Sono “pazienza”

Mi alzo il mattino, svegliata dal freddo. La pioggia battente ha avvolto, inclemente, tutto il mio corpo con le sue mani. Ho dormito male sotto la tenda, ricavata da pezzi di plastica scartati al mercato.
Devo alzarmi presto, perché – come voi dite – «le ore del mattino hanno l’oro in bocca». Oggi si lavora, come tutti i giorni. «Che lavoro fai?» mi domanderete. Sono mendicante. Mi chiamo «Tighist», che vuol dire «pazienza». Posso assicurarvi che ne sfoggio tanta, mentre le ore scorrono lentamente. Siedo su un sasso, i piedi nel fango e sulla mano destra alcune monete, che faccio tintinnare come richiamo con la solita supplica: «Fate la carità, per amor di Dio». Sono pochi i passanti oggi, perché piove.
Prima del tramonto, raccolgo i proventi del lavoro, sufficienti – spero – per mangiare la sera. Non sono sola: due bimbe mi fanno compagnia, e ai passanti fanno compassione.
È importante nel nostro mestiere.
Poiché i prezzi salgono continuamente, con il cuore in ansia acquistiamo tre pagnotte e un po’ di sugo. Poi, contente, consumiamo la cena, l’unico nostro pasto del giorno. E domani, sotto il sole o il freddo o la pioggia, tenderemo ancora la mano con la speranza di raccogliere gli spiccioli per campare un altro giorno.

N on conosco grandi piaceri. Non so di abbondanza, di mense imbandite di ogni ben di Dio. Ho sentito parlare di bevande pregiate; per gustarle – dicono – occorrono persino coppe ad hoc. Io conosco solo l’acqua che mi porgono e non so nemmeno se sia pulita o sporca, perché
sono cieca fin dalla nascita.
Qualcuno, nel 2000, mi ha parlato di un anno speciale, un anno di grazia indetto da Dio per sollevare i poveri e colmarli di beni… Io vi giuro che, l’anno passato, non ho visto nulla di simile: nulla di speciale si è depositato sulle mie mani; nessuno mi ha offerto un po’ di più… durante l’anno santo!
Allora Dio promette molto, mantiene poco ed è… bugiardo anche lui! O lo sono gli uomini che possiedono tanto e non si curano di chi ha quasi nulla? Rispondete, per favore.
Mi dicono che siamo in quaresima e che, fra poco, sarà pasqua. Auguro a tutti una bella festa.
Quel giorno io e le due bimbe saremo sulla strada fin dal primo mattino, come le donne che andarono al sepolcro di Gesù. Passerà la gente, vestita a festa: molti andranno in chiesa, per festeggiare Gesù risorto con interminabili «alleluia». Passeranno davanti a noi in fretta, senza guardarci, senza rendersi conto che Gesù, nei mendicanti, continua a trascinare la croce e a morire.
Non è ancora risorto, povero Cristo!
Pazienza ci vuole!
Al termine della giornata, mangeremo la solita pagnotta. La mangeremo adagio, pensando:
«È pasqua. Succede una volta all’anno».
Tighist

Tighist




Dal 1901 al…

All’alba del terzo millennio alcuni missionari della Consolata hanno scritto a Gesù bambino: «Signore, quando toerai sulla terra,
non andare in Brasile, perché dovresti raccogliere canna da zucchero ed avresti le mani sanguinanti per i fusti spigolosi.
Evita il Bangladesh: finiresti nelle fabbriche di mattoni e le tue piccole spalle sarebbero ferite, prima ancora di portare la croce. Sta’ alla larga dai negrieri schiavisti del Sudan, perché ti venderebbero subito per 30 denari. Non varcare nemmeno le frontiere del Pakistan: ti metterebbero a cucire palloni da football, senza mai farti vedere una partita. E il Congo? Non andarci, Gesù, perché dovresti fare la guerra non con soldatini di cartapesta, ma con pallottole ad uranio, le stesse usate dalla Nato in Kosovo…».

E cco alcuni drammi che i coetanei del piccolo Gesù hanno vissuto da protagonisti negli ultimi anni. Per non parlare degli abusi sessuali, delle mine che hanno interrotto per sempre i loro giochi sui prati, dei foi crematori che li hanno ridotti in fumo nauseante.
È successo molto altro ancora nel secolo passato. Secondo il politologo Eric Hobsbawm, è stato «il secolo breve», iniziato nel 1914 (con «la grande guerra») e terminato nel 1991 (con il disfacimento dell’Unione Sovietica). Un secolo breve, e però è stata «l’epoca più violenta della storia dell’umanità».
È saggio, allora, augurarsi
«cento di questi anni»?
N ati nel 1901, i missionari della Consolata compiono 100 anni. Questo numero «straordinario» della rivista verte su di loro. Ma non è tutta la loro storia: perché, se alcuni sono stati «pionieri», «generosi», «illustrissimi», «infaticabili» e «martiri», altri invece…
E poi, se di storia si trattasse, troppo vistose (e ingiuste) sarebbero le lacune.
«Cento di questi anni»
è un sentito grazie al Signore e alla Consolata per il bene che hanno fatto nell’arco di un secolo. Si possono contare le magnalia Dei, cioè le meraviglie di Dio; però, quando ci si vanta dei «successi dell’uomo», si cade in meschinità, ossia nel peccato. In tale senso, «cento di questi anni» non sono certo da augurare.

L a lettera dei missionari a Gesù bambino termina: «Signore, è giusto che andiamo noi nel sud del mondo. Tu, intanto, resta a casa nostra. Qui starai al sicuro, vedrai!…».
E avete «visto» anche voi, cari amici e benefattori dei missionari della Consolata. Avete visto e valutato. Grazie della vostra comprensione, del vostro perdono. Grazie della generosità, che dura da un secolo. È anche contando su di voi che ci auguriamo «cento di questi anni».
Per una maggiore consolazione in un mondo inquinato, violento ed ingiusto, a scapito specialmente dei «piccoli». Eppure il beato Giuseppe Allamano ama la gente di questo pianeta.
p. Gottardo Pasqualetti,
Superiore dei missionari della Consolata in Italia

Gottardo Pasqualetti




Primo gennaio 2001

B envenuti nella società del terzo millennio! Quale società? Serge Latouche sostiene (provocatoriamente) che la società non è la nostra del «benessere», bensì quella «arretrata» del terzo mondo. Qui la vita è intessuta di rapporti umani solidali. L’iniziativa del singolo non reca profitto a se stesso, ma a tutta la comunità, che è chiamata ad approvare, condividere e persino finanziare.
E che dire della flessibilità del lavoro derivante dalla «pluriattività»? Non credo che coincida con la flessibilità decantata dai nostri illuminati economisti. Il punto fondamentale è il contrasto fra una società che investe sui rapporti umani ed una, come la nostra, che sposta tutto sul piano del profitto economico, interponendo meccanismi che tendano a nascondere i danni arrecati ai nostri simili nel perseguire la ricchezza.
Latouche ricorda il rischio di implosione cui la società del profitto ad ogni costo va incontro. Lo scenario è reale: nella economia globale pochi si arricchiscono, a scapito di masse crescenti di esclusi.
Già, la globalizzazione. I media del «pensiero unico» la sbandierano come un ordine economico superiore, un mondo che ci accomuna tutti soprattutto per l’allineamento della cultura.
Però non mi pare che, grazie alla globalizzazione dei mercati, un minatore africano o un bimbo lavoratore pakistano acquisiscano gli stessi diritti degli uomini del mondo «evoluto». Neppure quelli primari di sopravvivenza. Perché le banane centroamericane, da noi molto apprezzate, non fanno la ricchezza della popolazione locale?
Mezzi di informazione. Non a caso le maggiori testate sono in mano a grossi gruppi finanziari. Le coscienze devono essere «persuase» con l’immagine accattivante di un benessere per tutti, ma che in realtà pochi conseguono. Chi non lo accetta è tacciato di violenza. Tutti ricordiamo le manifestazioni di Seattle o Genova. Per i media i manifestanti erano terroristi. Ma, dalle famiglie e bambini che hanno sfilato, questo proprio non si poteva dire! E poi perché esportare ad ogni costo il nostro modello come l’unico valido per tutti?
Ho visto un servizio televisivo sulla riorganizzazione dell’economia della Tanzania. Il Fondo monetario internazionale, in cambio di un sostegno economico, ha obbligato il governo locale ad effettuare ingenti tagli alla spesa sociale. Risultato: scuole a pagamento per pochi fortunati e ospedali chiusi perché in perdita. Cioè aumento della mortalità infantile e scarse possibilità di sviluppo per un paese senza scolarizzazione. Il servizio descriveva pure gli effetti della privatizzazione su un’azienda agricola: aumento di disoccupati e spostamento degli utili dallo stato ad una società europea. Bel suggerimento disinteressato!

A llora… riportiamo l’uomo al centro del modello di sviluppo. Investiamo nella dignità umana, nel capitalizzare le esperienze e tradizioni, nel libero pensiero svincolato dall’economia.
Solo prendendo coscienza della spietata realtà liberista saremo in grado di proporre una valida alternativa al modello unico imperante. La via non è la «rivoluzione», ma la dissidenza, la discussione, il confronto di idee. Concetti, questi, che il «pensiero unico» vuole estinguere o appropriarsene a proprio comodo.

Massimo Veneziano




E per penitenza…

C ari lettori di «Missioni Consolata», mi rivolgo a voi, anche se non sono abbonato alla rivista, per augurarvi «buon natale». Scrivo soprattutto per «penitenza».
Sono uno dei due milioni di giovani che hanno celebrato il giubileo a Roma, anche se non sono più un ragazzo, dati i miei 28 anni. Durante la manifestazione ho cantato molto (pur non essendo un Jovanotti), memore di un missionario che diceva: «Tra noi, giovani di 40 anni fa, e voi non noto grandi differenze, eccetto questa: noi cantavamo e voi… ascoltate. Non vi mancano musiche, ma poche sono cantabili: e, non essendo tali, si tramutano in alienazione. Noi invece cantavamo tutti a squarciagola sulle piazze».
Concordo con quel missionario. Tra l’altro, dischi e cassette di musica «solo da ascoltare» coprono affari da miliardi. Personalmente ho rifiutato il walkman e l’auricolare. Abbasso pure il cellulare alla cintura!
Alcuni, da «destra», hanno esaltato «la faccia pulita» dei ragazzi del giubileo e altri, da «sinistra», ne hanno denunciato l’assenza di spirito politico critico. I mass-media hanno peccato di grave superficialità. Come si fa ad omologare due milioni di persone di cultura diversa?
Va detto che non tutti i «papa-boys» inneggiano alla gioia di vivere. Domingo Das Neves, per esempio, ha la morte in cuore.
Domingo, dell’Angola, la notte del 19 agosto ha offerto a tutti la seguente testimonianza: «Ho 25 anni. Durante la guerra civile, che insanguina il mio paese e che non sembra finire più, ho perso i genitori e poi anche il fratello maggiore con il quale vivevo. Ho perdonato chi ha ucciso i miei cari» (Ndr: vedi la foto con il papa).
Qualcuno ha lamentato che, al giubileo dei giovani, sia mancata la voce del terzo mondo. Domingo però erà là, con la sua triplice disgrazia: perché albino (senza difesa immunitaria, nonché discriminato dai neri); perché orfano a causa delle bombe acquistate con diamanti; perché africano (cioè un «esubero» nella politica delle potenze mondiali). Perché pochissimi hanno ascoltato Domingo? Forse perché il suo perdono dà fastidio?
Sono domande cui quasi nessuno risponde.

D opo l’adunata nella capitale, si è svolto a Rimini il Meeting di Comunione e liberazione, durante il quale alcuni giovani del giubileo hanno inneggiato al papa, come pure a Berlusconi. No, qui non ci sto.
Non si può applaudire, nello stesso tempo, il campione del neoliberismo e chi ne denuncia i guasti che ricadono soprattutto sui poveri.
Cari amici di Missioni Consolata, questa lettera si addice poco agli auguri natalizi. Ma non mi piacciono le parole vuote. Preferisco queste: «Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo». Quel Cristo che ha gradito le 50 lire di una povera vedova e ha rifiutato i 50 miliardi di…
Eros Benvenuto

Eros Benvenuto




Speciale Brasile – Non tornare indietro

Non è «il più grande del mondo». Quanto a superficie, Russia, Canada, Cina e Stati Uniti lo superano. Ma tant’è. Il brasiliano dirà sempre: «Dio è grande, ma il Brasile è ancora più grande». Se poi vince il campionato mondiale di calcio, tutti scattano in piedi per proclamare: «Anche Dio è brasiliano».
Il Brasile è grande soprattutto per i contrasti. Ad esempio, in rapporto alla popolazione, è il quarto produttore al mondo di cibo, ma si dibatte nella denutrizione, preceduto solo da India, Bangladesh, Pakistan, Filippine, Indonesia. E 36 milioni di bambini si dibattono nella miseria. Perché?
Un’amica brasiliana ha risposto con una favola. «Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: “Fa’ scorrere fiumi maestosi in Brasile. Scarica terremoti e gelate in Europa, ma pianta alberi meravigliosi in Amazzonia e riempi la sua terra di minerali preziosi…”.
L’angelo interruppe: “Scusa, Signore! Perché al Brasile doni solo cose belle e agli altri cose brutte?”. “Ma tu non sai – replicò il Padreterno – che razza di politici goveeranno il paese!”».
Il problema del Brasile non è la povertà,
ma l’ingiustizia.

«o maior do mundo»,
numero speciale di Missioni Consolata sui 500 anni del Brasile, coglie la triste verità:
n ripercorrendo la storia, mentre «la telenovela
continua»;
n analizzando le questioni sociali, dove «i nodi
vengono al pettine»;
n seguendo il cammino della chiesa, che presenta
«un vangelo
dai tanti volti».
I diversi volti del Brasile (dall’indio al piccolo proprietario, dal nero all’ex emigrato italiano) dovrebbero essere accomunati dalla frateità. Essa è soprattutto spirituale; ma reale, visibile, storica. Non basta la comunione fra spiriti. L’indio, il nero e il bianco non sono fratelli: infatti appartengono a genitori, paesi e culture differenti. Eppure sono fratelli spirituali se vivono nella reciproca accettazione e condivisione dei loro beni, sapendo di appartenere tutti alla stessa famiglia umana, che è la famiglia di Dio.
E poiché l’uomo, più che fratello, è «lupo dell’uomo», da sempre si lotta per la liberazione da se stessi e dalle strutture oppressive.
È necessario spezzare le schiavitù, specialmente quando «i faraoni» e i loro lacché hanno «il cuore indurito» (cfr. Es 10, 1). Anche Gesù di Nazaret soffre con le folle che accorrono a lui a piedi da ogni città, perché «sono pecore senza pastore» (Mc 6, 33-34).
In Brasile le masse di senza-terra, che partecipano a qualche romaria da terra (marcia-pellegrinaggio), si accodano alle folle cui Gesù Cristo rende giustizia con la liberazione.
Con buona pace di chi vorrebbe imprigionarlo nel tabeacolo, fra lini dorati.
La chiesa, dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, «se torna indietro», sbaglia.
Parola di non pochi vescovi.
Francesco Beardi

Francesco Beardi




Se lui è la vita, cosa significa per noi?

I l Convegno missionario internazionale di Roma del 18-22 ottobre 2000 avrà come tema: «Gesù Cristo sorgente di vita per tutti». Il tema può sembrare ovvio nei 2 mila anni della nascita di un uomo chiamato Gesù. Però rivela una paura: che la missione stia perdendo il suo punto focale.
Alcune vie della missione (liberazione degli oppressi, inculturazione e dialogo interreligioso) rischierebbero di attenuare, se non di escludere, l’annuncio di Colui senza il quale non c’è salvezza né vita (cfr. Atti 4, 12). È come se si costruissero autostrade là dove ci sono solo impervi sentirneri, con il rischio però che sulle autostrade, larghe e comode, non si incontri nessuno, mentre sul sentirnero si incontra Gesù in persona (cfr. Lc 24, 15).
La paura non ci pare giustificata. La missione ha ancora al centro Gesù: liberazione, inculturazione e dialogo sono perfettamente coerenti con l’annuncio di Cristo salvatore. Il problema vero è un altro:
Gesù-vita si trasmette solo con la vita.
Le religioni offrono dottrine, regole morali, riti di purificazione e vie per entrare in contatto con la divinità. Il confronto è aperto e nulla esclude che il cristianesimo, nelle sue realizzazioni storiche, riceva forme religiose autentiche da altre tradizioni. Ma la fede cristiana offre la vita eterna, cioè vita senza limiti e piena che risponde, oggi, alle urgenze dell’umanità: l’umanità che muore in quelli a cui la vita è rubata con violenza, e muore «dentro» negli altri ancora di più. La vita eterna è nel figlio di Dio.
È la vita per tutti e la sua novità deve essere manifestata al mondo. Ecco la missione. Ecco il motivo per cui non bastano i mass media, pur potenti, a diffondere il vangelo. Esso passa da persona a persona, da famiglia a famiglia, da gruppo a gruppo, in una testimonianza concreta di vita nuova. I missionari (meglio, le piccole comunità missionarie) partono e tornano da una chiesa all’altra per uno scambio di doni, che non sono teorie o in vaghe visioni umanitarie, ma esperienze di vita.
Vivere in Cristo e camminare con lui: sono espressioni ricorrenti in Paolo e Giovanni. È solo così che egli può essere manifestato. Dovrebbero esserci ovunque comunità in cui, grazie all’amore per gli altri e alla capacità di perdono, i popoli possano vedere che Cristo è vivo, che è la vita.
All’inizio del XXI secolo, alla missione si impone la scelta di comunità (non di «altoparlanti») in cui la vita evangelica sia evidente. Nel «villaggio globale» la chiesa, più che una grande organizzazione, deve essere una comunione universale di comunità, diverse per lingua, cultura, condizioni storiche e magari anche per espressioni religiose, ma unite nella lode del Padre e aperte ad accogliere ogni sete di vita. Nell’unica vita del Crocifisso-Risorto.
Fesmi
(Federazione stampa
missionaria italiana)

FESMI




Presentazione speciale “sandali nel vento”

Da 20 secoli le strade del mondo risuonano sotto il passo dei messaggeri del Vangelo, da quando Cristo Gesù, primo missionario del Padre, ha comandato ai suoi apostoli di «andare ad evangelizzare tutte le nazioni» e di «essere testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, fino agli estremi confini della terra».
Erano 12. Hanno avviato una storia infinita, che ha visto poi la cooperazione di una schiera incalcolabile di uomini e donne che hanno preso sul serio il mandato del Maestro. Una storia ingigantita di secolo in secolo e mai interrotta, più vivace e ricca di eventi in alcuni periodi privilegiati, spesso con accenti di epopea commovente e drammatica. Essa si prolunga fino ai nostri giorni, con i numerosi martiri che ogni anno testimoniano col sangue la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Ma è una storia poco conosciuta e di cui i cattolici stessi sono ben lontani da misurare l’ampiezza.

«S andali nel vento», che presentiamo, offre una visione panoramica sui 20 secoli di evangelizzazione, insieme a una galleria di ritratti di alcuni grandi missionari che, in tutte le epoche, hanno scritto le pagine più belle degli annali della missione, vergate con sudore, lacrime e sangue.
Questo numero speciale di Missioni Consolata si inserisce perfettamente negli scopi e significati del grande Giubileo che stiamo celebrando, in cui tutte le Chiese particolari sono chiamate a fare memoria dei loro martiri. «Non sia dimenticata la loro testimonianza – ammonisce Giovanni Paolo II nella bolla d’indizione dell’evento ecclesiale -. La Chiesa in ogni parte della terra dovrà restare ancorata alla loro testimonianza e difendere gelosamente la loro memoria».
Sono certo che il lettore troverà in queste pagine uno stimolo per approfondire le radici della propria fede e, soprattutto, per varcare la soglia del terzo millennio con rinnovato ardore missionario. Anche questo rientra negli scopi del Giubileo del 2000, definito dal Santo Padre «un nuovo periodo di grazia e di missione», in cui tutta la Chiesa è chiamata a rafforzare la «coscienza del proprio mistero e del compito apostolico affidatole dal suo Signore» e a rinnovare «l’impegno missionario dinanzi alle odiee esigenze dell’evangelizzazione».

A nche se l’annuncio del Vangelo, sotto l’aspetto geografico, ha raggiunto gli estremi confini della terra, l’avventura della missione non è affatto finita. Anzi, siamo ancora agli inizi, come sottolinea il Sommo Pontefice nell’enciclica Redemptoris missio. Più della metà del genere umano attende ancora il dono della fede, con tutti i suoi tesori di dignità e frateità, di giustizia e amore.
La fede è un bene da condividere. Più è condivisa e più si rafforza. È una storia infinita, di cui il discepolo di Cristo è chiamato ad essere protagonista.
Non mi rimane, pertanto, che esprimere il voto che il Giubileo del 2000 rinnovi l’impegno missionario di tutti i credenti.

Città del Vaticano, 25 marzo 2000

Angelo Sodano




I balcani del Congo (RDC)

U na mano aveva scritto con un bastoncino carbonizzato: «Signore, mandaci subito papà Kabila! Altrimenti moriremo tutti!». Tale grido di aiuto in un paese in guerra compariva ad Isiro, nel nord della repubblica democratica del Congo (RDC), sul muro esterno della casa dei missionari della Consolata.
Sono le 7 del 18 aprile 2000. Un’ora dopo, la scritta viene cancellata dai soldati dell’Uganda, che occupano il territorio. Non sono i soli stranieri in Congo: a Kisangani e Bukavu spadroneggiano i rwandesi, cui si ascrivono persino atti di cannibalismo. Ugandesi e rwandesi, ieri alleati di Kabila per abbattere il famigerato Mobutu, oggi sono in guerra contro il nuovo presidente. E sono pure ai ferri corti fra loro.
Non mancano i «signori della guerra» locali: Ilunga, Wamba, Bemba… armati con i proventi dell’oro e dei diamanti. Oro e diamanti di cui fanno man bassa anche Uganda e Rwanda.
C’è lo stesso «papà» Kabila, sostenuto da Zimbabwe, Angola e Namibia che, tuttavia, non sono in Congo per «carità cristiana». E, infine, i ribelli congolesi appartenenti al movimento Mai-Mai. «Siamo pronti alla guerriglia su tutto il territorio, se divideranno il Congo come una torta» dichiarano. Nel frattempo non stanno con le mani in mano.
Il nuovo Congo nacque il 17 maggio 1998 sulle ceneri dello Zaire. Ma fra i nuovi padroni del ricco e vasto paese scoppiò subito la rissa, che ha portato all’attuale anarchia. O balcanizzazione del paese, mentre Stati Uniti e Francia stanno a guardare: gli uni strizzando l’occhio all’Uganda e l’altra ammiccando a Kabila.

P asqua nella missione di Pawa, a 60 chilometri da Isiro. Nella chiesa superaffollata, durante l’eucaristia un missionario domanda: «La guerra è peccato?». L’assemblea tace: forse il quesito l’ha colta alla sprovvista. Poi una voce mormora: «La guerra è peccato». «La guerra è peccato» ripete subito un altro. «La guerra è peccato» sentenzia alla fine tutta la folla in un crescendo drammatico.
«È la prima protesta pubblica contro questa guerra assurda – ci confida il missionario -. La gente finora l’ha esorcizzata con il silenzio».
Non lontano tre soldati ugandesi siedono all’ombra di un mango. Dopo alcuni convenevoli, accettano di parlare. «Noi non vogliamo la guerra. Il fucile uccide, uccide anche noi. Ma che possiamo fare contro i nostri capi?».

A eroporto di Fiumicino, 12 maggio. Dopo 28 giorni di assoluto digiuno giornalistico, acquistiamo un quotidiano per leggere in prima pagina: «Guerriglia degli ultrà laziali. Sconvolto il centro di Roma. Tifosi caricati dalla polizia con lacrimogeni: 12 feriti, di cui 10 agenti. Auto danneggiate e vetrine sfasciate».
Con noi c’è un congolese, che capisce l’italiano. «Povero Congo e povera Italia!» commenta.

Francesco Beardi




Il bacio della vergogna

Domenica, 19 marzo, nella chiesa di Sporminore (Trento). Celebra la messa padre Giacinto Franzoi. All’omilia il missionario della Consolata, nativo del paese, esordisce con il classico «cari fratelli». Le sue labbra abbozzano un sorriso: atteggiamento un po’ insolito sul volto tacituo di Giacinto. Però questa è la messa del «grazie», dell’«arrivederci», prima di ripartire per la Colombia.
Dopo il «cari fratelli», il sorriso scompare. «Ritoo in Colombia amareggiato – continua il missionario -. Ovviamente non ne siete voi la causa, né il mio ginocchio o il braccio… che fanno le bizze. Parto con l’amaro in bocca, perché d’ora in poi… i cioccolatini non mi piaceranno più!».
Padre Franzoi parla proprio di «gianduiotti», di «baci». Non saranno più come prima, a base di cacao. Lo ha decretato il Parlamento europeo, su proposta di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca.

Il 15 marzo la maggioranza del Parlamento europeo, dando il via ad un cioccolato diverso, ha anteposto gli interessi delle multinazionali a quelli dei paesi del sud del mondo, dei consumatori, degli ambientalisti. È passata la direttiva che, nella fabbricazione del cioccolato, consente l’impiego fino al 5% di grassi vegetali (olio di palma, cocco, karitè, mango, ecc.) in sostituzione del burro di cacao.
La decisione comporterà gravi conseguenze per i paesi che, sull’esportazione del cacao, fondano le loro economie: in particolare la Costa d’Avorio, primo produttore al mondo con circa 700 mila tonnellate all’anno, senza scordare Nigeria, Ghana, Camerun, ecc.
A Strasburgo è stato addirittura approvato l’uso di «sostanze geneticamente modificate» (OGM*). Dulcis in fundo (è il caso di dirlo trattandosi di cioccolato), le informazioni sui grassi vegetali e su quelli geneticamente modificati non appariranno in modo chiaro sull’etichetta del prodotto. I consumatori dovranno andare a leggersi la lista degli ingredienti: questa, oltre ad essere di difficile comprensione, è visibile solo con una lente d’ingrandimento.
«Ai miei contadini di Remolino – commenta padre Giacinto – spesso hanno rinfacciato la coltivazione di coca, che in 24 ore diventa cocaina. Si è loro detto: “Perché, invece di coca, non coltivate cacao?”. Alcuni l’hanno fatto, sia pure con difficoltà, giacché il cacao rende solo dopo tre anni: e, nel frattempo, bisogna vivere. Ma ora chi comprerà il loro cacao?».
In chiesa tutti fissano il compaesano. C’è chi annuisce. Altri, del problema sollevato, ricordano solo la protesta degli artigiani cioccolatai.
«Durante questa vacanza in Italia, in ospedale, ho sentito dire che i paesi poveri devono produrre di più, per esportare di più. I campesinos di Remolino potevano puntare su qualche tonnellata di cacao. E adesso?
In ambulatorio, mentre mi massaggiavano la gamba e il braccio, ho sentito parlare anche di condono del debito estero dei paesi poveri.
Cari fratelli, che dire se quello che ti danno con la destra te lo ritirano con la sinistra?».
Francesco Beardi

(*) Lo scorso 12 aprile il Parlamento europeo ha respinto quasi tutti gli emendamenti contro gli OGM…

Francesco Beardi




Destinazione Bucarest

Ion è un ragazzo rumeno che, a vent’anni, decide di raggiungere la sorella a Torino per trovare lavoro e contribuire al mantenimento dei genitori anziani e malati. Ion non delinque, non commette alcun reato. È, come tanti, un irregolare che lavora sodo: 12 ore al giorno con un contratto «part-time».
Accade che Ion presenti domanda di regolarizzazione e che debba attendere un intero anno (dal febbraio 1999 al febbraio 2000) per ricevere una risposta. Intanto, il datore di lavoro si stufa di attendere le lungaggini della burocrazia e non si presenta alla convocazione della «Direzione provinciale del lavoro», che deve effettuare gli accertamenti sulla consistenza patrimoniale della ditta.
Ion non si dà per vinto. Trova un altro datore di lavoro disposto ad assumerlo e si presenta allo sportello adibito alle procedure di regolarizzazione, per la firma del nuovo contratto. Ma la burocrazia non accetta variazioni del contratto di lavoro e, pertanto, la sua richiesta viene respinta. A causa di ciò, contro Ion torna ad essere valido un vecchio decreto di espulsione per irregolarità del soggiorno (dunque, per un illecito solo amministrativo) e il giovane rumeno, dovendo essere espulso, viene rinchiuso nel recinto del «Centro di permanenza temporanea» di Torino.
Il giorno successivo egli racconta al giudice la sua paradossale vicenda. Il magistrato si rende conto che forse Ion potrebbe utilmente ricorrere contro il rifiuto del permesso di soggiorno e, pur convalidando il trattenimento nel Centro, dispone di procrastinare l’esecuzione dell’espulsione in attesa della decisione sul ricorso.
Nonostante il provvedimento di rinvio, incredibilmente, il mattino successivo Ion viene imbarcato alla Malpensa: destinazione Bucarest. A seguito delle rimostranze del suo avvocato, mentre si sta dando esecuzione all’espulsione, arriva la rettifica del giudice. Purtroppo, opposta a quella sperata: sì, Ion può essere espulso!
Cosa abbia indotto il magistrato ad ingranare la retromarcia in meno di 24 ore non è dato sapere. Certo, è curiosa la coincidenza temporale tra la disapplicazione di un ordine del giudice e il repentino mutamento di opinione dello stesso!

Questa piccola storia è solo un esempio, fra tanti, di come la sorte della vita del cittadino straniero in Italia sia posta nelle mani delle forze dell’ordine senza che sia possibile alcun effettivo controllo da parte dell’autorità giudiziaria. La vicenda raccontata dimostra come il confine tra regolarità ed irregolarità sia assai labile: mentre è difficile diventare regolari da clandestini, può essere molto facile il percorso inverso. E l’espulsione potrà sempre essere un’alternativa, non voluta ma possibile, anche per gli extracomunitari «buoni», quelli che lavorano e non mettono a repentaglio la sicurezza dei nostri quartieri.
Per questo, la soglia di attenzione per l’effettività delle garanzie e dei diritti di tutti non deve scendere fino all’accettazione della separatezza, della mancanza di trasparenza, controllo e informazione, ove la discrezionalità può diventare arbitrio senza che nessuno se ne accorga, tranne chi lo subisce.
Guido Savio
Avvocato dell’«Associazione
studi giuridici sull’immigrazione», Torino

Guido Savio