciao» ai vivaci figli del vicino che hanno voglia di giocare in cortile e sappiano gioire della loro vitalità sbarazzina senza appellarsi ai regolamenti condominiali? Che succederebbe se i politici italiani incontrando la gente dicessero «ciao» perché vogliono fare un reale servizio al bene comune, con speciale attenzione a chi è più debole nella società? E un G20 del «ciao», nel quale i vari Trump, Putin, Xi, Merkel, May e tutti gli altri non pensino ciascuno a portare a casa il massimo vantaggio per la propria popolarità e il proprio paese, ma vogliano essere servi dell’umanità, della pace e della giustizia? Una pazzia?
Qualcuno, quasi duemila anni fa, ha osato sognare un mondo così. Nella cena in cui ha salutato per l’ultima volta i suoi amici, si è tolto il vestito della festa, ha indossato un grembiule da servo e si è messo a lavare i loro piedi. Alle loro reazioni scandalizzate ha detto che quello che lui faceva non era un’eccezione, ma mostrava quello che doveva essere il loro comportamento normale, quotidiano: «Lavarsi i piedi a vicenda» (Gv 13,14), «diventare servi gli uni degli altri» (cfr. Mc 9,35), come ha fatto lui che «non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28). Facendosi servo Gesù ha rivelato quello che è il vero volto di Dio, il volto dell’Amore. E ha anche mostrato agli uomini cosa significa essere davvero uomini, figli di quel Dio che è Amore, che è Misericordia.
Un sogno? A tutti un’estate ricca di ciao!




Lumache e camaleonti


Quando avrete tra le mani questo numero di MC, il Capitolo generale dei missionari della Consolata sarà già concluso. Mentre scrivo, invece, è ancora in corso.
Mi sembra di vivere in un mondo irreale, chiuso tra le mura di questa casa a due passi da san Pietro, assordato giorno e notte dal garrito dei gabbiani che hanno invaso il bel cielo di Roma, con il tempo ritmato dalle campane della basilica, il sordo rumore di fondo del traffico e il ta-ta-tum-ta-ta lontano dei fuochi artificiali che quasi ogni notte scoppiano lontano (ma cos’hanno sempre da celebrare in questa città?). Le ore passano veloci tra riunioni e sedute, preghiera e studio, condivisione e servizi. La possibilità di pregare il rosario passeggiando sotto i mandarini del nostro piccolo giardino è una benedizione per corpo e spirito.

Eppure non siamo qui per stare fuori dal mondo. Siamo qui per ricaricarci e per essere, sempre più, veri missionari. Lo scopo del nostro stare insieme per quattro settimane, 45 missionari originari di tre continenti (Africa, Europa e America Latina), è proprio quello di aprire il cuore e la mente alla realtà per tornarvi con energia e vita nuova, per «essere nel mondo» in maniera sempre più efficace e responsabile.

«Rivitalizzazione» e «ristrutturazione» sono le due parole più usate in questi giorni. E il buffo è che più ne parliamo, più io penso a due animaletti che sono entrati di soppiatto nel nostro capitolo: il camaleonte e la lumaca. Sono «scappati dalla borsa» di padre Giuseppe Frizzi, un bergamasco, missionario in Mozambico da una vita. Nel 1989, a gennaio, era a Nipepe quando suor Irene Stefani, ora beata, dissetò per diversi giorni un centinaio di persone – chiuse nella chiesa a causa delle minacce dei ribelli della Renamo che avevano assalito il villaggio – facendo scaturire acqua da un tronco secco, usato solitamente come fonte battesimale. Il «vecchio veterano» padre Giuseppe è venuto a condividere con noi capitolari lo speciale stile missionario della nostra beata e a raccontarci come i Makua di Nipepe l’avessero capita. L’ha fatto tramite immagini disegnate da artisti del posto. In alcune di esse, suor Irene era paragonata a un camaleonte, in un altro a una lumaca.

Io subito mi sono domandato: com’è possibile paragonare una missionaria dinamica e attiva come suor Irene alla lumaca, simbolo della pigrizia, o al camaleonte, simbolo del trasformismo che evita tutte le difficoltà?

Ho provato allora a mettermi nella prospettiva di padre Frizzi e dei suoi Makua: la lumaca è una creatura che non si lascia fermare da nessun ostacolo. Che il terreno sia liscio o ruvido, piano o in salita, spinoso o corrugato, sassoso o impolverato, bagnato o asciutto, lei avanza sempre. Niente la ferma. E lo fa senza violenza, senza imporsi, senza distruggere sul suo cammino. Altro che pigra! Una forza della natura invece. Però una forza mite, rispettosa.

E il camaleonte? È una sorpresa ancora più grande: egli, pur rimanendo se stesso, sa entrare in un ambiente senza spaventare, senza imporsi, con gesti lenti e misurati, assumendo il colore di chi è attorno a lui, diventando parte dell’ambiente.

Proprio come suor Irene che sapeva entrare nella vita delle persone con pazienza e mitezza, senza violenza o imposizione, nel rispetto dell’altro, della sua sensibilità e cultura. Delicata e sensibile, ma nello stesso tempo pertinace, resistente, inarrestabile. Disposta a farsi consumare dalla fatica, a dare tutto, pur di comunicare l’Amore di Dio.

Davvero una provocazione per i missionari di oggi e per ogni cristiano. Un modo di essere decisamente contro corrente, in un mondo in cui sembra prevalere la logica dell’imposizione con la forza (vedi ad esempio la corsa agli armamenti), del prendere per sé ciò che si vuole con ogni mezzo (land e water grabbing, rapina delle risorse, traffico di persone, giochi in borsa, corruzione, violenza sulle donne, ecc.) e della rassegnazione (di fronte a disastri o situazioni che non ci interessano finché non ci toccano). Il modo di vivere di una persona che, come la lumaca, spende senza riserve tutto quello che è e che ha, non si rassegna mai, non si lascia fermare da nessun ostacolo, non aspetta che siano gli altri a muoversi per primi e agisce con mitezza e rispetto, senza la fretta di avere i risultati «ieri» … ci fa dire: «Wow! Forse vale la pena pensarci».

Se poi, come il camaleonte, assumessimo i valori e le cose belle degli altri, facendo diventare il rispetto dialogo, l’accoglienza uno scambio, l’incontro una festa … tanto più direi: «Ne vale la pena!».

Per noi missionari «professionisti». Ma non sarebbe una bella proposta per ogni cristiano?

 




Cristiani, non «cretini»


Tra nostri amici d’Oltralpe, un tempo, c’erano molti montanari che soffrivano di ipotiroidismo nelle valli dell’Alta Savoia. Erano persone che restavano piccole, deformi, con il gozzo, e talmente semplici nel modo di pensare che a molti sembravano vivere fuori da questo mondo. La loro sofferenza e la loro semplicità faceva tenerezza a tutti, per questo venivano chiamati «poveri cristi», in franco provenzale crétin (o créstin [dal francese chrétien e latino christianus]). Era allora un’espressione senza malizia, anzi piena di affetto e compassione, che paragonava le loro sofferenze a quelle di Cristo. Ma, togli la compassione, ecco che crétin diventa sinonimo di «stupido, imbecille e simili, per lo più come titolo d’ingiuria», come scrive la Treccani; un epiteto che viene poi applicato soprattutto ai cristiani che, poveri loro, abituati ad avere la testa nelle cose del cielo (cioè «stupidi e insensati quali sono, sembrano quasi assorti nella contemplazione delle cose celesti», come scriveva il linguista Ottorino Pianigiani nel 1907, citato da Piergiorgio Odifreddi in un suo libro di cent’anni dopo), non erano in grado di capire le cose di questa terra, rifiutando l’illuminazione della scienza. Oggi pochi conoscono le origini e le trasformazioni storiche di questa parola e dando del «cretino» a qualcuno in genere non si intende offenderlo perché cristiano…

Eppure, ancora oggi, troppi cristiani vengono trattati da «cretini». Non solo, ci sono anche molti che vorrebbero che i cristiani si limitassero ad essere dei «cretini» che si occupano solo delle cose del cielo lasciando quelle della terra a chi sa come va il mondo (meglio una Chiesa cretina che cristiana!).

Il dato triste è che ci sono cristiani, ecclesiastici – anche di alto rango – e laici scrupolosamente cattolici, che condividono questo modo di pensare (ovviamente non espresso nei termini rozzi che sto usando io) e quindi se la prendono con papa Francesco che invece sulle cose di questo mondo ha molte cose da dire, e con ragione, toccando temi come il modo in cui si gestisce il dramma dei migranti, l’ambiente, l’assurdità della guerra e la sconcia «madre di tutte le bombe», il traffico delle persone, la litigiosità irresponsabile dei politici… Un papa che è troppo impegnato a scrutare gli uomini e i loro problemi, e che si dimentica di guardare in alto, verso il cielo, al sacro, al «trono di Dio».

La realtà, invece, è che essere cristiani è tutt’altro da essere cretini. È vero, il cristiano è chiamato ad «alzare gli occhi e levare il capo» (cfr. Lc 21,28), a essere nel mondo senza essere del mondo (cfr. Gv 15,18), a cercare le cose di lassù (cfr. Col 3,1), a «farsi un tesoro nei cieli» (cfr. Lc 12,33), a «cercare il regno dei cieli e la sua giustizia» (cfr. Mt. 6,33), ecc., ma anche ad abitare il mondo con responsabilità e audacia. Anzi. È proprio il guardare al «cielo» che rende il cristiano capace di vedere da una prospettiva diversa e di riconoscere tutto quello che è falsamente umano, che è contro l’uomo, che lo manipola, lo sfrutta, lo usa …

Proprio da chi gli dà il nome, Gesù il Cristo, il cristiano impara a vedere la persona, tutta la persona in quanto tale, senza pregiudizi su nazionalità, sesso, religione. Anche se, in effetti, guarda l’umanità con un «difetto di vista»: ha un occhio privilegiato per gli «scarti», i poveri, gli sfruttati, i trafficati, gli stranieri, i migranti, i disprezzati, quelli che non contano e sono solo percentuali anonime nelle statistiche. Per il cristiano la persona non è un numero in un database, ma un volto, un nome e una storia, una vita amata da Dio.

Tutto questo spinge il cristiano a essere attore della storia, non spettatore, un attore che partecipa alla costruzione di un mondo migliore, che non è sua proprietà, ma gli è stato affidato in custodia. Per questo, tra le altre cose, è geloso della libertà di coscienza, sua e degli altri.

I paesi in cui lui vive potranno decidere che l’aborto è legale, l’eutanasia possibile, il divorzio una cosa normale, la guerra un mezzo legittimo, la prostituzione un lavoro come un altro, il matrimonio…, ma il cristiano, nel rispetto delle scelte altrui, continuerà a rifiutare aborto ed eutanasia, a credere che il matrimonio è l’unione per tutta la vita di un uomo e una donna e che i figli hanno il diritto a un padre e una madre, che la prostituzione è sfruttamento, che la guerra non porta la pace, e via dicendo. E rimarrà convinto che il riposo domenicale non solo è necessario per lo spirito, ma serve al bene essere di tutta la persona; e che ciascuno vale per quello che è e non per quello che ha; che l’ambiente, il mondo e le sue risorse sono bene comune; che la scienza non è contro la fede, ma una compagna che aiuta a scoprire la profondità della sapienza di Dio nell’uomo e nel creato.

È vero, non sempre i cristiani sono coerenti con quello che predicano. Non essendo cretini, sanno bene di essere deboli e fragili come tutti gli umani, ma non per questo rinunciano a testimoniare quello in cui credono, per il quale molti (troppi) ancora oggi pagano con la loro stessa vita.




Un tuffo nel futuro


C’è un gioco di «iniziazione» interessante che ho visto fare in gruppi di giovani e ragazzi: sei bendato, in piedi in mezzo ad un cerchio di amici, e devi lasciarti cadere all’indietro senza paura, sicuro che ci sono braccia pronte a raccoglierti, sostenerti e proteggerti. È un esercizio ansiogeno, ma aiuta a cementare la coesione e far crescere la fiducia gli uni negli altri. Una scena simile a quella di Pietro che vuole andare da Gesù sulle acque in tempesta. La risposta di Gesù è semplice: «Vieni». Pietro si butta. Cammina sull’acqua, ma la tempesta è forte, il vento impetuoso. Si spaventa, comincia a dubitare, affonda. Un grido: «Salvami!». Ed ecco, subito, una mano tesa è lì per lui. «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Ho davanti agli occhi queste due scene, Pietro e i ragazzi, mentre penso a quanto stiamo vivendo noi missionari della Consolata. Il prossimo 22 maggio, a Roma, inizieremo il tredicesimo capitolo generale al quale ci stiamo preparando ormai da molti mesi. Il capitolo è un incontro che avviene ogni sei anni. Ci vanno di diritto i superiori dei vari gruppi sparsi nel mondo e poi diversi missionari liberamente eletti dai confratelli. In tutto una cinquantina di persone che hanno il compito di analizzare e valutare il cammino fatto, ma soprattutto di tracciare il camino per il futuro. Tutto semplice in tempi ordinari, ma l’oggi della missione sembra più un mare in tempesta che un tranquillo lago alpino. Quello che un tempo era chiaro, oggi non lo è più. Ieri essere missionario era uscire dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, da un ambiente «cristiano» e andare lontano verso chi «cristiano» non era. Oggi ci si chiede «dov’è la missione?» e la risposta non è più univoca: la missione è ovunque. Essere «Chiesa in uscita» non significa più soltanto «attraversare i mari», non si qualifica più per la dimensione geografica, ma è un movimento di incontro con l’uomo, l’altro, secondo lo stile di Gesù che ha scelto le periferie, i peccatori, i poveri, gli ammalati, gli «scarti»… ovunque essi siano, anche appena fuori dell’uscio di casa o addirittura dentro casa, dove arrivano «calandosi dal tetto».

Tutto bello, tutto nuovo, anzi, tutto antico e collaudato, visto che si rifà a Gesù stesso. Dove sta il problema allora? Dov’è il mare tempestoso? Presentando il capitolo, il nostro superiore, padre Stefano Camerlengo, ricorda due obiettivi: rivitalizzazione e riorganizzazione. Riorganizzazione significa prendere atto del fatto che (dal punto di vista religioso) l’Italia (e l’Europa) non è più al centro ma è diventata periferia. Questo è ormai evidente, ma non per questo accettato da tutti. Riorganizzare indica efficienza, essere al passo coi tempi, stare attenti alle «leggi del mercato», prendere atto che i missionari italiani sono una «specie in via di estinzione» e che le nuove forze vengono dal Sud del mondo e quindi bisogna «delocalizzare». È un processo doloroso che richiede sacrifici, tagli, abbandoni, ma ha una sua logica ineluttabile, come ci dimostrano le decine e decine di conventi, case religiose e chiese in vendita in ogni angolo del Belpaese. Potremmo dire allora che riorganizzare è una questione di «quantità» e di «fare».

Rivitalizzare è invece tutta un’altra storia in un tempo in cui i «vecchi» sono tentati dallo scoraggiamento e i «giovani» dalla globalizzazione della modernità. Parla di vita e tocca profondamente la «qualità» e l’«essere». Prendo un esempio per tutti. È più facile dire «impegniamoci affinché il beato Allamano sia dichiarato santo» o dire «diventiamo santi come ci vuole il beato Allamano»? Ed è proprio su questo punto che si gioca il futuro dei missionari della Consolata e del loro bellissimo servizio al mondo e al Vangelo. O imparano a fare come i bambini che si fidano ciecamente dei loro amici e come Pietro che si aggrappa alla mano di Gesù nel lago in tempesta, oppure anche le strategie più belle finiranno in niente.

Il beato Allamano ha ripetuto più volte che a fondare l’Istituto non è stato lui ma la Consolata. Da Maria, Consolatrice e Consolata, i suoi missionari devono imparare a fare un tuffo di fiducia nelle mani di Dio. Solo così, con occhi e orecchie, cuore e mente aperti per scoprire il sentiero che Dio ha tracciato per loro in questo oggi difficile, saranno «semplici servi» che «fanno bene il bene» senza lasciarsi condizionare dalle paure o sentirsi arrivati. «Prima santi», diceva l’Allamano, «e poi missionari», professionisti che agiscono con prudenza e coraggio, con realismo e creatività.

Ci aspetta un tuffo coraggioso nel futuro della Missione. Per questo abbiamo bisogno di voi, nostri amici, nostri tifosi, la nostra «curva». Contiamo sul vostro affetto e la vostra preghiera per vincere la partita contro lo scoraggiamento, la mediocrità, la tentazione del «si è sempre fatto così», la presunzione di essere indispensabili, la paura del nuovo.

Grazie a nome di tutti i capitolari e di tutti i missionari della Consolata.




Interrogativi


Scrivo in un giorno particolare, l’8 marzo, quando si dedicano fiumi di parole alla «donna». Parole dovute, parole sincere e anche (troppe) parole d’occasione e d’opportunità. Confesso di avere almeno due interrogativi in proposito. Uno: quando diciamo «donne», a che donne pensiamo? Riusciamo a includere anche le donne rom che rovistano tra gli scarti dei supermercati, le schiave-prostitute sulle nostre strade o nei più discreti centri di benessere, le migranti sfruttate e abusate durante il calvario per venire da noi e poi rinchiuse in centri di raccolta o addirittura campi di prigionia della nostra Europa? Due: fa piacere vedere così tante iniziative in favore della donna, ma mi piacerebbe vederne qualcuna anche per quell’altra parte dell’umanità che è l’uomo per aiutarlo a cambiare testa e cuore nel suo modo di relazionarsi con la donna.

Ho conosciuto in Kenya una giovane donna africana di successo, lavora con una multinazionale, ha un ottimo salario e un grosso cruccio: non riesce a trovare uno che la voglia sposare perché «è troppo su» e un uomo con un salario più basso del suo si sentirebbe inferiore a lei.

È davvero possibile migliorare la condizione della donna senza offrire anche all’uomo gli strumenti per cambiare la sua mentalità, senza aiutarlo a trovare una nuova identità sociale e culturale che lo faccia sentire realizzato e felice? Il problema non è far diventare le donne uguali agli uomini, ma creare le condizioni perché nella diversità e complementarietà, uomini e donne vivano insieme con pari dignità, rispetto e opportunità. Non sono così sicuro, per esempio, che le donne soldato siano davvero una conquista.

Un altro interrogativo: sono i morti tutti uguali? L’infelice Dj che si suicida in Svizzera finisce sulla bocca di tutti, con molti pronti a usare il suo dramma per i propri interessi. Una persona qualunque, cronicamente depressa, che si butta da un balcone del suo palazzo o da un ponte, scompare invece nel silenzio e nel pudore delle lacrime dei suoi cari, impotenti di fronte alla sua malattia o disagio. Che una persona si tolga la vita non è una conquista di civiltà, ma una sconfitta, indice di come la nostra società non sia sempre capace di comunicare speranza e di sostenere i più deboli e fragili. E la soluzione non mi pare stia nel promuovere l’eutanasia, ma nel dare senso alla vita, difenderla, promuoverla, renderla vivibile e dignitosa per tutti. La questione delicata dell’eutanasia o del suicidio assistito è, forse, il segnale d’allarme di una cultura che ha perso la speranza nel futuro, vive l’immediato e si consegna alla morte. Un segnale che le statistiche rese note recentemente sulla denatalità e invecchiamento sembrano confermare: 86 mila italiani in meno nel 2016; quasi 100mila aborti; età media del primo parto quasi 32 anni; aumento degli ultra 65enni… Non è forse una società, la nostra, che rischia di perdere la gioia di vivere? Magari ci si diverte anche, ma senza trovare gioia e alcuni tipi di divertimento sembrano utili solo a chiudere gli occhi davanti a un futuro che spaventa e che sa di morte.

E parlando del peso mediatico e politico di alcune morti, i morti dell’Africa sono uguali a quelli di Parigi, Berlino o … Rigopiano? Quante sono le vittime di Boko Haram in Nigeria? Quante quelle della guerra fratricida per il petrolio in Sud Sudan? E quelle dell’ennesima siccità in Kenya, Etiopia, Somalia? Quanti scheletri segnano la pista che dall’Africa Subsahariana portano al Mediterraneo?

Guardavo pochi giorni fa la lista del «martirologio di Beni-Lubero», che è costata la vita a padre Vincent Machozi massacrato il 20 marzo 2016 nel Nord del Kivu, RD Congo. Contiene i nomi e le foto (terribili a dir poco) di oltre 1.000 uomini, donne e bambini uccisi negli ultimi anni da bande armate e anche dall’esercito regolare, che lottano per il controllo dell’estrazione del coltan e altri minerali. Vittime scomparse in un silenzio utile a farci dimenticare che siamo complici involontari di quegli assassinii, visto che il coltan è un «minerale raro costituito da columbite e tantalite, utilizzato per la costruzione di conduttori elettrici e nell’industria bellica, spaziale e delle comunicazioni», fondamentale per i cellulari e i computer ormai onnipresenti nella nostra vita.

Un pensiero positivo per concludere. Una sera ho guardato quasi per caso e con curiosità un pezzo di una serie Tv girata nel bellissimo scenario delle Dolomiti. C’erano due donne in dialogo. Una raccontava di aver scelto di licenziarsi per stare col figlio che stava per nascere, un figlio che sarebbe morto presto a causa di una patologia incurabile. «Perché non hai abortito?», ha chiesto l’altra. «Perché anche un solo attimo di amore vale tutto», ha risposto.

Vale tutto! Come il «bicchiere d’acqua dato al più piccolo» o gli insignificanti spiccioli della vedova nel tintinnante tesoro del tempio. Forse davvero è tempo di meno parole e più piccoli fatti di amore, nel quotidiano, nelle relazioni di ogni giorno per ridirci che vale la spesa vivere, che l’amare «vale tutto» ed è più forte della morte e della disperazione.




Priorità


C’è veramente da essere confusi di questi tempi. Dovessimo misurare il livello di felicità degli italiani in base alle notizie riportate da giornali, Tv e social, ci sarebbe da piangere. Evito di entrare nei particolari del catalogo di tristezze che insistentemente, ossessivamente, ogni giorno ci vengono buttate addosso. Un catalogo abbellito da «fatti alternativi» (alternative facts, come definiscono le menzogne gli uomini di Trump), che spopolano sui social perché piacciono tanto a chi cerca la conferma di quanto già pensa e non la verità spesso scomoda, e reso stuzzichevole dal collaudato sport nazionale che è la «caccia al colpevole». Uno sport interessante, perché ha il pregio di a) permetterti di rifiutare la realtà; b) dare la colpa a qualcun altro; c) assolverti dalle tue responsabilità; d) farti sentire dalla parte del «giusto».

Così come «giusti» si sono sentiti quelli che a Roma, nascondendosi nel buio e nell’anonimato, hanno tappezzato la città di manifesti per contestare papa Francesco che sta mettendo a nudo i «fatti alternativi» e le ipocrisie di un certo modo di dirsi cristiani e poi essere immanicati con giochi di potere, arrivismi economici, favori politici e stile di vita mondano. «Giusti» si sentono i paladini della «grandezza» che costruisce muri, esclude e schiavizza i poveri, rafforza i privilegi di chi è già ricco, sfrutta il pianeta come se fosse proprietà esclusiva di pochi, detta le regole su chi ha il diritto di vivere e su chi invece non deve neppure nascere, su chi può lavorare con dignità e chi può essere sfruttato e precario…

Nel messaggio per la Quaresima di quest’anno, papa Francesco prende ispirazione dalla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), affinché ci lasciamo «ispirare da questa pagina così significativa, che ci offre la chiave per comprendere come agire per raggiungere la vera felicità e la vita eterna, esortandoci ad una sincera conversione». Le parole del papa sul ricco senza nome sono illuminanti per decodificare l’atteggiamento da «giusti» (chiedo scusa se abuso così di questa parola, che in altri contesti ha invece un significato molto positivo). Nel ricco, scrive il papa, «si intravede drammaticamente la corruzione del peccato, che si realizza in tre momenti successivi: l’amore per il denaro, la vanità e la superbia».

Amore al denaro: «Dice l’apostolo Paolo che “l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,10). Essa è il principale motivo della corruzione e fonte di invidie, litigi e sospetti. Il denaro può arrivare a dominarci, così da diventare un idolo tirannico. Invece di essere uno strumento al nostro servizio per compiere il bene ed esercitare la solidarietà con gli altri, il denaro può asservire noi e il mondo intero a una logica egoistica che non lascia spazio all’amore e ostacola la pace».

Vanità: «La cupidigia del ricco lo rende vanitoso. La sua personalità si realizza nelle apparenze, nel far vedere agli altri ciò che lui può permettersi. Ma l’apparenza maschera il vuoto interiore. La sua vita è prigioniera dell’esteriorità, della dimensione più superficiale ed effimera dell’esistenza».

Superbia, il «gradino più basso»: «L’uomo ricco si veste come se fosse un re, simula il portamento di un dio, dimenticando di essere semplicemente un mortale. Per l’uomo corrotto dall’amore per le ricchezze non esiste altro che il proprio io, e per questo le persone che lo circondano non entrano nel suo sguardo. Il frutto dell’attaccamento al denaro è dunque una sorta di cecità: il ricco non vede il povero affamato, piagato e prostrato nella sua umiliazione».

Lazzaro è invece il povero che ha un nome: «un nome carico di promesse, che alla lettera significa Dio aiuta. Perciò questo personaggio non è anonimo, ha tratti ben precisi e si presenta come un individuo a cui associare una storia personale». Anche se sembra «un rifiuto umano … Lazzaro ci insegna che l’altro è un dono. La giusta relazione con le persone consiste nel riconoscerne con gratitudine il valore. Anche il povero alla porta del ricco non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita».

In un tempo nel quale la tentazione è quella di costruire muri per tener fuori chi è altro, diverso, povero, migrante; di credere ai «fatti alternativi» per non vedere ed essere obbligati a cambiare stile di vita; di mettere se stessi al centro del mondo e sentirsi vittime di un’aggressione continua; in questo tempo la Parola di Dio e la voce del papa ci invitano invece a «convertirci», a rivedere le nostre priorità, a creare relazioni, a lasciarci interpellare e coinvolgere dagli «scarti» del mondo. Finché sarà prioritario «l’io» sul «noi», continueremo ad alimentare gli stessi atteggiamenti di vanità, superbia e litigiosità che da sempre caratterizzano il nostro mondo europeo. L’occasione che ci viene invece offerta dalla presente crisi globale è quella di costruire relazioni nuove, diventando veramente cittadini del mondo e, soprattutto, vivendo davvero quella che è la nostra identità più profonda, quella di uomini e donne «figli e figlie di Dio», membri della famiglia umana.




La non violenza: stile di una politica per la pace


Il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace 2017 è talmente intenso e profondo da meritare una lettura nella sua integralità senza essere annacquato da commenti. Buona lettura. Originale da vatican.va

 


1 All’inizio di questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle nazioni del mondo, ai Capi di Stato e di Goveo, nonché ai responsabili delle comunità religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa «dignità più profonda»[1] e facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita.

Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «È finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie inteazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».[2] Colpisce l’attualità di queste parole, che oggi non sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa.

In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli inteazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.

Un mondo frantumato

2 Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i modei mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti ad essa.

In ogni caso, questa violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”?

La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti.

La Buona Notizia

3 Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21). Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione, secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».[3]

Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo “di più” viene da Dio».[4] Ed egli aggiungeva con grande forza: «La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”».[5] Giustamente il vangelo dell’amate i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato «la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia».[6]

Più potente della violenza

4 La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo».[7] Perché la forza delle armi è ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».[8] Nello scorso mese di settembre ho avuto la grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità verso tutti attraverso «l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. […] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi».[9] In risposta, la sua missione – e in questo rappresenta migliaia, anzi milioni di persone – è andare incontro alle vittime con generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito, guarendo ogni vita spezzata.

La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.

Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».[10] Questo percorso di transizione politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle controversie intee ed alla guerra in quelle inteazionali».[11]

La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.

Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».[12] Lo ribadisco con forza: «Nessuna religione è terrorista».[13] La violenza è una profanazione del nome di Dio.[14] Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!».[15]

La radice domestica di una politica nonviolenta

5 Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentirnero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono.[16] Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.[17] D’altronde, un’etica di frateità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica.[18] Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.

Il Giubileo della Misericordia, conclusosi nel novembre scorso, è stato un invito a guardare nelle profondità del nostro cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio. L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana. «L’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Una ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».[19]

Il mio invito

6 La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni inteazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni inteazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[20] Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.[21] Certo, può accadere che le differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e nonviolenta, così che «le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita», conservando «le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[22]

Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».[23] Ogni azione in questa direzione, per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza, primo passo verso la giustizia e la pace.

In conclusione

7 Come da tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla nascita di suo Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra agli uomini e donne di buona volontà (cfr Lc 2,14). Chiediamo alla Vergine di farci da guida.

«Tutti desideriamo la pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e molti soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla».[24] Nel 2017, impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».[25]

Dal Vaticano, 8 dicembre 2016

Francesco