Io da che parte sto?

Tempo fa, sulla facciata della cattedrale di Cueavaca (Messico) fu appeso uno striscione che diceva: «Il mondo è diviso in oppressi e oppressori: tu da che parte stai?». Di fronte alle ingiustizie che colpiscono buona parte dell’umanità, l’interrogativo s’impone anche oggi e, soprattutto, invita a uscire dalle nostre ambiguità, per schierarci sempre più al fianco di chi, oggi come 2000 anni fa, è messo in croce da quanti vogliono mantenere l’ordine e la legge, a cui sta più a cuore la legge del sinedrio e dell’impero.
La scelta di campo non è facile, soprattutto quando tali ambiguità si nascondono sotto l’orpello religioso e la fede viene messa a servizio dell’ideologia del potere. Ne è un esempio quanto è capitato negli anni ’60-’70 del secolo scorso in America Latina: regimi militari, guidati da dittatori «cristiani», hanno massacrato, torturato, perseguitato, ucciso vescovi, preti, suore e migliaia di inermi catechisti e laici impegnati… per difendere la cosiddetta «civiltà cristiana».
È la logica di chi pretende d’impersonare l’impero del bene per opporsi all’impero del male. Una logica trionfante, oggi più che mai, non solo oltre oceano, dove, per indicare l’uso strumentale della religione è stato coniato il neologismo theocon (da theological conservative), cioè coloro che mettono la teologia a servizio di un’ideologia conservatrice.

V ari intellettuali, giornalisti, opinionisti e politici nostrani si sono subito definiti «teocon» (teoconservatori); termine poi tradotto, con un italiano più comprensibile, in «atei devoti» e «cristiani atei». (Oriana Fallaci, per esempio, si professa così: «Io sono un’atea cristiana. Sono cresciuta nella filosofia cristiana. Ma non credo in ciò che indichiamo col termine Dio»). Anche tanti credenti, definiti «cristianisti», nutrono le idee dei teocon.
Pur con i dovuti distinguo, tutti hanno in comune l’uso della religione per fini politici: con spirito da crociati, difendono il cristianesimo e la civiltà cristiana, identificati con l’Occidente, contro l’invasione islamica e rimproverano quei cattolici che si mostrano tiepidi nello «scontro di civiltà».
I teocon più seri parlano di «religione civile». Ne è un esempio il nostro presidente del Senato: egli si rammarica che nella Costituzione europea non sia stato inserito il riferimento alle «radici cristiane»; anzi, lo giudica quasi un suicidio; esalta il cristianesimo, i suoi valori, il messaggio evangelico e combatte il relativismo, nichilismo e scetticismo da sembrare un santo padre; per poi proporre una «religione civile» e auspicare una «religione cristiana non confessionale», in cui possano riconoscersi anche i non credenti. «Oggi, noi liberali non dobbiamo limitarci a dire “non possiamo non dirci cristiani” – spiega il presidente, citando Benedetto Croce -. Adesso “dobbiamo dirci cristiani”. E tutti gli europei dovrebbero dirlo. Soprattutto i laici… Oggi, nell’accezione comune, laico vuol dire non credente o addirittura ateo».
Svuotata di ogni trascendenza, la «religione civile» riduce la fede cristiana a ideologia, col compito di compattare la società civile, salvaguardare la cultura e l’identità nazionale, dare supporto etico allo stato ormai orfano di valori: un «supporto d’anima» che non influisce, però, negli orientamenti e scelte concrete di un mondo regolato dall’idolo del mercato.

È una seduzione insidiosa e pervasiva anche per la comunità cristiana. Non sono pochi a pensare che la fede non possa sostenersi senza l’appoggio dei poteri, senza politiche culturali, senza organicità sociale che la presidi e la difenda; senza cioè diventare civiltà cristiana o religione civile.
Sollecitata dalle attese dei politici, riconosciuta, applaudita e a volte ricompensata da Cesare per la sua utilità sociale, la chiesa è tentata di ricostruire un cristianesimo solido e misurabile, di ritornare a essere forza di pressione, anche se numericamente minoritaria, di recuperare gli spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie.
Cedere a tale tentazione equivale a ridurre la chiesa a una lobby etico-sociale, incapace di essere profezia, «sentinella della libertà, della giustizia e della pace» (Giovanni Paolo ii). Un rinnovato «ethos mondiale», affermava il card. Ratzinger, ora Benedetto xvi, non può nascere a tavolino… da pur nobili auspici intellettuali; ma può sorgere solo da «minoranze creative»: cioè cristiani convinti, uomini e donne che abbiano fatto l’incontro decisivo con Cristo come Salvatore, che si nutrano dei sacramenti amministrati dalla chiesa, nella quale riconoscano «la forza da cui sgorga la vita spirituale».
Parafrasando lo striscione di Cueavaca, possiamo domandarci: «Il mondo si divide in teocon, atei devoti, cristiani atei, cristianisti e cristiani convinti: io da che parte sto?».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Ricordando Romero

Lunedì 24 marzo 1980, mons. Oscar Romero, vescovo di San Salvador, fu assassinato mentre stava celebrando l’eucaristia nella cappella di un ospedale, insieme agli ammalati. Cadde sull’altare, mescolando il suo sangue al vino che stava offrendo per il sacrificio eucaristico. Fu ucciso perché si era schierato e identificato con i poveri, gli emarginati, i disprezzati, condividendone le sofferenze, sull’esempio di Cristo, fino a dare la vita.
«Credo di conoscere il vangelo – disse un giorno in un incontro di preghiera comunitaria -; ma sto imparando a leggerlo in altro modo». La radicalità evangelica era la base della sua libertà straordinaria, che lo spingeva ad ammonire i potenti, fino a chiedere ai soldati di disubbidire agli ordini di morte, come fece il giorno prima del martirio, nell’omelia tenuta nella cattedrale, «Fratelli… davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è tenuto a obbedire un ordine che è contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno deve adempierla. È tempo che recuperiate e obbediate alla vostra coscienza, piuttosto che agli ordini del peccato. La chiesa, che difende i diritti di Dio, la dignità umana, la persona, non può tacere davanti a tanto orrore… In nome di Dio e di questo popolo sofferente, vi supplico, vi chiedo, vi ordino: cessi la repressione».
Era una morte annunciata. «Se mi uccidono, risorgerò nel mio popolo» aveva detto poco tempo prima.
A 25 anni dal suo martirio, Romero è vivo non solo nella sua gente e nelle chiese dell’America Latina, ma anche in quella universale e in tutti coloro che nel mondo si schierano in difesa della dignità della persona, per la giustizia e per la pace.

Egli sapeva che tale scelta evangelica gli avrebbe procurato la persecuzione, come ebbe a dire in una omelia del 1977: «La persecuzione è qualcosa di necessario nella chiesa. Sapete perché? Perché la verità è sempre perseguitata… Quando un giorno fu domandato a Leone xiii quali siano le note che distinguono l’autentica chiesa cattolica, il papa disse subito le quattro conosciute: una, santa, cattolica, apostolica. “Aggiungiamone un’altra – disse il papa -: perseguitata”. La chiesa che compie il suo dovere non può vivere senza essere perseguitata».
A 25 anni dalla morte, Romero continua a essere un profeta scomodo, non solo ai potenti della terra, ma anche nella chiesa: nell’indirizzare il processo di beatificazione qualcuno cerca di farlo passare come confessore della fede, piuttosto che come martire della giustizia.
Scriveva Giovanni Paolo ii nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente: «Gli eventi storici legati alla figura di Costantino non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane. Al termine del secondo millennio, la chiesa è diventata nuovamente chiesa di martiri, come nei primi tre secoli» (Tma 37).
È un’affermazione coraggiosa, che va oltre quella di Leone xiii: non solo la persecuzione è una nota dell’autenticità della chiesa; ma questa è più più libera quando è osteggiata e perseguitata.

La libertà evangelica di Romero è un esempio valido anche per noi, in Italia ed Europa, dove da secoli, i cristiani vivono liberi e rispettati, cittadini con pieni diritti e libertà.
La perdita di certi privilegi acquisiti, per cui si sente levarsi voci di lamento e vittimismo, è nulla in confronto alla «grande tribolazione» che vivono i nostri fratelli e sorelle in altri continenti, dove i cristiani pagano con il sangue la loro sequela del Signore, la radicalità delle beatitudini, la fame e sete di giustizia, la ricerca della pace, il farsi prossimo dei poveri, dei malati, dei carcerati degli stranieri.
Oggi, piuttosto, esiste un’altra persecuzione, di cui parlava Ilario di Poitiers nel 360, all’inizio dell’era costantiniana: «Ora combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… che non flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre, non ci confisca i beni dandoci così la vita, ma ci fa ricchi per darci la morte; non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù; non ci stringe i fianchi con catene, ma s’impossessa del nostro cuore; non ci taglia la testa, ma uccide l’anima con l’oro e il potere…» (Contra Costantium 5).

Benedetto Bellesi




Resistenza alla barbarie

È accaduto tra il 21 e il 22 febbraio scorso, a San José de Apartadó Urabá, dipartimento di Antioquia, nord-ovest della Colombia: 7 civili della Comunità di pace, tra cui il leader Eduardo Guerra e tre bambini, sono stati massacrati a colpi di machete, fatti a pezzi e gettati in un fossato.
«Una vergogna per l’umanità» ha esclamato Amerigo Incalcaterra, direttore aggiunto dell’Ufficio colombiano dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. La vergogna non sta solo nella barbarie dimostrata in tale eccidio, ma che a compierlo sia stato l’esercito, cui è affidato il compito di proteggere tali Comunità. Quello di San José è solo l’ultimo di una lunga serie di crimini, con cui si vuole uccidere ogni speranza di pace in un paese martoriato da 40 anni di guerra civile.

P assaggio obbligato verso i dipartimenti circostanti, il territorio di San José e le sue 32 frazioni è un punto strategico per gli attori del conflitto armato: esercito, guerriglia e paramilitari. Inoltre, questa zona, essendo molto fertile e ricca di carbone, ha attirato l’attenzione di imprese nazionali e transnazionali, per le quali è utile lo sfollamento messo in atto dai paramilitari, che terrorizzano la gente e la costringe ad abbandonare le loro terre.
Di fronte a tale situazione e al problema dello sfollamento forzato a livello nazionale, il vescovo della diocesi di Apartadó, mons. Isaías Duarte Cancino (assassinato nella città di Cali nel 2002), propose la costituzione di spazi neutrali, dove fosse garantito il rispetto alla vita e all’integrità della popolazione civile. Il 23 marzo 1997, 500 contadini di 17 frazioni di San José decisero di organizzarsi per allontanare la guerra dal territorio, di non collaborare con nessun gruppo armato, di sviluppare un processo di neutralità, in un paese dove questa è severamente combattuta da tutti gli attori armati.
Con l’accompagnamento formativo e l’assistenza giuridica della Commissione intercongregazionale di Giustizia e Pace, la Comunità di pace di San José si è organizzata in modo tale da diventare un interlocutore per il governo, per istituzioni nazionali e inteazionali.
Con la strategia di vivere in Comunità e lavorare in gruppo, i contadini hanno riconquistato poco a poco il territorio perso, hanno creato le condizioni per il ritorno di tutte le famiglie nelle proprie terre e dato vita a strutture di organizzazione sociale, formazione culturale, produzione e commercializzazione dei frutti del loro lavoro.
Tale processo non è stato indolore: oltre un centinaio di persone della Comunità di pace sono state uccise da formazioni guerrigliere, esercito e paramilitari. Senza contare le distruzioni, furti, attacchi e minacce.

L a determinazione della Comunità di San José di continuare il processo di resistenza non violenta, le ha attirato l’attenzione di numerosi organismi inteazionali: la rivista statunitense Fellowship of Reconcillation le ha assegnato il premio Pfeffer della pace.
Su raccomandazione della Corte interamericana dei diritti umani, la Corte costituzionale della Colombia, lo scorso anno, ha dichiarato che la Comunità di pace ha diritto a una protezione speciale da parte delle forze armate, perché regolarmente esposta alle vessazioni della guerriglia e dei paramilitari.
La continuazione di questo processo di resistenza civile e nonviolenta dipende in larga misura dal coinvolgimento di ampi settori dell’opinione pubblica e dall’azione di diverse organizzazioni nazionali ed inteazionali. Amnesty Inteational ha avviato una campagna di pressione sul governo colombiano, in difesa di questa comunità (www.amnesty.it/primopiano/colombia).
Tenendo conto della degradazione e ferocità del conflitto colombiano, la sola esistenza della Comunità di pace di San José di Apartadó (e di altre esperienze simili) è già un successo e prova che è possibile resistere collettivamente alla guerra e alla barbarie.
Tale esperienza, poi, va oltre la semplice neutralità. La Comunità di pace, con i suoi processi economici di tipo comunitario, le relazioni democratiche di autogoverno, la convivenza civile che risolve le tensioni pacificamente, testimonia che è possibile un’alternativa al modello dominante di sviluppo economico e convivenza sociale sia in Colombia che in altre parti del mondo.
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Eucarestia & Missione

In questo anno, consacrato all’eucaristia, i cristiani sono invitati ad accostarsi con rispetto e devozione al mistero della presenza di Cristo in mezzo all’umanità. Il mondo missionario s’interroga su come la sua azione di evangelizzazione e di promozione umana può far riferimento all’eucaristia, quale momento privilegiato di riflessione nel suo incedere sui sentirneri della storia umana.
In una sana prospettiva missionaria, oltre alla devozione e al culto liturgico che le sono dovuti, l’eucaristia contiene numerosi e puntuali riferimenti all’impegno di denuncia per i mali della terra e di solidarietà con tutti gli oppressi del mondo. Ecco alcuni esempi.
Durante la messa della notte di natale 1537, nella cattedrale di Hispaniola (oggi Santo Domingo), fra’ Montesino de Guzmán, pronunciò una fortissima omelia contro i conquistadores spagnoli, che sulle terre appena scoperte rubano, ammazzano, seviziano gli indios. Quell’omelia colpì profondamente un giovane novizio domenicano, Bartolomé de las Casas: scosso dalle parole del suo confratello, diventò il più strenuo difensore degli indios.
Quella denuncia, pronunciata in una solenne celebrazione eucaristica, fu un incisivo punto di partenza per l’attenzione e la cura che la chiesa latinoamericana ha sviluppato verso gli indigeni lungo i secoli, difendendoli dai soprusi dei nuovi arrivati.
Sempre in un contesto prettamente missionario, l’eucaristia si fa memoria di martirio e celebrazione di speranza. Questo aspetto è testimoniato dallo scrittore cattolico giapponese Susaku Endo nel suo romanzo Silenzio, dove viene narrata la persecuzione che, tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600, annientò tutte le comunità cristiane fondate da san Francesco Saverio. Si salvò solo un «piccolo resto». Nel 1870, quando i missionari europei poterono rientrare, arrivati nel porto di Nagasaki, si sentirono chiedere dai discendenti di quei cristiani giapponesi di celebrare l’eucaristia in memoria dei loro martiri: un’eucaristia attesa per più di 200 anni!

I n occasione dell’anno eucaristico, iniziato proprio nello scorso ottobre, mese missionario per eccellenza, Giovanni Paolo ii ha ripreso ed evidenziato questi temi nella lettera apostolica Mane nobiscum Domine. In essa il papa ricorda che «l’eucaristia ci spinge a mostrare solidarietà verso gli altri, rendendoci promotori di armonia, di pace e, specialmente, di condivisione con i bisognosi.
L’«Anno dell’Eucaristia» deve condurre le comunità diocesane e parrocchiali a un particolare interessamento per le varie manifestazioni della povertà nel mondo, come fame e malattie nelle nazioni in via di sviluppo, solitudine degli anziani, disoccupazione, sofferenze degli immigrati. Questo criterio di carità sarà il «segno dell’autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche».
L’eucaristia, prosegue il papa, «non è solo espressione di comunione nella vita della chiesa; essa è anche progetto di solidarietà per l’intera umanità. Nella celebrazione eucaristica la chiesa rinnova continuamente la sua coscienza di essere segno e strumento, non solo dell’intima unione con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano».
Ogni messa, anche se celebrata nella più umile delle comunità e nelle regioni più sperdute della terra, porta in sé il segno indelebile della universalità. Il cristiano che partecipa all’eucaristia, impara a farsi promotore di comunione, di pace, di giustizia e di solidarietà in tutte le circostanze della vita.

I l nuovo millennio è iniziato avendo davanti a sé lo spettro del terrorismo e la tragedia della guerra. La grande famiglia missionaria, che reca in sé come la coscienza storica di un cammino di evangelizzazione che ha plasmato intere generazioni, chiama i cristiani a vivere più che mai il mistero dell’eucaristia come scuola di pace, in cui uomini e donne, partecipando alla vita di Cristo, si fanno tessitori di dialogo e comunione, oltre che costruttori incessanti di cammini di giustizia e di pace.
Interessanti pagine di vita attendono ancora di essere scritte nel meraviglioso libro della missione, da chi con fede e umiltà celebra e partecipa al mistero dell’eucaristia.

Mario Bandera

Mario Bandera




“Vorrei ma non posso…”

Lo scorso anno, a Stresa, sul Lago Maggiore, si è tenuto l’incontro The World Political Forum, avente per tema: «Povertà nel mondo: una sfida alla globalizzazione». Ho avuto la possibilità di parteciparvi; penso che valga la pena sottolineare qualche aspetto che merita ulteriore approfondimento.
È fuori discussione che qualunque sforzo di analisi e programmazione per risolvere la drammatica situazione della povertà e della fame nel Terzo Mondo è meritevole di attenzione. Sotto questo profilo ben vengano iniziative che, mettendo attorno a un tavolo tanti personaggi famosi della politica internazionale, ricerchino soluzioni fattibili, atte a dare una svolta alla stagnante condizione esistente.
I politici presenti a Stresa erano effettivamente di primissimo piano: da Michail Gorbacev a Boutros Ghali, da Benazir Bhutto a Mario Soares, da Wojciech Jaruzelski a Lionel Jospin, da Giulio Andreotti a Oscar Luigi Scalfaro e via dicendo; gente abituata a gestire il potere con acume e intelligenza, capaci anche di dare svolte epocali al corso della storia (basti pensare a quello che ha fatto Gorbacev nella ex Unione Sovietica) per capire che i discorsi che sono stati fatti erano veramente incisivi e coglievano nel segno per quello che riguardava i problemi trattati.
Per la verità, ad ascoltarli sembrava di «leggere» una rivista missionaria con le ultime novità dalle periferie del mondo.

I l limite di quest’incontro, però, sta proprio nel fatto che «le vecchie glorie» presenti, che si sono alternate discettando su questi temi, sono ormai politici fuori dalla mischia o in pensione, assolutamente non più in grado di determinare nessun orientamento né economico, né sociale, né politico, in grado d’influenzare le scelte dei governi e la vita dei popoli del Terzo Mondo.
Anzi, proprio l’ascoltare discorsi innovativi, per certi versi (sulle loro bocche) rivoluzionari, portava a considerare che forse la profondità delle analisi e la chiarezza delle soluzioni dette, erano determinate dal fatto che a questi discorsi non sarebbe seguita nessuna presa di posizione politica.
Tanto per essere chiari, sentire relatori di prima grandezza, che hanno avuto in mano i destini dell’umanità per periodi abbastanza lunghi, affermare che bisogna porre un freno alla corsa agli armamenti, azzerare il debito estero e condannare la politica protezionistica dei rispettivi paesi, che impedisce ai prodotti del Terzo Mondo di entrare nel libero mercato, sembrava davvero di ascoltare padre Alex Zanotelli in una delle sue profetiche prese di posizione.
Purtroppo, e qui sta il vero tallone d’Achille di questo Forum: i politici, pur autorevoli, che affermavano queste cose, non hanno più autorità per determinare linee concrete di azione, in grado di dar seguito alle loro parole.
Sembrava quasi di sentire il ritornello di una canzone alla moda qualche tempo fa che diceva: «Vorrei ma non posso…», nel senso che questi personaggi, quando occupavano posti di rilievo nei rispettivi governi, potevano, ma non hanno voluto cambiare nulla; adesso che vorrebbero fare qualcosa, non possono in quanto sono fuori dalle stanze dei bottoni.
E i poveri, nel frattempo, come sempre stanno a guardare.
Mario Bandera

Mario Bandera




EDITORIALELa via della pace

«Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male». Queste parole, scritte da san Paolo ai cristiani di Roma, costituiscono il titolo e il motivo dominante del messaggio di Giovanni Paolo ii per la 38a Giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio, ma deve ispirare tutto il 2005.
Il tema intende sollecitare una presa di coscienza sul male come «causa e fonte di conflitti e guerre» e, al tempo stesso, sul legame inscindibile tra la pace e il bene morale, concetto da cui trae concretezza uno dei principi più rilevanti della dottrina sociale della chiesa: quello del «bene comune universale».
Per avere la pace, infatti, non basta rifiutare il male e «ripudiare la guerra», come sancisce la nostra Costituzione; occorre fare scelte ispirate e orientate al bene comune. Fondamentale diventa, al riguardo, la concezione dei «beni materiali» che, secondo la dottrina sociale della chiesa, devono avere una «destinazione universale».
L’impegno nel ricercare il bene e rifiutare il male non può non prendere in considerazione i tanti problemi sociali ed economici, le disuguaglianze, le privazioni di ogni genere, le insicurezze, le ingiustizie diffuse che gravano sulla vita dei popoli. «C’è una stretta connessione tra diritto allo sviluppo e diritto alla pace» ricorda il papa, ribadendo un principio da lui ripetutamente affermato.

Purtroppo le armi continuano a insanguinare il pianeta. Una ricerca di prossima pubblicazione, promossa della Caritas Italiana, rivela che le vittime civili dei numerosi conflitti in corso sono in continuo aumento: il 93% dei «caduti in guerra» sono uomini, donne e bambini che con la guerra non hanno niente a che fare. Ai «caduti», si aggiungono altre cifre sconcertanti: 35,5 milioni di profughi e 300 mila bambini soldato.
La ricerca sottolinea che, mentre una stringente categoria tecnica conta 19 conflitti armati «di rilievo» nel mondo, sono molto più numerosi quelli «dimenticati» o «taciuti», in cui la violenza su vasta scala continua a mietere un altissimo numero di vittime.
Ormai si parla di guerre infinite, sia per la cronicità di certi conflitti, in cui è sempre più difficile distinguere le fasi di guerra da quelle di pace, sia per la diffusione nello spazio, a causa del terrorismo internazionale.
Inoltre, è sempre più evidente la relazione tra conflitti armati e dinamiche di impoverimento: il 90% delle situazioni di guerre e di violenza nasce nei cosiddetti paesi in via di sviluppo.

Tra tanti dati preoccupanti, qualche barlume di speranza. Alcuni paesi (Etiopia ed Eritrea, Guinea Bissau, Sierra Leone) le situazioni sono risolte o in netto miglioramento.
Inoltre, si registra una crescente attenzione ai conflitti dimenticati: i media ne parlano sempre più spesso, anche se non ne approfondiscono le cause e dinamiche.
Note positive sono foite da un sondaggio effettuato da Swg, secondo il quale il 76% degli italiani ritengono la guerra un elemento evitabile; per il 78% non esistono «guerre giuste»; l’80% sostiene che il ruolo dell’Onu dovrebbe essere potenziato, mentre il 91% ritiene che non ci siano paesi al sicuro da attacchi terroristici. Inoltre, la maggioranza degli intervistati (42%, 5 punti percentuali in più rispetto al 2001) ha indicato il papa e la chiesa cattolica tra le voci che più spesso si alzano contro la guerra e l’ingiustizia.
Intanto, nel suo messaggio, il papa continua a esortare tutti alla «responsabilità personale e collettiva», perché tutti ci impegniamo nella ricerca della via del «bene», come la via più sicura e veloce per giungere alla pace.

Benedetto Bellesi




EDITORIALEPace preventiva

Era nella sua casa natale, vicino a Nyeri (Kenya), il 9 ottobre scorso, quando le fu comunicato che le era stato assegnato il premio Nobel per la pace 2004. Per celebrare l’inaspettata notizia, Wangari Maathai ha piantato con le proprie mani un piccolo nandi flame, un albero tipico della vegetazione locale.
Prima africana a ricevere il Nobel per la pace, Wangari Maathai, 64 anni, vanta altri primati: laureata in biologia all’università del Kansas (Usa), fu la prima donna in Africa centro-orientale a ottenere un dottorato di ricerca; entrata nel dipartimento di medicina veterinaria all’università di Nairobi come ricercatrice e poi docente, diventò, nonostante lo scetticismo e l’opposizione maschilista di allievi e colleghi, la prima preside della stessa facoltà; nel 1977 fondò il movimento Green Belt (cintura verde), che ha piantato oltre 30 milioni di alberi.
Nella sua crociata ambientalista Maathai coinvolse decine di organizzazioni non governative e centinaia di migliaia di persone, donne soprattutto, creando progetti dal basso e offrendo occupazione, per frenare l’erosione del terreno e lo spreco delle riserve d’acqua: un fenomeno che, specie in Africa, causa una reazione a catena, i cui anelli sono siccità, sottosviluppo, malnutrizione e malattie d’ogni genere.

A lla salvaguardia del creato, la leader kenyana ha sempre unito la lotta per la democrazia e la difesa dei diritti umani dei più poveri e marginali, fino a sfidare lo strapotere del presidente Daniel Arap Moi. Nel 1997 si candidò alla presidenza del paese, ma il suo partito ritirò la sua candidatura pochi giorni prima del voto; nel 1998 riuscì a bloccare un progetto del governo, che prevedeva la distruzione di una parte dell’Uhuru Park, polmone verde di Nairobi, per fare spazio a un complesso residenziale di 60 appartamenti.
Tale impegno civile le procurò fama internazionale, insieme all’opposizione del regime e incomprensioni familiari: fu più volte incarcerata; nel 1999 venne ferita alla testa mentre piantava alberi nella foresta di Karura (Nairobi); negli anni ’80 fu abbandonata dal marito, un ex deputato da cui ha avuto tre figli, protestando che era «troppo istruita, troppo forte, troppo riuscita, troppo testarda e troppo difficile da controllare».
Ripresentatasi alle elezioni del dicembre 2002, è stata eletta al parlamento e, attualmente, ricopre la carica di sottosegretario al ministero dell’ambiente, risorse naturali e fauna selvatica.

N on c’è pace senza la salvaguardia del creato, abbiamo scritto nell’editoriale di settembre. Lo conferma la signora Maathai, commentando a caldo la notizia della sua premiazione: «La maggior parte dei conflitti in Africa e in altre parti del mondo derivano da una lotta per accaparrarsi le risorse naturali. Dobbiamo garantire che vi sia giustizia nella distribuzione di queste ricchezze. Occorre una pace preventiva: è necessario evitare le guerre, invece di risolverle quando sono ormai iniziate. La protezione dell’ambiente e la gestione delle sue risorse sono essenziali; ma per una vera pace è necessario garantire anche equità e giustizia».
L’attribuzione del premio Nobel alla coraggiosa donna kenyana è una pietra miliare nel riconoscimento del ruolo, ancora misconosciuto, delle donne in tutto il continente africano. Mogli, madri, infaticabili lavoratrici, esse sono le spine dorsali della società. Sulle loro spalle gravano il peso e le responsabilità del vivere quotidiano.
Le donne sono, le mani invisibili che, silenziosamente, da sempre, costruiscono l’Africa, ne strutturano la società e ne provocano i cambiamenti: esse sono il motore del futuro, a patto che vengano loro riconosciuti tutti i diritti e maggiore spazio e voce nella vita culturale, politica e sociale.

Benedetto Bellesi




Conversione ecologica

Da alcuni decenni il problema ecologico è dibattuto a livello internazionale. Da un punto di vista sociale, l’ecologia è diventata un problema di coscienza civile, la questione etica per eccellenza, soprattutto nella prospettica occidentale. Dai vari summit mondiali tenuti su tale argomento, si sono levate voci allarmanti, prospettando un futuro catastrofico per il nostro pianeta e di ogni essere vivente che lo abita, se l’uomo non inverte la rotta del dissennato sviluppo economico e consumistico e non imbocca la strada di uno sviluppo sostenibile.
Nella visione cristiana, non è in gioco solo un’ecologia «fisica», attenta a tutelare l’habitat dei vari esseri viventi, ma anche un’ecologia «umana», che renda più dignitosa l’esistenza delle creature, protegga il bene radicale della vita in tutte le sue manifestazioni, facendo sì che l’ambiente si avvicini sempre più al progetto del Creatore.
L’impegno per la promozione della vita e la percezione di un disegno provvidenziale della creazione sono due momenti inscindibili della «teologia cristiana della natura», che riecheggia nell’insegnamento del magistero della chiesa nei riguardi del problema ecologico.
Può sembrare contraddittorio: l’ecologia è una scienza concreta, mentre la teologia ci parla dell’uomo e del suo rapporto con Dio. Invece il legame c’è ed è molto profondo, dal momento che la teologia cristiana mette al centro l’uomo creato in questo mondo e per questo mondo.

L a natura vivente, vegetale e animale, partecipa all’«opera redentrice di Cristo» ha ricordato il papa nella Novo Millennio. «La natura stessa, com’è sottoposta al non senso e al degrado provocato dal peccato, così partecipa della gioia e della liberazione di Cristo». La frase rievoca un’espressione celebre e «scandalosa» della lettera di Paolo ai Romani: «Tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce, perché anch’esso sarà liberato». Ogni filo d’erba sospira la liberazione che viene da Cristo e l’aspetta dall’uomo, il solo vivente che possa deliberatamente salvarsi e, insieme a sé, salvare gli altri esseri viventi. È più che teologia: è escatologia della natura.
Dio ha dato all’uomo la responsabilità sulla natura, ma l’uomo, devastandola, «ha deluso l’attesa divina», per cui occorre «una conversione ecologica» ha sottolineato più volte Giovanni Paolo ii. Si tratta di cambiare mentalità nei riguardi del creato e della vita, che sono doni di Dio a servizio di tutti e non da sprecare egoisticamente. «Il dominio dell’uomo sulla natura non si faccia assoluto, ma riflesso della signoria unica e infinita di Dio – ammonisce ancora il papa -. Se l’uomo si fa della natura non custode, ma tiranno, la natura si ribella».
Tradotta in altri termini, frequenti nel magistero della chiesa, tale conversione consiste in nuovi modelli di vita e sviluppo, a livello personale e globale.

L a salvaguardia del creato, afferma ancora il papa, è una delle sfide del nuovo millennio, insieme a quelle della pace e del dialogo tra le culture e le religioni.
Di tale affermazione si fa portavoce anche il Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee), che alla fine della consultazione tenuta a Namur (Belgio) all’inizio del giugno 2004, afferma: «La responsabilità per il creato è una sfida centrale per il futuro della terra, per la difesa della pace e anche per la testimonianza cristiana nella società contemporanea».
Riecheggiando il messaggio del papa per la Giornata mondiale della pace del 2003, «non c’è pace senza giustizia», i vescovi affermano che «non c’è giustizia senza corretta gestione e salvaguardia delle risorse del creato. Dietro ogni conflitto c’è di fatto un problema di ripartizione delle risorse naturali. Sono necessarie azioni concrete e dialoghi intensi per fare in modo che i conflitti ecologici sull’accesso alle risorse di acqua (come in Medio Oriente), petrolio (in Iraq) e terra coltivabile (Africa) vengano bloccati e non trasferiti sul piano religioso».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




EDITORIALEScuola di assassini

Di fronte alla polemica sull’utilizzo della tortura sui prigionieri iracheni e la ripetitiva presentazione di immagini truculenti di tali fatti, non posso non riandare con la memoria all’esperienza vissuta sulla mia pelle negli anni ’70, mentre ero in Uruguay.
In quegli anni tutta l’America Latina era praticamente un enorme campo di concentramento, gestito da dittature militari che imponevano modelli sociali e politici che prevedevano l’abolizione della democrazia e l’instaurazione di regimi totalitari, al servizio delle multinazionali.
Insieme ai sacerdoti novaresi e a tutti i missionari italiani che lavoravano in quegli anni nell’America Latina, ci toccò la sorte di condividere il dolore e la sofferenza di tante famiglie innocenti, profondamente toccate dalla detenzione dei loro cari, della tortura e in diversi casi anche del dramma dei desaparecidos.
Per una serie di circostanze imprevedibili, mi trovai coinvolto nella vicenda giudiziaria e detenzione di don Pierluigi Murgioni, integerrimo sacerdote bresciano Fidei donum, incarcerato e ripetutamente torturato: lo vedevo una volta al mese durante i colloqui che i detenuti avevano con i familiari e gli amici; tramite lui entrai in contatto con l’umanità dolente dei prigionieri politici e delle loro famiglie ferite e umiliate dalla barbara pratica della tortura.
La cosa più sconcertante fu la scoperta che la tortura era una prassi abituale non solo per estorcere informazioni, ma per creare terrore e soggezione fra i prigionieri.
I raffinati artisti della tortura si laureavano alla famigerata School of Americas (Soa), fondata nel 1946 a Panama e trasferita nel 1984 a Fort Benning, in Georgia (Stati Uniti). In 58 anni di vita ha insegnato a più di 60 mila soldati latinoamericani, tecniche di repressione, guerra d’assalto e psicologica, spionaggio militare e tattiche per interrogatori. Tra di loro, è certo, passarono anche ministri e responsabili di governo di vari paesi del Centro e Sud America.
Tra le centinaia di migliaia di latinoamericani torturati, assassinati, massacrati, fatti sparire o costretti a fuggire ad opera dei «diplomati» della Scuola delle Americhe (soprannominata «scuola di assassini») ci sono educatori, sindacalisti, studenti, personale religioso, preti e frati, come il domenicano Frei Betto, che, in Battesimo di sangue (1983), ha raccontato l’odissea patita da lui e dai suoi confratelli nelle carceri brasiliane, dove furono ripetutamente torturati da squadre speciali, addestrate quasi in maniera scientifica a spezzare lo spirito di resistenza dei prigionieri.
Pur riacquistando la libertà (furono esiliati in Francia), alcuni di loro non riuscirono più a liberarsi dallo spettro dei torturatori: uno di questi domenicani, Tito de Alencar Lima, si suicidò, lasciando scritto su un pezzo di carta: «È meglio morire che perdere la vita!».

T utte queste cose venivano ampiamente raccontate nei periodici rientri in Italia, ma restava sempre un’amarezza profonda: spesso e volentieri non si era creduti.
In clima di guerra fredda, nella contrapposizione Usa-Urss, il regno del male da combattere era da una sola parte: gulag, prigioni della Lubianka, efferatezze del Kgb, epurazioni e crudeltà staliniste. Ogni volta che si raccontava delle nefandezze incontrate sulle strade dell’America Latina, si era tacciati di essere al soldo dei bolscevichi; anche la più cristallina testimonianza veniva rifiutata: l’ottusità mentale di molti benpensanti era incapace di percepire che anche il sistema di potere americano generava mostri identici.
Con la dissoluzione dell’impero sovietico si credeva che la tortura fosse sparita. Invece le immagini del carcere di Abu Grahib (Baghdad) sono su internet alla portata di tutti. Ci sia consentito di dissentire e denunciare, oggi come ieri, per costruire con biblica speranza e rinnovato vigore un mondo dove queste cose non succedano più.
don Mario Bandera

Mario Bandera




EDITORIALEMissionari con la “M” maiuscola

Missione, dal latino «mittere» (mandare): una parola sulla bocca di tutti. Curiosamente ognuno ne parla, vantandone una sorta di diritto di proprietà. A cominciare dal mondo ecclesiale, troppi aspetti della vita pastorale sono etichettati come «missione»; a forza di sentire che «la chiesa è missionaria per natura» e che «si è missionari in forza del battesimo», tanti cristiani si credono tali senza sentire affatto l’urgenza dell’evangelizzazione.
Ma al di là del significato teologico, si tratta di un vocabolo inflazionato, utilizzato a proposito o a sproposito da politici, intellettuali, operatori umanitari e militari. Quante volte si parla di «soldati… in missione»
Senza voler indugiare in sterili polemiche, sarebbe importante cogliere la linea di demarcazione tra la missione di chi ha fatto una scelta a carattere religioso e altri tipi di missione. Poco importa che si tratti di gesuiti, salesiani, saveriani, comboniani o della Consolata, tutti coloro che appartengono a queste realtà congregazionali non ricevono mercede alcuna; la loro è una scelta di vita totalizzante e non vanno in giro armati.
Vivono, alcuni addirittura da decenni, nelle periferie del «villaggio globale» in Africa, in America Latina, in Asia o Oceania, prodigandosi per i poveri, senza peraltro che la madrepatria – l’Italia nella fattispecie – sembri accorgersene. Rischiano spesso la vita, vengono sequestrati o addirittura uccisi nel quasi totale disinteresse della grande stampa.
Nel gennaio del 1999, ad esempio, furono rapiti dai ribelli alla periferia di Freetown (Sierra Leone) ben 13 missionari, tra cui sei Missionarie della Carità, la congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta, delle quali quattro persero tragicamente la vita.

Se da una parte è opportuno riconoscere le competenze e, dunque, il valore delle varie professionalità sul campo, al di là del fatto che uno sia in divisa, impegnato in un’operazione di pace o cornoperante a servizio di un’organizzazione non governativa, dall’altra non è lecito fare di tutte le erbe un fascio.
Vi sono diversi modi di interpretare la solidarietà a partire proprio dai valori ispiratori che possono prescindere o meno dalle indennità, dai contributi o da qualsiasi altra forma di agevolazione. Lo scorso anno, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi disse pubblicamente che i missionari fanno onore all’Italia per la loro dedizione incondizionata in terre lontane.
Siamo certi che le sue siano state parole sincere, ma che vorremmo fossero anche accompagnate da una maggiore attenzione da parte dello stato. Basti pensare che quando i religiosi e i laici missionari sono all’estero è impedito loro di percepire la pensione sociale e ricevere ogni forma di assistenza mutualistica.
Ma forse proprio per questo è giusto dire che sono missionari con la «M» maiuscola.

Giulio Albanese
Direttore di MISNA

Giulio Albanese