PASTICCIO GROSSO A L’AVANA

Sono passati solo 5 anni, ma sembrano anni luce:
come regalo a Giovanni Paolo II per la sua
visita a Cuba (gennaio 1998) Fidel Castro
svuotò le carceri dei prigionieri politici. All’improvviso,
si sono ripopolate.
Nel 2002 l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy
Carter, in visita a Cuba, proclamò davanti all’Assemblea
e alla televisione che l’isola era strangolata
da 40 anni di ingiuste sanzioni, dal partito unico e
mancanza di libertà. Il lider maximo non si offese,
ma abbracciò l’ospite come se fosse il compagno Che
Guevara.
Un mese dopo, fu emendata la Costituzione: «Il sistema
socialista è irrevocabile».
Il 19 marzo scorso, mentre il primo missile americano
cadeva su Baghdad, la polizia segreta cubana cominciò
ad arrestare 80 dissidenti: giornalisti, intellettuali,
professori universitari, leaders di movimenti
di opposizione e di difesa dei diritti umani. Molti
di essi avevano appoggiato il «progetto Varela»: una
raccolta di firme per chiedere libertà di associazione,
parola, stampa, impresa ed elezioni multipartitiche.
Il Parlamento rigettò la petizione per vizio di forma;
molti promotori vennero imprigionati, processati a
porte chiuse e condannati a pene detentive oscillanti
tra i 15 e 27 anni; con l’accusa più banale: «Attentato
alla sovranità nazionale». Ossia, aver scritto e
detto cose contrarie al regime castrista.
Il 13 aprile furono fucilati tre giovani sprovveduti,
con l’accusa di «terrorismo»: avevano sequestrato un
traghetto e costretto l’equipaggio a fare rotta verso gli
Stati Uniti.
«Un balzo da gigante a ritroso – denuncia Amnesty
Inteational -. La pena capitale era congelata da tre
anni; processi sommari di massa non se ne vedevano
da 20».
Perché la sterzata del regime è avvenuta in concomitanza
con la discussione all’Onu sulla situazione
dei diritti umani a Cuba e la presentazione
all’Unione Europea della sua candidatura alla
convenzione di Cotonou (cooperazione tra EU a
78 paesi dell’Africa, Caraibi
e Pacifico)?
«È la sindrome dell’assedio
– spiegano i politologi -;
paura che Cuba diventi il
prossimo Iraq, con un’operazione
per un «cambio di regime» sullo stile di quella
che, nel 1989-90, rovesciò il dittatore panamense».
Le minacce non sono affatto velate. Dalla Florida, i
fuoriusciti cubani continuano negli attentati contro
l’economia e turismo dell’isola. L’incaricato degli affari
statunitensi a Cuba, James Cason, ha trasformato
il suo ufficio in un covo di dissidenti, spesso comprati
con regali vari, nell’intento dichiarato di scardinare
l’ordine costituito.
Anziché espellere l’incaricato come «persona non grata», Castro si è accanito contro gli oppositori che con
Cason non hanno nulla da spartire.
A chi giova questa strategia della tensione tra il dittatore
e l’impero americano? Non certo al popolo
cubano. Anzi, la reazione disperata del regime fa il
gioco dei falchi di Washington, che già accusano l’isola
di essere uno «stato terrorista e di preparare armi
di distruzione di massa».
Sarebbe ora che ognuno facesse un passo indietro.
È incomprensibile come il governo Usa,
mentre dialoga con Cina e Corea del Nord, continui
a considerare Cuba un pericolo per la sicurezza
americana. Ancora più incomprensibile è come si possa
punire un popolo con un embargo che dura da oltre
40 anni e condannato dall’Onu come «immorale» per 10 volte consecutive.
A 76 anni di età e 44 di dittatura, dopo aver tenuto
testa a 10 presidenti statunitensi, anche per Fidel è
giunta l’ora di pensare al «dopo Castro», mettendo
nel cassetto l’ideologia e cominciando a dialogare con
il suo popolo e a rispondere alle sue aspettative.
È pure il tema del messaggio che il papa, il 13 aprile
scorso, ha inviato al lider maximo. Oltre a esprimere
il suo «profondo dolore» per le pesanti pene e le
esecuzioni contro i cittadini cubani, il pontefice dice
al dittatore: «Sono certo che anche lei condivide con
me la convinzione che soltanto il confronto sincero e
costruttivo tra cittadini e autorità civili può garantire
la promozione di uno stato moderno e democratico,
in una Cuba sempre più unita e fratea».
È pure la convinzione nostra e del popolo cubano, che
attende una «nuova primavera
», da fare sbocciare pacificamente
e non imposta
da stranieri.

BENEDETTO BELLESI




VACCHE VOLANTII

La fame non fa più notizia, neppure quando raggiunge
proporzioni catastrofiche: 13 milioni di
persone sono colpite dalla carestia in sei paesi
dell’Africa Australe (Mozambico, Zimbabwe, Malawi,
Zambia, Lesotho e Swaziland); altri 6 milioni
rischiano di morire di fame in Etiopia, una calamità
più devastante che negli anni ’80 e ’90.
Al di là delle emergenze, 40 mila persone muoiono
ogni giorno per fame o malnutrizione.
Ma non se ne parla: quello della fame è diventato un
problema imbarazzante e scandaloso.
Il «Piano d’azione», varato da 180 paesi al World
Food Summit di Roma nel 1996, si prefiggeva di dimezzare
la popolazione affamata nel mondo entro il
2015. L’ultimo rapporto della Fao, Situazione dell’insicurezza
alimentare nel mondo 2002, ammette
che gli affamati sono diminuiti appena di 2,5 milioni
l’anno, invece dei 24 milioni programmati.
Eppure, a detta degli esperti, la soluzione tecnica
per sfamare tutti esiste, se si volesse. A parole,
tutti lo vogliono; ma le soluzioni pratiche
vengono spesso contestate e rifiutate. E non è l’unica
contraddizione, a cominciare dalle cifre.
I numeri della fame sono molto discussi: secondo il
rapporto della Fao a soffrie sarebbero 840 milioni.
A questi bisogna aggiungere altri 300 milioni di malnutriti.
Per altre organizzazioni le statistiche sarebbero
molto più elevate.
L’assurdo, poi, è che l’85% degli affamati nel mondo
vivono nelle campagne, dove si produce il cibo.
Cause della fame non sono solo siccità e calamità naturali,
ma anche meccanismi perversi: guerre e instabilità
politica, corruzione e inettitudine di governi
locali, Aids e altre epidemie, maneggi di multinazionali
e finanziari, disuguaglianze e ingiustizie
sociali… Base di tutto, però, è la povertà: il cibo c’è,
specialmente nei paesi sviluppati, ma la gente non ha
soldi per comprarlo.
Per salvare dalla fame i sei stati dell’Africa Australe,
il «Programma
alimentare
mondiale» dell’Onu
ha inviato migliaia di
tonnellate di cereali,
metà dei quali proveniente
dagli Stati Uniti,
in gran parte modificati
geneticamente. Inizialmente
vari governi hanno rifiutato l’aiuto: «Meglio
morire di fame che avvelenati» diceva il presidente
dello Zambia. Ma poi hanno accettato il «dono».
Oltre che dal rischio per la salute, tale rifiuto è motivato
da ragioni economiche: se i semi geneticamente
modificati venissero seminati, potrebbero contaminare
altri prodotti agricoli da esportazione, che verrebbero
rifiutati dai mercati europei, dove i cibi transgenici
sono banditi.
Ma le conseguenze più disastrose per le economie agricole
dei paesi in via di sviluppo (pvs) vengono dalle
eccedenze alimentari dei paesi ricchi. Grazie ai forti
sussidi governativi agli agricoltori e allevatori europei
e americani, cereali, latte, zucchero… vengono
immessi nei mercati dei pvs a un prezzo inferiore al
costo di produzione, facendo concorrenza ai produttori
locali. Al contrario, i prodotti agricoli dei psv sono
soggetti alle restrizioni doganali dei paesi ricchi.
E tutto in barba ai dogmi della globalizzazione, concorrenza,
libero mercato…
«Igoverni europei potrebbero mandare, ogni
anno, 21 milioni di mucche da latte in un
viaggio attorno al mondo, con scali nelle più
grandi città» sottolinea un volantino della Cafod,
Ong cattolica inglese, promotrice della campagna
Flying cows (vacche volanti) per invocare regole commerciali
uguali per tutti. Una mucca europea, infatti,
riceve in media un sussidio di 2,20 euro al giorno:
cifra che costituisce il reddito medio di metà della
popolazione mondiale, quasi 3 miliardi di persone.
La somma che l’Africa perde a causa delle regole
commerciali ingiuste è maggiore di quella richiesta
per cancellare il suo debito estero.
«Causa della fame è la povertà – afferma Civiltà Cattolica,
nov. 2002, n. 3658 -. L’unica soluzione sembra
essere quella di mettere gli affamati in condizione
di produrre il cibo per sopravvivere… I paesi ricchi,
più che trasferire o “donare” le proprie eccedenze,
con effetti disastrosi per l’agricoltura dei paesi poveri,
dovrebbero piuttosto smantellare i sussidi alla propria
agricoltura e favorire
il buon governo dei paesi
poveri, in modo da aiutarli
a combattere la povertà».
Non bastano le scelte economiche;
bisogna fare
scelte etiche.

BENEDETTO BELLESI




TRE DOMANDE

1. Quante delle cose che fa la chiesa oggi nel mondo
(dal papa ai vescovi, parrocchie, istituti missionari,
associazioni di laici, ecc.) sono «comunicazione
del vangelo»? Quante di esse non sarebbero
fatte da ogni buona religione o ente
umanitario? Esigenza di riscoprire l’essenziale, di
tornare al nocciolo della questione. «Marta, Marta,
tu ti affanni per troppe cose! Di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte buona e nessuno gliela
porterà via» (Lc 10,41-42). Le nostre riviste «missionarie» sono comunicazioni di vangelo? Come?
2. Il problema principale della comunicazione
del vangelo è dato dal fatto che esso è legato
alla nostra vita. Teologicamente la cosa ha uno
spessore molto più grande
di un banale invito alla
coerenza: noi siamo il
Cristo risorto! Certo,
non solo noi, ma il «corpo
esteso» del risorto è la
chiesa nel mondo, dalla
«prima domenica» alla
fine della storia («Ecco,
io sono con voi tutti i
giorni fino alla fine…»
Mt 28). La resurrezione
di Gesù va mostrata,
non dimostrata. Quindi
non c’è che una strada:
la conversione, la costante riforma della chiesa, il
tornare ad essere comunità cristiane.
Oggi il più grande problema missionario è una
chiesa che non intende convertirsi al vangelo. Ogni
discorso missionario – anche sulle nostre riviste – non
può che essere un discorso di radicalismo evangelico
(per esempio, sulla nonviolenza, ma anche sulla
povertà, lavarsi i piedi gli uni gli altri, perdono dei
nemici, sull’indissolubilità del matrimonio…).
Queste due domande potrebbero far nascere il sospetto
di un certo fondamentalismo (nec nominetur
in nobis!), se non fossero accompagnate da una
terza domanda, la più profonda e la più disattesa.
3. Continuiamo a concepire l’incarnazione, e
quindi la missione, come la venuta di Dio nel
mondo, per cambiare il mondo («il Verbo si è
fatto carne» Gv 1,14; «Dio ha tanto amato il mondo
da mandare il suo figlio unigenito… perché il
mondo si salvi per mezzo di lui» Gv 3,16.17; «Dio
ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo, perché
avessimo la vita per mezzo di lui» 1 Gv 4,9).
Questa è la teologia giovannea, che esprime senza
dubbio una realtà fondamentale della nostra fede.
Ma l’abbiamo un po’ assolutizzata. In qualche
modo confondiamo la preesistenza del Verbo con la
preesistenza di Gesù Signore.
La prospettiva dei sinottici e specialmente di Paolo
è diversa: è quella di un Dio che prende un uomo
concreto, storico, Gesù di Nazaret, e lo assume all’interno
della Trinità. Un Dio che prende un volto
umano. Abbiamo mai pensato che, con l’incarnazione,
l’uomo Gesù è entrato in Dio e ha cambiato
il volto di Dio? Dio si è reso permeabile a tutto ciò
che passa nella storia
umana e nel cosmo.
È una riflessione, questa,
che cambia tutta la
rigidità dell’istituzione
ecclesiastica: la chiesa
non preesiste all’assunzione
della realtà
umana nel suo divenire.
La chiesa si forma come
un bambino nel seno
della madre e il sangue
che gli porta
nutrimento è ciò che
succede nel mondo.
Certo l’essere è già prefigurato, ha un codice (il codice
è Cristo, è il vangelo), ma non sappiamo ancora
quello che sarà. Della chiesa non abbiamo scoperto
che un lembo: sappiamo ciò che è stata, non
ciò che sarà.
Le riviste missionarie sono un po’ quel cordone
ombelicale che portano sangue all’«embrionechiesa
»: esse non devono avere solo la prospettiva
del «portare la chiesa al mondo», ma anche quella
di «portare il mondo alla chiesa».
Portare il mondo alla chiesa significa in concreto valorizzare
tutto ciò che è salvabile nel mondo d’oggi,
anche in un mondo così dissacrato e dissacrante, ateo
e disumano. Le riviste missionarie sono riviste di denuncia,
ma anche di annuncio di tutto ciò che di buono
il mondo d’oggi presenta; a servizio di un dialogo
esistenziale difficile, pluriforme, spesso rifiutato, ma
essenziale al divenire della chiesa-regno di Dio.

Francesco Grasselli




I CONFINI DEL BENE E DEL MALE

«Dio non si rivela più, sembra nascondersi nel suo
cielo, in silenzio, quasi disgustato dalle azioni dell’umanità».
Così, dicono le cronache, il pontefice si è rivolto
ai fedeli durante un’udienza collettiva di catechesi,
lo scorso 11 dicembre. Parole di fuoco, così aspre non
erano mai state dette. Un’immagine di Dio più corrucciata
non era mai stata proposta da un vicario di Cristo.
Credo che sia uno dei segnali della estrema gravità della
situazione di questa umanità contemporanea, e di questo
pianeta.
Undici anni sono trascorsi dalla fine di quello che venne
definito – da Ronald Reagan – l’«Impero del Male».
Invasione di campo, poiché non spetta a un uomo politico,
nemmeno se è presidente dell’unica superpotenza
mondiale, definire i confini del Bene e del Male.
Deformazione inusitata della politica, che non poteva che
produrre effetti devastanti, sia sulla politica che sulla morale.
Poiché stabilire in sede politica ciò che è il Male
Assoluto, significa parallelamente, implicitamente, assegnare
alla politica il diritto di stabilire che cosa è il Bene.
Da 11 anni, dunque, noi tutti, noi ricchi, noi sazi, abbiamo
vissuto in quello che è divenuto, per definizione,
il Bene. E adesso scopriamo, con stupore, con angoscia,
che questo Bene non ha molto a che vedere né con l’etica,
né con la spiritualità, né con la giustizia. Un altro
materialismo ha occupato prepotentemente il posto dell’ateismo
di Stato che sembrava ergersi come una minaccia
universale. E questo appare oggi più minaccioso
del predecessore, poiché è più insidioso, pervasivo, onnipresente,
subdolo, perfino – a tratti – caritatevole. La vita,
specie quella dei nostri figli, è ormai riempita di disvalori,
di vuoto intellettuale, di egoismo, di una insensata
corsa a procurarsi oggetti di cui nemmeno abbiamo
bisogno.
Siamo divenuti tutti homines videntes, coloro che vedono,
coloro che apprendono, quel poco che apprendono,
attraverso la televisione. E la televisione è divenuta il
nostro cattivo maestro. Cattivo ma così potente da avere
scardinato i caposaldi della nostra vita e di quella delle generazioni
che ci hanno preceduto. Famiglia, scuola, società
civile: luoghi dove ci si guardava negli occhi, luoghi
del confronto diretto tra i visi reali, dove si poteva cercare
di capirsi, sono stati travolti dall’ondata catodica.
Coloro che creano i flussi di sentimenti, di emozioni,
d’informazioni, non hanno altri criteri di regolazione che
il risultato finale di una infinita crescita della vendita di
quei prodotti che avvelenano la nostra vita quotidiana e
la nostra anima. Aspettarsi da loro un qualsiasi messaggio
di verità, giustizia, pace è cosa del tutto vana, poiché
l’ondata catodica non è di queste cose che si occupa. Ma
loro sono divenuti determinanti nello stabilire qual è la
nostra agenda quotidiana.
Io non so se si possa dire che Dio è adirato. E con chi
è adirato. Ma non si può restare indifferenti di fronte a
tanto disastro morale, di fronte all’indifferenza, di fronte
alla distrazione collettiva nella quale siamo trascinati e
che ci porta a dimenticare e stravolgere non solo il passato
ma perfino il presente.
Non so neppure se sia giusto incolpare la gente comune
di questa apatia e indifferenza, poiché la gente comune
– l’«uomo della strada», come lo si definisce comunemente
– non può più sapere in quale mondo vive, che
cosa sta accadendo attorno a noi e perché accade. Non
può saperlo perché il sistema di informazione-comunicazione-
intrattenimento che ci circonda, nel quale noi
siamo immersi senza soluzione di continuità, anche coloro
che pensano, spegnendo la televisione, di sottrarsene,
ci avvolge proiettandoci in un mondo irreale, il prodotto
di una «fabbrica dei sogni», che ci nasconde le verità
più elementari e ci impedisce di trarre perfino le più
elementari conclusioni che conceono la nostra vita
quotidiana.
In queste condizioni è la democrazia stessa a essere minacciata,
poiché non può aversi società democratica là dove
i cittadini non conoscono le scelte possibili, e vengono
quindi condotti, anzi trascinati, a scegliere dentro un
mazzo di carte mescolato da bari, che hanno tolto dal mazzo,
preventivamente, le scelte che loro non piacciono.
Il papa ha parlato, angosciato, evidentemente. Ma le sue
parole sono annegate nel gran mare di chiacchiere, nell’indifferenza
generale. Subito dimenticate, subito cancellate
da quel frenetico voltar di pagina che contraddistingue
tutto il lavorio mediatico del villaggio globale.

GIULIETTO CHIESA




TOCCA A LULA!!

Dal 1° gennaio il Brasile ha un nuovo presidente:
Luis Inácio da Silva, soprannominato
Lula, vincitore delle elezioni presidenziali
tenute lo scorso ottobre, candidato del
Partido dos trabalhadores (Pt). Il 39° presidente
della Repubblica brasiliana proviene dalla classe
dei poveri e degli emarginati: è la prima volta
nella storia del paese.
Dopo tre tentativi andati a vuoto (nel 1990,
1994 e 1998), Lula sembrava deciso a gettare la
spugna, come confessò in un’intervista rilasciata
alla nostra rivista nel 1999 (cfr. M.C. dicembre
’99). Ci ha riprovato e i brasiliani ne hanno premiato
carisma e caparbietà; soprattutto, hanno
dato credito al programma condensato nel motto
elettorale: «Per un Brasile decente».
Contro la più grande concentrazione al mondo
di latifondi, Lula ha promesso la riforma agraria a
favore di centinaia di migliaia di famiglie «senza
terra»; a oltre 34 milioni di persone che vivono
con meno di un dollaro al giorno ha dichiarato
«zero fame»; ad altri milioni al di sotto della soglia
della povertà ha assicurato una più equa distribuzione
delle ricchezze; di fronte al dilagare della criminalità
organizzata e di quella spicciola ha promesso
di garantire la sicurezza di tutta la popolazione;
di fronte a un’economia alla deriva ha
dichiarato guerra alla corruzione.
Per garantirsi il sostegno delle classi medie e
medio-alte e per non allarmare i «poteri forti»,
Lula ha fatto capriole ideologiche: ha moderato la
sua abituale retorica contro il capitalismo, Stati
Uniti e istituti finanziari inteazionali, ha abbracciato
vari principi dell’economia di mercato,
ha abbandonato l’intenzione di rifiutare il pagamento
del debito estero e di rompere i rapporti col
Fondo monetario. Idee che hanno causato travasi
di bile ai più radicali leaders del suo partito.
«Più che povero, il Brasile è un paese ingiusto»
ha affermato il suo ex rivale F. H. Cardoso. Forse
per questo anche i «poteri forti» gli hanno dato
credito, convinti che prendersi cura dei poveri,
combattere l’analfabetismo, riformare la distribuzione
della terra e delle pensioni, non mettono a
rischio i loro interessi. Anzi.
I l 1° gennaio in tutto il mondo si celebra la
Giornata mondiale della pace: sia di buon auspicio
anche per Lula e il popolo brasiliano.
Nel messaggio per tale occasione, Giovanni
Paolo II ripropone i valori dell’enciclica Pacem in
terris, pubblicata 40 anni fa da Giovanni XXIII e
indirizzata a «tutti gli uomini di buona volontà»,
per costruire un’autentica convivenza umana.
Anche Lula appartiene a questa categoria e tali
valori, come «bene comune, diritti umani fondamentali,
verità, giustizia, carità, libertà», fanno
parte del suo programma di governo.
Fare in modo che, come diceva Giovanni XXIII,
non rimangano «solo un suono di voce», non è facile
neppure in Brasile. Cinque secoli di squilibri e
ingiustizie non si risolvono con un decreto presidenziale.
Lula lo sa.
I pericoli ci sono, dentro e fuori: c’è il conflitto
tra la cruda realtà e le aspettative della gente;
ci sono le resistenze del mondo finanziario e
imprenditoriale. Lo «zio Tom» gli ha fatto tanti
auguri, ma lo aspetta al varco, pronto a stringere i
cordoni finanziari.
Egli sa pure che la sua elezione è un’occasione
storica per il suo paese e tutta l’America Latina, da
oltre 20 anni laboratorio mondiale del liberalismo
più selvaggio. Il Brasile potrebbe diventare il laboratorio
per un mercato dal
volto umano e uno sviluppo
sostenibile.
Sempre che Lula
riesca a mantenere
le promesse.
«Ce la faremo
» ha detto il
neopresidente il
giorno della vittoria.
Glielo auguriamo
di cuore,
per il bene dei brasiliani
e di tutti i latinoamericani!

BENEDETTO BELLESI




La ragazza del treno

«Si ricorda di me?» esordisce lei con un sorriso incerto. Padre Marco ricambia il sorriso, ma l’interlocutrice gli è sconosciuta. «Io sono la ragazza del treno – continua l’interessata -, che le ha chiesto se una prostituta può…». Ora Marco ricorda perfettamente.

Anni fa, sull’interregionale Torino-Milano, una donna dall’aspetto giovanile gli domandò a bruciapelo: «Può una prostituta diventare missionaria?». Era italiana: e, notando la crocetta bianca sul maglione blu del sacerdote, si era staccata da alcune «colleghe» straniere per rivolgergli quell’insolito quesito.

– Anch’io sono missionario – rispose padre Marco dopo un istante di esitazione.

– Ma immagino che lei non abbia battuto i marciapiedi. Io, invece, lo faccio da tempo.
– Quanti anni hai?
– Diciassette.
– Tutto è possibile a questa età.
Eccola ora suora. «Padre Marco, non è stato facile per me, prostituta, mutare vita. Per prima cosa, son dovuta uscire dal giro».
– Come hai fatto?
– Fuggendo, nascondendomi come una ladra. Non avevo casa. Finché una sera ho bussato ad un istituto di suore missionarie.
Padre Marco ha il cuore in gola mentre ascolta questa storia. La religiosa parla sottovoce, a raffica, senza pause: sembra posseduta da un’incalzante forza misteriosa, che la obbliga a raccontare.
Alla superiora dell’istituto (straordinariamente comprensiva) svelò tutto: anche sua madre faceva il mestiere (oggi ha smesso, data l’età); il padre era «protettore», mentre lei, sua figlia, non lo vide mai. Aveva una sorella: anch’essa sulla strada. «È morta a 22 anni, in seguito ad “una malattia peggiore del cancro”. Lo ha detto il medico…».

La suora continua a raccontare: gli occhi bassi e le dita delle mani incrociate, quasi per una supplica. «In convento la cosa più difficile da superare sono state le mie parolacce… Però volevo non solo cambiare vita, ma anche spenderla per i poveri, come penitenza, in nome di Cristo».

– E lo stai facendo – commenta padre Marco.

– Mah! Non ne sono certa…
In convento discute anche sull’ingiusto rapporto fra Nord e Sud del mondo. Ricorda, soprattutto, le guerre dimenticate «tra» e «contro» i poveri, che non scoppiano per caso. Terrorismi, crisi economiche, inquinamento dell’ambiente… affliggono anche il primo mondo. «Come se ciò non bastasse, c’è qualcuno che, a tutti i costi (e sono enormi), vuole fare la guerra: una guerra per nulla “intelligente”…».

In vista della missione, consegue il diploma di infermiera professionale: è caposala. Viene destinata all’Africa. Per natale dovrebbe già essere in…

– Ce l’hai proprio fatta – interrompe padre Marco!

– No! Perché ieri ho scoperto di essere sieropositiva. Dio perdona tutto. La natura no!

Scoppia a piangere. Ed è lì con una domanda straziante: cosa può fare una suora, ex prostituta, oggi sieropositiva?

– Dovresti dirlo alla tua superiora?

– Se lo dico, non parto più.

– Ammalata, in missione saresti più di peso che di aiuto.

La suora si avvia verso l’uscita mormorando: «Padre Marco, ho sperato che lei, come quel giorno in treno, mi potesse dire… In Africa i malati di Aids sono milioni. Si curano come possono, cioè miseramente. E perché non posso farlo anch’io? Intanto sono con loro: forse con un briciolo di fede in più. Se dovrò morire, morirò come loro…».

Padre Marco l’abbraccia e sussurra: «Buon viaggio, suor Manuela. E buon natale».

Francesco Beardi




La «charta magna» delle BEATITUDINI

T orino, santuario della Consolata. La
coice è quella delle occasioni solenni.
Il tempio risplende di cascate di luci,
che si rinfrangono sui marmi multicolori e
preziosi. L’altare maggiore è ammantato di
gigli dall’intenso e inconfondibile profumo. È
il 19 maggio 2002, solennità di Pentecoste…
con l’apostolo Pietro, gli altri apostoli, la madre
di Gesù e alcune donne che annunciano
la discesa dello Spirito Santo.
Pietro e compagni sbalordiscono gli ascoltatori,
non solo per il contenuto del loro messaggio,
ma anche perché parlano in aramaico,
mentre l’uditorio è composto da «parti, medi, elamiti»… piemontesi e siciliani, cinesi e
tibetani, russi e ceceni, palestinesi e israeliani,
americani, indiani, australiani…
E tutti capiscono…
Nel santuario torinese pregano il cardinale
Crescenzio Sepe (massimo responsabile dell’evangelizzazione
dei popoli), il vescovo
Mino Lanzetti (che rappresenta l’arcivescovo
Severino Poletto), i superiori dei missionari e
delle missionarie della Consolata. Ma gli occhi
dei numerosi fedeli sono puntati sui padri
Paolo Fedrigoni e Giorgio Marengo, le suore
Lucia Bartolomasi e Maria Inés: sono «della
Consolata», stanno per ricevere il crocifisso
e partire per la Mongolia.
S antuario della Consolata, maggio
1902. Il cardinale Agostino Richelmi
consegna il crocifisso ai primi quattro
missionari della Consolata in partenza per il
Kenya. Sono «figli» di Giuseppe Allamano,
rettore del tempio, oggi «beato»; appartengono
all’Istituto Missioni Consolata, che
l’Allamano ha fondato dopo aver miracolosamente
superato una gravissima malattia. E
raggiungono ii kikuyu del Kenya.
Sull’allora carta geografica del paese africano
compare anche «hic sunt leones» (questa
è terra di leoni). I leoni ci sono, eccome! Ma
il Kenya è abitato soprattutto da uomini e
donne: r meru, samburu, turkana, borana, rendille, el molo, luo…
I missionari della Consolata li incontreranno
tutti per annunciare le beatitudini di Dio.
Questo «numero speciale»
KENYA, AMORE NOSTRO
insegue una (stra)ordinaria missione.

Dunque 100 anni sono trascorsi dalla
prima partenza dei missionari per il Kenya. «Dal 1902 ad oggi ogni missionario
della Consolata – afferma il cardinale
Sepe – parte idealmente da questo santuario;
parte con l’intento di vivere la missione ad
gentes con le caratteristiche suggerite dal titolo
“Consolata”, consegnato dal fondatore
Giuseppe Allamano come principio ispiratore
dell’attività: “elevare” la condizione delle
persone attraverso l’annuncio del vangelo, la
promozione umana, la difesa dei diritti umani,
la lotta contro le ingiustizie; incontrare la
gente e stare con essa, specialmente con chi è
emarginato, solo, triste, sfruttato; preoccuparsi
delle sue necessità e mirare al bene integrale
delle persone».
Al presente i missionari e le missionarie della
Consolata sono circa 2 mila, presenti in 25
nazioni: in Africa, nelle Americhe, in Asia, in
Europa. E oggi puntano verso le sterminate
steppe del mitico Gengis Khan, con una piccola
squadra multiculturale (vi sono pure una
colombiana e un argentino). È «una partenza
insieme»: non a caso per l’Asia, dove vive e
soffre la stragrande maggioranza dei non cristiani.
«La Pentecoste continua oggi – prosegue il
cardinale -. La consegna del crocifisso a questi
missionari ci ricorda che il dovere di annunciare
il vangelo in ogni parte del mondo è
di tutti i battezzati. “Non possiamo starcene
tranquilli – afferma pure Giovanni Paolo II –
di fronte a milioni di fratelli e sorelle, anch’essi
redenti dal sangue di Cristo, che vivono
ignari dell’amore di Dio. Per il singolo credente,
come per l’intera chiesa, la causa missionaria
deve essere la prima, perché riguarda
il destino eterno degli uomini e risponde
al disegno misterioso e misericordioso di
Dio” (Redemptoris missio, 86)».
È«lo zoccolo duro» o «la natura» della
chiesa cattolica, che è tale (cioè universale)
solo se missionaria. Lo ribadì con
forza il Concilio ecumenico Vaticano II, che 40
anni fa (l’11 ottobre 1962) aprì i battenti per
celebrare l’evento ecclesiale più significativo
del secolo.
Un evento attualissimo, per rilanciare la pace
e la giustizia, il dialogo interculturale, la libertà
religiosa, senza tuttavia demordere dall’annunciare
Gesù Cristo.
Ma la missione non è un andare a senso unico:
è «andata e ritorno». Così, Joseph Gitonga,
Reuben Kanake e James Lengarin (rispettivamente kikuyu , meru e samburu) sono missionari
della Consolata in Italia.
Cent’anni fa i «nostri» partivano
per il Kenya. Oggi si
assiste al processo inverso.
Questo perché la
«casa», in Africa o in
Europa, è di tutti. Con
la certezza che invano
si affaticano i loro costruttori,
se non lo fanno
secondo le «beatitudini»
del vangelo.
La «charta magna» di
tutti i cristiani.

FRANCESCO BERNARDI




KENYA, AMORE NOSTRO

Voci speciali del coro

Missionari alla ribalta
Ecioè: padre Giuseppe Richetti,
ricco di molti doni; suor Prisca
Groppo, «la grande sorella medico»;
padre Franco Soldati, divenuto africano
come pochi; i padri Peter Njoroge
e Joseph Otieno, kenyani, oggi missionari
in Corea del Sud; padre Franco Cellana
con i ragazzi di strada a Nairobi….

LA RICCHEZZA
DI MOLTI DONI

Padre Giuseppe Richetti (1933-1993)
I giovani e i pellegrini che in quest’anno
centenario del nostro arrivo
in Kenya hanno visitato la
«culla» delle missioni della Consolata,
a Tuthu, avranno certamente sostato
presso un tempietto, isolato
nella radura: è il luogo esatto dove, il
29 giugno 1902, fu celebrata la prima
messa in territorio kikuyu. Quel
monumento, modesto e prezioso ad
un tempo, fu progettato e realizzato
da padre Giuseppe Richetti. Tra le
molteplici attività della sua vita missionaria,
era anche attento alle piccole
cose, ai «segni» capaci di suscitare
emozioni e interrogativi.
Ricordandolo oggi, a quasi 10 anni
dalla sua scomparsa improvvisa,
l’immagine che di lui è rimasta più
impressa è quella di un uomo «tuttofare
», dall’instancabile e variegata
attività. Per lui, essere missionario significava
affrontare la realtà con generosa
dedizione e sguardo intelligente,
per rispondere ai bisogni, prevenire
le attese, inventare soluzioni.
Se la parola non fosse un po’ abusata,
si potrebbe dire che fu «un profeta
»: non arrabbiato o scostante, ma
buono, sensibile e… furbo!
L’Africa l’aveva nel sangue e, prima
di raggiungerla, dopo l’ordinazione
sacerdotale, aveva dovuto aspettare
«impazientemente» oltre 10
anni in Italia e Spagna. Le idee sulla
missione le aveva chiare, anche perché
aveva operato una scelta convinta,
lasciando il seminario diocesano
di Modena per entrare tra i missionari
della Consolata.
Ma i superiori volevano prima approfittare
delle molteplici doti di un
giovane prete, pieno di entusiasmo e
voglia di fare, brillante nell’insegnamento,
trascinatore nell’animazione
missionaria, capace di maneggiare
senza problemi soldi e bilanci. Anche
se lui, il chiodo lo ribatteva continuamente,
insistendo con richieste
accorate per la partenza, convinto
che se questa fosse stata ancora dilazionata,
avrebbe inferto «un colpo
mortale al suo entusiasmo missionario».
Finalmente, nel 1968, poteva raggiungere
il Kenya, convinto che quello
sarebbe stato il luogo definitivo
dei suoi giorni, che nessuno gli avrebbe
mai strappato via; nemmeno
i superiori che, dopo aver tentato di
proporgli un’eventuale destinazione,
come economo negli Stati Uniti, si
sentirono rispondere: «Non mi sento
più di lasciare questa vita per intraprendere
un lavoro in gran parte
sconosciuto e che, nel poco che conosco, mi ripugna profondamente…
Mi permetto di chiedere di non darmi
un’obbedienza che mi richiederebbe
una violenza che non sono in
grado di farmi!».
Ci riuscirono in realtà, qualche anno
dopo, a farlo ritornare in Spagna
come maestro dei novizi. Ma fu solo
una parentesi di nemmeno due anni.
In Kenya iniziò nella missione di
Tompson’s Falls e poi a Kerugoya.
Qui, pur sommerso da intense attività
pastorali, riuscì a costruire, con
l’aiuto dei fratelli coadiutori, un’artistica
chiesa parrocchiale (la prima di
una lunga serie), funzionale e ammirata
da tutti. Insieme ad un’équipe affiatatissima,
fu richiesto per due anni
a Nyeri, per organizzare il «Centro
pastorale».
Nonostante fosse impegnato al
massimo nel campo pastorale (e anche…
murario), non trascurava quello
che era uno dei suoi risvolti più caratteristici:
l’attenzione amorosa ai
poveri. Rimaneva profondamente
colpito dalle situazioni di indigenza
e, nello stesso tempo, della sua impotenza
di fronte all’enormità dei
problemi.
Scriveva agli amici, nel natale del
1992: «L’esperienza più forte è quella
della povertà, nei suoi aspetti elementari
(mancanza di cibo-medicine-
vestiti) e in quelli più complessi:
bambini che non vanno a scuola, genitori
che non si curano dei figli, disoccupazione
giovanile, corruzione…
Davanti a tali situazioni, spesso mi
prende un senso di impotenza. Tanto
più che, mentre tradizionalmente
la frateità del clan assicurava protezione
a tutti e a ciascuno, oggi le esigenze
della sopravvivenza acuiscono
(ahimè) l’individualismo… “I poveri
li avete sempre con voi e potete
aiutarli quando volete”. Ma li teniamo
veramente sempre con noi, in
mezzo a noi? Oppure, sono sempre
più emarginati e dimenticati? Cosa
vuol dire aiutarli? Si fa presto a dire:
“Insegnate a pescare, invece di dare
un pesce!”. Non bisogna dimenticare
che per pescare, oltre all’amo, occorrono
i pesci e l’acqua!». Sono rimaste
famose due sue iniziative, per
venire incontro ai bisogni: il «revolving
fund», microcrediti concessi alla
gente e che, una volta restituiti, venivano
nuovamente «investiti» per
altri; e il mulino mobile, trasportato
di villaggio in villaggio, secondo le
necessità di coltivatori e contadini.
Venne anche nominato amministratore
della missione del Sagana: una
realtà complessa e variegata per la
presenza di molteplici attività: noviziato,
casa di ritiri, parrocchia, dispensario,
villaggio per donne anziane,
scuole professionali… Riuscì, come
sempre, a tenere testa a tutto con
vivacità, saggezza e creatività.
Un tocco tutto personale lo diede
all’ideazione della cappella rotonda
della Bethany House, così da lui sognata:
«I fedeli siedono su di un’unica
panca circolare, che corre tutta intorno
all’edificio; lo scranno più alto
è riservato al celebrante: simbolo della
comunità, stretta attorno al suo pastore.
L’altare, al centro, costruito su
una roccia che balza dal pavimento,
richiama il Calvario; l’ambone è la
tomba vuota, rappresentazione plastica
del mistero che qui si celebra:
calpestando la tomba, simbolo di
morte, proclamiamo la risurrezione».
Tra le numerose iniziative, rimise
in attività la tipografia, sfoando a
pieno ritmo sussidi di ogni tipo per
la formazione di catechisti, animatori
di gruppi giovanili, leaders di comunità
di base, missionari. Suo chiodo
fisso era il catecumenato degli adulti
(non molto presente in Kenya,
nonostante la riforma del Concilio ecumenico):
si impegnò perché fosse
serio, duraturo, impostato come vero
cammino di iniziazione cristiana,
quale era appunto nella chiesa dei
primi tempi.
L’aspetto che più colpiva in padre
Giuseppe, fragile all’apparenza, erano
le mille idee che erogava, instancabile
nel ricercare il nuovo, ma attentissimo
anche agli aspetti più normali
dell’esistenza. Amava fermarsi
a chiacchierare con tutti, domandando
informazioni, interessandosi
ai problemi (anche spicci) e elargendo
consigli pratici (e non solo spirituali)
sull’agricoltura, l’allevamento,
le costruzioni, le malattie, i soldi…
Ebbe anche problemi di salute e due
volte dovette subire l’operazione all’anca
destra, che lo costrinsero ad usare
un caratteristico bastone-seggiolino
a forma di ombrello, che non
abbandonava mai.
L’ultimo suo campo di lavoro fu
alla periferia di Nairobi, nella
parrocchia di Banana Hill (la collina
delle banane): piccola come territorio,
ma popolata di 65 mila persone
(1.500 per chilometro quadrato), con
una marea sconfinata di giovani:
2.700 nella scuola matea; 14 mila in
quella elementare; 7 mila al liceo. Cifre
da capogiro! Come sempre, si
tuffò nell’impresa cercando di trovare,
ancora una volta, strade e mezzi
perché la piccola comunità cristiana
locale diventasse punto di riferimento
e luogo di frateità per tutti.
Ma quell’uomo che non sapeva coniugare
il verbo «riposare» non riuscì
a terminare la lunga serie dei progetti
in cantiere. A soli 60 anni, la sua
corsa frenetica si arrestava, lasciando
in tutti il vuoto e la tristezza per la sua
scomparsa.
Una persona buona, generosa e capace
di sognare in grande. Con i piedi
per terra e un grande ottimismo in
cuore.

L’HOTEL A CINQUE STELLE
«Andiamo a parlarne… nell’hotel
a cinque stelle, dove mangiano
e dormono».
Non riesco a capire dove voglia parare
questo trentino tagliato con l’accetta,
con una trentina d’anni di missione,
che trasmette simpatia a chili.
Ma stasera è giù di corda, padre Franco
Cellana a Nairobi: un paio di ore
fa, la polizia ha «pizzicato» 20 suoi ragazzi.
La stampa locale, il giorno dopo, ne
darà ampio risalto: volti terrorizzati di
bimbi fra poliziotti sorridenti e soddisfatti
del loro operato. La didascalia
di una grande foto recita: «Ragazzi
di strada. La polizia ha ricevuto numerose
denunce da pedofili aggrediti
e derubati»… Secondo padre Franco,
le retate si ripetono regolarmente: e,
dopo 3-4 giorni, i ragazzi ritornano
stravolti. Cosa succede in quel lasso
di tempo? Meglio sorvolare…
Sono le 9 di sera. Alcuni ragazzini
ci corrono incontro. Da un baracchino
nei pressi, padre Franco incomincia
a servire la cena. Gli «ospiti» siedono
sul marciapiede. La strada è il
loro quartiere; qui vivono e dormono.
Il cielo come tetto; asfalto o erba come
materasso. Schiena contro schiena
per sentire meno freddo: a Nairobi
le notti sono abbastanza rigide.
Mi siedo fra loro, ma non posso
non pensare alle mie tasche: c’è roba
da sfilare, se lo volessero. Ma sono
con il «loro padre», che difenderebbero
senza riserve: anche a costo di
pesanti conseguenze da parte di aggressori.
Aggressori forse su commissione,
perché il «loro padre è scomodo».
Mentre mangiamo, i ragazzi parlano
in swahili con foga. Per uno strano
miracolo (che nei paesi poveri
spesso succede), il senso del loro discorso
giunge anche a me, mentre essi
capiscono il mio. Chiedo loro di
cantare qualcosa.
Passano le ore, ma non hanno intenzione
di mettersi a dormire: temono
che la polizia possa ritornare.
Molti di loro non hanno mai ricevuto
un gesto di affetto, una parola buona.
Molti non conoscono il papà, ma solo
le percosse di tanti patrigni…
È notte fonda. Il taxi, che mi deve
portare alla modesta stanza in cui soggiorno,
attende. Cinque ragazzi si offrono
di accompagnarmi. «Potrebbe
essere pericoloso» dice uno. Uno di
quelli che, secondo negozianti e poliziotti,
borseggiano le signore troppo
eleganti. Ed è vero: e pure padre
Franco li rimprovera.
Questi, però, quasi a giustificarlo,
mi fa capire che la lotta contro la miseria
è sempre troppo dura.
Il missionario mi abbraccia, come
se ci conoscessimo da sempre. Poi…
«Hai visto il loro hotel a cinque stelle?
». Al mio no, con un dito indica il
cielo. «A Nairobi è sempre nuvoloso.
È difficile vedee più di cinque…».
Una sonora risata accompagna il primo
quarto di luna che si affaccia tra le
nubi.
Ripenso ad altre espressioni di padre
Franco. «Nelle baraccopoli
di Nairobi lo stato di denutrizione è
permanente. L’inquinamento presso
le discariche provoca asma e congiuntivite.
Tifo e malaria sono endemici.
Frequenti le epidemie di colera,
epatite e meningite. La tubercolosi è
in recrudescenza. Per non parlare dell’Aids…
Il mondo missionario ha fatto
molto, ma non basta. Occorre ripensare
la sanità secondo ideali umani
e cristiani più veri, credendo che la
salute per i poveri non è un’elargizione,
ma un diritto sacrosanto…».
MARIO BELTRAMI

UN’«ANGIOLA»
PER AMICA

Suor Prisca Groppo (1931-1971)
Aveva solo 40 anni. La sua vita
si fermò impietosamente
sulla strada Mombasa-Nairobi.
L’incidente (uno dei tanti su
quel tragitto della morte) strappava
al Kenya una missionaria tutta d’un
pezzo, generosa, intraprendente e
piena di sogni per alleviare le sofferenze
dei malati: suor Prisca Groppo,
la sister dagetari mkuu (la grande
sorella medico), come la chiamavano
gli africani (*).
Originaria di Torino, aveva dovuto
sfuggire ai pericoli della seconda
guerra mondiale rifugiandosi a Casorzo,
piccolo paese del Monferrato,
dove era rimasta per tre anni. E fu lì
che, ancora tredicenne, decise di dare
alla sua vita una direzione precisa.
Si era trovata per caso al funerale di
una suora della Consolata, morta a
soli 27 anni, senza aver potuto coronare
il suo sogno missionario. La piccola
Angiola (così si chiamava allora
suor Prisca) fu folgorata dal pensiero
che il posto di quella giovane suora
fosse rimasto vuoto. Disse tra sé: andrò
io per lei in Africa!
E quella decisione, frutto forse dell’emozione
del momento, rimarrà come
un chiodo fisso, una strada ormai
decisa e che aspettava solo di essere
percorsa. Per questo, quando dopo il
liceo si trattò di scegliere l’università,
nonostante che le piacessero le lettere
classiche, si iscrisse alla facoltà di
medicina: sempre in vista dell’Africa.
Intanto, accanto agli studi, riempiva
le sue giornate di mille altri «interessi
», in favore degli altri: i ragazzi dell’oratorio,
i piccoli a cui dare ripetizioni,
gli anziani delle soffitte torinesi,
gli ammalati e i poveri della «San
Vincenzo»…
Era una bella ragazza, esuberante
e piena di vita, ma anche capace di silenzio
e preghiera. Ai genitori aveva
confidato il suo sogno, che però poté
realizzare solo dopo aver raggiunto i
21 anni, diventando maggiorenne. Le
costò non poco lasciare il suo mondo
felice, i genitori che l’adoravano e, soprattutto,
il fratello Gian a cui scriveva:
«Noi due eravamo proprio amici
e tu ti fidavi molto della tua sorella così
mattacchiona. Ma sei stato contento
della mia gioia, mi hai capita e non
ti sei vergognato di fronte ai compagni
per avere una sorella così… retrograda
da andare a farsi suora».
Il 22 maggio 1955 faceva la professione
religiosa tra le missionarie
della Consolata. Riprese gli studi di
medicina, laureandosi nel 1959. Sensibile
com’era (nonostante le apparenze),
non le fu facile avvicinarsi al
mondo del dolore, soprattutto quando
doveva entrare in sala operatoria.
Con un amico, che incoraggiava la figlia
a iscriversi a medicina, sbottò:
«No, non incoraggiarla, è troppo doloroso
per una donna!». L’amico la
guardò sorpreso e le chiese:
– Ma, allora, perché ti sei fatta medico?
– Oh, per me è diverso – rispose -; lo
sai che l’ho scelto per l’Africa.
Era quella la sua meta, lo scopo
della sua vita. E neanche là sarà chirurgo,
ma solo un medico in giro per
i villaggi a curare, confortare e stare
accanto ai malati.
Arrivò in Kenya nel 1964, all’indomani
dell’indipendenza, e la
sua prima destinazione fu un piccolo
ambulatorio, con 18 letti a 30 chilometri
da Nairobi, che le suore avevano
battezzato Nazareth Dispensary,
proprio per la sua piccolezza e povertà.
E qui, la medico-missionaria iniziò
il suo tirocinio, fatto di accoglienza
dei malati, visite ai villaggi
sparsi sui collinoni vicini, incontro (e
scontro) con atteggiamenti e mentalità
che non sempre riusciva a capire.
Poi il problema della lingua, che imparò
con non poca fatica.
Un medico così bravo come suor
Prisca sembrava «sprecato» in un
piccolo dispensario… e poi le richieste
di assistenza aumentavano sempre
di più. Si arrivò così alla decisione di
ampliare la struttura e fae un vero
ospedale. L’artefice e protagonista di
questa lenta trasformazione fu proprio
suor Prisca; si vide moltiplicato
per mille il lavoro già intenso di medico,
che continuava a svolgere con
amore, intelligenza e la passione di
cercare il meglio. Soprattutto le mamme
impararono ad avere fiducia in
quel malaika rafiki (angelo amico),
capace di commuoversi per i piccoli
che nascevano in numero sempre più
abbondante e che, quando avevano
bisogno di lei, ricevevano sicuramente
il massimo delle attenzioni.
Le mille preoccupazioni per l’ospedale
che stava crescendo rendevano
ancora più faticose le sue giornate;
ma lei era sempre sorridente,
correndo da una parte all’altra, premurosa
e disponibile a chi la chiamava
per un paziente grave o per dare
un parere sul colore della sala operatoria.
Era contenta che i nuovi reparti
avrebbero potuto accogliere più
malati, venire incontro ai bisogni
sempre crescenti. E tutto sempre nello
stesso stile, senza deroghe: «Non
cambieremo sistema: le preferenze
saranno sempre per i più poveri!».
Prima dell’inaugurazione dei nuovi
padiglioni, volle darsi una pausa e
poter fare con calma gli esercizi spirituali.
Ottenne di andare a Mombasa,
sull’Oceano Indiano, dove sarebbe
potuta stare più tranquilla, riposarsi
e pregare con calma.
Il 25 novembre 1971 riprendeva la
strada del ritorno, sulla macchina
che lo zio aveva regalato all’ospedale,
in compagnia di un giovane medico,
autista, una consorella. Improvvisamente
la Volkswagen si trovò incastrata
nel retro di un grosso camion,
accartocciandosi come un giocattolo.
La più colpita fu lei che rimase immobile
mentre il sangue, inarrestabile,
le tingeva l’abito bianco. Fu trasportata
in un ospedaletto, a una sessantina
di chilometri (il più vicino) e
poi a Nairobi. Ma non ci fu nulla da
fare, nonostante le mille attenzioni, i
tentativi, le due operazioni…
Si spense, senza aver ripreso la parola,
il 30 novembre, lasciando attorno
a sé incredulità e disperazione. La
seppellirono nel piccolo cimitero dell’ospedale,
tra quei malati per cui aveva
dato il meglio di se stessa, vita
compresa. L’ultimo gesto, di delicatezza
e affetto fu del cardinale di Nairobi:
non volle che la bara fosse calata
nella tomba, ma vi fece scendere
alcuni uomini perché accogliessero la
missionaria e l’adagiassero, piano piano,
nella terra buona.
Era l’Africa che riceveva il piccolo
seme, perché, nascosto nella terra,
continuasse a portare vita e vita in abbondanza.
(*) Su Prisca Groppo si veda: Gian Paola
Mina, In Africa con amore, Emi, Bologna
1977.

La condizione della donna,
ALLEVIARE IL DOLORE È PROPRIO DI DIO…
Grazia ricevuta: una settimana di deserto, lontana dal
traffico assorbente dell’ospedale. Una settimana trascorsa
fuori del tempo in un altro mondo, un mondo immobile
di sole, pietre e spine. Immersi in questo mondo primordiale
vi sono gli abitanti, perfettamente connaturati con
l’ambiente, i nomadi del deserto appartenenti alla preistorica
età del ferro, senza la minima relazione con l’attuale era
post-atomica.
Il distretto del Nord è la zona del Kenya confinante con
l’Etiopia e la Somalia e si estende a nord-ovest fino al magnifico
lago Turkana nella
Rift Valley. Vulcani
spenti, montagne di pietre
laviche e sabbia danno
un senso di desolazione
eterna. Qua e là
arbusti spinosi. La strada
è appena tracciata:
una pista vagante dalle
mille direzioni, come la
vita quaggiù. Là si sente
che cos’è la vita. Si
percepisce cos’è l’esistenza.
Nulla è facile:
l’acqua per prima. Un filo
d’erba ha il suo valore.
Là tutto è ridotto all’essenziale.
Incontrare
un uomo, là, diventa una
cosa importante. E
non c’è uomo senza lancia
per la propria difesa.
L’uomo (antico come i
primi abitanti della terra
e nuovo come appena
creato) dai sensi acutissimi,
non logori né smorzati
dalla mollezza del
non uso.
Come sono belli i borana,
i samburu, i rendille,
i turkana: torniti
come statue d’artista! Mi
allontano dalla jeep per
fotografare alcune capannucce
rendille così
diverse da quelle kikuyu,
allineate laggiù all’orizzonte, mentre una processione di
cammelli torna al recinto. Sono pervasa dalla maestà rude
e semplice del paesaggio. Ma un vecchio, con la lancia, mi
viene incontro: calo rapidamente nella realtà e mi viene il
dubbio che voglia infilzarmi, perché ho profanato il suo regno.
Toare indietro ormai è impossibile. Avessi almeno
del tabacco! Ma egli ha qualcosa che lo preoccupa. Accenna
alla capanna ancora lontana e dice delle parole di cui
ne afferro una sola: malato. Lo seguo incuriosita. In un attimo
un gruppetto di guerrieri – sbucati da dove? – mi circonda
e mi scorta. Che meraviglia! Uno sa lo swahili. Mi
sento quasi un inviato celeste, un «Raffaele» (qui i richiami
biblici sono spontanei), capace di portare un bene, la
medicina, a questi esseri nomadi.
Si tratta di un bambino della cui malattia non sanno
dirmi alcun sintomo: loro non hanno osservato, sanno solo
che sta male. Guardandolo, mi sembra abbia una brutta
bronchite. Poi compare una donna a farmi vedere la mano
gonfia per un’infezione e mi fa capire che da tante notti
non dorme per il male. Un terzo ha la febbre, un quarto
qualcosa nell’occhio. Un altro, un altro… Ora non più meraviglia,
ma profonda compassione per questa gente che
soffre senza sollievo, senza uno di quei semplici conforti
che noi (con o senza ricetta)
usiamo con tanta
naturalezza senza
neanche pensarci.
Nelle mie capaci tasche
ho sulfamidici, antimalarici,
colliri, vitamine e
analgesici. Distribuisco
tutto con una certa trepidazione.
La mia arte
medica, sebbene semplice,
è troppo raffinata
per gli uomini del deserto!
Tuttavia essi ripetono
in coro le mie parole:
«Una pillola al mattino,
una a mezzogiorno, una
alla sera». Ho imparato
il ritornello perfino io,
nella loro lingua, e sono
sicura che non sbaglieranno
la dose. Come finale,
una vecchietta
vuole anche la scatola
ormai vuota, felice di
possedere qualcosa pure
lei.
Nel loro vagabondare
non hanno ancora incontrato
le suore che
stanno nelle missioni
del deserto, proprio per
loro. Vorrei restare là!
Penso a quel detto ritrito:
«Alleviare il dolore è
proprio di Dio»… e lo
sento vero.
Con fatica mi accomiato, mentre i compagni sulla jeep
cominciano a impensierirsi: è vicino il tramonto e la missione
è ancora lontana! I guerrieri mi scortano felici.
Un episodio come questo compensa largamente gli affanni
ordinari e i disagi della vita medico-missionaria. Tra
queste pietre ripenso ai miei colleghi, tutti presi da altri
problemi, eppure così sensibili a questo misterioso fascino
della dedizione che si cela nella coscienza sociale del medico.
Mi sembra di aver dato – con il semplice gesto di distribuire
una medicina a degli esseri tra i più bisognosi e
sconosciuti del mondo – una testimonianza di valore universale,
quella della frateità cristiana.
SUOR PRISCA

PIÙ AFRICANO
DI COSÌ…

Padre Franco Soldati
Èabbastanza raro che di un personaggio
si pubblichi la biografia
mentre è ancora in vita,
a meno che non sia davvero eccezionale.
Ma anche un umile missionario
della Consolata, da 50 anni in Kenya,
ha avuto questo onore ed è interessante
scoprie i motivi.
La storia di padre Franco Soldati
inizia nel 1921 ed è accompagnata,
fin dai primi giorni, dal ticchettio regolare
e continuo (pure di notte) di
una macchina da cucire Singer: quella
di sua madre che, rimasta vedova
con tre marmocchi e una femminuccia,
doveva trovare il modo di procurare
alla famiglia il pane quotidiano.
Lui era il più grande e la vita era
grama in quegli anni,
subito dopo la prima
guerra mondiale. Con il
fratello Pietro era stato
accolto dai salesiani; ma,
arrivati alla fine del ginnasio,
furono ambedue rispediti
a casa. Il motivo lo scopriranno
più tardi: essendo il
papà morto di tubercolosi,
non potevano intraprendere…
la carriera ecclesiastica in
una congregazione religiosa.
Ma Franco, diventato con
gli anni un ragazzetto esile e
smilzo, sapeva quello che voleva:
gli piaceva (chissà perché!)
essere missionario. Pertanto
tentò di entrare nell’Istituto della
Consolata, che aveva la sede vicino a
casa sua, a Torino, dove la famiglia si
era trasferita. Fu accettato «in prova
», mentre Pietro entrava dai gesuiti.
Rimaneva ancora l’ultimo fratello,
Gabriele, sul quale erano riposte le
speranze della famiglia per il futuro.
Ma un giorno aveva trovato il coraggio
di dire a mamma: «Anch’io voglio
farmi missionario!», e partì per
il seminario di Varallo Sesia con il fratello
Franco.
Poi la guerra distrusse la loro casa.
La mamma, dopo un’inutile operazione,
se ne volò al cielo e, tanto per
cambiare, pure l’ultima rimasta, Aldina,
si fece missionaria della Consolata.
Una famiglia al completo per
Dio!
Intanto Franco era diventato prete,
ma invece di spedirlo in Africa, i
superiori lo trattennero in Italia con
incarichi vari: professore di latino,
greco e geografia, assistente dei seminaristi
e vicerettore. Trangugiò i
bocconi amari e seppe resistere.
Poi arrivò il permesso di partire e,
il 24 marzo 1951, sbarcò in Kenya, iniziando
il suo tirocinio a Tuuru. Era
la missione «più scalcinata, pagana
e restia» di tutte le missioni del
Meru; dei 100 mila abitanti che popolavano
la zona, solo 475 erano cattolici.
Avrebbe voluto iniziare subito
a… convertire, ma preferì il metodo
di san Paolo «di farsi tutto a tutti»,
diventando il più possibile africano
con gli africani. Aiutato dalla sua indole
aperta e dall’ottima padronanza
della lingua, non ebbe paura di
«perdere tempo» nelle interminabili
conversazioni, visitando assiduamente
le capanne, mangiando con i
nativi fegato di capra in segno di amicizia,
lasciandosi perfino andare a
timidi saltelli nelle danze tribali.
E sì che il carattere di padre Franco
non era per niente conciliante, anzi!
Egli stesso si definiva un «orso irsuto,
litigioso, brontolone» e, di fronte
a un’ingiustizia o un sopruso, era
meglio stargli alla larga, perché tutti i
mezzi erano buoni per raggiungere lo
scopo. La sua fama comunque si consolidava,
il suo parere cercato, la sua
parola ascoltata…
Questo legame divenne ancora più
profondo e… visibile, quando gli anziani
decisero di ammetterlo nelle loro
file, facendolo diventare uno di loro:
mwareki. I ricchi pagani meru,
giunti ad una certa età e sistemati i figli
entravano a far parte di un sodalizio
a carattere patriarcale, in cui venivano
rispettati e presi in considerazione
per la loro saggezza. Essere
accolti tra gli anziani (areki) era una
meta sognata, perché significava raggiungere
uno stato di privilegio, una
condizione nuova, espressa dal cambio
del nome e dal segno distintivo
di una corona di conchigliette da
portare in testa.
Una notte anche padre Franco fu
ammesso a far parte di questa società:
gli furono date le insegne della
nuova condizione e gli venne imposto
il nome di mwereria: termine intraducibile,
indicante colui che, camminando,
fa del bene a tutti. Un nome
originale che indicava in quale
considerazione era tenuto il missionario.
Anche se, pur essendo diventato
un «pezzo importante», la gente
continuava a fare la sua strada e i
frequentatori della chiesa continuavano
a rimanere… pochi!
Ma arrivò il momento giusto per
cambiare le cose. Terminata la
bella chiesa di Tuuru, si era pensato
di iniziare una scuola di economia
domestica, anche se non si trovava
l’insegnante. Mentre si aspettava di
risolvere il problema, una sera, padre
Franco trovò sul bordo della strada
un ragazzino poliomielitico, malridotto.
Se lo portò a casa e fu lì che
scoccò la scintilla: invece di economia, avrebbe iniziato una «scuola di
misericordia».
Il numero dei bambini handicappati
cominciò ad aumentare. In breve,
a Tuuru, divennero famosi quei
piccoli ospiti, assistiti con amore e…
mantenuti dalla gente. La messa domenicale
cominciò così a diventare
un appuntamento irrinunciabile: all’offertorio,
la lunga fila di fedeli (cristiani
e no) si avvicinava all’altare per
deporre sui gradini una serie variegata
di doni: due zucche, un grappolo
di banane, un pollo, una misura di
fagioli, un cestello di uova: tutto per
quei bimbi sfortunati.
E fu proprio questa «la molla» capace
di avvicinare anche i refrattari
al messaggio cristiano, più di mille
prediche. Padre Franco iniziò, allora,
una gara di solidarietà, perché alla
gente locale si unissero volontari,
amici lontani e associazioni varie per
sostenere un’opera nata dal niente e
diventata, in breve tempo, il fiore all’occhiello
della missione.
Un altro fatto rese famoso il nostro
mwereria: quello dell’acqua. Fin dal
suo arrivo era rimasto colpito dallo
spettacolo quotidiano di gruppi di
donne condannate tutto il giorno alla
ricerca di acqua, che tornavano alla
sera ricurve sotto il peso di enormi
zucche. La carenza del prezioso liquido
diventava drammatica e toccava
il cuore del padre, soprattutto
quando a soffrire erano i piccoli poliomielitici.
Davanti a questa emergenza
continua, il missionario non si
diede pace finché non ingaggiò fratel
Giuseppe Argese (un altro «mito») a trovare la soluzione.
La vicenda è nota: per mesi il «fratello
dell’acqua» (silenzioso, quanto
intraprendente) viaggiò, cercò, studiò
e… trovò il rimedio. Sfruttando
la catena del Nyambene, coperta di
foreste vergini e ricca di acqua, riuscì
a costruire quella che è diventata
una delle meraviglie della zona: un
acquedotto lungo e fantasioso, capace
di dissetare migliaia di persone.
Il nostro protagonista poteva ormai
ritenersi soddisfatto: ben radicato
tra la gente e famoso per le «opere di
misericordia» (assetati e bambini sofferenti),
avrebbe potuto ritirarsi in
santa pace e… obbedire ai superiori
d’Italia, che avevano pensato ad un
suo «avvicendamento». Ma la sola idea
scatenò un putiferio di reazioni.
Per farla breve, la gente di Meru, sinceramente
affezionata al suo mwereria,
escogitò uno stratagemma che,
secondo loro, avrebbe funzionato:
legare ancora di più padre Franco,
facendolo entrare tra gli njuri (un altro
sodalizio distinto dagli areki, a cui
il padre già apparteneva).
L’accettazione da parte del missionario
non era scontata, anche per via
di certe cerimonie, non tutte approvate
dalla chiesa. Ma, pur di averlo,
gli anziani sarebbero stati disposti ad
esonerarlo da tutto ciò che era contrario
alla morale cristiana e al suo
stato sacerdotale.
Ecco allora padre Franco, con il
volto dipinto di ocra rossa e bianca,
diluita con succo di banane, diventare
njuri nceke, acquisendo così il
potere di giudicare senza appello le
liti tribali e risolvere i problemi con
l’autorità derivante dalle tradizioni
più antiche e sacre.
E, per completare l’operazione,
anche gli areki gli offrirono l’ultimo
e ambizioso grado del loro sodalizio:
quello di mwareki wa naicio, al quale
nessun europeo era mai potuto accedere.
Unto con grasso di montone
e cosparso di farina bianca, il missionario
ricevette la corona degli areki,
il bastone di mogano e anche un secondo
nome: Kiunga, cioè colui che
raduna tutte le cose e ne fa una sola!
Probabilmente queste due ultime
cerimonie ebbero il potere di toccare
il cuore dei superiori, che non trovarono
più il coraggio di richiamare
in Italia padre Franco, il quale, unico
tra tutti, è riuscito ad entrare così
profondamente nel cuore e nella cultura
dei meru, da distinguersi ormai
soltanto per la pelle bianca.

QUALCHE TUORLO D’UOVA
Ricorda commosso padre Franco che, quando gli fu proposto (e non una
volta sola) di chiudere quella missione che appariva inconvertibile
e negata ai frutti dello Spirito, furono le suore, solitamente silenziose ma
sempre indomite, a insistere che si continuasse nello sforzo apparentemente
inutile, perché quella gente esse l’avevano capita per femminile intuito
e l’amavano per quello che era e che sicuramente sarebbe stata.
Mwereria ricorda… Anche a lui era capitato, una domenica dei suoi primi
anni a Tuuru, di sentirsi depresso e svuotato di speranza, da decidere
di far fagotto e abbandonare quella sterile missione, dove nemmeno di domenica
la chiesetta tarlata si riempiva, là, sulla cima del colle, inutilmente
visibile a tanti.
Era una mattina fredda e nebbiosa e lui, chiusosi in casa perché quell’assalto
di tristezza non avesse testimoni, non riusciva a trattenere lacrime
di desolazione. Dove se ne era andata tutta la sua giovanile baldanza?
Che ne era di quei momenti in cui sentiva in sé tanta forza, tanto esuberante
amore per tutti da immaginarsi capace di schiacciare tutto il male
del mondo?
Aveva sentito bussare discretamente. Non si era mosso. Altri picchi più
risoluti. Aveva aperto. Si era trovato davanti suor E… e a due aitanti giovani
africani. Pieno di confusione, aveva balbettato qualche parola su un
suo vago non sentirsi bene. Ma suor E…, mateamente accorta, aveva
compreso al volo il suo stato d’animo.
«Su su, padre, animo! C’è gente che l’aspetta al confessionale. Coraggio!
Ma aspetti prima un momento!».
Era sparita e presto tornata con una tazza piena di tuorli sbattuti.
«Su, prenda questo cordiale. Ne ha bisogno. E se lo prenda tutto!».
Era stata suor E…, creatura che come le consorelle non si volgeva mai
indietro, lo strumento della Provvidenza, perché egli superasse la crisi. I
due africani non avevano detto parola, ma avevano capito, condiviso, e
poi avevano fatto il diavolo a quattro per svegliare i dormienti di Tuuru…
Erano trascorsi altri anni di durissimo impegno. Ora il buon seme fruttificava.
Ma non importava chi fosse a raccogliere la messe in quella… harambee
(lavoro d’insieme) degli spiriti, che è il mondo cristiano.
M. TERESA DAINOTTI,
autrice di E venne tra la sua gente, Emi, Bologna 1993

Due kenyani in Corea del Sud
QUASI UN NUOVO INIZIO
I padri Peter, Tamrat e Joseph, oggi… in Corea del Sud

Così potrebbe chiamarsi la destinazione
dei primi tre missionari
africani (dei quali due kenyani) per
la Corea: i padri Tamrat Defar (etiope),
Peter Njoroge e Joseph Otieno.
Nel centenario della missione in
Kenya, questa partenza rappresenta
una vera sfida: nella loro persona,
l’Africa, che cent’anni fa ha ricevuto
l’annuncio del vangelo, oggi ne fa
dono all’Asia.
Com’è nata la decisione di partire
per la Corea?
PETER: Nel momento di esprimere
le mie preferenze, non avevo pensato
alla Corea. Poi mi è stata fatta
la proposta dicendomi che due miei
compagni di noviziato, che studiavano
a Londra, andavano in Corea
e si desiderava che fossero almeno
in tre. Non è stato facile scegliere.
Quando, in passato, si parlava della
Corea era sempre per sottolineae
le difficoltà, soprattutto della lingua.
Ho riflettuto un po’ e mi sono
detto che qualcuno doveva pur andare
e non avevo ragioni per dire di
no. Pensando che altri confratelli lavorano
in Corea e sono riusciti ad
inserirsi… alla fine ho accettato volentieri
di andarci anch’io.
JOSEPH: La possibilità di andare in
Asia ci è stata presentata solo alla fine
e, per me, si è trattato di disponibilità.
La nostra scelta iniziale era
diversa, ma, dopo aver riflettuto a
lungo, abbiamo accettato la sfida
della Corea. È stata una scelta difficile,
ci è voluto un po’ di coraggio;
ma anche con l’aiuto della preghiera
siamo riusciti a farla nostra.
Quali sono le difficoltà che prevedete
di incontrare?
PETER: Anche se la lingua costituisce
indubbiamente una grossa
sfida (bisognerà, infatti, studiarla
per cinque anni), la difficoltà più
grande, credo, sarà lo sforzo di inserirci
in una cultura così diversa
dalla nostra. Subito dopo, viene il
«cosa fare», ossia come essere missionari
in Corea. Da quanto sappiamo,
la chiesa coreana apparentemente
non ha bisogno di preti ed è
autosufficiente. Noi africani abbiamo
l’esperienza della missione come
di un «fare»: costruire chiese,
scuole, dispensari… mentre in Corea
non ci sarà bisogno di questo.
Pertanto la nostra missione consisterà
soprattutto in un «essere»; ossia,
si tratterà di testimoniare con la
vita il vangelo di Gesù. Lo faremo
come africani, diventando strumenti
di comunione e arricchimento reciproco
tra la cultura africana e
quella coreana.
JOSEPH: La prima sfida sarà quel- la di realizzare una vera inculturazione.
La difficoltà potrebbe riguardare
l’adattamento agli usi e costumi
di un mondo completamente
diverso da quello da cui proveniamo.
Poi, come sappiamo, in Corea
l’istituto è impegnato a fare missione
in modo diverso: si tratta, allora,
di sottolineare soprattutto l’aspetto
della testimonianza cristiana.
PETER: Abbiamo coscienza di essere
i primi sacerdoti africani dell’istituto
che partono per la Corea e,
per quanto abbiamo udito, non sarà
facile essere accettati in un paese
che si considera all’avanguardia in
tanti campi. Sarà una cosa bella e un
grosso passo in avanti nella costruzione
del Regno, se i coreani sapranno
accettare che degli africani
possano portare loro l’annuncio di
Cristo.
A CURA DI SERGIO FRASSETTO

GIACOMO MAZZOTTI




ADELANTE, MA…

Sono in Colombia da due giorni. Padre José è
addetto al mio soggiorno a Bogotá, prima di
«andare in missione». Oggi è giorno di spesa
e decide di portarmi al mercato o Carrefour.
«No ai nada de terzer mundo»
mi anticipa ridendo.
L’auto percorre le vie di Modelia, il quartiere dove
risiediamo, evitando le grandiose buche nell’asfalto
o piombandoci dentro a tutta birra. Il sindaco
della capitale ha, nel rilancio del sistema dei trasporti,
uno dei punti forti del suo programma politico.
Ma le dimensioni di Bogotá (7 milioni di abitanti)
sono tali che…
Siamo arrivati. Il Carrefour si staglia davanti con
il suo parcheggio ancora semivuoto e le insegne così
uguali in tutto il mondo. Sorpresa.
Ma non mi sorprende l’ipermercato in se stesso,
bensì il trovare il «mio» ipermercato, dove 10
giorni prima ho comprato il giubbetto di tela blu
leggera (che taglia l’aria), le lamette da barba di riserva
(perché «non si sa mai») e le pile per la radio-
sveglia (anche se l’«orologio biologico» mi sveglia
regolarmente alle due del mattino).
Dunque la prima sensazione, positiva, è l’incontrare
il mio Carrefour dietro l’angolo. È la cancellazione
dell’imprevisto, dell’incognita «x», che rappresenta
una palla al piede per la civiltà superoccidentalizzata.
Grazie, Carrefour.
Entro e mi trovo davvero a… Torino, al centro
commerciale Le Gru. Ho impiegato 13
ore di aereo per ritornare esattamente dove
ero partito. Mi vengono
in mente alcuni versi di
Thomas Eliot:
«Non cesseremo mai di
esplorare.
E alla fine di ogni nostra
esplorazione
arriveremo dove abbiamo
iniziato.
E conoscere il luogo per
la prima volta».
In altre parole, grazie al
Carrefour, conoscerò
meglio me stesso in
Colombia… Il primo assaggio di frutta esotica avviene
in una sala spaziosa con… mele e pere; ma
c’è pure un oceano di papaie, manghi, guayabas.
L’ipermercato è enorme, lussuoso, asettico. I ragazzi
del banco «macelleria» indossano berretti e
mascherine bianche: sembrano infermieri. La ragazza
con radio-microfono lancia messaggi interni,
rullando su velocissimi pattini a rotelle. Se non
fosse per l’agente di sicurezza all’ingresso (che ci
ha fatto aprire il baule dell’auto e ne ha scandagliato
il fondo con il metal detector prima di concederci
di parcheggiare), parrebbe proprio di essere
altrove.
Poi la domanda: «Chi compra in questo ipermercato?». In un paese dove lo stipendio medio di un
impiegato si aggira sui 200 euro mensili, chi può
permettersi acquisti consistenti al Carrefour?
«Carrefour» in francese significa «incrocio».
Penso a Il libro dei proverbi, secondo il quale la
sapienza è presente anche agli incroci delle strade
(cfr. Pro 8, 2). Ma dubito che essa abiti nel regno
del consumismo.
A meno che uno sappia scegliere!
Toando a casa, scorgo in cielo due aerei
militari in rotta verso il sud del paese. Il
pensiero corre al Caquetá, ieri zona di distensione
e oggi di scontro. Là operano confratelli,
silenziosi segni di speranza fra stragi di «destra» e
di «sinistra». E ora? Due aerei in più, carichi di
bombe e di vite umane. Altre madri in ansia, altri
dolori da lenire. Forse altri morti ammazzati.
Riconciliazione e pace.
Ma come?
La patata bollente (narcotraffico,
guerriglie, sequestri
di persona, violenza
generalizzata) è
anche nelle mani del
nuovo presidente
ALVARO URIBE, eletto
il 26 maggio scorso.
«Adelante, signor presidente,
ma… con juicio».

UGO POZZOLI




GUERRA ALLA PACE in terra santa

Dire
Gerusalemme è dire terra santa, e viceversa. Gerusalemme oggi è, più che
mai, di drammatica attualità: occupa ampi spazi sulla stampa e sul piccolo
schermo, a causa del sanguinoso conflitto israelo-palestinese.


Gerusalemme è sempre stata di attualità, fin da quando Dio la scelse come
luogo di incontro e dialogo con gli uomini. A Gerusalemme «tutti sono
nati… e l’Altissimo la tiene salda» (Sal 87, 4-5). Quel «tutti» contiene
una carica ecumenica di respiro universale. Gerusalemme appare come radice
di armonia e unità fra le genti. Sul libro della storia, curato da Dio,
«tutti» sono gli uomini e i popoli che Egli registra come cittadini di
Gerusalemme.

Il
carattere peculiare di Gerusalemme è l’universalità. E non è un tratto
immaginario, ma reale. Basti ricordare il ritornello ebraico, che ha
sfidato i secoli: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Basti ricordare
l’affetto dei cristiani per la città santa, concretizzato nel
pellegrinaggio… e il fatto che, perfino fra le montagne
dell’Afghanistan, la foto di Gerusalemme è appesa con devozione alle
pareti delle case musulmane.


Gerusalemme, l’universale, fa sì che la comunità mondiale vi si riconosca
in un modo o nell’altro: interessa non solo chi vi trova una specifica
fede religiosa, ma anche chi vede in essa un riferimento a valori umani
fondamentali.

Se Assisi
affascina e coinvolge per la soffusa e penetrante spiritualità,
Gerusalemme seduce e attira per il mistero. Un mistero che perdura tutt’oggi
e che fa pensare al Deus absconditus (Dio nascosto).

Mi ritorna
in mente l’incontro, di qualche anno fa, con una giornalista svedese.
Aveva partecipato ad un congresso di archeologia a Tel Aviv, al termine
del quale effettuò una rapida escursione a Gerusalemme. E capitò che, nel
dedalo di viuzze della città vecchia, la giornalista avesse smarrito la
strada al suo hotel. Io, per caso, passavo di lì; lei mi pregò di
indicarle la via dell’albergo. L’accompagnai fino alla Porta di Damasco.
Cammin facendo, mi confidò che, essendo nata in una famiglia atea, non era
credente. «Però ho letto molto su Gerusalemme – disse -; ora sono qui e
avverto (non so perché) che qualcosa mi attira come una potente calamita.
Dovrei prendere l’aereo questa sera, ma non partirò; c’è qualcosa di
strano qui che mi sollecita a cercare, indagare e approfondire il mistero
di Gerusalemme, che mi tocca l’anima».

Ci
salutammo. Due anni dopo mi scrisse per annunciare che aveva ricevuto il
battesimo.


 Gerusalemme, che secondo un’etimologia popolare sarebbe la «città della
pace», non ha mai conosciuta la tranquillità. Lungo tutta la sua storia
millenaria è stata teatro di lotte, e tuttavia essa rimane la sede della «shalom»;
ma non per coloro che vogliono trovarvi una pace già confezionata, ma per
quanti vogliono costruirla.

La pace è
il risultato di relazioni rispettose fra i popoli, fra le persone;
scaturisce dall’amore tra gli individui, tra le comunità; nasce dalla
conversione, dall’accoglienza delle diversità.

La
tragedia odiea in terra santa grava anche sulla comunità internazionale
e su ogni persona sensibile alla pace… strettamente legata alla
giustizia. Da mesi, nonostante gli innumerevoli tentativi del passato di
approdare ad un serio e risolutivo processo di pace, una spirale di
violenze assurde e apparentemente inarrestabili soffoca la terra dove Dio
e gli uomini si sono incontrati e uniti per sempre.

Mentre
scrivo, la spirale attanaglia particolarmente Betlemme, dove la pace è
nata e annunciata per la prima volta agli «uomini che Dio ama».

Il pastore
protestante Dietrich Bonhoeffer, il martire per la libertà che ha pagato
con l’impiccagione la sua resistenza al nazismo, scriveva che non si
poteva cantare alleluja mentre gli ebrei venivano perseguitati. Così è
stata quest’anno la nostra pasqua, in terra santa, celebrata con il cuore
ferito. Come potevamo, in quei giorni di sangue, cantare alleluja?

Israeliani
e palestinesi sembrano sprofondare sempre di più in un vortice di odio e
vendetta. I ripetuti e accorati appelli che, insieme alle altre chiese
cristiane, abbiamo rivolto ai responsabili del paese e dei governi restano
tuttora inascoltati. Fino a quando? Quanto durerà l’occupazione militare?

Fino a
quando verranno disattese le risoluzioni delle Nazioni Unite?

È
necessario ritornare al rispetto della legalità internazionale. Lo afferma
da sempre Giovanni Paolo II (fra pochi), dimostrando una preveggente
visione della realtà. E il cardinale Martini ha rivelato una grande
preoccupazione nel dire di non comprendere

come
Israele, con la sua politica, persegua sicurezza e pace, «che pure è
sempre nel desiderio di tutto quel popolo».

Il
significato della preghiera per la terra santa (e, ovviamente, per le
persone che vi risiedono) è anche questo: sperare che il miracolo si
compia ancora. Sarebbe un primo e importante passo verso la pace. Ci vuole
fiducia e speranza.

La terra
di Gesù non è forse la terra dei miracoli?


Sfogliando s’impara…

«IO
TROVO VERGOGNOSO»

«Trovo
vergognoso che la stampa scritta (…) si indigni perché a Betlemme i
carri armati israeliani circondano la Chiesa della Natività, che non si
indigni perché nella medesima chiesa duecento terroristi palestinesi ben
foiti di anitra e mumz ni ed esplosivi (tra loro vari capi di Hamas e
Al-Aqsa) siano non sgraditi ospiti dei frati (che poi dai militari dei
carri armati accettano le bottiglie d’acqua minerale e il cestino di
mele). (…)

lo trovo
vergognoso che L’Osservatore Romano cioè il giornale del Papa, un Papa che
non molto tempo fa lasciò nel Muro del Pianto una lettera di scuse per gli
ebrei, accusi di sterminio un popolo sterminato a milioni dai cristiani.
Dagli europei. Trovo vergognoso che ai sopravvissuti di quel popolo (gente
che ha ancora il numero tatuato sul braccio) quel giornale neghi il
diritto di reagire, di difendersi, non farsi sterminare di nuovo.

Trovo
vergognoso che in nome di Gesù Cristo (un ebreo senza il quale oggi
sarebbero tutti disoccupati) i preti delle nostre parrocchie o Centri
Sociali o quel che sono amoreggino con gli assassini di chi a Gerusalemme
non può recarsi a mangiar la pizza o a comprar le uova senza saltare in
aria. Trovo vergognoso che essi stiano dalla parte dei medesimi che
inaugurarono il terrorismo ammazzandoci sugli aerei, negli aeroporti, alle
Olimpiadi, e che oggi si divertono ad ammazzare i giornalisti
occidentali».

Oriana
Fallaci sul settimanale «Panorama»,

12 aprile
2002


QUEI CANNONI
PUNTATI

«“Ecco,
noi francescani della Basilica della Natività chiediamo agli ebrei stessi
che facciano qualcosa, che impediscano questa ingiustizia, che dimostrino
che il volto d’Israele non è quello dei cannoni puntati contro un luogo
santo di una città sacra alle tre religoni monoteiste; io non penso che
siano tutti cattivi, al contrario so che dentro il cuore sono buoni e
giusti e so che vogliono il bene di tutti. Chiedo agli ebrei di buona
volontà di aiutarci e di farci uscire fuori da questa situazione”. (…)

Sharon ha
buttato all’aria ogni regola precedente. Tutte le parti coinvolte:
palestinesi, cristiani, le diplomazie occidentali e quella della Santa
Sede hanno avviato trattative mai accolte dall’intransigenza di Sharon.
Hanno nel frattempo persino prodotto un Cd-Rom intitolato “Unholy Asylum”,
asilo assai poco santo, polemizzando con lo spirito umanitario
dell’accoglienza che è storicamente il connotato dei francescani. Quanti
di essi, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno accolto dietro i muri
di pietra dei loro conventi, i disperati ebrei inseguiti dai nazisti? O i
partigiani che i nazisti definivano “terroristi”. Qualcuno, per questa
generosità, ha pagato persino con la morte. (…)

“Noi
francescani non ci fidiamo: se andiamo via, cosa succederà?”, incalza
padre Ibrahim. Appunto, padre, lei ci ha pensato? “Bella domanda. Mi sono
dato una sola risposta: restiamo. L’abbiamo deciso tutti all’unanimità,
dopo una discussione comune”. Le truppe di padre Ibrahim imbracciano il
crocifisso e sfidano i lunghi fucili dei cecchini. Il motorino del
generatore che alimentava le batterie dei francescani ha funzionato per 36
ore e si è fermato ieri. Con la sua energia si tirava su l’acqua dei
pozzi. Se i frati vanno in cucina, alla Casa Nova, l’ostello attiguo al
convento, gli sparano addosso (…)».

Leonardo
Coen sul quotidiano «La Repubblica»,

12 aprile
2002


 UNA GUERRA
PER LA VITA O LA MORTE

«Chi
conduce una guerra per la vita o la morte del popolo intero ha il diritto
di ricorrere a tutti i mezzi, compreso quello del terrore suicida delle
donne kamikaze o dei massacri in campi  profughi come Jenin.

Il
guerriero totale coltivato dai vertici dell’Autorità palestinese non è
criticabile in un contesto di guerra finale, così come non lo è lo stato
israeliano che annuncia battaglie di sopravvivenza e che considera la
guerra come una replica della distruzione del Tempio da parte degli
antichi romani. In conflitti di questo genere non si guarda molto ai
risultati politici delle operazioni, né si è responsabili del male – il
più delle volte inane – che si arreca.

Ma la
guerra per la sopravvivenza non si limita solo a cancellare eventuali
responsabilità: essa dissimula anche, distorcendola, l’autentica natura
del conflitto. E vela consapevolmente la verità».

Barbara
Spinelli sul quotidiano «La Stampa»,

padre Marco Malagola