Caro Gesù bambino


Testo di Gigi Anataloni


Mi fa effetto scriverti una letterina di Natale, adesso che ho i capelli grigi. Non l’ho mai fatto, neppure da piccolo. Dalle mie parti, allora, si preferiva santa Lucia. E non occorreva neanche scrivere, bastava un po’ di crusca per il suo asinello. Oggi invece i bambini scrivono (o messaggiano) a Babbo Natale, alla Befana, a san Nicola, a santa Lucia… Allora è venuta anche a me la voglia di scriverti.

Caro Gesù bambino, mi hai proprio fatto una bella sorpresa. Sono venuto a cercarti perché mi avevano detto che eri nato in una stalla mentre i tuoi erano in viaggio, ti facevano dormire in una mangiatornia e non avevi il necessario. Un po’ sconsiderati i tuoi genitori a muoversi in quelle condizioni, anche se lo so che, poveracci, non avevano avuto scelta.

Trovarti è stato facile. C’era un sacco di gente là fuori. Ma non capivo bene. Oltre a quelli del villaggio c’erano storpi, zoppi, ciechi, sordi, poveri, bambini, pastori nomadi e stranieri: entravano da te con la faccia di circostanza e poi tutti uscivano con un sorriso radioso. Addirittura, c’erano dei poveracci che venivano fuori con un bel pane in mano e anche una schiacciata di fichi. E facevano festa lì fuori, davanti alla casa, come vecchi amici attorno al fuoco. Mi è venuto il dubbio di aver sbagliato posto.

Dopo un po’, sono riuscito a entrare anch’io. Non dalla porta principale, ma da quella che scendeva nella stalla sotto la casa. Il posto era spazioso, ma non grande. In un angolo, legati alla mangiatornia, c’erano una mucca e un asino, anzi due, e un solo basto attaccato a un piolo sulla parete. In un piccolo recinto alcuni agnelli e un vitellino dormivano tranquilli. C’era un uomo indaffarato a rifinire quello che sembrava un giogo per buoi. Accanto a lui, una donna era seduta sull’altro basto intenta a sistemare un cesto, non uno qualsiasi, ma quello da mettere sulla schiena dell’asino per portare il cibo per il viaggio, pane soprattutto, quello d’orzo dei poveri. Che la donna stesse preparando la cena? Ho guardato meglio. Nel cesto non c’era il pane, ma un bambino che dormiva tranquillo ben avvolto in un mantello, quello del papà. Finalmente, ti avevo trovato.

Mi sono avvicinato, con le mani piene delle cose che ti avevo portato per mostrare a tutti la mia generosità. Ho cercato l’attenzione di tua madre. Mi ha salutato sì, ma senza interesse per quello che avevo in mano. Sembrava avere occhi solo per te. Era evidente che ti amava. Ti mangiava con gli occhi, accarezzandoti piano.

In quel momento tu hai aperto gli occhi. Mi hai guardato e mi hai sorriso come se mi conoscessi da sempre e stessi aspettando proprio me. Non so che mi è successo allora. Posata la roba, sono caduto sulle ginocchia. Occhi negli occhi, ti ho guardato, anzi, mi sono lasciato guardare, dentro. Una dolcezza e una gioia grande mi hanno invaso. Ero venuto per accoglierti e far sfoggio di me. Invece sei stato tu che hai accolto me e mi hai fatto sentire atteso, amato, importante per te.
Ho capito allora il perché della festa che c’era là fuori, la gioia e la danza, la fraternità e l’incontro. Ero venuto a cercarti e ho scoperto che, invece, eri tu che cercavi me. Ero venuto per accoglierti e sono invece stato accolto; per darti le mie cose e hai preso il mio cuore. E quando sono uscito, mi sono unito alla festa, danzando attorno al fuoco, per condividere con tutti gli altri, non più sconosciuti e forestieri, la bellezza dell’essere amati da te.

Caro Gesù, scusa la mia storia di fantasia. In essa c’è una verità che rimane: che tu sei venuto a cercarmi e mi hai amato per primo. Non solo me, ma ogni uomo, indistintamente, anzi, personalmente. E questo è bello e continua a essere una Parola di speranza e di vita oggi per ciascuno. La tua fiducia in noi diventa la nostra fiducia negli altri, perché tu ci ami tutti come se ognuno fosse l’unico. La fiducia reciproca è una di quelle cose di cui abbiamo più bisogno, tentati come siamo di costruire muri, piantare paletti, etichettare, distinguere tra «noi e loro», imporre dei «prima» … «Non c’è pace senza fiducia reciproca», scrive Francesco nel messaggio per la giornata della pace che si celebra il prossimo primo gennaio. «Pace [che è] come la buona notizia di un futuro dove ogni vivente verrà considerato nella sua dignità e nei suoi diritti».

Venendo tra noi, tu ci hai già considerati degni del tuo amore, riconosciuti nella nostra dignità di figli e figlie di Dio. La mia preghiera è che possiamo imparare da te a trattarci gli uni gli altri come fai tu con noi. Grazie perché continui a guardarci con amore.




Sorella morte


Così san Francesco chiamava la morte, sorella. Come ha chiamato sorella l’acqua, ma mentre le sue parole sull’acqua, sul sole e la natura sono diventare patrimonio comune, immortalate in bellissimi canti, la sua affettuosa familiarità con la morte non ha fatto presa. La morte è più matrigna cattiva che sorella. Eppure la morte è parte del vivere.
Un giorno, una signora che ha fatto l’ostetrica per tutta la vita, mi ha raccontato che alla prima lezione di ostetricia l’insegnante aveva detto: «Ricordatevi che si nasce per morire». Non se l’aspettava, perché era là per imparare ad accogliere la vita, ma con quella frase l’insegnate aveva, quasi banalmente, collocato la morte al suo posto naturale.

Non sono in vena di pensieri tristi, anche se novembre è associato alla morte e alla visita ai cimiteri, ma oggi il pensiero della morte non mi dà né tristezza né ansia. Anzi, al contrario, il pensiero della morte mi stimola a vivere meglio e con maggiore intensità una vita degna di questo nome.

Ogni momento come se fosse il primo, ogni momento come se fosse l’ultimo. Con intensità e scopo, senza ansia o frenesia. Gustandolo, perché «ora» è il momento più bello possibile. Senza sprecare tempo nell’attesa del giorno fortunato, dell’occasione, della situazione ideale. Questo momento è un dono unico. È un dono, non un peso, da vivere facendo le «opere belle» che rendono gloria a Dio (cfr. Mt 5,16), scegliendo cioè «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode» (Fil 4,8). Vivere al massimo, ora, senza aspettare domani, prepara a morire per andare nelle «buone mani» di Dio. Mani sulle quali è scritto il mio nome.

Sorella morte, grazie perché sei un invito a vivere. E a vivere «bene» e in «bellezza». Anche se non è facile. Ci sono giorni di grande fatica in cui sembra che il sole non sorga. Giorni in cui ti guardi intorno e vedi gente senza gioia vivere con aggressività, con atteggiamenti autolesionisti, senza amore, senza un sorriso, senza speranza. Gente incapace di guardare in alto, presa com’è dai suoi traffici, dai suoi interessi, dalle sue paure. E ti sembra che i tuoi sforzi «per un mondo migliore» siano inutili. Ti domandi «chi me lo fa fare?». Ti verrebbe la voglia di chiuderti in te stesso, di smetterla di preoccuparti per gli altri, eterno Don Chisciotte che lotta contro «i mulini a vento». E senti forte il peso della solitudine.

Ma tutto cambia se proprio nei giorni bui incontri un volto sorridente e una faccia amica, se hai attorno a te persone che condividono i tuoi stessi sogni, un gruppo, una comunità di fede e di amore che guarda nella stessa direzione.

Avere una comunità che ascolta la stessa Parola, celebra la stessa Speranza, vive la stessa Carità, brucia della stessa Fede. Con la quale ridere e piangere, pregare e amare, lottare e sognare. Che ti carica sulle spalle quando sei stanco o quando cadi e ti chiede il meglio di te quando sei forte. Una comunità dove si cammina insieme e ognuno dona quello che è, senza arrivismi e competizioni. Un «popolo» che fa esperienza di esodo passando dall’essere un branco di «belve» a una famiglia di «uomini».

Tutto cambia quando incontri una comunità che è Chiesa, una Chiesa che è comunità.

Sorella morte, quanto vorrei che tu fossi per ciascuno di noi una vera maestra di vita, e non, come succede spesso, una scusa per diventare egoisti, attaccati alle nostre cose, arroccati nel nostro io, timorosi di tutti, chiusi nel nostro «particolare». Insegnaci a vivere con intensità e amore ogni attimo, qui e ora, costruendo relazioni di fraternità con chi cammina con noi, accettando la nostra debolezza e quella degli altri, costruendo ponti e abbattendo muri e barriere, curando questa casa che ci è stata affidata perché sia il posto sempre più bello in cui vivere insieme nell’attesa.
Aiutaci ad essere pronti a nascere alla Vita. Tu che sei la porta della luce, facci entrare nel giardino di pace e armonia nel quale, carichi solo dell’amore donato, come bambini finalmente ci buttiamo nelle braccia del Padre che tanto ci ama e ha preparato per noi la festa più bella.




Cuori aperti


«Fratelli, vivete la vostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore glorioso, senza ingiuste preferenze per nessuno», scrive Giacomo (Gc 2,1). «Facciamo un esempio»: con l’aereo arriva CR61, ricco, aitante e famoso, «voi vi mostrate pieni di premure e dite»: ecco qui un bel po’ di milioni per farci incantare dalla tua fama. «Viene anche uno che è povero e vestito male»; è scuro di pelle e arriva dal mare, tale Pacchia 18i. A lui, invece, dite: rimani sulla nave, che ti rimandiamo da dove sei venuto, ladro di lavoro, insidiatore di donne, mangiatore a ufo. «Se vi comportate così, non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?» (Giacomo 2,1-4).

Il testo di Giacomo non è proprio così, ma forse lo sarebbe stato se lo avesse scritto nell’Italia e nell’Europa di oggi contagiate da sovranismi, populismi, xenofobie, nostalgie vetero-cattoliche e rigurgiti antipapisti o, meglio, anti-Francesco. Avrebbe detto parole di fuoco in questa nostra Europa che sembra avvinta da un identitarismo cristiano di facciata («appartenere e credere senza praticare») cavalcato da tanti politici. Una pseudo identità cristiana che trova alleati in certi movimenti politici e religiosi che vedono nel Vaticano II, e soprattutto in Francesco, lo stravolgimento della Chiesa. E in nome di questa presunta identità cristiana si costruiscono muri, si difendono privilegi, si giustificano intolleranza, esclusioni, razzismi e violenze. «Non è forse chiaro che fate delle differenze tra l’uno e l’altro e che ormai giudicate con criteri malvagi?», dice Giacomo.

La logica del Vangelo è diversa, e ce lo ricorda Francesco: «[La] trasmissione della fede avviene dunque per il “contagio” dell’amore, [essa] esige cuori aperti, dilatati dall’amore. All’amore non è possibile porre limiti: forte come la morte è l’amore (cfr Ct 8,6). E tale espansione genera l’incontro, la testimonianza, l’annuncio; genera la condivisione nella carità con tutti coloro che, lontani dalla fede, si dimostrano ad essa indifferenti, a volte avversi e contrari. Ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù e alla presenza sacramentale della Chiesa rappresentano le estreme periferie, gli “estremi confini della terra”, verso cui, fin dalla Pasqua di Gesù, i suoi discepoli missionari sono inviati, nella certezza di avere il loro Signore sempre con sé (cfr Mt 28,20; At 1,8). In questo consiste ciò che chiamiamo missio ad gentes» (Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2018).

Essere dalla parte del Vangelo è fare scelte concrete di Amore che contestano il modo farisaico di vivere una religione centrata sul sacro e sull’esteriorità e che non disturba né l’economia che sfrutta l’uomo e l’ambiente (a beneficio di pochi straricchi), né la politica autoritaria e populista che offre false sicurezze e utopie. Le scelte d’amore sono scelte che si pagano, a cominciare dagli insulti sui social, dalla violenza e intolleranza subite quotidianamente, legittimate dal vocabolario e dallo stile di chi dovrebbe essere al «servizio» del bene comune. E questo è vero non solo nel mondo della politica, ma anche all’interno della Chiesa stessa, dove – è triste scriverlo – si consumano gli attacchi più feroci proprio contro papa Francesco, autentico testimone della misericordia di Dio.

La Chiesa di Gesù è nel mondo senza accettare la logica del mondo, cosciente delle sue debolezze ma anche della forza della Parola di cui è custode e testimone. La Chiesa di cui siamo parte che non è il Vaticano, quel chilometro quadrato della città di Roma ricco di bellezza e, allo stesso tempo, segnato da contraddizioni e scandali. La Chiesa non è solo vescovi e preti, religiosi e suore. Troppo comodo pensarla così e denigrarla per gli eventuali scandali di chi dovrebbe essere esempio di santità, generalizzando, dimenticando le testimonianze meravigliose di chi senza rumore e pubblicità paga di persona, anche con la propria vita, ignorando le malefatte che anche i «laici» commettono quotidianamente.

La Chiesa è di ogni cristiano, di ogni battezzato: la mia Chiesa, la tua, la nostra Chiesa, di cui siamo pietre vive, nella quale siamo attori, non spettatori o giudici. La nostra «Madre» Chiesa, «santa e prostituta», come scrivevano i Padri, che impoveriamo con le nostre debolezze, ma rendiamo splendida se «con le nostre opere belle» facciamo sì che gli uomini «rendano gloria al Padre nostro che è nei cieli» (cfr Mt 5,16).

Gigi Anataloni

 

1.«CR6». Dicono sia CR7, ma il 7 nella Bibbia è il numero della perfezione, meglio il 6, un po’ imperfetto…




Ribelle per Amore


Il linguaggio è forse un po’ datato ma lo spirito no. Quando, grazie a don Mario Bandera, ho letto per la prima volta la «preghiera del ribelle» (vedi sotto) scritta nel 1944 da Teresio Olivelli, ora beato e allora giovane sottotenente degli alpini e partigiano braccato dai nazifascisti, sono stato colpito dall’attualità del suo messaggio. Vero, oggi non si corre il rischio di essere torturati (almeno qui in Italia), né quello di essere fucilati o messi in campi di sterminio a causa di una preghiera o di un giornale, «il Ribelle», come quello stampato da lui con i suoi amici come atto di «resistenza». Però… Se oggi non ti adegui all’opinione delle «giurie popolar-telematiche» – così corteggiate dai nostri politici – che dominano il modo di pensare e comunicare, hai vita dura, o quantomeno trovi la tua pagina social piena di vituperi, insulti e anche minacce, neppure tanto velate. Per questo ha ancora senso pregare: «Signore, a noi […] dà la forza della ribellione. Facci liberi e intensi […] facci limpidi e diritti [… per far] crescere al mondo giustizia e carità. […] Ascolta la preghiera di noi, ribelli per amore».

Teresio Olivelli ha fatto resistenza, ribellandosi per amore. Prima di lui Pier Giorgio Frassati, un altro giovane, aveva saputo ribellarsi al pensiero unico del suo tempo, scegliendo la carità come risposta alla violenza: «Base fondamentale della nostra religione è la carità, […]: nell’amare Iddio con tutte le nostre forze e nell’amare il prossimo come noi stessi. E qui sta la dimostrazione esplicita che la fede cattolica si basa sul vero Amore e non – come vorrebbero tanti, per poter tranquillizzare la loro coscienza – dare per base alla religione di Cristo la violenza. Con la violenza si semina l’odio e si raccolgono poi i frutti nefasti di tale seminagione; con la carità si semina negli uomini la pace […]».

Papa Francesco, anche se non più giovane come erano Teresio e Pier Giorgio, è su questa linea, nelle parole e nei fatti.

Quanto accade in Italia e in Europa di questi tempi non può lasciare indifferenti. Come uomo, cristiano, missionario e italiano, mi sento messo in discussione. Per oltre vent’anni, in Africa, sulla mia carta di identità c’è stato scritto alien. Alieno, straniero, migrante, invasore, diverso… Che stia diventando un alieno anche in questo mio paese, nel mio continente? Che ne è dell’Italia che amo, culla di bellezza, madre di migranti e missionari, ponte di solidarietà e accoglienza?
Come resistere a chi semina odio facendosi forte addirittura del Crocefisso? Che fare? Fare finta di niente? Rispondere a tono a tutti i post e le notizie razziste e sòcial-populiste che fanno man bassa di «mi piace» sull’onda di politici in perenne campagna elettorale che governano da balconi, piazze e piscine? Reagire a tutti gli insulti su Facebook con una faccina arrabbiata? Fare raccolte di firme? Chiudersi in chiesa armati di novene riparatrici e di preghiere per la «loro» conversione?

Teresio Olivelli ha resistito con un’azione centrata sull’amore ispirata dalla sua relazione con Dio. Pier Giorgio ha combattuto l’odio con la carità. Come missionari della Consolata ci siamo detti e ridetti che il nostro primo scopo è quello di essere testimoni dell’amore universale di Dio e servi di consolazione. Ci siamo anche ripetuti che il nostro stile è «fare bene il bene, e senza rumore». Per questo possiamo fare solo una cosa: continuare a essere fedeli alla nostra vocazione e al nostro stile nel mondo e in Italia.

Questo significa anzitutto opporre il silenzio alla litigiosità fatta virtù. E poi… Rispetto, cortesia e gentilezza: come resistenza all’insulto e alla violenza. Presenza e impegno: senza quel protagonismo «cinguettante» che tutto afferma e niente opera, per lavorare insieme e camminare con chi costruisce, ama, accoglie nel quotidiano. Consolazione: con preferenza per gli «scarti», gli anziani, i poveri, i soli, gli ignorati e abbandonati, senza guardare colore, nazionalità, cultura e religione. Informazione: accurata, documentata, approfondita, rispettosa delle persone delle quali si scrive ma anche dell’intelligenza di chi legge. Confronto: non con gli indici di popolarità, ma con la Parola di Dio che nutre la coscienza e smaschera la menzogna.

Non siamo eroi, ma non possiamo non essere missionari. E lo siamo, incoraggiati da tantissimi amici, benefattori, simpatizzanti, uomini e donne, lontano dalle luci della ribalta, che continuano a compiere infiniti piccoli gesti di amore per ogni uomo.

Gigi Anataloni


PREGHIERA DEL RIBELLE

Signore
che fra gli uomini drizzasti la Tua croce,
segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro
le perfidie e gli interessi dominanti,
la sordità inerte della massa, a noi oppressi
da un giogo oneroso e crudele che in noi
e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite,
dà la forza della ribellione.

DIO
che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi,
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà,
moltiplica le nostre forze, vestici della Tua
armatura, noi ti preghiamo, Signore.

TU
che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso,
nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria;
sii nell’indulgenza viatico, nel pericolo sostegno,
conforto nell’amarezza.
Quanto più si addensa e incupisce l’avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura, serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca
al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti,
a crescere al mondo giustizia e carità.

TU
che dicesti: «Io sono la Resurrezione e la Vita»,
rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti:
veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo:
sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

DIO
della pace e degli eserciti,
Signore che porti la spada e la gioia,
ascolta la preghiera di noi,
ribelli per amore.

Teresio Olivelli




Chi non è contro di noi è per noi

C’è una scena interessante nel Vangelo di Marco: Gesù, per la seconda volta, cerca di far capire ai suoi discepoli che sta andando a Gerusalemme per essere ammazzato, e non per diventare re, come loro vorrebbero. Ma i discepoli non lo ascoltano. Anzi, discutono su come spartirsi il potere. E, già che ci sono, vogliono anche liberarsi da possibili concorrenti, per non perdere l’esclusiva. Giovanni e gli altri, infatti, cercano di fermare un tale che sta «scacciando i demòni» nel nome di Gesù senza essere del loro gruppo: non è «dei nostri»! Gesù però li sorprende: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,38-41).

Quella di Gesù nel brano di Marco 9 è una risposta che spiazza. Noi, di solito, preferiamo quella riportata da Matteo, simile ma opposta: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12.30), anche se, in Matteo, Gesù dice questa frase in un contesto del tutto diverso, parlando di lotta contro il male.

Marco ci presenta un tale che sta aiutando delle persone che vivono in situazioni disumanizzanti. Uno che, nel nome di Gesù, vuole ricondurli alla loro umanità. «Non è dei nostri», dicono i discepoli. Gesù però oppone alla categoria dei «diritti d’autore» e del monopolio, il dato di fatto che il bene, il bello, il giusto e il vero hanno una sola sorgente: Dio. E in Dio sono patrimonio di tutta l’umanità, di ogni uomo, anche fuori della cerchia dei discepoli, anche fuori della Chiesa, come ci insegna il Vaticano II. Nessun uomo, organizzazione, chiesa, partito o stato può vantare la proprietà o il brevetto del bene, così come a nessuno appartiene l’esclusiva del male che, infatti, serpeggia anche tra i discepoli.

Gesù ci insegna a guardare al bene attorno a noi senza gelosie e pretese di esclusiva, a saper riconoscere la mano e la presenza di Dio in ogni realtà positiva, in ogni persona, cultura, religione. Dove c’è bene e bellezza, giustizia e verità, dove si realizzano autentiche esperienze di umanizzazione, lì c’è Dio, perché l’amore di Dio, il suo Soffio di Vita, non si lascia ingabbiare e soffia dove, come e quando vuole (cfr. Gv 3,8).

Trovo questo detto di Gesù particolarmente attuale oggi, perché è un buon antidoto contro il fondamentalismo e la tentazione di ritenere di avere il monopolio del bene. Cose buone e giuste vengono dette e fatte anche da chi non crede in Gesù. Non ci sarebbe la missione senza queste parole di Gesù, perché uno dei primi doveri di un missionario è proprio quello di riconoscere i «semi di Verbo» (cfr. Ad Gentes 11b) e i «segni dei tempi» nelle più disparate realtà umane e culturali incontrate ai quattro angoli del mondo e anche nelle nostre società complesse dell’Occidente.

Per me è sempre stato motivo di grande gioia rendermi conto che l’azione di Dio mi ha sempre preceduto e mi ha fatto scoprire luoghi di bellezza incomparabile e incontrare persone «giuste» e innamorate di Dio anche nei posti più impensabili.

Credere in queste parole di Gesù è anche un disintossicante per chi vive la crisi del nostro tempo che spinge molti a credere che la nostra religione, la nostra cultura, il nostro modo di vivere sono i «migliori», mentre degli «altri» bisogna diffidare. «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?», chiedeva Natanaele (Gv 1,46) chiuso nel suo pregiudizio che solo l’incontro con Gesù ha dissolto.

Questa attitudine a riconoscere che l’azione di Dio ci precede e non ha confini e che ogni uomo – perché è immagine di Dio – è capace di bene, non significa avere poca stima di sé e della propria fede o pensare che tutto quello che è «altro» sia meglio. È piuttosto il saper riconoscere che la misura di tutto non sono «io», ma «Dio». Qualsiasi atto bello e vero, anche se compiuto da un ateo o da uno di un’altra cultura o religione o tendenza politica, è sempre dono di Dio, in Lui ha la sua sorgente: «Tutto coopera al bene di quelli che amano Dio» (Rm 8, 28) e «respirano» il suo Spirito.




Pazienza e missione

Editoriale su Pazienza e missione di Gigi Anataloni, direttore di MC |


All’inizio di maggio, il 4, parlando a braccio a «frati e suore» riuniti in un convegno internazionale di Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, Francesco, nostro amato papa, ha condiviso con loro la logica delle «tre p»: «Queste sono colonne che rimangono, che sono permanenti nella vita consacrata. La preghiera, la povertà e la pazienza».

Il nostro superiore ha invitato i miei confratelli e me a leggere e meditare quel discorso soprattutto perché tra fine maggio e inizio giugno ci incontriamo per una settimana allo scopo di decidere il nostro piano d’azione per i prossimi anni qui in Italia. Un’impresa non facile tenendo conto delle nostre forze, della nostra età e di questo nostro tempo tutt’altro che entusiasticamente cristiano.

Non entro nel merito della «p come preghiera», anche se è la chiave di volta di tutto (è il «prima santi» del nostro beato Allamano). Sulla «p come povertà» noto che la «povertà» che pesa di più è l’invecchiamento generale del nostro istituto in Italia e la mancanza di ricambio generazionale. Vedersi invecchiare senza avere qualcuno a cui passare il testimone è la cosa che pesa di più e sconvolge. Tutti noi, tanti anni fa, siamo partiti da una Chiesa italiana vibrante e piena di vitalità per andare ai quattro angoli del mondo dove abbiamo sperimentato la gioia dell’annuncio del Vangelo, affascinati e meravigliati dall’incredibile azione dello Spirito nei posti più remoti e improbabili. Siamo rientrati in Italia, spesso perché acciaccati, e abbiamo trovato seminari chiusi, parrocchie accorpate e chiese vuote in un paese dove edifici e opere cristiane diventano reperti da Ministero dei Beni culturali e l’essere e il pensare cristiani tendono a essere sempre più relegati nel più stretto ambito privato e le tradizioni cristiane sono o fagocitate dalla logica del mercato (vedi Natale) o addirittura impedite nella loro manifestazione pubblica in nome del pluralismo. Uno shock tremendo, da indurre a chiedere a noi stessi: «Ma abbiamo sbagliato tutto»? Se non fosse che il sistema sanitario italiano – a dispetto delle molte critiche che si fanno – è tra i migliori, la tentazione sarebbe quella di abbandonare il paese e andare a morire là dove abbiamo lasciato il nostro cuore e ci sono tanti giovani missionari che hanno voglia di partire verso le frontiere più remote del mondo.

Un passaggio del discorso di Francesco mi ha colpito: quello del «p come pazienza», soprattutto laddove il papa sottolinea che la pazienza va mano nella mano con la speranza. Tutt’altro che rassegnazione e tristezza, quindi. Tutt’altro che arrendersi all’ineluttabile. La pazienza, alimentata dalla speranza, è forza per costruire il futuro. Non solo, è soprattutto capacità di vedere che il futuro si sta costruendo nonostante le nostre debolezze e contraddizioni, perché c’è Qualcuno che lo crea in modo imprevedibile e sorprendente.

In sé, il papa non ha detto niente di nuovo. Questo tipo di pazienza è radicato nella tradizione cristiana. Noi preti e missionari dovremmo saperlo bene. Eppure, almeno per me, le parole di Francesco hanno avuto un sapore nuovo e quanto mai attuale. Suonano come un campanello d’allarme e una provocazione per noi missionari italiani tentati dalla rassegnazione e paghi di prepararsi a morire bene e nel modo più dignitoso possibile. Non abbiamo bisogno del «sopportare pazientemente le avversità» ma della vera pazienza che ci fa vivere guardando in avanti, sapendo che «sia che dormiamo, sia che vegliamo» il seme cresce da solo e porta frutto, e che Dio dà agli «Abramo e Sara» di ieri, di oggi e di sempre il figlio atteso anche se ormai vecchi, sterili e anche increduli.

Per noi missionari italiani – mi permetto di generalizzare perché la realtà dell’invecchiamento e della mancanza di giovani italiani tra i nostri ranghi è un fatto che riguarda un po’ tutti gli istituti maschili e femminili – vivere questo tipo di «pazienza che è speranza» è l’ultima frontiera della missione. È un dovere di fedeltà e riconoscenza verso Colui che ci ha mandato e verso tutte le persone che abbiamo amato e continuiamo ad amare anche «ai confini» della terra. È un atto di amore e fedeltà nei confronti di tutti quelli che hanno dato e danno la loro vita per un mondo più giusto e più bello come monsignor Oscar Romero, suor Leonella Sgorbati, abbé Albert Tongiumale-Baba in Centrafrica, don Juan Miguel Contreras Garcia in Messico, don Mark Ventura nelle Filippine, Asia Bibi prigioniera in Pakistan, i migranti affogati nel Mediterrano.

La pazienza, poi, è un modo di essere di cui siamo debitori soprattutto a chi ha perso la speranza, ingannato dalle false promesse di un mondo edonista e materialista che copre i suoi fallimenti con fake dreams e fake news. E agli anziani abbandonati alla solitudine, ai giovani senza lavoro, ai nuovi poveri, alle famiglie disgregate, a chi è abortito. Vivere con pazienza, in forza della debolezza, fragilità e povertà vissute sulla propria pelle, diventa davvero un proclamare la «buona notizia» che la Vita è più forte della morte, l’Amore vince tutto e la Bellezza non tramonta mai. È continuare a essere testimoni della Pasqua del Signore, oggi.

Gigi Anataloni

 




Fake news, internet, comunicazione … Usiamo la testa

Editoriale su Internet e fake news di Gigi Anataloni, direttore MC |


«La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace». Questo è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra il 13 maggio. È un messaggio di estrema attualità, da leggere con intelligenza e cuore. Nessun frequentatore dell’Internet dovrebbe ignorarlo.

Come direttore di una rivista missionaria, sarei tentato di dire «sono già a posto», quel messaggio «non mi riguarda», perché noi non cavalchiamo «fake news» e «già facciamo un giornalismo di pace» e cerchiamo di pubblicare notizie verificate senza scopi occulti o bramosia di guadagno, senza bombardare i nostri lettori, anzi, chiedendo loro di leggere tutto con la calma necessaria per digerire e controllare quello che scriviamo. Però le parole di Francesco sono un richiamo positivo anche per noi, perché – in verità – non siamo del tutto gratuiti, ma «esigiamo» molto dai nostri lettori: il loro tempo perché ci leggano senza fretta (slow news!), la loro intelligenza perché condividano con noi idee e valori, il loro cuore perché amino, gioiscano o piangano con noi, e la loro azione perché esprimano con i fatti solidarietà e sostegno al nostro servizio ai poveri, ai lontani, al Vangelo. Tutto questo non è poco. Non vi ringrazieremo mai abbastanza per la vostra vicinanza.

Certo è che stiamo vivendo un tempo molto bello per la comunicazione, la quale, grazie alla rete, gode oggi di opportunità, possibilità e servizi positivi e partecipativi, inimmaginabili solo qualche anno fa. È però anche un tempo di grande crisi, non solo quella cronica della carta stampata – libri e giornali -, ma anche dei social – Facebook, in primis – che sembrano aver tradito tutte le aspettattive vendendosi per profitto alla politica e ai gruppi di potere, senza alcuna considerazione per i propri utenti, se non quella del puro sfruttamento commerciale. Così, di colpo, cadono i miti, il re è nudo. Il «popolo della rete» si sente gabbato: siamo traditi, imbrogliati, usati, etichettati, classificati, analizzati, derubati della privacy, considerati come numeri, buoni solo per essere manipolati, sfruttati e rapinati dei soldi, del tempo, della buona fede.

Una visione troppo pessimista della situazione? Forse. Però bazzico nel mondo dell’Internet da troppo tempo per credere alle utopie della democrazia digitale, del tutto gratis, della privacy a tutti i costi, del puro idealismo che ci sarebbe in rete. Utopie che sono state smontate dal realismo dei costi di un sistema sempre più sofisticato e allo stesso tempo sempre più fragile, e dalla comprensione della sua potenzialità manipolativa ed economica. Non per niente alcune delle persone più ricche del mondo – certamente troppo ricche per i miei gusti – hanno a che fare con Internet e le cosiddette nuove tecnologie.

Non sono pessimista e non penso serva demonizzare o boicottare i social (o «quel» social in particolare). Credo invece sia più importante ricordarsi che ogni mezzo è solo un mezzo e come tale va usato, senza farne un idolo da adorare e servire o un mostro da temere. Quand’ero piccolo e mio nonno era l’unico e leggere il giornale nella nostra frazione, se lui diceva «l’ha detto il giornale», questo tagliava la testa al toro. Poi si è passati a «l’ho sentito alla radio», «l’ho visto in tv», fino all’idolatria o al terrore dei «like» dei nostri giorni. No, Internet e social «non tagliano la testa al toro», non ci esimono dal pensare con la nostra testa, dal verificare e dall’usarli responsabilmente.

La tentazione indotta dagli strumenti digitali è quella di farci «agire prima di pensare»: clicca, like, inoltra, condividi e così via. Ci vorrebbe calma, invece. Pensare prima di agire. Fare silenzio, ascoltare e ascoltarsi, verificare. Domandarsi «cui prodest?», chi ci guadagna? E poi chiedesi il perché aderisco a certe idee, diffondo notizie, immagini e filmati: lo faccio solo per puro divertimento personale o per creare e condividere felicità? Ho a cuore gli altri, l’ambiente, il mondo o penso solo a me stesso? Sono prudente o superficiale? Costruisco relazioni, comunione, armonia, gioia e pace o divido, istigo, provoco, alimento l’odio, diffondo paura e diffidenza, creo confusione? È importante mantenere il controllo del tempo, di cui i social vogliono l’esclusiva. Salvare tempo per se stessi, per gli altri e (perché no?) per Dio. A volte sarebbe anche meglio pregarci su prima di agire. No, non semplicemente dire una preghiera, ma pregare, cioè fermarsi nel silenzio, per confrontarsi con la Parola e con i valori, il modo di essere, di pensare e di agire di Gesù. Quel suo «ma io vi dico» (tipico in Mt 5) dovrebbe risuonare in noi, sempre. È l’invito a mettere al centro della nostra vita l’unica cosa che veramente costruisce umanità: l’amore. E l’amore si coniuga con la verità e solo la verità ci rende liberi. Liberi e fratelli. Senza le paure che ci fanno costruire muri, ci imprigionano nella menzogna e ci rendono schiavi di chi non ci considera persone ma numeri, consumatori, elementi di un algoritmo. Da che mondo è mondo con lo stesso strumento si può costruire o distruggere, dipende solo da chi lo usa. Solo la «verità nell’amore» ci rende liberi e liberatori.

Gigi Anataloni




Irriducibili sognatori

Editoriale. | Di Gigi Anataloni |


Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.

Gigi Anataloni

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P.S. MC non ha cambiato titolo. Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.




Uomo, donna e robot

di Gigi Anataloni |


Siamo alla fine degli anni Sessanta a Tuuru, sulle colline vulcaniche che dal Monte Kenya scendono verso l’Oceano Indiano. Si sta costruendo un acquedotto per un centro di bambini poliomielitici. L’acqua è a 25 km di distanza, nella foresta dello Njambene. Arrivano fondi da donatori. Il progetto prevede l’acquisto di un grosso scavatore per accelerare i tempi. Ma l’uomo che è la mente e il cuore del progetto non è convinto. Si siede e fa due conti. Uno scavatore, una decina di operai, tre mesi di lavoro da una parte. Zappe e carriole, cento operai, tre anni di
lavoro dall’altra. Costo: invariato. Sceglie le zappe. Cento operai sono cento famiglie. E poi lo scavo fatto da un uomo con la zappa attraverso un campicello di mais è certo meno distruttivo di quello fatto con uno scavatore. Risultato? Dopo quasi cinquant’anni quell’acquedotto è ancora là e disseta quasi mezzo milione di persone e animali. Altri progetti coevi, fatti con «lo scavatore»,
sono da tempo spariti nel nulla, ingoiati dalla foresta.

La storia che vi ho raccontato non è nuova. Tante volte su questa rivista vi abbiamo parlato dell’acquedotto di Mukululu e di fratel Mukiri, Giuseppe Argese, il silenzioso.

Ho pensato a lui leggendo i numerosi articoli di giornali e riviste che di questi tempi informano entusiasti o, al contrario, suscitano paure a proposito dei robot e dell’intelligenza artificiale destinati a soppiantare il lavoro degli uomini. Come se a «rubarci il lavoro» non bastassero i «disperati» che provengono «da zone in cui il valore della vita umana è pressoché uguale a nulla» (come ha scritto un esimio professore). Ci si mettono pure i robot.

Davvero i robot? Non sono certo loro che decidono dove e come lavorare, in quali fabbriche, in quali settori, in quali aree. Il robot che gestisce in automatico gli acquisti e le vendite di azioni in borsa, non si attiva da solo, ma qualcuno ha scelto di usarlo così per guadagno, anche se rovina tantissimi altri. Il drone che sgancia la bomba su una festa di nozze in Afghanistan, è programmato e mandato da un uomo, non agisce autonomamente. Anche il fantastico robot che esegue operazioni chirurgiche di alta precisione, non agisce di sua iniziativa. L’algoritmo (oggi con «l’algoritmo» si spiega tutto!) che nei social controlla tutto e tutti alla faccia della privacy non si è creato da solo, ma è perfezionato da uomini controllati da altri uomini che in testa non hanno certo il bene-essere dell’umanità ma il denaro. È un caso che un gruppo ridottissimo di individui diventi sempre più ricco proprio mentre la maggioranza impoverisce? E non solo impoverisce, ma diventa sempre più litigiosa e spende sempre di più in muri e barriere e armamenti (che non portano maggiore pace e sicurezza, ma certo arricchiscono chi li produce e vende).

Non sono contro i robot e il progresso. Tutt’altro. Ma mi preoccupa l’erosione della libertà e il sempre maggior controllo che dobbiamo subire attraverso robot e programmi usati per condizionare la nostra vita. Vorrei poter usare la tecnologia, non essere usato attraverso di essa.

Come qualcuno ben più importante di me insegna, se al centro delle nostre scelte politiche, economiche e sociali non c’è l’uomo, la sua dignità e il suo bene-essere, rischiamo davvero di costruirci un mondo invivibile, sempre più diviso, ingiusto e meno umano.

Uomo al centro, come «adam», uomo e donna uniti.
In occasione dell’8 marzo si scrive e parla molto di «donna». Ed è bello e giusto che lo si faccia. Mi piacerebbe però che non si parlasse solo di quelle donne che hanno il coraggio del «Metoo!». Oltre alle tante, troppe vittime della violenza di chi dice di amarle, non dimentichiamo le donne Rohingya, le Yazide, le madri siriane, le donne sudanesi, somale, nigeriane, congolesi, centrafricane e di tanti altri paesi. Non si chiudano gli occhi sulle donne, sempre più giovani, costrette a contendersi i nostri marciapiedi, a esibirsi sulle nostre spiagge, a illuminare le nostre strade; donne trafficate, vendute, sfruttate da mafie nostrane e internazionali. Donne oggetto, usate da gente perbene, da italianissimi padri di famiglia, lavoratori, impiegati e professionisti. Gli stessi italianissimi che con la bandiera tricolore sulle spalle sparano (o applaudono a chi spara) su presunti pushers e magnaccia di colore, i quali, quelli che lo sono davvero, esistono e prosperano perché italianissimi giovani e meno giovani cercano e consumano quanto essi vendono sfacciatamente.

Nel mondo si è fatto e si fa tanto per difendere, aiutare e promuovere le donne. Tanto rimane ancora da fare. Ma non basta pensare solo a loro. Gli uomini, i maschi intendo, che spesso sono la causa prima di violenze e abusi, hanno anche loro bisogno d’aiuto per ritrovare se stessi, la propria dignità, il proprio ruolo nella società, non separati o sopra le donne, ma insieme, come ci ha sognati il nostro Creatore che ha fatto dei due, insieme e inseparabili, la sua immagine.

Gigi Anataloni




Scuse e perdono


Testo di Gigi Anataloni |


«Care Divany e Madina, scusateci».

Leggi tutta la rivista di Gennaio-Febbraio 2018 nello sfogliabile. La puoi anche scaricare tutta o solo le pagine che interessano.

Così cominciava su Vita.it del 12 dicembre scorso l’articolo che Daniele Biella – autore del dossier di questo mese – ha dedicato a Divany e Madina. «Divany, originaria del Camerun, è morta annegata a tre anni nelle acque a 30 miglia dalla Libia nel naufragio del 6 novembre 2017». Il suo corpo non è mai stato ritrovato. «Medina Husein, afgana di sei anni, è stata investita da un treno merci alla frontiera tra Croazia e Serbia lo scorso 21 novembre 2017». Il corpo è stato restituito ai suoi genitori solo dopo diversi giorni. «Nessun pietismo, ma un atto di estrema denuncia sì. Le due piccole hanno trovato la morte alle frontiere europee, che siano di terra o mare: frontiere che chi cerca rifugio da guerre o violenze non può attraversare oggi in modo legale e che quindi mettono a rischio la vita di tutti, bambini e adulti. Con i trafficanti a guadagnarci cifre stellari e con intere famiglie con più nulla da perdere che provano a passare confini in ogni condizione, venendo poi respinti dalle autorità (come accaduto alla famiglia di Madina qualche minuto prima della tragedia)». In copertina abbiamo messo la foto di Madina scattata da Silvia Maraone (dell’Ong Ipsia delle Acli) il 12 luglio scorso nel campo profughi di Bogovadja in Serbia. La storia di Divany, invece, è parte di quanto ci racconta Gennaro Giudetti alle pagine 43 e 44 del dossier. Leggere quelle storie fa venire i brividi. Mentre causano tristezza e sdegno certi commenti che purtroppo spopolano sui social a proposito dei migranti.
La vicenda di Divany e Madina ci obbliga a riflettere, perché è emblematica di un dramma che sta attraversando questi primi decenni di un secolo pieno di promesse ma anche di grandi paure. La morte delle due bambine non è un caso isolato, un’eccezione imbarbarita. I minori sono tra le prime vittime di un esodo che riguarda milioni di persone e di cui noi, in Europa, conosciamo solo le frange marginali e forse addirittura più qualificate. Fossero anche in 200mila quelli che sono arrivati in l’Italia nel 2017 per poi disperdersi in Europa, non sono che briciole di fronte agli oltre 500mila (Rohingya) in Bangladesh, ai 600mila (siriani) in Giordania, ai 700mila in Etiopia, quasi un milione in Iran, oltre un milione in Libano, un milione e mezzo in Pakistan, più di due milioni in Turchia, senza contare le masse di rifugiati interni ed esterni del Sud Sudan (800mila), della Somalia (800mila fuori, 1,5 milioni dentro), e di Eritrea, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e paesi del Sahel, Colombia e Venezuela. E l’elenco è incompleto.
«Oggi stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65,6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Di queste, circa 22,5 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni». Questo scrive l’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unchr) sul suo sito. Sono cifre da spavento (i dati forniti dall’Oim, Organizzazione internazionale per i Migranti, sono anche più elevati), mentre prosperano gli affari dei mercanti di armi, dei trafficanti di uomini, dei ladri di risorse naturali e di minerali strategici. E invece di una risposta internazionale coordinata ed efficace che affronti i problemi alle radici e metta l’economia e la finanza sotto il controllo della politica, vediamo i paesi ricchi costruire nuovi muri, aumentare i controlli e fomentare nuove guerre e tensioni in punti nevralgici del mondo.
Per questo è urgente avere il coraggio di dire a tutte le Madina e Divany del mondo non solo «scusateci», ma soprattutto «perdonateci». Perché le scuse rischiano di lasciare le cose così come stanno, senza sentire il bisogno di cambiare. Chiedere scusa è già un bel passo perché è riconoscere di aver sbagliato. Il chiedere perdono però è molto di più: è riconoscere lo sbaglio e assumerne la responsabilità per un impegno a cambiare mentalità e modo di agire. È anche mettere nelle mani dell’altro la propria persona. È stabilire relazioni profonde. Il dramma mondiale dei rifugiati e migranti richiede una rivoluzione nel pensiero e nel modo di agire.
«Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata della pace. Quattro azioni coordinate di cui la prima, accogliere, è la fondamentale. Accogliere non è solo un fatto logistico. Ricevere i migranti e chiuderli dentro a «simil campi di internamento», non è accoglienza. Accogliere è conoscere e farsi carico della persona del rifugiato, del suo dramma, dei suoi sogni. Accogliere è vedere la persona per quello che è, essere umano come me con un nome e una storia, e non uno stereotipo, un pericolo, una minaccia. Accogliere è creare relazioni nuove, costruire un futuro per tutti insieme, senza isolarsi nella difesa dei propri privilegi o identità. Accogliere è amare. Per questo a Divany e a Madina non basta chiedere «scusa», ma bisogna dire «perdonateci».

Gigi Anataloni

 

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