Con gli occhi di Luz

Luz ci guarda dritto negli occhi. Lo sguardo della piccola messicana in copertina, che mi piace chiamare «Luz» (luce), va dritto al cuore. Il suo sorriso, pulito e pieno di speranza, è un canto alla vita, un inno alla gioia. Questo sguardo bello e fiducioso mi rapisce e mi sento guardato dentro. Non sono più solo gli occhi di Luz che mi fissano. Forse è la suggestione del Natale che ormai si avvicina, ma sento come fosse lo sguardo dello stesso Bambino Gesù che mi cerca. Quello sguardo che certamente ha rubato il cuore dei pastori, dei Magi e di quanti sono andati a visitarlo nella stalla di Betlemme. Occhi che hanno visto dentro ciascuno di loro, li hanno conosciuti e amati e hanno parlato loro, mettendoli di fronte alla verità di se stessi. Guardati da quel bambino, ognuno ha capito che non era arrivato lì per caso, ma che Lui li attendeva da sempre.

Gli occhi di Luz sono gli occhi di milioni di altri bambini nel mondo. Non tutti sono felici: troppe volte sono occhi terrorizzati dalla violenza della guerra, annebbiati dalla fame, spenti dalla malattia, tristi per l’assenza d’amore, pieni di paura per gli abusi, angosciati per lo sfruttamento. Sempre però sono occhi che interpellano la tua umanità. Occhi che, con semplicità e candore, credono ancora che ogni persona sia capace di amare.

Un desiderio, un grido e una speranza che, oggi più che mai, sono delusi da troppi adulti. E non solo in Afghanistan e Yemen, Siria e Haiti, Nigeria e Venezuela, tanto per ricordare alcuni dei punti più caldi del dolore dell’umanità. L’elenco delle situazioni di morte potrebbe riempire pagine, una lista senza fine nella quale comparirebbe anche la nostra bella Italia, diventata un paese dove non è più appetibile nascere, e dove si nasce sempre meno.

Dedicata a Madina

Per questo Natale, auguro a tutti noi di lasciarci guardare dagli occhi di tutti e tutte le «Luz» del mondo. Che i nostri occhi non si lascino riempire e incantare dalle luci abbaglianti di strade e centri commerciali, luci che del vero Natale non hanno più niente, segno come sono di un invito al consumismo più sconsiderato che porta spreco, inquinamento e sfruttamento. Che non siano ammaliati dalle forme, colori e immagini accattivanti della moda, del nuovissimo gadget tecnologico, del modello di macchina ultimo grido. Che non siano accecati dagli ammiccamenti dei cartelloni pubblicitari o degli schermi che titillano la nostra vanità, incoraggiano e giustificano il nostro egoismo, gratificano le nostre pigrizie.

Auguro invece che i nostri occhi si lascino interrogare mettendo in questione il nostro stile di vita, le nostre abitudini, i pregiudizi che ci rendono così sicuri. Che ci lasciamo guardare dentro per imparare a vedere noi stessi e il mondo attorno a noi in modo nuovo, per scoprire che possiamo essere soggetti di speranza e cambiamento e non semplicemente ripetitori e continuatori di uno stile di vita senza amore e senza futuro.

In questo tempo di Natale mettiamo pure con amore la statuina di Gesù Bambino nel nostro presepio, ma non accontentiamoci di quella. Cerchiamo invece gli occhi veri del Bambinello in quelli delle persone che incontriamo, a cominciare dal nostro vicino di casa che spesso neppure conosciamo; dalle persone che partecipano con noi alla messa, con le quali magari non condividiamo neppure un «ciao»; da quelle persone che incrociamo ogni giorno.

Lasciamoci disturbare dagli occhi della piccola Madina Hussein, travolta da un treno in Serbia (copertina di MC 1-2/2018), da quelli radiosi della bimba di cui non conosciamo il nome che esce dalla tenda a Lesbo (MC 3/2021) o da quelli tristi del bimbo lavoratore del Myamnar (Mc 08-9/2021).

Non occorre andare indietro nel tempo per cercare gli occhi di Gesù, non è neppure necessario andare lontano. Basta farsi prossimo.

Guardare e lasciarsi guardare con gli occhi di Gesù Bambino. Scopriremo di essere «fratelli, sorelle, padri e madri, figli e figlie» in una grande famiglia, dove ami e sei amato, dove piangi con chi piange affinché il pianto si tramuti in danza alla musica dell’amore.




Compassione

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


È il 4 ottobre, il giorno di san Francesco. Un messaggio su whatsapp mi allerta che ci sono state delle uccisioni a Suguta Marmar e a Porro, due località del Kenya che forse a voi non dicono niente, ma che a me fanno sobbalzare il cuore. Suguta Marmar è stata la «mia» prima missione nel 1989, appena arrivato. Porro (pronunciato Porò) è villaggio samburu a due passi da un punto panoramico che offre una visione di sogno della Rift Valley. Il crinale dell’altopiano di Porro segna la linea di separazione tra due tribù di pastori, i Pokot (nella valle) e i Samburu (sulla montagna). In tempi di siccità, però, non c’è confine che tenga. In più, soprattutto in tempo di elezioni, quando politicanti senza scrupoli distribuiscono armi e munizioni ai giovani guerrieri, scoppiano scontri cruenti. Chi ci rimette di più di solito sono donne, vecchi e bambini.

Il messaggio ricevuto oggi mi richiama alla mente un episodio del 2006 (ma avrebbe potuto essere uno qualsiasi degli altri anni). Al mercato di Porro scoppia un diverbio tra pastori samburu e pokot. Si viene alle armi. Dei giovani pastori pokot sono uccisi, uno è ferito grave. È presente un mio ex chierichetto, attivista di pace e riconciliazione per conto della diocesi di Maralal. Incurante dell’ostilità dei presenti, raccoglie il ferito, se lo lega sulle spalle e, in moto, su strada sterrata, lo porta all’ospedale distante 25 km. Lì, nella capitale dei Samburu, a chi gli domanda perché abbia portato «quell’animale», risponde che lui ha visto «solo un uomo». Il ragazzo si salva.

Anche nel messaggio del 4 ottobre, si racconta di un fatto molto simile. Allo stesso mercato di Porro c’è stato un attacco di Pokot. John, il giovane parroco – anche lui un tempo mio chierichetto -, è corso. Due samburu, padre e figlio, sono a terra senza vita, accanto la figlia più piccola dell’uomo con il polpaccio trapassato da una pallottola. Ha preso la bimba tra le braccia e, camminando sulla «Via della Pace», la strada costruita anni fa da padre Aldo Vettori (+2008) per promuovere la pace tra le comunità, è arrivato alla missione. Saltato in macchina l’ha portata allo stesso ospedale, dove è stata curata. Chiedo al vescovo di Maralal, monsignor Virgilio Pante, come giudica la situazione. La risposta è laconica: «Troppi fucili». Il che, conoscendolo, esprime in estrema sintesi la tristezza per una realtà che non migliora nonostante gli anni di grandissimo impegno a promuovere il disarmo, il dialogo, la pace e la riconciliazione tra i vari gruppi etnici della regione. C’è sempre qualcuno che specula sulla pelle dei poveri, specialmente in tempo di elezioni (e non solo in Kenya), e porta più consensi fornire armi (o fake news d’odio) che costruire giustizia, creare lavoro e assicurare cibo, medicine ed educazione di qualità.

Commento questi due episodi, piccoli e periferici in confronto a tanti altri che accadono nel mondo, citando papa Francesco che il 7 ottobre, in occasione dell’incontro di preghiera per la pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, ha detto: «Con parole chiare incoraggiamo a questo: a deporre le armi, a ridurre le spese militari per provvedere ai bisogni umanitari, a convertire gli strumenti di morte in strumenti di vita. Non siano parole vuote, ma richieste insistenti che eleviamo per il bene dei nostri fratelli, contro la guerra e la morte, in nome di Colui che è pace e vita. Meno armi e più cibo, meno ipocrisia e più trasparenza, più vaccini distribuiti equamente e meno fucili venduti sprovvedutamente. I tempi ci chiedono di farci voce di tanti credenti, persone semplici, disarmate, stanche della violenza, perché chi detiene responsabilità per il bene comune si impegni non solo a condannare guerre e terrorismo, ma a creare le condizioni perché essi non divampino».

E ha invitato a vincere l’indifferenza e l’assuefazione «alla violenza e alla guerra, al fratello che uccide il fratello quasi fosse un gioco guardato a distanza, indifferenti e convinti che mai ci toccherà. […] Ma con la vita dei popoli e dei bambini non si può giocare. Non si può restare indifferenti. Occorre, al contrario, entrare in empatia e riconoscere la comune umanità a cui apparteniamo, con le sue fatiche, le sue lotte e le sue fragilità. […] Oggi, nella società globalizzata che spettacolarizza il dolore ma non lo compatisce, abbiamo bisogno di “costruire compassione”. Di sentire l’altro, di fare proprie le sue sofferenze, di riconoscerne il volto. Questo è il vero coraggio, il coraggio della compassione, che fa andare oltre il quieto vivere, oltre il non mi riguarda e il non mi appartiene».

Lasciarci prendere dalla compassione, allora, diventa davvero una rivoluzione nella nostra vita, perché ci fa vedere gli altri con il cuore, e ci fa sentire e agire come parte della grande famiglia umana.

Gigi Anataloni


Disegno makua dedicato alla beata Irene Stefani, Nyathaa, madre compassionevole, la cui festa ricorrre il31 ottobre

Disegno Makua Sirima a matita dedicato alla Beata Irene, di Afonso Murupala
Sr Irene catechista evangelizzatrice.
L’artista concentra la sua composizione su un piede, è un piede sinistro che nella lingua macua sirima é il piede femminile, materno, è il piede divino, namulico. In questo contesto totalmente matriarcale della biosofia e teologia macua sirima, l’artista orchestra gli eventi di Nipepe con Sr Irene Matriarca di Nipepe: è sempre lei
– la grande antenata guidata dallo Spirito Santo,
– ispirata da Dio Luna solidale con le stelle (antenati)
– interviene salvando, curando, obbligando le armi della guerra a tacere.
La composizione ha però altre significative novità. La pianta del piede femminile è circondata da un rosario (l’arma e vessillo che Sr Irene mai abbandonava nel suo andare missionario), la cui croce coincide significativamente con la croce della chiesa di Nipepe.
Si tratta di un piede femminile materno di una missionaria evangelizzatrice e catechista,
– un piede che va, annuncia e porta altri piedi a Gesù
– raffigurato dalla elegante gazzella (agnello di Dio nel NT).
– I piedi dell’evangelizzatore devono portare altri piedi a Gesù, inserirli nel ventre del serpente boa,
– così tutto diventa Gesù e allo stesso tempo Gesù diventa tutto (camaleonte),
– assumendo tutti i colori, le culture, i cammini previ che Dio storico salvifico ha tracciato nella storia del mutthu (cfr. Col 3,11) .
I tre animali possono essere assunti come archetipi cristologici, ma anche come metafore di una metodologia missionaria che declina e coniuga fluidamente la dinamica della interculturalità e interreligiosità, la continuità con la discontinuità e alterità. (padre Frizzi Giuseppe)




Come un seme

Scrivo alla vigilia del mio cinquantesimo di vita missionaria. Un’occasione per chiedere perdono, ringraziare e pregare. Chiedere perdono per affidare il passato e le mie fragilità alla misericordia di Dio, ringraziare per le persone incontrate e amate in questi anni e per il tempo presente che è ogni giorno un dono inedito, pregare per guardare avanti e continuare il cammino fidandomi di Gesù e della Consolata.
Cinquant’anni fa, John Lennon cantava la sua Imagine, eravamo nel pieno del post Concilio, il ‘68 pulsava ancora nei cuori, e i missionari della Consolata vivevano una vivace e coraggiosa stagione di evangelizzazione. In Roraima (Brasile), dopo l’uccisione di padre Giovanni Calleri nel novembre ‘68, nasceva la missione del Catrimani riempiendo i sogni dei giovani come me. In Mozambico era il momento della guerra di indipendenza e i nostri confratelli pagavano la loro vicinanza alla gente con espulsioni, sequestri e anche uccisioni (come quella di padre Guerino Prandelli nel 1972). Indimenticabile l’appassionata testimonianza di padre Celio Regoli, appena espulso da quel paese perché critico verso i colonialisti. Nel 1971 l’Istituto tornava in Etiopia, il primo amore, trent’anni dopo che i suoi missionari erano stati imprigionati e cacciati dagli inglesi. Cominciava anche la nuova avventura missionaria in Venezuela e in Sudafrica, mentre padre Noè Cereda apriva le porte dello Zaire (oggi Rd Congo), uscito da poco da una terribile guerra.
La missione faceva davvero sognare. In quel contesto, con una quindicina di compagni, il 12 settembre, dicemmo il nostro sì al «prima santi, poi missionari» dell’Allamano. Avevamo negli occhi e nel cuore le montagne e i deserti del Marsabit, le immense foreste dei Pigmei dell’Ituri in Zaire, le distese con i grandi fiumi del Caquetà in Colombia, gli Yanomami di Roraima, senza dimenticare gli altri paesi dove l’Istituto era presente dai primi anni del Novecento.
Cinquant’anni dopo, viene da domandarsi se sia il caso di celebrare questo giubileo, e non solo perché con il Covid-19 è più difficile trovarsi insieme a far festa. Da una parte, in questi anni, abbiamo assistito alla miracolosa esplosione di vitalità delle Chiese di quello che un tempo si chiamava «Terzo mondo», non più «La terza chiesa alle porte» (come scriveva Walbert Bühlmann nel 1975), ma parte viva e vitale della Chiesa universale, con un papa argentino e vescovi e cardinali nativi di ogni angolo del mondo. Dall’altra, l’Europa, che un tempo si vantava delle sue origini cristiane, sta diventando sempre più scristianizzata e fiera delle sue nuove «idolatrie»: benessere, progresso, individualismo, successo e popolarità, nazionalismi… ben difesi da sempre nuovi muri. Le chiese sono vuote o in vendita, i conventi e le case religiose chiudono una dopo l’altra, i seminari sono semideserti, giovani preti e religiosi e suore dal Sud del mondo riempiono a stento i vuoti. Mentre i vecchi credenti vanno in cielo, i loro figli e nipoti sono convinti che si può vivere benissimo anche senza Dio. Viene da domandarsi: quale futuro ci sarà per un’Europa sempre più vecchia, inquinata e chiusa in se stessa?
Scrivo questo perché pentito di essere missionario? Per niente. E credo di poterlo dire con tutti i miei confratelli. Abbiamo sicuramente fatto errori nella nostra fragilità, ma l’amore che abbiamo condiviso non è stato buttato al vento. La missione ci ha coinvolto in una splendida avventura. Nella ricerca continua di Colui per il quale abbiamo giocato la vita, abbiamo incontrato persone, non numeri. E queste persone ci hanno aiutato ad amarLo ancora di più, a scoprirlo presente là dove meno ce l’aspettavamo. Ci hanno fatto capire che non sono le costruzioni che contano, neanche le più belle chiese, ma tutti quei piccoli gesti che portano gioia, pace, riconciliazione, rispetto, tenerezza, che rompono la solitudine, fanno cantare il cuore, ridonano voglia di vivere e sperare, e costruiscono famiglia e comunità. Chi è amato è capace di sperare contro ogni speranza, anche in tempi di Covid e talebani.
In questi giorni provati dalla pandemia, i piccoli gesti d’amore di tante persone si stanno rivelando più tenaci e capaci di visione della tracotanza dei super ricchi, della violenza dei mafiosi, delle promesse dei politici e del fondamentalismo dei fanatici. Sono la garanzia che il piccolo «seme di senape» continua a crescere e ci mostrerà sorprese. A noi sta di continuare ad accogliere la sfida della missione, che percorre vie sempre nuove e chiama a «prendere il largo», attraversando il mare infido della crisi, fidandoci di Lui.

Gigi Anataloni




L’uomo al centro

«Naufragio nel Mediterraneo, minori annegati», «Spari sui migranti», «La strage», «Migranti, 139 morti», «Corpi di bimbi sulla spiaggia», titoli come questi sono di casa sui nostri quotidiani o alla Tv. Sono titoli rivelatori di una sofferenza infinita nel mondo, di abusi e sfruttamento, di lacrime e sangue. Sono titoli che non ci toccano più, perché ormai ci siamo abituati alla sofferenza dei poveri, alla loro morte.

«Dobbiamo scrollarci di dosso l’indifferenza e l’abitudine alle cose, anche l’abitudine alla morte.

Abituarsi alla morte è la cosa più terribile. La gente sta morendo, e sono migliaia e migliaia di persone che muoiono e a noi non interessa. Sono altri, sono diversi, non sono dei nostri. Questa è nostra colpa e responsabilità. […] Ma noi aspettiamo il prossimo naufragio e poi sappiamo che ce ne sarà un altro. Questo è terribile, perché […] nessuno più se ne sente responsabile. Fa paura. Stiamo diventando gente senza cuore. Non riusciamo più a commuoverci. Io sono amareggiato e preoccupato, perché è come se la società di oggi dovesse per forza dividersi in due: i buoni e ricchi (da una parte) e i poveri [e i] cattivi (dall’altra). Ma una società come questa, quale futuro avrà?».

Queste sono parole del cardinal Francesco Montenegro, già arcivescovo di Agrigento dal 2008 fino all’inizio del 2021, in un’intervista con il direttore della rivista Nigrizia, Filippo Ivardi, in occasione della Giornata internazionale del mar Mediterraneo, l’8 luglio scorso.

Il cardinale offre poi una provocazione a noi cristiani: «Qui entra in ballo anche la Chiesa. Purtroppo c’è una Chiesa che tace, una Chiesa che sembra non abbia niente da dire, rassegnata. Ma la rassegnazione non è una virtù del Vangelo. Quando uno si rassegna, ammazza il Vangelo, perché il Vangelo parla di speranza, parla di Pasqua, e una Chiesa che non desidera la Pasqua per gli altri è una Chiesa che non sta più vivendo la sua fedeltà. Allora assistere a queste scene di morte, adattarsi a queste situazioni, è aver perso umanità».

Poi una provocazione forte. «È più facile mettersi davanti all’Eucarestia, che non parla, non si muove, dove soltanto io posso dire e divento protagonista dell’incontro, e il Signore è costretto a tacere e ad ascoltarmi. È più difficile mettersi dinanzi all’altro sacramento. Perché il Signore ha scelto questi [due] sacramenti per rappresentarlo: l’Eucarestia e i poveri». Così, però, il Vangelo perde il suo senso e diventa un libro di racconti, una storia da insegnare. Ma il Vangelo non è soltanto qualcosa che si insegna, «perché il Vangelo è l’incontro con Qualcuno. E questo qualcuno purtroppo è inquietante, perché ha scelto delle strade che a noi non piacciono. Lui ce l’ha detto, chi lo vuol seguire deve prendere la sua croce, deve essere pronto a seguire una strada diversa. E il povero è la strada diversa che ci propone». E non basta dare l’elemosina che ci permette di sentirci buoni, perché «il povero è colui che ci giudica. Domani, alla porta del paradiso troveremo i poveri, quelli che cercavano il pane, l’acqua, il vestito, e saranno loro a decidere quale sarà la nostra sorte futura». Sarebbe importante, allora, annunciare forte questo messaggio, invece spesso lo sussurriamo soltanto. Il Signore ci ha detto che dovremmo salire sui tetti a gridare, ma noi preferiamo le nostre nenie nel chiuso delle nostre case e chiese. Invece lui ci ha detto che preferisce l’odore di uomo che quello dell’incenso.

Conclude con una costatazione amara il cardinale: al centro della nostra società «non c’è l’uomo, ma il denaro». Per questo «noi ricchi abbiamo bisogno dei poveri, perché senza di loro non potremmo stare in piedi. Allora inventiamo la povertà, anche se poi la nascondiamo».

Così, la lista dei titoli si allunga: «Licenziati in 422 con una email», «Congo RD, bambini schiavi del coltan», «Capo Delgado, 600mila in fuga nella lotta per il controllo delle risorse», «Amazzonia in fiamme», «Invasione di garimpeiros nelle terre indigene», «Caporalato e sfruttamento», «Aumento dei prezzi di beni di prima necessità», «Ilva e inquinamento», «Meno manutenzione, più profitti», «Eswatini in fiamme», «Eswatini, arresti, morti, incendi e violenze». Chissa se riusciamo a farci toccare da qualcuno di essi («Eswatini? mai sentito nominare!»), specialmente in questi tempi di Covid-19 ed emergenza climatica che hanno visto l’aumento esponenziale della povertà e l’arricchimento scandaloso di pochi. Chissà se i cosiddetti potenti della terra (e i dittatori palesi e mascherati in aumento) hanno ancora orecchie per sentire e cuore per cambiare.
È urgente tornare a mettere l’uomo al centro. Tutto l’uomo, ogni uomo, il più povero per primo.




Coraggio e missione


All’inizio di giugno, i Missionari della Consolata in Europa (Italia, Polonia, Portogallo e Spagna), 230 in tutto (al 25 marzo 2021), si sono «radunati» online per riflettere insieme su cosa vuol dire essere missionari, oggi, in questo continente. I fattori in gioco non sono incoraggianti. Tra quelli interni al nostro Istituto ci sono l’invecchiamento dei missionari, l’assenza di nuove vocazioni europee, le strutture pesanti. Tra quelli presenti nella società europea ci sono la scristianizzazione e le conseguenze, ancora imprevedibili, della pandemia che hanno messo sottosopra un modo di vivere e chiedono nuove risposte dall’evangelizzazione.

Di fronte a tutto questo, ci si poteva aspettare un’assemblea scoraggiata e rassegnata. Invece il realismo degli interventi era carico di speranza, ottimismo e coraggio. Un bell’esercizio di fede, sostenuto dal motto del beato Allamano: «Coraggio, e avanti in Domino (nel Signore)!».

Condivido qui solo poche frasi rivelatrici dello spirito di questi giorni.

Padre Stefano Camerlengo, superiore generale, sì è domandato insieme a noi: «Che cosa facciamo ora? Che cosa siamo diventati? Che cosa resterà di tutto questo? [La pandemia] è solo una dolorosa – per molti, drammatica – interruzione, per ricominciare appena possibile da dove eravamo rimasti? Oppure avremo il coraggio di iniziare un percorso diverso? […] A quali condizioni sarà possibile fare cose nuove per davvero? Come sarà il nostro Istituto domani, fra qualche anno? Come continuerà la sua missione? Quale sarà il volto della missione futura?

Sono domande importanti, fondamentali, che richiedono tanta interiorità. Cerco di riassumerle in questo modo: a quale condizione ci potrà essere un vero e stabile cambiamento nel nostro stile di vita, di presenza e di missione? Rispondo: la novità può venire solo dal cuore, cioè dall’interiorità silenziosa della coscienza di persone che non si sottraggono ai perché della vita e alle esigenze della propria vocazione missionaria. Senza tenerezza, senza cuore, senza amore, non ci sarà profezia né testimonianza credibile!

Carissimi, mi piacerebbe che mettessimo più cuore in quello che facciamo. Mi piacerebbe che prima delle difficoltà e dei problemi lasciassimo parlare il cuore. Mi piacerebbe che cominciassimo ogni riflessione e discernimento avendo a cuore il nostro continente e la nostra gente. […]

La cosa più necessaria nella vita della Chiesa è tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri. È bello sentire la paternità del nostro caro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che aveva il cuore ardente e non era, in nessun modo, prigioniero della cenere; che ha saputo accendere profeticamente il fuoco del Vangelo attraversando confini, incomprensioni, vedute limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa. Carissimi, ricordiamoci che siamo presenti in Europa perché è luogo di missione e siamo chiamati a vivere e a operare da missionari anche qui. […] Non possiamo abdicare, ma dobbiamo rilanciare e tornare a entusiasmare».

Padre Daniele Giolitti, dalla Certosa di Pesio (Cn), prendendo spunto dalle parole del Signore rivolte a Paolo chiuso in prigione: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così bisogna che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11), ha detto: «Il coraggio è fiducia ed è il contrario della paura. Coraggio è, sì, forza agonistica, ma è soprattutto una virtù del cuore. È la forza spirituale per andare avanti o, come dicono i Padri del deserto, la “forza per buttare il cuore oltre l’ostacolo”. Ancora: la paura è la mancanza di fede, il coraggio è la fede di vivere la vita fino in fondo, di viverla da vivi, non da morti. Il Signore dice a Paolo che “bisogna che dia testimonianza anche a Roma”. Cosa significa? Paolo dirà: per me è una necessità evangelizzare, non ne posso fare a meno (1 Cor 9,16). Bisogna è la parola che Gesù usa sempre quando parla della sua morte (cfr Lc 17,25), non per dire che lui è costretto a farlo, ma che il donarsi fino alla fine è un bisogno interiore. Come bisogna che l’acqua bagni, se no non è acqua, che il fuoco bruci, che la vita viva, così “bisogna che tu mi testimoni”, è la necessità di essere come Cristo. […] In conclusione, nei periodi di discernimento e di crisi, guardiamo al nostro futuro come Paolo, accogliendo la Parola e la missione: la prima ci consola e ci dà coraggio, la seconda ci spinge ad andare. Così facendo siamo spinti nel cammino verso un mondo altro: un cammino che diventa sogno e disegno di Dio per ogni uomo e donna». Anche in Europa.

 




Consolate il mio popolo


Un anno fa scrivevo l’editoriale del mese di giugno dal chiuso della mia stanza, nel bel mezzo di una clausura forzata durata ben oltre due mesi. Quei giorni dovrebbero essere un lontano ricordo, e invece la pandemia è ancora qui e sta manifestando la sua virulenza in tutto il mondo, in particolare in quei paesi già colpiti da povertà, guerre e deficienze strutturali croniche. E facciamo fatica a tornare alla «normalità» che rimpiangiamo.
Scrivo «normalità» tra virgolette, perché mi piacerebbe vedere nascere dalla tragedia del Covid una normalità diversa da quella di prima. Quella di cui abbiamo tutti nostalgia, infatti, era fatta di consumi eccessivi di risorse, di spreco e di ingiustizia sociale. Una normalità alla quale siamo stati abituati nei decenni da un sistema economico incentrato sul profitto immediato, che ora spinge perché venga ripristinata quanto prima quella stessa normalità.

La parte di normalità precedente al Covid che salverei e, anzi, amplificherei, è invece quella fatta di relazioni: scambiare un abbraccio, tenersi per mano, mangiare insieme, far festa, danzare, partecipare alla messa e quanto altro comunica amore, aiuta l’incontro, dona consolazione.
E di relazione con la natura, nella quale vivere da ospiti e non da padroni.

Per riprendere nel modo più forte e profondo quella normalità, un esercizio utile da fare è quello della contemplazione, del rintracciare nel mondo che abbiamo attorno i segni della presenza di Dio, i segni che riempiono il cuore e spingono alla comunione con gli altri, e alla consolazione.

Quando usciamo per le strade, allora, proviamo ad assumere lo sguardo di un mio confratello, padre Andrés Garcia, missionario della Consolata che vive tra i Warao a Nabasunuka sui canali del Delta dell’Orinoco in Venezuela, del quale condivido le parole, scritte dopo aver gridato con forza che non vuole rassegnarsi né abituarsi alla paura, alla povertà, all’ingiustizia e al dare sempre la colpa agli altri. Voglio condividere le sue parole con voi, in questo mese dedicato alla nostra Consolata, madre del vero Consolatore e modello di ogni missionario.

«Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.
Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.
Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati, e nell’ascoltare quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella (giungla) che cresce in città.

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza.

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali.

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità.

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre.
Non lo vedete?».

Foto di Piergiorgio Pescali dal Myanmar, dedicata alla gente di quel paese in questo momento così difficile e violento. Un augurio di pace.




Vieni e vedi

La comunicazione è un’esperienza d’incontro che coinvolge chi la vive, crea relazioni, cambia la vita. «Per poter raccontare la verità della vita è necessario uscire dalla comoda presunzione del “già saputo” e mettersi in movimento, andare a vedere, stare con le persone, ascoltarle, raccogliere le suggestioni della realtà, che sempre ci sorprenderà in qualche suo aspetto». Queste parole di papa Francesco, all’inizio del suo messaggio «Vieni e vedi» per la 55ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che celebriamo il 16 maggio, domenica dell’Ascensione, ci provocano. Il papa invita noi comunicatori a «consumare le suole delle scarpe» per non «fare dei giornali fotocopia» e a «incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni».

Mi ha intrigato il fatto che per parlare del complesso mondo della comunicazione il papa abbia usato le parole che Filippo ha rivolto a Natanaele per portarlo a incontrare Gesù (Gv 1,46). «Vieni e vedi» è «l’invito che accompagna i primi emozionanti incontri di Gesù con i discepoli, è anche il metodo di ogni autentica comunicazione umana». L’invito a «vedere» non è casuale, dato che nel linguaggio biblico ci sono molti modi di vedere: da quello fisico e basilare con gli occhi, al vedere con la mente, quindi approfondire e teorizzare, al vedere intenso che diventa contemplazione e adesione di fede e quindi relazione viva, per arrivare, infine, alla visione mistica.

Oggi la comunicazione è molto centrata sul vedere: grazie a un complesso e diffuso sistema multimediale, possiamo vedere gioie e dolori, bellezze e orrori di ogni angolo del mondo, uno spettacolo senza fine che accompagna i nostri pasti, riempie la nostra noia, rende lieve la nostra solitudine, allarga illusoriamente gli orizzonti della nostra stanza. Vediamo fisicamente, spesso senza coinvolgimento, se non superficiale. Inoltre, sovente, vediamo solo quelle cose che ci confermano nelle nostre idee, senza metterci in discussione. I mezzi che usiamo, poi, ci travolgono come un fiume in piena: da un’immagine a un video a un post a una pubblicità, in modo martellante. Così che non pensiamo, ma, appena ne abbiamo la possibilità, compriamo anche se non abbiamo davvero bisogno. Vedere sì, tanto e in fretta, come dai finestrini di un treno.

Certo, non mancano i contenuti eccellenti che permettono di passare dal vedere al pensare e dal pensare all’agire, ma quanta fatica e determinazione richiedono.

Il «vedere» di cui parla papa Francesco ha un altro spessore. È il vedere che diventa coinvolgimento, immedesimazione, incontro. È un vedere che ti fa uscire verso una realtà che ti interpella. Che domanda il tuo tempo, la tua mente, il tuo cuore. Un vedere che stimola ad approfondire per capire. Se poi capisci, non puoi restare neutrale e indifferente. Il vedere diventa allora «conversione» e azione, il «consumare le scarpe». «Vedere, giudicare e agire», un trinomio inseparabile.

A servizio di questo modo di «vedere» si pone MC, insieme a tutte le altre riviste missionarie che, ostinatamente, continuano a presentare una visione del mondo non conforme alle logiche della comunicazione dominante. Nella povertà dei nostri mezzi, abbiamo un vantaggio: quello di avere tanti «giornalisti» su terreno, persone che si «consumano le scarpe e sporcano le mani» e condividono «l’odore delle pecore». Corrispondenti sui generis, naturalmente, perché non sono iscritti all’ordine dei giornalisti, ma che vivono di comunicazione e che spingono noi, che invece cerchiamo di metterci la nostra professionalità, a scrivere con amore e verità dei popoli del mondo, con rispetto e partecipazione, soprattutto verso i poveri, i perseguitati, gli emarginati, esiliati e profughi. Per dare voce a chi non ha voce.

Ringraziamo tutti coloro che con noi condividono queste scelte sia continuando a sostenerci e a leggere queste nostre pagine fitte fitte che vanno digerite pian piano, sia continuando ad aiutare, spiritualmente e materialmente, i nostri missionari sul campo.

«Venite e vedete», vogliamo portarvi a incontrare i volti dei grandi e dei piccoli del mondo, nella realtà bella e dura della vita. La nostra, è una scelta di parte. Lo ammettiamo, abbiamo una preferenza: i poveri e gli ultimi.

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Un pugno nello stomaco

 

Tempo fa ero rimasto tra lo sconcertato e il divertito quando, facendo il test online «Quanti schiavi hai», avevo scoperto di avere almeno nove schiavi. Ragione: cellulare, macchina fotografica, jeans, computer e cose simili. Per mia fortuna non ho l’automobile, altrimenti di schiavi ne avrei avuti almeno quindici. Ho pensato a quel test nei giorni tra fine febbraio e inizio marzo, quando è esplosa la notizia del massacro del nostro ambasciatore, Luca
Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo nella Repubblica democratica del Congo. Mi sono reso conto che molti dei «miei schiavi» vivono proprio là e, che lo voglia o no, anch’io ho delle responsabilità in quell’uccisione compiuta da soldataglia che, in fondo, è al soldo diretto o indiretto di chi sfrutta quella schiavitù per garantirmi – e garantirci – il livello di vita al quale siamo abituati e che riteniamo essere nostro diritto.

Questa presa di coscienza è stata quasi un pugno nello stomaco. Non è facile da accettare, soprattutto per me che – per scelta e professione – mi ritengo un difensore dei diritti dei poveri, degli oppressi, degli schiavizzati. Su questa rivista da anni scriviamo della situazione del Congo e di realtà simili. L’ultimo pezzo è uscito solo lo scorso dicembre. Mitico è il numero monografico di MC, «Giù le mani dal Congo», del 2004.

Certo non sono io personalmente a sparare, violentare, intimidire, razziare. Non sono io a corrompere i politici con mazzette e privilegi perché chiudano gli occhi su ciò che succede. Non siedo nei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali che si spartiscono le risorse del mondo e trovano più conveniente pagare le milizie che le tasse o investire nelle infrastrutture necessarie a garantire la dignità e sicurezza dei lavoratori e il rispetto dell’ambiente. Non produco, né traffico la montagna di armi che destabilizza quelle regioni. Nonostante questo, non posso dire «non c’entro».

La triste realtà è che alla radice di quella, come di altre situazioni di conflitto, c’è il nostro stile di vita. Un modo di vivere che ci autocentra e che raramente ci offre la possibilità di aprire gli occhi sulla realtà del mondo. Siamo presi da troppe preoccupazioni, alcune futili, come i festival canori o la squadra del cuore, altre più serie come la politica, il Covid, i disastri climatici. Ma sono sempre problemi che vediamo come se toccassero solo noi. Quelli che toccano gli altri è come se non esistessero. E come la soluzione dei nostri piccoli e grandi problemi sia, in realtà, pagata da altri, poco ci interessa. Tutto questo alimenta il consumo e lo spreco come base necessaria per la sopravvivenza del nostro sistema economico. Anche la nostra politica nazionale e internazionale è drogata da eserciti di lobbisti al soldo delle grandi centrali economiche nei luoghi chiave delle istituzioni internazionali.

Ogni tanto, tragedie come quella del massacro dell’ambasciatore e della sua scorta nel Congo, o il coraggioso viaggio di papa Francesco in Iraq, ci obbligano ad aprire gli occhi sul mondo e sul fatto che tutto è interconnesso: la ricchezza di una minoranza si alimenta del sangue e delle lacrime di una maggioranza schiavizzata.

Anche la pandemia del Covid-19 e gli accelerati cambiamenti climatici, sono altri segnali d’allarme importanti. Allarmi che possono diventare un’opportunità: per guardare in faccia la realtà, per farci smettere di cercare capri espiatori o crogiolarci in teorie complottiste, e, infine, perché ciascuno assuma le proprie responsabilità.

È tempo di smettere di essere solo consumatori, fruitori e spettatori, per diventare soggetti responsabili della nostra storia, pronti per una «conversione» del nostro stile di vita, a cominciare dal nostro modo di consumare, di gestire l’ambiente, di partecipare alla vita politica, di mettere in discussione lo strapotere dei super ricchi.

Lo dobbiamo ai milioni di morti del Congo, a quelli di tanti altri paesi del mondo e a noi stessi.




Martirio, Vangelo vivo


Aveva 10 anni Blanca, 12 sua sorella Lilliam e 17 Bryan José. Tre ragazzi del Nicaragua, i più giovani tra i venti «martiri» del 2020 che ricorderemo durante la 29a giornata dei missionari martiri il 24 marzo, anniversario dell’uccisione di San Oscar Arnulfo Romero. Otto
sacerdoti, un religioso, tre suore, due seminaristi e sei laici. Le due sorelline, gioiose testimoni della loro fede, facevano parte dell’Infanzia missionaria.

Venti nomi, otto dall’America, sette dall’Africa, tre dall’Asia e due dall’Europa, che non esauriscono certo la lista di chi ha dato la propria vita per il Vangelo nel 2020. «All’elenco se ne deve aggiungere un altro […] che comprende operatori pastorali o semplici cattolici aggrediti, malmenati, derubati, minacciati, sequestrati, uccisi, come anche quello delle strutture cattoliche a servizio dell’intera popolazione, assalite, vandalizzate o saccheggiate. Di molti di questi […] non si avrà mai notizia, ma è certo che in ogni angolo del pianeta tanti ancora oggi soffrono e pagano con la vita la loro fede in Gesù Cristo» (Agenzia Fides).

Oggi si parla di oltre 300 milioni di cristiani che vivono negli oltre 50 paesi nei quali è più facile essere perseguitati, ostacolati nell’esercizio della fede, emarginati, discriminati e imprigionati. Sono quasi tremila quelli uccisi ogni anno (più di otto al giorno). È alto il numero delle donne, dei giovani e giovanissimi cristiani che subiscono violenza.

Le storie che arrivano da Nigeria, Siria, Pakistan, Libia, India, e ora anche Cabo Delgado in Mozambico, e da molti altri paesi, lasciano l’amaro in bocca. E non è solo l’integralismo islamico, segno della crisi interna allo stesso Islam, che preoccupa. L’intolleranza religiosa e il suo uso politico si manifestano anche, ad esempio, in un paese induista come l’India, o in uno buddhista come il Myanmar, dove vengono perseguitati sia cristiani che musulmani, come pure in quei paesi nei quali gruppi settari e ultra tradizionalisti di cristiani si legano a leader più o meno populisti e antiliberali (come sta accadendo nelle Americhe e anche in alcuni paesi europei).

Pure la cosiddetta cultura laica della nostra Europa, ufficialmente paladina della libertà, non è immune da tale virus, quando promuove idee verso le quali non è ammessa nessuna critica, mettendo a rischio la libertà di pensiero e quindi anche la libertà religiosa.

Un’altra forma di esclusione e ostracismo nei confronti dei cristiani è praticata attraverso i social e i media, con la promozione di modelli di vita centrati sull’io, sull’autorealizzazione della persona tramite denaro, divertimento, consumi, gioco, rischio, sesso. L’attacco a valori cristiani come la sobrietà, la castità, l’altruismo, il perdono, la famiglia, la vita, anche quando non è esplicito, è pervasivo e potente, soprattutto su chi lo subisce, più in modo emotivo che razionale, durante il delicato processo di formazione della sua personalità.

I cristiani, oggi, sono perseguitati come e più di quanto non lo fossero nei primi secoli dopo Cristo. Non è un dato felice. Eppure, paradossalmente, è un bel segno, un segno di grande vitalità. Nonostante la crisi di fede, molto forte soprattutto in Europa e nelle Americhe, il Vangelo non ha perso sapore. I cristiani continuano a imitare il loro Maestro, abitando le periferie del mondo, in mezzo ai poveri, agli esclusi, ai marginali. Il Vangelo continua a dar fastidio agli Erodi e ai grandi sacerdoti del nostro tempo. Continua a contestare una logica politica ed economica che dimentica la dignità della persona, indipendentemente dalla sua cultura o stato sociale, una politica che preferisce investire in armi invece che su pace, salute ed educazione, un’economia che depreda il pianeta a vantaggio di pochi. «Fratelli tutti», ha scritto papa Francesco. Parole semplicissime, ovvie forse, ma non per tutti. Parole che portano al martirio.

Se da una parte la conta delle vittime, le terribili violenze, le umiliazioni sistematiche, gli imprigionamenti ingiustificati, la distruzione di chiese, il bavaglio all’informazione, spezzano il cuore, dall’altra lo rinvigoriscono, perché sono segni di quanto sia ancora viva e forte la buona notizia di Gesù. Se milioni di cristiani, ancora oggi, sono disponibili a pagare di persona per la fede, una fede che non chiama alla vendetta, che promuove il perdono, che ama i nemici, che fa crescere la vita, possiamo avere speranza.

 




Viene la primavera

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Duemilaventuno. «Anno nuovo, vita nuova». Quattro parole: un augurio, una speranza, una preghiera. Una preghiera che, di questi tempi, diventa un grido. Ci stiamo dicendo in tutte le maniere: pazienza, resilienza, speranza! Non perdiamo la speranza. Camminiamo nella speranza. Restiamo umani. Sui giornali e sui social troviamo tutti i tipi di analisi di questa situazione. Articoli e libri si stanno moltiplicando. Papa Francesco ritorna continuamente sullo spirito necessario per navigare in questo mare in tempesta senza perdere la rotta e cogliere il tempo di grazia. Un suggerimento arrivato il giorno dell’Immacolata è quello di imparare da san Giuseppe e diventare suoi compagni di viaggio.

Anche i superiori dei missionari della Consolata tengono gli occhi puntati sulla nostra tenuta per i rischi di scoraggiamento e chiusura, perché «viviamo tempi difficili, d’incertezza, preoccupazione e anche di ansia per un futuro carico di tanti problemi».

L’invito che viene da coloro che hanno a cuore il bene comune e dei singoli, è quello di prepararsi a vivere il «dopo Covid-19» evitando la rimozione di questi mesi, assumendo invece la pandemia come opportunità per il cambiamento, senza l’ansia di tornare a essere e a vivere come prima.

Durante l’Avvento, san Pietro ci ha ricordato che i tempi duri sono i tempi della pazienza di Dio, che ci dà tempo per capire e cambiare, senza fretta. «Un giorno come mille anni, mille anni come un giorno». Questo mi ha fatto pensare al lungo e durissimo esilio di Israele in Babilonia. Cinquant’anni di lacrime e di dolore, tempo di impotenza e frustrazione. Eppure anche il tempo più fecondo della vita di Israele. È proprio in quegli anni che alcune delle parti più importanti dell’Antico Testamento prendono la forma che ora conosciamo, e che Israele approfondisce la sua spiritualità e capisce a fondo la sua identità. Cinquanta lunghi anni, dieci in più dei famosi quaranta nel deserto, per rigenerare un popolo che aveva perso le sue radici nell’ansia di essere come tutti gli altri. Cinquant’anni per dare tempo al «letame» del dolore, dell’impotenza, dell’esilio, dell’umiliazione e schiavitù, di fertilizzare la rinascita dei campi fertili di un popolo nuovo, un rinato e rinnovato popolo di Dio.

Sono sempre vivi in quelli della mia generazione i ricordi di un tempo a misura del guareschiano «Mondo piccolo», quando non c’erano ancora i bagni in casa e i bisogni si facevano sulla concimaia – e non si parlava ancora di progresso, ma di civiltà -. Il letame poi, che di plastica non aveva tracce, era sparso sui campi d’inverno per poter fertilizzare la terra, garantendo una rigogliosa e profumatissima primavera. Il problema oggi è che non produciamo più letame, ma rifiuti, troppi rifiuti.

Guardando al travaglio planetario che stiamo vivendo e alla durezza di cuore e di testa di tanti dei grandi della terra che continuano a ragionare solo in termini di potere e avere, viene da domandarsi: fino a quando? Di quanto tempo avremo bisogno per far rinascere un mondo secondo il progetto di Dio, dove gli uomini vivano da fratelli e sorelle e siano davvero giardinieri della terra, non predatori?

C’è di che rimanere scoraggiati. Questo, però, non è tempo di scoraggiamento e passività, tempo per restare incollati ai social a vedere come va a finire senza fare niente e sperare che le cose diventino migliori. Non è questo il tempo di lasciare che siano i potenti, gli influencer, i mafiosi, i guru, i santoni e i divi di turno a guidare la nostra vita. È invece il tempo dei santi, cioè delle persone normali che sanno di essere amate da Dio e si amano, e credono in se stesse. È il tempo di coloro che sanno di non essere più grandi di un seme, ma che come un seme, si consumano per tirar fuori le radici, dialogare con la terra, bucare la superficie, uscire verso il sole e crescere come un albero o uno stelo d’erba, un fungo o un fiore,  un cedro del Libano, e diventare una foresta, un prato verdeggiante, un raccolto di grano, un frutteto generoso. Non domani, ma oggi, preparandosi in questo inverno, assorbendo il fertilizzante dal letame (il dolore dell’umanità), per cambiare il mondo quando inizierà la primavera.

Ora. Questo è il tempo della più vera umanità. L’umanità dei poveri, dei miti, degli operatori di pace, degli innamorati della giustizia, dei puri di cuore. Uomini e donne vere che non si misurano con i like, gli applausi o gli zeri del conto in banca, ma con l’Amore di Dio che li riempie.