Palle di vetro

B eppe aveva sette anni quando, nel 1950, vide per la prima volta San Pietro. In quell’anno santo il papà ritoò da Roma con una strabiliante palla di vetro, che racchiudeva la celebre basilica. La mamma sistemò il ricordo del giubileo sul comò. Beppe non solo mirava quella palla, ma la prendeva in mano scuotendola: così facendo, il cielo sulla piazza si animava di minuscole falde di neve, che poi si posavano lentamente sul cupolone. Finché il soprammobile gli scivolò… per frantumarsi sul pavimento.
«Mamma, ho rotto San Pietro!», singhiozzava disperato Beppino. «Ma va’ là! San Pietro non è mica una palla di vetro!» replicò la mamma.
A questo episodio della propria infanzia pensò Beppe, l’altro giorno, ascoltando il suo parroco. Erano in pellegrinaggio verso Roma. «Non abusate con i ricordini – diceva il don -. Un rosario va bene. Il resto è inutile quanto costoso. Non cadiamo nel consumismo religioso. Siamo in quaresima».

D i fronte al giubileo in corso, Vittorio Messori ha denunciato troppe porte sante, messe solenni, messaggi, benedizioni, esortazioni, processioni, concerti, «miele buonista di monsignori» (cfr. Corriere della Sera, 27 dicembre 1999). Talora non sono liturgie, ma «paraliturgie» nel senso peggiore del termine. O megashow.
Tutto magnificato dalla tivù.
Inoltre imperversano «le palle di vetro», la paccottiglia. Sono in vendita persino due fucili: una doppietta e un soprapposto, della Casa Beretta (Brescia), con l’incisione «P. Beretta Giubileo» (cfr. Armi e Tiro, dicembre 1999).
«Siamo in quaresima» diceva il parroco di Beppe. Dunque: «tempo forte» per la sobrietà, la coerenza, l’impegno. Nelle chiese risuonano testi biblici che non ammettono scantonamenti. E non bastano i digiuni materiali, perché non servono «sacrifici di tori», dietro i quali si nascondono calcoli economici.
È vero che digiunate – dice il profeta Isaia -. Ma, nello stesso tempo, fate grossi affari e maltrattate i lavoratori. Litigate, urlate, fate a pugni. «Per digiuno io intendo un’altra cosa: rompere le catene dell’ingiustizia, rimuovere tutti i pesi che opprimono gli uomini, rendere la libertà agli oppressi» (Is 58, 6).
Ma qualcuno risponde stizzito: «Evitate il
facile moralismo e le colpevolizzazioni
sommarie!».
Intanto ogni giorno 19 mila bambini muoiono per denutrizione, mentre in Europa si spendono 18 mila miliardi all’anno in gelati. Bill Gates, Robson Walton e il sultano del Brunei continuano ad ammassare ricchezze pari al reddito complessivo di 42 paesi poveri.
Per non parlare della corruzione politica.
Ma questo non è un macigno insormontabile. Potrebbe essere una fragile… palla di vetro. Dipende dai nostri «sì» o «no».
Anche al supermercato.
La redazione

la redazione




Caro “baco”, quanto ci costi!

C aro esperto, il millennium bug ha arricchito anche te. Tu sapevi che «il baco del millennio» non avrebbe bloccato i computer. Sapevi che la stragrande maggioranza di loro non avrebbe avuto problemi nel cambio di data. Solo i computer con vecchi chip bios o antiquati sistemi operativi Microsoft avrebbero potuto falsare i conti nel cambio di data (da 99 a 00). Avresti potuto scrivere una lettera di protesta a Bill Gates, per essersi fatto i soldi vendendo un sistema operativo obsoleto.
Tu sapevi, ma sei rimasto zitto.
Tu sapevi che si stava montando un bluff: il «baco» era in agguato solo se il programmatore fosse stato uno sprovveduto. E sapevi che tantissimi programmatori avevano già inserito un’istruzione di controllo: un semplice «se… allora», per varcare il 2000 senza problemi.
Caro esperto, tu sai che per scrivere un tale algoritmo basta la quinta elementare. Già in liceo risolvevi sui computer problemi ben più complessi del millennium bug. Ma poi hai capito che, per fare colpo, non occorre realizzare cose difficili. Basta solo farle «apparire» tali.
Come per il millennium bug.
Bastava che la Presidenza del consiglio avesse fatto uno spot, non con quell’inutile pupazzetto, disegnato per le masse, ma con alcune informazioni per l’autodiagnosi del computer. Bastava insegnare pochi e semplici controlli.
Oppure era sufficiente che un giornalista ti avesse intervistato e che tu avessi spiegato le poche cose da fare.
Ma alcuni giornalisti, pagati per confondere la gente, hanno fatto a gara per dire cose assurde, pur di accreditare «la santa crociata digitale». E le multinazionali dell’informatica li avranno lautamente ringraziati per i loro servigi di comunicatori della stupidità.
Tu hai visto politici far spendere allo stato somme insensate. E poi dicono che aiutare il terzo mondo è giusto… «ma purtroppo ora non abbiamo i soldi». Eh sì, perché li hanno sganciati per il millennium bug e per qualche loro amico, esperto di computer.
Tu avresti potuto ridicolizzare questa messa in scena mortificante, questo ennesimo raggiro di chi guarda la tivù come fosse la verità.
Ma hai taciuto, perché la tua parcella di esperto veniva prima della verità dei fatti.
I soldi, spesi così male, ammontano ad una cifra che darebbe speranza per 10 anni ad oltre 300 milioni di piccoli disperati. Soldi finiti nelle tasche dei ricchi, come sempre.
Ma anche nelle tue.
Allora, caro esperto, ti chiediamo una riparazione. Impiega una parte di quanto ti ha fruttato il millennium bug per debellare la lebbra, che condanna 12 milioni di persone. Sei ancora in tempo a dialogare con la tua coscienza. Un malato di lebbra può guarire con 250 mila lire.
Spiccioli rispetto ai 3 milioni di miliardi spesi per «il baco del millennio».

Alessandro Marescotti




Dopo il fiasco di Seatte

Spettabile redazione, ho letto su Missioni Consolata di ottobre/novembre gli aggioamenti sul Millenium Round. Ne ho parlato con alcuni amici, che come me seguono con preoccupazione la vicenda: ci siamo chiesti se in Italia esiste un cornordinamento per la mobilitazione contro il negoziato. Esiste qualche documento comune da sottoscrivere, per non disperdersi troppo in iniziative particolari?

Il Millenium Round ha avuto luogo a Seattle (USA) dal 30 novembre al 3 dicembre 1999. Ed è stato un fiasco. Ecco alcuni problemi irrisolti.
Agricoltura: lo scontro si è concentrato sui sussidi della Commissione di Bruxelles ai prodotti dell’Unione Europea; gli Stati Uniti e i paesi in via di sviluppo vorrebbero abolirli, perché rendono meno competitivi i propri prodotti agricoli. Lavoro: gli Stati Uniti vorrebbero fissare standard mondiali per i diritti dei lavoratori; i paesi nel sud del mondo li bocciano, perché alzano il costo della manodopera e frenano le esportazioni. Biotecnologie: sono sponsorizzate dagli Stati Uniti, ma respinte dai paesi in via di sviluppo, che temono il tracollo della propria agricoltura.
Il terzo mondo e numerosi movimenti hanno contestato l’operato dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), che nella globalizzazione economica penalizza soprattutto i paesi poveri. È immorale e scandaloso che il reddito di tre individui nel nord del mondo sia pari a quello di 600 milioni di persone nel sud.
Prima del Vertice di Seattle, è nata la «Rete lillipuziana». Ne abbiamo parlato nell’editoriale di gennaio. Nella Rete sono entrate tante associazioni (anche se modeste), per essere più influenti e lottare insieme contro le schiavitù della globalizzazione.
Per ulteriori informazioni, contattare:
Centro nuovo modello di sviluppo
tel 050/826354, fax 827165, e-mail «cornord@cnms.it».

Piermario Pertusio




Lillipuziani, gettate le reti!

I l ritornello è arcinoto: la ricchezza aumenta, ma ancora di più crescono i processi d’impoverimento, esclusione sociale e saccheggio dei beni naturali. Ma guai se restasse solo uno sterile ritornello, sia pure accorato! È possibile passare dalle parole ai fatti? Noi crediamo di sì.
Oggi, accanto ai giganti socioeconomici, si muove una galassia di piccole associazioni e movimenti, che si battono per riaffermare diritti vecchi e nuovi, con l’intelligenza di chi guarda al proprio paese senza scordare il mondo. Qualcuno ha definito tale galassia l’«arcipelago lillipuziano».
Nel 1725 Jonathan Swift, scrittore e politico irlandese, pubblicò I viaggi di Gulliver. È una favola: alcuni minuscoli «lillipuziani», alti solo pochi centimetri, catturano il gigante predone-padrone Gulliver; lo legano nel sonno con centinaia di fili. Gulliver avrebbe potuto schiacciare con un dito ogni singolo lillipuziano; ma ora la fitta rete tessuta intorno a lui lo rende impotente.
Una vicenda che richiama quella di Polifemo, beffato da Ulisse, o di Golia, abbattuto da Davide. Con una differenza: contro il potente Gulliver non si muove un individuo soltanto, ma tanti piccoli esseri, uniti in una «rete». La morale della favola è evidente.
In Italia e nel mondo – come abbiamo visto nel dicembre scorso a Seattle – è vivo il desiderio, condiviso da tanti movimenti, di combattere contro le ingiustizie, gli inquinamenti, le indifferenze. E ogni associazione propone (ma ciascuna per la sua strada) iniziative di solidarietà, resistenza, informazione: l’intento è di soccorrere le vittime, fermare gli oppressori, sensibilizzare la gente.
È possibile abbattere il gigante Gulliver operando ciascuno in ordine sparso? Riteniamo di no. Ebbene: perché non coalizzarsi come i piccoli ma intelligenti lillipuziani? Allora le tante voci isolate diventano un coro, i deboli fili una rete.
Anzi, una rete di reti. Ed è proprio vero che l’unione fa la forza. Una forza comune per creare, ad esempio, un’economia diversa, fondata sulla sobrietà dei consumi, l’equità fra le classi sociali, la sostenibilità dello sviluppo. Alcuni centri missionari diocesani già operano in sinergia con altre forze; ma hanno aggregato soltanto «i soliti». Bisogna, invece, allargare il cerchio.
A tale scopo, a Torino, è nata la Scuola per l’alternativa: la Comunità impegno servizio volontariato (Cisv), i Missionari della Consolata e il Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis) si sono messi in rete per affrontare le schiavitù della globalizzazione: e, con loro, si sono viste facce nuove. Più numerose del previsto.
Duemila anni fa, ad alcuni pescatori scoraggiati (non avendo catturato un solo pesce durante una notte intera) un Tale disse: «Gettate le reti da un’altra parte». Il risultato fu strepitoso.
Poi quel Tale aggiunse: «Io vi farò anche pescatori di uomini».
La Redazione

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EDITORIALELa “barba” di tanti poveri cristi

Una volta Shangai era la capitale di tutti i vizi occidentali, compreso quello di commerciare foto poo. Lo scriveva Guido Ceronetti su La Stampa del 3 febbraio 1984, che precisava: «Un missionario, vecchissimo, della Consolata, che era stato a Shangai 35 anni, mi diceva che, in certi quartieri, di notte, si camminava su strati di mezzo metro di fotografie oscene. Lui stesso ne aveva portato quasi un quintale, in Italia, con la complicità delle autorità fasciste». Peccato che quel missionario non sia mai esistito!
Passano gli anni. Il giornalista ritorna alla carica con un altro prete, che stavolta esiste davvero. È Renzo Beretta, parroco di Ponte Chiasso (CO), impegnato pure nell’accoglienza e nel dialogo con gli immigrati. Finché il 21 gennaio 1999 viene accoltellato da un marocchino clandestino. E, su La Stampa del 24 gennaio, Ceronetti commenta:
«Una parrocchia troppo tranquilla dev’essere certamente una barba; è più eccitante, per un prete, una turbolenta… Se il prete resta vittima del male, della crudeltà e del saccheggio che avrà attirato nella parrocchia, accogliendo gente di ogni risma, di quella che i poteri nazionali seguitano, con la pietrosa arroganza di un’imperturbabile impostura, a definire “ricchezze in arrivo”, sono tentato di pensare che l’abbia proprio voluto, e che la coltellata assassina punisca in lui la misura varcata, un eccesso di benevolenza che finisce per essere colpa».
In altre parole: don Renzo la morte se l’è meritata. Chi è causa del suo mal pianga se stesso…
Siamo tentati di scusare Ceronetti ricordando che, secondo Voltaire, è un privilegio del genio commettere impunemente anche degli errori. Forse anche il giornalista de La Stampa gode del carisma del genio. Ma quale genio?
Che meschinità intellettuale dire: i preti che aiutano gli extracomunitari lo fanno per vincere la… barba! Allora vittime del «che pizza, ragazzi!» sarebbero pure quanti si impegnano nel mondo della tossicodipendenza, i volontari tra i barboni, le suore con le donne di strada… Mentre a Shangai quel fantomatico missionario (pure lui annoiato) collezionava quintali di foto poografiche.
Di più. Costoro non sono soltanto preda di una noia morbosa, ma rappresentano pure un pericolo, perché «espongono anche molti altri» alle… coltellate! Qui la meschinità è violenza.
Per noi don Renzo è un martire, un «cristo» come Gesù. Lo diciamo pensando pure al 24 marzo, giornata dei missionari martiri, che nel 1998 sono stati 39, senza scordare gli sconosciuti.
Sono profeti lungimiranti in un mondo di miopi. Gridano a tutti, in un universo di sordi, la via della salvezza.
I ciechi che non vogliono vedere e i sordi che non vogliono udire… questi, sì, che costituiscono una minaccia.

La redazione




SE NON LI CURI, LI AMMAZZI

“Iam vacua ardet Roma” (ormai vuota, Roma brucia). Lo scrisse papa Gregorio Magno nel Seicento, allorché «la capitale del mondo» era bottino dei barbari. È una frase-sentenza, continuamente attuale nelle «notti della storia», illuminate solo dal bagliore delle armi.
Brucia ancora l’Africa: Guinea Bissau, Etiopia, Eritrea, Sierra Leone, Congo… nel crepitio delle pallottole. Pallottole non africane!
Ma, come a Roma il papa non si rassegnò allo strazio del popolo, così in Africa qualcuno si ribella al catastrofismo. E diventa propositivo. È questo il senso di una lettera, scritta in Congo.
Dal 2 agosto scorso la nazione è ripiombata nella guerra civile o, forse, nella prima guerra mondiale africana: da una parte i ribelli (con Uganda, Rwanda e Burundi) e, dall’altra, i soldati del presidente Kabila (con Zimbabwe, Namibia e Angola). I ribelli controllano il nordest, ma anche il Katanga, ricco di diamanti. La contrapposizione potrebbe durare anni, senza una mediazione internazionale. Intanto si contano migliaia di morti, vittime sia dei ribelli sia dei governativi.
La lettera è stata scritta nell’ospedale di Neisu, nel «caldo» nord, da padre Oscar Goapper, missionario della Consolata e medico.
Cari amici, vi scrivo pur sapendo che questa lettera sarà controllata da qualche funzionario congolese. Siamo allo stremo. Il dollaro continua a salire e la nostra moneta a scendere.
Qui nel nord, complice la guerra, siamo tagliati fuori dal mondo. Tutto è commedia. E la commedia si ripete quando, dopo tentativi infiniti, riesco a trovare un posto su un aereo militare. Ma ecco che, al momento del decollo, mi sento dire: «Si parte domani, forse». Già, forse!
È terribilmente difficile reperire medicine per l’ospedale. Sono sette mesi che ci arrabattiamo con risultati quasi zero. Il confratello Rombaut, infermiere professionale, ha raggiunto Kampala (Uganda) ed è tornato con appena 30 chili di materiale medico. I 140 letti del nostro ospedale sono strapieni (senza contare i malati che giacciono per terra). Siamo impotenti di fronte alla guerra.
Come missionario medico, ho sempre perseguito progetti dettagliati. Nell’emergenza odiea tutto salta. Oggi, quando entro in ospedale barcamenandomi fra gli ammalati per non pestarli, un ritornello mi martella le tempia: «O li curi subito o li ammazzi!».
Ci servono soldi e un’immensa pazienza in questa interminabile quaresima…
I soldi sono anche nostri. La pazienza, intrisa di sofferenza, è loro. Il prossimo di tutti.
La Redazione

La Redazione




Non sono Pinochet!

Mai più! Come pure: never again, nunca mas, jamais plus, nimmermehr! Cioè: mai più campi di sterminio, abusi sui bambini, pulizie etniche, bombardamenti su popoli inermi… «perché tutti gli esseri nascono liberi e uguali in dignità e diritti». Così recita il primo dei 30 articoli della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», sottoscritta da 48 nazioni, a Parigi, il 10 dicembre 1948.
La Dichiarazione si lascia alle spalle 50 anni, durante i quali il suddetto «mai più» è stato smentito troppe volte. I suoi 30 articoli sono stati spesso solo pie esortazioni, o quasi. Anche oggi. Così, il 10 dicembre scorso, mentre tutto il mondo celebrava il cinquantenario dei diritti dell’uomo (fra cui il diritto alla vita), qualcuno festeggiava il rito della morte. L’ultima vittima della pena capitale è Tuan Anh Nguyen, profugo vietnamita negli Stati Uniti, giustiziato con una iniezione letale in Oklahoma a 39 anni. Era reo di omicidio.
Le violazioni dei diritti umani costituiscono una catena infame, con anelli numerosi come le stelle del cielo. Una tragedia infinita, che accusa anche l’Italia.
In barba alla Dichiarazione, sono 250 mila i ragazzi e le ragazze che imbracciano il fucile in eserciti regolari o gruppi guerriglieri, alla mercé di despoti e dei loro 33 conflitti armati in corso.
C’è il diritto ad «un livello di vita sufficiente ad assicurare la propria salute e quello della famiglia». Come mai, allora, 1 miliardo e 300 milioni di persone sopravvivono con meno di un dollaro a testa? È nata una categoria sociale nuova: quella degli «esclusi», penalizzati soprattutto dalla mancanza di lavoro nel mondo della globalizzazione.
Pesanti discriminazioni si abbattono sulle donne, che vanno dall’imposizione di un certo vestito all’«obbligo dell’ignoranza», dai matrimoni forzati alle mutilazioni sessuali.
La libertà religiosa non solo lascia molto a desiderare, ma è fonte di ritorsioni e persecuzioni. I regimi di Cina, Arabia Saudita, Sudan, Indonesia ecc. lo dimostrano.
Non ultimo il dramma dei profughi: un esercito di 50 milioni di persone, quasi sempre considerate una minaccia nei paesi dove cercano rifugio.
«Nel rispetto dei diritti umani il segreto della pace»: è il motto della Giornata mondiale per la pace, che si celebra il 1° gennaio 1999. È proprio il rispetto, sorretto dalla giustizia, la via maestra della pace. Per noi, che abbiamo la fortuna di una casa, il rispetto dell’altro incomincia all’interno delle pareti domestiche.
E, per favore, non diciamo: «Non sono mica Pinochet!».
La redazione

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