Kosovo: fermiamo l’orrore

Attraverso Enrico Vigna, presidente dell’Associazione SOS Jugoslavia, è giunto in Italia il seguente appello:
«Agli amici del popolo del Kosovo Metohija e del popolo serbo, alle associazioni come la vostra, conosciuta e stimata per quanto fatto finora per la nostra gente, vi giunga l’appello da questa terra martoriata, dove in questi giorni il sangue e la guerra sono nuovamente parte della nostra già difficile quotidianità di questi terribili e duri cinque anni trascorsi dai bombardamenti della Nato e dalla conseguente espulsione e pulizia etnica di centinaia di migliaia di nostri fratelli e sorelle dalle proprie case e campi, dalle proprie radici millenarie e molte migliaia anche strappati alla vita e all’affetto delle loro famiglie, mediante assassinii e rapimenti.
Vi chiediamo di attivarvi in qualsiasi modo e forma per contribuire a cercare di fermare l’orrore e il bagno di sangue, causati da forze terroristiche che distruggono, incendiano, uccidono e lapidano uomini e donne che da sempre vivono qui.
Vi chiediamo di informare correttamente quali sono le verità e la realtà di quanto sta accadendo, di chiedere a tutte le persone oneste e che credono nei diritti umani nel vostro paese di aiutare il nostro popolo a non subire un vero e proprio genocidio. Distruggono anche gli ultimi cimiteri, monumenti e monasteri della cultura ortodossa che non avevano distrutto in questi anni.

Siamo stanchi di vedere i nostri campi e le nostre case bruciate, di essere vessati, uccisi, perseguitati con la sola colpa di essere serbi e di voler continuare a vivere dove da centinaia di anni abbiamo sempre vissuto. In una terra per la cui difesa dalle aggressioni e dalle occupazioni degli stranieri invasori, nella storia, sempre abbiamo versato fiumi del nostro sangue. Siamo stanchi ma non consegneremo ad assassini e terroristi estremisti la nostra terra, le nostre vite, le nostre radici, la nostra dignità. Dovranno ucciderci tutti, anche i nostri figli e le nostre mogli. È un nostro diritto.
Le chiediamo di divulgare queste parole, di dare voce a noi, semplici cittadini, stranieri a casa propria, di un popolo senza voce, senza televisioni, senza neanche più la forza per urlare la nostra indignazione e le nostre ragioni. Ma determinati a non cedere.

Nel nostro ospedale di Kosovska Mitrovica non ci sono più posti liberi, non ci sono sufficienti medicinali, né sufficiente sangue per colmare quello versato dagli estremisti albanesi; da ogni angolo di questo Kosovo crocefisso, questo è l’ultimo lembo di terra dove confluiscono i nostri fratelli e sorelle scacciati dalle bande assassine, che dopo averli terrorizzati e incendiato le case, non sono riusciti ad assassinare.
Nelle nostre case scarseggia tutto, i nostri figli non hanno più nulla che non sia paura e angoscia. Aiutateci a fermarli, che la gente onesta e buona si alzi per gridare basta, la nostra amicizia e fratellanza sarà eterna.
Noi siamo ancora in piedi e fermi nella volontà di fermarli, di resistere, ma siamo soli con i nostri fratelli della Serbia. Ci dicono gli inteazionali di qui, perché siamo serbi.
Sappiamo che voi e le vostre associazioni non la pensate così, per questo confidiamo sulla vostra amicizia e impegno. Ma fate presto.
Con rispetto e tanta amicizia».

Cittadini e cittadine di Kosovska Mitrovica,
Associazioni dei Profughi in Serbia

(Per contatti o maggiori informazioni:
enricoto@iname.com; oppure: 328/7366501)

Autori vari




La croce dell’Islam fondamentalista

Anche l’islam fondamentalista ha imparato a fare la croce. Ma è un segno di maledizione e sterminio.
In un tour attraverso l’Africa sono passato a Khartoum, in Sudan, paese dominato dall’integralismo islamico. Paese dove si discute il trattato di pace, dominato dai musulmani del nord, che volevano dare al sud cristiano, che poggia sul petrolio, il 15% dei proventi: il fatto che sia stato firmato il 50/50 è già positivo.
Con amici ho potuto vedere ciò che grida vendetta al cospetto di Dio: i campi profughi intorno a Khartoum; una guerra che dura da 20 anni e ha fatto oltre 2 milioni di morti e obbligato 4 milioni di persone a lasciare il loro verde e fruttuoso villaggio al sud, la loro capanna con gli animali e, su camion da bestiame o con marce forzate di 800 km, portati e buttati come animali da macello nella sabbia rovente intorno alla capitale dove manca tutto.
Per il cibo devono dipendere dalle organizzazioni umanitarie; mancano pozzi e l’acqua viene trasportata con gli asini e venduta in taniche; medicinali e medici sono un sogno.
Nel 2003, mi diceva un’amica, per 2 mesi la temperatura non è mai scesa sotto i 55° e una mosca, come le nostre, a questo calore, diventa velenosa e una sua puntura scava fino all’osso e lacera per 6 mesi.

M a è ciò che ho visto al campo di Geberona (700.000 profughi) che mi spinge a farmi voce di chi non ha voce.
L’Esodo parla dell’angelo sterminatore che risparmiava le case segnate col sangue dell’agnello. A Geberona, invece, ho visto lo sterminio dei poveri più poveri: una spianata di catapecchie, che la gente, in diversi anni e con infiniti sforzi e sacrifici, era riuscita a costruirsi con le proprie mani.
Con la scusa del futuro sviluppo della città, un grosso bulldozer opera la distruzione: vengono date 24 ore per sloggiare e prendere il nulla che hanno e poi le case segnate con una croce bianca vengono rase al suolo, e quella povera gente deve ricominciare da capo.
Ho pensato a un’altra croce, quella uncinata: stessa persecuzione, stessa crudeltà, stessa logica di morte.
Mi ha colpito la dignità di quei fratelli calpestati.
I miei amici cercano di aiutare i giovani dei campi profughi, offrendo loro il trasporto, un pasto (l’unico al giorno), l’istruzione e l’apprendimento di un mestiere. E un loro fratello fa da ponte per gli aiuti umanitari e la realizzazione di progetti per una preparazione adeguata e modea.
Sentivo il bisogno di far sapere tali atrocità, affinché nessuno possa dire: «Io non lo sapevo!».
Il popolo sudanese, il musulmano comune è buono, rispettoso e cortese. Il veleno del fanatismo è morte. Uno dei miei amici ha sognato, una notte, che stava difendendo gli agnelli, attaccati da lupi ringhiosi e decisi a sbranarli.
Sta costruendo la pace.
Sudan, sia pace su di te!
John

John




QUATTRO & QUATTR’OTTO

Roma, 8 febbraio 2002. Noi, 150 missionarie
e missionari partecipanti dal 4 all’8 febbraio
al Forum «Insieme, prendere il largo», organizzato
dalla Conferenza degli istituti missionari italiani
(Cimi), dal Segretariato unitario di animazione
missionaria (Suam) e dall’Editrice missionaria italiana
(Emi), ci rivolgiamo alla società italiana, alle
istituzioni politiche ed ecclesiali facendoci voce delle
popolazioni con le quali condividiamo sofferenze e
speranze.
Esprimiamo forte preoccupazione per il crescente
clima di diffidenza e paura, di violenza ed emarginazione
che percepiamo nella società italiana e in alcuni
recenti orientamenti politici. In particolare circa:
1. L’adesione alla guerra come risposta agli atti di
terrorismo. Con il papa riteniamo che «mai le vie
della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi
dell’umanità» (udienza del 12 settembre
2001). La guerra non solo non risolve i problemi,
ma è contraria alla Costituzione italiana (art. 11) e
al diritto internazionale vigente.
2. La gestione delle politiche migratorie secondo
una logica di mercato. Siamo convinti che gli immigrati
sul nostro territorio sono prima persone e poi
«forza lavoro» e che i loro diritti vanno riconosciuti.
Occorre, perciò, favorire nella società italiana l’apertura
alle diverse culture per un effettivo inserimento
degli immigrati.
3. Il disegno di legge n. 1927 che modificherà la legge
185/90 sul controllo del commercio di armi.
Chiediamo che la normativa attualmente in discussione
al parlamento non stravolga i principi ispiratori
della legge 185/90 (divieto di esportare armi a nazioni
in guerra o che violano i diritti umani) e introduca
invece misure di controllo sulla destinazione
finale di armi per evitare «triangolazioni».
4. L’aumento delle spese militari e la riduzione degli
aiuti per la cooperazione. Dopo che nel biennio
2000-01 l’incremento delle spese militari era già stato
del 10%, per quest’anno è previsto un aumento
del 15%, mentre la quota che l’Italia destina nell’aiuto
allo sviluppo non raggiunge ancora lo 0,2%
del prodotto interno lordo, ben lontano dalla percentuale
dello 0,7% fissata dall’Onu.
Chiediamo alle istituzioni politiche di:
1. Sviluppare una politica estera italiana ed europea
a favore della prevenzione e la soluzione non-violenta
dei conflitti. In particolare chiediamo un impegno
preciso per porre fine al conflitto israelo-palestinese
e alle numerose guerre «dimenticate» ancora in atto
in tante nazioni del Sud del mondo.
2. L’introduzione di una tassazione sulle transazioni
finanziarie (tipo «Tobin tax») nella «zona euro» per
ridurre le speculazioni, ridistribuendo le risorse ricavate
a favore dello sviluppo.
3. Farsi promotrici nelle istituzioni inteazionali
(Fondo monetario internazionale, Organizzazione
mondiale del commercio e Banca Mondiale) di politiche
economiche, per favorire scambi commerciali
più equi nei confronti dei paesi impoveriti e rapporti
più paritari tra i paesi del Nord e Sud del mondo.
4. L’accoglienza delle istanze provenienti dalle componenti
sociali e religiose nella formulazione della
Costituzione europea.
Infine auspichiamo che le comunità cristiane
non vengano meno al loro dovere di cittadinanza
attiva, per costruire una società più giusta e
rispettosa dei diritti di tutti.
A noi, missionari, san Paolo rivolge il monito:
«Guai a voi se non annunciate Gesù Cristo!»;
ed anche: «Non vi vergognate del vangelo,
perché è potenza di Dio per salvare
chiunque ha fede (cfr. 1 Co 9, 16; Rom 1, 16).

MISSIONARIE ALM – PADRI BIANCHI –
CARMELITANI – COMBONIANI/E –
MISSIONARI/E DELLA CONSOLATA –
MISSIONARI DEL PIME, MISSIONARIE FALMI –
FRANCESCANE DIMARIA, LAICI MISSIONARI –
MISSIONARIE DELL’IMMACOLATA –
MISSIONARIE NSA – SAVERIANI/E – VERBITI
Tre missionari della Consolata
al Forum di Ariccia.

Vari




Il soffio perduto delle parole

«Benché l’onda delle parole ci sovrasti sempre, le nostre profondità sono sempre silenti» (Kahlil Gibran).
Tema impegnativo e carico di responsabilità per noi cristiani, al tempo stesso delicato e pericoloso, quello di misurarsi con le parole, con ciò che esse svelano e a volte nascondono; con la loro portata rivoluzionaria e conservatrice allo stesso tempo.
Dio è il verbo fatto carne; ma feticci possono essere le parole multiuso: equivoche e prestanti a ogni uso. L’ossimoro, classica figura retorica, nella quale convivono due opposti, si è autopromosso come forma concettuale in cui convivono due contrasti: l’affermazione di una realtà con la sua negazione. Guerra e Pace, nel vocabolario del potere fanno ormai rima, ballano insieme nel caleidoscopio del pensiero dominante, battezzandone il matrimonio come «intervento umanitario».
La prosa volgare del potere ha prostituito le parole, che ormai non significano nulla, «non commuovono più – scrive Juan Arias – non gridano dentro, non innamorano».
Ivan Illich, nel meeting di San Rossore che precedette il G8 di Genova, mise in guardia contro le «parole di plastica», che inquinano, sterilizzano, occultano i fenomeni che vorrebbero descrivere.

N ell’età adulta in cui ci troviamo, le nostre parole non hanno più l’innocenza antica e il linguaggio da mezzo di comunicazione si perverte in strumento di depistaggio.
«C ome scrivere, quali parole utilizzare, quando tutte le parole sono state ormai contaminate? Come restituire loro l’originale bellezza, la loro purezza?» si domandava il 27 gennaio scorso, nel giorno della Memoria, lo scrittore Elie Diesel, ebreo scampato al campo di Buchenwald.
Ma già un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario.
Miracolo necessario ed urgente, tanto più oggi che di questa sindrome dei significati stravolti sono affette le parole più nobili, quelle che più ci coinvolgono nei sentimenti e nelle aspirazioni: amore, pace, libertà…
La «voce del padrone» non ama che proclamare se stessa; le sue parole, disancorate dalla realtà, sono puramente autoreferenziali, quando non vengono usate per occultare, appunto, ciò che dovrebbero svelare. Cessata la loro originaria e nobile funzione, quella di «tradere», consegnare, comunicare (di cui il termine «tradizione»), hanno finito per tradire (di qui il «tradimento») la realtà e, quindi, se stesse, la loro vocazione.

A noi il compito di sottrarle a questa losca manipolazione e restituirle alla loro originaria vocazione.
Non è un caso che la proposta della Rosa Bianca per una nuova politica inizia con questa sfida.
«L’argilla del mondo ha bisogno di un soffio. Il soffio delle parole. Quando l’argilla e il soffio si incontrano, sgorga la vita. Così è successo all’inizio, nella notte dei tempi, così accade ogni giorno. Da una parte la materia, un pezzo di terra, un pò di carne. Dall’altra parole. Parole che s’insinuano nelle crepe della materia e la mettono in moto. Parole che penetrano la terra, rendendola fertile. Parole che fanno l’amore con la carne così da far nascere i corpi delle donne e degli uomini.
Oggi, al posto di parole, bolle di sapone, leggere, libere, iridescenti ma vuote. Ed è per questo che i nostri corpi non sussultano più e dormiamo senza sogni e ci svegliamo con l’idea di sapere già tutto a memoria, di conoscere ormai l’esistenza in ogni suo penoso ingranaggio e che nulla più ci possa stupire o insegnare qualcosa. Siamo senza nome, persi in un dormiveglia. Ma basta il suono di una frase giusta e in un attimo siamo di nuovo noi: nome e cognome, fame e curiosità, desiderio di felicità e voglia di giustizia».

Don Aldo Antonelli




Il sequestro

Roraima / Brasile, 6 gennaio 2004. Latifondisti (fazendeiros) e risicoltori, con l’appoggio di indios, sequestrano tre missionari della Consolata a Surumú, a 220 km dalla capitale Boa Vista, e li detengono in ostaggio. Un fatto inedito a Roraima. Il giorno 8 i missionari vengono rilasciati. Ma la vicenda resta gravissima, e non solo perché sono stati vilipesi tre religiosi: un brasiliano, un colombiano e uno spagnolo.
Con il fattaccio, gli autori:
– hanno depredato una missione cattolica;
– hanno assalito l’annesso Centro di formazione indigena, sequestrando persino alcuni allievi;
– hanno attaccato a Boa Vista due istituzioni nazionali: la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) e l’Incra (Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria);
– hanno bloccato le vie di accesso a Boa Vista e le autostrade 174 e 401, che collegano rispettivamente al Venezuela e alla Guyana inglese;
– hanno impedito l’accesso di generi alimentari…
La ragione? Esprimere un secco no al governo federale per l’omologazione dell’area indigena Raposa/Serra do Sol, prevista per la fine di gennaio, dopo estenuanti pressioni durate un trentennio. Intanto, nel 1998, il ministro della giustizia firmava il decreto di demarcazione dell’area.
Il territorio, di 16.500 kmq, è abitato dagli indigeni Macuxi, Wapichana Ingarikò, Patamoma e Taurepang. Complessivamente 15.000 persone.
Ma c’è di più nei fatti del 6 gennaio. Sotto la punta di un iceberg, si cela il disegno perverso di conservare il territorio di Roraima nell’anarchia ed impunità.
Noi, al contrario, riteniamo che la legalità non solo sia possibile, ma soprattutto doverosa. Lo affermiamo confortati dalle seguenti esperienze positive.
– 1997, giugno-luglio. Le comunità indigene, dell’area ovest della Raposa/Serra do Sol, insorgono pacificamente, pressando il governo federale di Brasilia affinché allontani dal territorio i cercatori d’oro e diamanti (garimpeiros). Questi tuttavia, sostenuti da vasti settori della comunità dei bianchi, sostengono che l’intervento delle forze del governo federale avrebbe scatenato la guerra civile. Alla fine, di fronte alla polizia federale, i garimpeiros (benché armati) si arrendono senza colpo ferire.
– 1998. I garimpeiros occupano illegalmente l’area est della Raposa/Serra do Sol, e gli indios incalzano la Funai affinché allontani gli invasori. Costoro, ancora una volta, minacciano il caos sociale. Ma il 31 gennaio intervengono le forze federali, accompagnate da indigeni. E tutto si risolve nella tranquillità. La stessa società roraimense, pur ostile agli indios, non reagisce.
Dunque, l’ordine è garantito dal governo federale, mentre quello di Roraima è inetto e fomenta le invasioni nel territorio indigeno.
Dopo i fatti del 6 gennaio, il governo federale deve ristabilire l’«ordine», come vuole anche la bandiera nazionale del Brasile. Non farlo significherebbe avallare anarchia e impunità, su cui contano le autorità corrotte di Roraima.

Dal gennaio 2003 a Roraima è in corso la Campagna internazionale «Nos existimos», che vede i popoli indigeni, i contadini poveri e gli emarginati della città alleati contro l’impunità. La Campagna, promossa dalla diocesi di Roraima, missionari della Consolata, Centro indigeno, Centrale unica dei lavoratori, Centro dei diritti umani, ecc., rivendica pure l’omologazione in area continua della Raposa/Serra do Sol: omologazione che il presidente Luis Inazio Lula da Silva dovrebbe presto sottoscrivere.
Ci auguriamo che il presidente di una grande nazione democratica, come il Brasile, non si lasci intimorire da un pugno di facinorosi.
Nos Existimos,
Italia

Benedetto Bellesi




Missione da sfogliare

L a parrocchia è stato l’oggetto privilegiato dell’assemblea straordinaria della Conferenza episcopale italiana (Cei), svoltasi ad Assisi alla fine del novembre scorso. Oltre a rilevae difficoltà e problemi, a ribadie importanza e ruolo, i vescovi ne hanno delineato «il volto missionario», convinti che la «connotazione missionaria può aiutare la parrocchia a superare il rischio dell’autoreferenzialità, come pure di configurarsi come stazione di servizio».
Il riferimento alla missionarietà deriva dal programma tracciato nel documento Cei: «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia», in cui sono stati indicati gli orientamenti pastorali per il decennio 2001-2012. In esso si invita la chiesa ad «allargare il nostro sguardo… alla vera e propria missione ad gentes, paradigma dell’evangelizzazione»; a «non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato a “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio di tutta la comunità. L’allargamento dello sguardo verso un orizzonte planetario, compiuto riaprendo il “libro delle missioni”, aiuterà le nostre comunità a non chiudersi nel “qui e ora” della loro situazione peculiare e consentirà loro di attingere risorse di speranza e intuizioni apostoliche nuove guardando a realtà spesso più povere materialmente, ma nient’affatto tali a livello spirituale e pastorale» (46).

P er «dare concretezza alle decisioni indicate… per imprimere un dinamismo missionario» alle singole comunità cristiane, è in corso la preparazione del «Convegno missionario nazionale», che si terrà a Montesilvano (Pescara) dal 27 al 30 settembre 2004 ed ha come tema «Comunione e corresponsabilità per la missione».
Organizzato dall’Ufficio nazionale per la cooperazione tra le chiese, il convegno ha alcuni obiettivi molto importanti, spiega mons. Giuseppe Andreozzi, direttore dello stesso Ufficio:
– aiutare la comunità cristiana, e in particolare la comunità parrocchiale, a prendere coscienza che si deve aprire all’universalità, assumendo come paradigma della propria attività pastorale la missio ad gentes;
– superare il preconcetto che il compito missionario sia solo per «addetti ai lavori»;
– proporre nuove forme di evangelizzazione, perché tutta la comunità possa sentirsi missionaria;
– individuare e sostenere occasioni e strumenti di lavoro che concorrono a definire e qualificare l’apertura ad gentes della comunità cristiana.

T ale apertura non è a senso unico. Sfogliando «il libro delle missioni» le parrocchie italiane possono trovare risposte alle sfide che fanno anche dell’Italia una «terra di missione». Le comunità cristiane in Africa, Asia e America Latina hanno molto da insegnare in fatto di freschezza di fede vissuta, gioia delle celebrazioni, testimonianza fino all’eroismo e, soprattutto, ricchezza di ministeri laicali .
Una delle mete del documento Cei per il decennio in corso riguarda proprio «l’impegno dei fedeli laici alla testimonianza evangelica, all’assunzione di nuove forme ministeriali» (67). Soprattutto in questo campo «il libro delle missioni» può essere di stimolo e di esempio per valorizzare il ruolo dei laici, uomini e donne, trasformare la parrocchia in una «chiesa ministeriale», ancora tutta da inventare, senza scivolare in una ennesima «clericalizzazione».

Benedetto Bellesi




Gli angeli di pietra sono stanchi

GLI ANGELI DI PIETRA
SONO STANCHI

Messaggio alle comunità cristiane
nel mondo
G li angeli di pietra sono stanchi. Da 2.000 anni attendono i coloni cristiani a Gerusalemme… I coloni cristiani partirono a migliaia verso la Palestina per pulirla del sangue e distruggere le leggi dell’odio.
Finalmente i crociati della pace cammineranno sopra dune d’acqua per abbracciare il Cristo ferito, mille volte deriso, calpestato dalle armi: a Gerusalemme, Nazaret, Betlemme.
Quanti verrete, coloni, tra un miliardo di cristiani? Tutti i cristiani della terra. Tutti i cristiani uniti a difendere un popolo costretto alla morte e un altro costretto alla guerra.
Gli angeli di pietra piangono Gerusalemme. Gerusalemme di tutti i popoli, Gerusalemme di tutti gli dei e di un solo Dio. Gerusalemme del Monte degli Ulivi e del Golgota, dove sei?
La Pasqua non è più ebraica e non è cristiana, finché un’arma schiaccia la colomba della pace: la vita di una ragazza o di un giornalista cosa contano in terra di Palestina? Rabin è morto per la pace. Quante volte è stato ucciso Rabin!
Israele vedrà i granelli del deserto farsi uomini-scudo contro le stragi perpetue. Israele, città del Messia ucciso, risorto e che verrà.
Israele, è tempo di perdono: è tempo che l’Arca rapisca i malvagi della tua terra, perché chi attende preghi al muro del pianto, chi spera nel Risorto s’incammini premuroso per le vie dei miracoli e raggiunga le acque del Giordano.
Allora gli apostoli e i bimbi di Gesù ritoeranno a frotte, non da macerie e sangue, ma da case e orti profumati. Cristiana

Cristiana




Una pace che non dà pace

Cari amici di Missioni Consolata, prima di tutto vogliamo ringraziarVi per le attestazioni di simpatia con cui avete accolto il numero speciale della nostra rivista su «La guerra. Le guerre». Non ci aspettavamo una risposta così straordinaria: per telefono, posta e via elettronica, abbiamo ricevuto tante testimonianze di apprezzamento, alcune delle quali pubblicheremo nel numero di gennaio.

Qualcuno ci ha detto che siamo stati coraggiosi. Diciamo semplicemente che abbiamo fatto il nostro dovere, un servizio alla pace e alla verità, perché «la pace ha bisogno di verità – scriveva Giovanni Paolo ii nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1980 -. Verità significa, anzitutto, chiamare col proprio nome l’omicidio e i massacri di uomini e donne, qualunque sia la loro appartenenza etnica, chiamare col loro nome la tortura e tutte le forme di oppressione e di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, dell’uomo da parte dello stato, di un popolo da parte di un altro popolo».

Tempo fa, Beppe Grillo disse che «ormai restano poche voci a cantare fuori dal coro: quelle dei comici e dei missionari». Ne siamo lusingati; ma diciamo che sono tante, prima tra tutte quella del papa; anzi, è una schiera innumerevole di persone di ogni etnia, popolo e nazione che, a gran voce, condanna la guerra e chiede la pace. E ci siete anche voi, cari lettori, perché siete convinti, come noi, che la prima vittima della guerra è la verità.

Come ogni anno, il natale di Cristo Signore fa risuonare il suo annuncio: «Pace in terra agli uomini di buona volontà». Non si tratta, però, di una pace qualsiasi, che si acquista al supermercato, fatta di pacchetti, nastri e palle colorate, ma di quella vera, totale, che viene solo da Dio. È dono suo; anzi, è beatitudine da chiedere, accogliere, coltivare, costruire: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».

Ma non la si costruisce con la potenza e la prepotenza delle armi. Non basta disarmare le mani, come ci ricorda spesso il papa; ma occorre «disarmare le coscienze e i cuori», dove si annidano i nemici della pace: egoismo, odio, vendetta, prepotenza, menzogna, ingiustizia…

Dalla grotta di Betlemme al Calvario, il Dio della pace non si presenta con il braccio armato, ma nell’umiltà e nello svuotamento, nella mitezza e nel perdono, in una parola, nell’amore.

Per i credenti, e per ogni uomo di buona volontà, le armi della pace si chiamano: giustizia, solidarietà, mutua convivenza, accoglienza reciproca, ascolto e stima dell’altro, accettazione, perdono, riconciliazione, dialogo a tutti i livelli…

«La pace, prima che traguardo, è cammino, cammino in salita. Ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi. I suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti. E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere partito, ma chi parte» (don Tonino Bello).

Buon natale, cari amici lettori. In voi e attorno a voi trabocchi la pace, quella vera, che viene dall’alto, annunciata e promessa a tutti gli uomini di buona volontà.

Ricordiamo, però, che tale pace è dono dinamico, che «non lascia in pace», ma rimette in marcia.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Mercanti di salvezza

In questo numero iniziamo una nuova rubrica: «al supermercato delle religioni, viaggio-inchiesta tra i “nuovi” culti». Si tratta di un fenomeno allarmante anche per la società civile: governi di vari paesi europei (Francia, Belgio, Italia…) hanno censito il numero delle cosiddette «nuove religioni» e stilato rapporti sulla loro attività, da quando alcune di esse sono venute alla ribalta con gesti di suicidi collettivi o gravi violazioni delle leggi
Esse costituiscono una sfida per le chiese cristiane, per quella cattolica in particolare: non è un mistero il fatto che molti movimenti religiosi, fortemente ultraconservatori e integralisti, sono sovvenzionati dal governo americano, per contrastare l’attività che la chiesa svolge in difesa della giustizia e dei diritti umani nei paesi in via di sviluppo.

Nel mondo, secondo lo specialista americano Gordon Melton, tali gruppi sono circa 20 mila; la loro espansione interessa principalmente l’America Latina e l’Est. Ma anche in Italia, oggi, alcuni parlano di «invasione delle sètte»; altri di «invasioni di sigle». Il numero di adepti, infatti, rimane relativamente stabile e ridotto; ogni giorno nascono nuovi gruppi; ma altrettanti scompaiono.

Psicologi e sociologi spiegano che tale fenomeno emerge soprattutto nei periodi di crisi e transizione, come quella che stiamo vivendo. Da una parte, secolarizzazione della società, avvento dell’individualismo, massificazione e globalizzazione, fallimento delle ideologie… provocano il bisogno di sicurezza e salvezza, ricerca di significato per la propria esistenza, anelito a una società differente da quella attuale.
Dall’altra, nonostante il grido di Nietzsche: «Dio è morto», l’uomo è per natura religioso e la religione è una dimensione necessaria nella vita. Da qui il pullulare di movimenti, gruppi, logge, magia bianca e nera, religioni occulte ed esoteriche, riti diabolici: un mercato di salvezza per tutti i gusti, dove fioriscono commistioni, sincretismi, innovazioni, insieme al pullulare di truffatori di ogni genere, che lucrano sulla religiosità.

Non vogliamo fare di ogni erba un fascio, tanto meno scatenare una caccia alle streghe. Ma è chiaro che gli aneliti religiosi si intrecciano con interessi economici. Nostro scopo è fare chiarezza sulla natura e i comportamenti di certi gruppi religiosi e aiutare a non cadere nelle loro trappole, dalle quali, una volta scattate, non è facile liberarsi. Alcune «sètte» o «sigle», adoperano tecniche subdole e raffinate, desunte dalle modee scienze umane, che sfociano in autentici lavaggi del cervello, fino a far perdere la propria identità.

Non esiste un vaccino, ma ci sono medicine preventive. La prima è l’informazione: anche in questo caso vale il detto «se le conosci, le eviti»; un’informazione che, nel rispetto della libertà di coscienza e delle scelte personali, stimoli uno spirito critico più autentico e costruttivo.
In questo caso entra in gioco un secondo antidoto: approfondire la conoscenza della propria fede. La maggioranza di coloro che passano dalla chiesa cattolica a una «nuova» o altra religione, non ha mai gustato la bellezza di Cristo e del suo vangelo.

Anche il cristianesimo, quando cominciò ad affermarsi, fu considerato da ebrei e pagani alla stregua di una «sètta». I romani lo definirono «superstizione nuova e malefica», finché gli scrittori cristiani dimostrarono il contrario con vigore ed efficacia: i valori del vangelo fanno parte dell’anima umana, rispondono alle sue più profonde aspirazioni e si trovano, come «semi del Verbo», in tutte le tendenze culturali e religiose dell’umanità. Semi che hanno bisogno di diventare fiori e frutti di autentica felicità.
Da qui un terzo antidoto: tradurre la fede in testimonianza di vita e impegno missionario: anche in questo caso vale l’ammonimento di Giovanni Paolo II: «La fede la si accresce donandola».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




LA PACE NON SI AMMAINA

Passata la buriana della guerra del Golfo, sconfitto
Saddam, conquistati i punti strategici di
Bassora, Mossul e Baghdad, occupati i pozzi
petroliferi dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti,
anche il circo massmediatico internazionale, accorso
come mosche sulle piaghe purulenti di una «sporca
guerra preventiva», fa dietro front e tutto rientra
nel grigio anonimato del tran tran dell’informazione
soporifera dei giorni feriali.
Restano sul terreno le migliaia di morti innocenti e
senza volto, falcidiati da una potenza di fuoco tanto
impressionante quanto imperturbabile di fronte ai
lutti e tragedie causati dall’arroganza.
Durante i giorni del conflitto, larga parte dell’opinione
pubblica italiana e internazionale si era schierata
apertamente per la pace con manifestazioni, sit
in, incontri, dibattiti, digiuni e preghiere, stimolata
e sostenuta dall’autorevole presa di posizione di Giovanni
Paolo II. Egli non ha mai smesso di alzare la
voce, in forza anche dell’esperienza vissuta sulla sua
pelle durante la seconda guerra mondiale, diventando
così un punto di riferimento per tutti i costruttori
di pace e persone di buona volontà.
Un simile atteggiamento è stato stigmatizzato e
scheito da quella parte di società che, di fronte ai
problemi del mondo, non vede altra soluzione che
«mostrare i muscoli» e «menare le mani», appoggiati
dalle nostrane Platinette dell’informazione,
sempre pronte a incensare l’imperatore di tuo.
Ci preme sottolineare come i veri amanti della
pace non aspettano le sollecitazioni dei mass
media per prendere posizione. Da anni organismi
e associazioni cattoliche hanno organizzato e
proposto incontri sulle realtà tragiche del sud del
mondo: le guerre dimenticate che i nostri missionari
non hanno mai smesso di segnalarci e che noi, pur
con la limitatezza della nostra voce e mezzi, abbiamo
sempre offerto come spunti di riflessione alla comunità
ecclesiale e alla società civile.
Quanti incontri sulla tragedia dei Grandi Laghi, Timor
Est, Medio Oriente, indios e minoranze etniche,
bambini soldato, ex Unione Sovietica…!
A volte, pur avendo invitato relatori
di prestigio, ci si ritrovava solo con pochi amici: la
stragrande maggioranza della gente non veniva coinvolta
perché i grandi mezzi di comunicazione di massa
(ma anche i piccoli e mediani di casa nostra) se ne
guardavano bene dal coinvolgere e informare, preferendo
ammannire notizie pruriginose e piene di
suspense alla «grande fratello», per vendere qualche
copia in più o attirare ulteriori allocchi.
Di chi la responsabilità, allora, se la mobilitazione
di massa avviene solo quando il circuito
dei mass media fa da cassa di risonanza
agli avvenimenti importanti? Come spiegare il risalto
dato dai mass media inteazionali agli
interventi di Giovanni Paolo II sulla pace in Iraq,
con il disinteresse totale di tutte le altre volte che lo
stesso pontefice ha alzato la voce per porre un freno
alla tragedia dei Grandi Laghi?
Perché la Cnn o Al Jazeera non calano in massa in
Cecenia o in Sudan, inondandoci di informazioni di
prima mano sulla tragedia di questi popoli dimenticati
e su altre situazioni che attendono di essere presentate
al vasto pubblico internazionale? Chi muove
le fila dell’informazione planetaria?
Su queste situazioni, ognuno può farsi un’opinione,
grazie ad altri canali d’informazione: perché, allora,
non insistere su una vera, autentica e corretta mole
di notizie, in grado di aiutare le coscienze a leggere
la realtà e interpretarla, come le riviste missionarie
e la Misna fanno in maniera irreprensibile, senza
mai demordere di fronte alle mille difficoltà?
Vogliamo sottolineare questi interrogativi proprio
adesso che, finita la guerra in Iraq, tutto
sembra attenuarsi, favorendo il qualunquismo
di quei maliziosi che trovano mille scuse per non
prendere alcuna posizione di fronte ai problemi della
pace, ma sono sempre pronti a sbeffeggiare tutti
coloro (papa compreso) che, proprio perché hanno a
cuore le sorti della pace nel mondo, si impegnano senza
risparmiarsi ogni volta che essa è messa in pericolo
da texani, talebani o cosacchi di tuo!
La bandiera della pace non sarà mai ammainata dalle
nostre coscienze.

DON MARIO BANDERA