Un a piccola parrocchia di montagna

Il quarantesimo anniversario della morte di Don Lorenzo Milani, celebratosi alla fine di giugno di quest’anno, ne ha riportato ancora una volta la figura al centro dell’attenzione mediatica; libri, articoli, speciali televisivi, «pellegrinaggi» a Barbiana (anche Veltroni vi si è recato a cercare ispirazione in vista delle incombenti nuove avventure politiche che lo attendono). La fronte spaziosa e gli occhi penetranti del «priore» sono tornati a riempire il nostro immaginario di cristiani sempre in cerca di icone da contemplare, di punti di riferimento. Chissà se le sue parole, rilette e riascoltate oggi fino all’eccesso, saranno ancora capaci di produrre il miracolo di risvegliare coscienze intorpidite, come accadde al tempo delle sue battaglie più tenaci.
Me lo chiedo leggendo l’ultimo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (pubblicato in questo numero di Missioni Consolata alle pagine 74-75), nel punto in cui il papa, rivolgendosi alle nostre comunità cristiane di più antica tradizione, scrive: «… queste chiese corrono il rischio di rinchiudersi in se stesse, di guardare con ridotta speranza al futuro e di rallentare il loro sforzo missionario».
La situazione ecclesiale in cui stiamo vivendo è molto diversa da quella di mezzo secolo fa, questo è certo, ma lo stile pastorale di Don Milani può dire qualcosa di importante anche a noi e alle nostre comunità di oggi. Don Lorenzo non ebbe fra le sue corde una specifica attenzione alla missione ad gentes. Soprattutto nella seconda fase del suo apostolato, quella di Barbiana, la sua azione si concentrò in modo radicale ed esclusivo sulla sua comunità, all’insegnamento e all’educazione dei ragazzi. A ciò dedicò tutto se stesso al limite dello sfinimento. Era e si sentiva il prete della sua gente e «solo» della sua gente. Ciò che rimproverava ad alcuni suoi colleghi era la dispersione in mille attività che non si focalizzassero direttamente sulle necessità dei più poveri affidati alle loro cure pastorali.
Allo stesso tempo, fu capace di stimolare nei suoi ragazzi quella visione aperta del mondo e quel profondo senso di giustizia globale che sprizzano dalla Parola di Dio e di cui si nutre la missione di sempre. I ripetuti invii dei suoi ragazzi all’estero affinché apprendessero più lingue possibili, l’invito fatto ai loro coetanei stranieri di soggioare a Barbiana e condividere la loro realtà con i ragazzi del posto, lo studio sistematico e critico della realtà fatto attraverso la lettura dei giornali e l’incontro con professionisti, politici, uomini di fede (non sempre capaci, per la verità, di superare la ghigliottina critica del parroco e dei suoi studenti) furono strumenti che Don Milani usò abbondantemente  per spalancare ai suoi giovani le porte che da Barbiana li avrebbe proiettati nel mondo. Un mondo che li avrebbe rispettati e non più sfruttati, visto che ora erano capaci di comprenderne e dominae i meccanismi. Non importa se questo viaggio si sarebbe fermato a Vicchio o a Firenze. Gli strumenti per andare «fino agli estremi confini della terra» erano ormai in loro possesso.
L’invito fatto dal papa alle nostre comunità a non chiudersi in se stesse non deve escludere la scelta, che Don Milani visse in modo quasi «fondamentalista», di chiudersi «con» esse, in una relazione di donazione totale. Penso sia rischioso, anche se oggi è la tendenza, limitare l’azione di animazione missionaria a una formazione intensiva alla missione sul modello «toccata e fuga», trascurando il contatto diretto, personale, continuativo e spiritualmente profondo con le persone.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Balcani, la bomba Kosovo

Con l’avvio dei colloqui conclusivi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per definire lo status finale della provincia serba del Kosovo, la situazione nella regione balcanica sta divenendo sempre più incandescente, con violenze e atti terroristici quotidiani, di cui però non si trova traccia nel panorama dell’informazione mediatica occidentale.
Assalti, ferimenti, incendi, omicidi, attentati alle comunità serbe e rom, alle loro case ed agli ultimi monasteri ortodossi (quelli non ancora devastati), così come gli attentati e l’ostilità contro strutture e mezzi delle Nazioni Unite, considerati possibili testimoni scomodi, in previsione degli scenari della definitiva pulizia etnica, che si preparano per il post indipendenza. Ormai è uno stillicidio continuo e quotidiano, così come monta sulla stampa e i media televisivi indipendentisti albanesi kosovari, una campagna mediatica sistematica che fomenta l’odio etnico e l’obiettivo – a loro dire – «non più trattabile» della secessione e indipendenza definitivi.
Negli incontri con membri delle comunità serbe kosovare e dei profughi in Serbia, al di là del senso di solitudine che sentono sulla pelle, emerge una forte determinazione alla resistenza e opposizione a questo ennesimo atto di ingiustizia e di violenza contro le minoranze del Kosmet. Per tutto questo le popolazioni chiedono di non essere nuovamente lasciate sole di fronte ad atti e logiche violente, che nulla hanno a che fare con il progresso e la convivenza tra i popoli; chiedono che il destino e il futuro del Kosovo non sia deciso in cancellerie inteazionali dell’Occidente, ma venga discusso e deciso dai popoli (minoranze o maggioranze) che hanno sempre abitato quella terra. È una richiesta assurda e stravagante?

Sia a livello europeo, che negli Usa e in Canada, molti noti giornalisti di testate inteazionali informano e denunciano ormai apertamente la situazione di pericolo e i nuovi venti di guerra che si vanno profilando; è necessario e giusto che anche in Italia il movimento per la pace, i sinceri democratici, le forze progressiste prendano atto dei rischi di una nuova escalation di guerra e conflittualità. Un fatto che certamente non rimarrebbe circoscritto, ma produrrebbe un nuovo sconvolgimento degli equilibri inteazionali, con il riaccendersi di focolai di violenza, legittimati da un’eventuale indipendenza decisa negli uffici dei padroni dell’impero, ma fuori dal diritto internazionale e dalla Carta dell’Onu.
Sarebbe quell’ «effetto domino» già preannunciato da molti esperti e osservatori inteazionali: se una banda di criminali e narcotrafficanti (come fu definita l’Uck nel ’98 in un report della stessa Cia), può vedere riconosciuto un territorio come repubblica indipendente («uno stato delle mafie», come è stato definito), fuori da qualsiasi ragionevole logica, perché i serbi della Bosnia e della Repubblica di Krajina in Croazia, i popoli dell’Ossezia, dell’Abkhazia, della Transnistria, i curdi della Turchia, i corsi e i bretoni in Francia, i baschi in Spagna, i nordirlandesi, i palestinesi, i russi perseguitati nelle Repubbliche Baltiche, non potranno avere il diritto alla secessione e all’indipendenza?
E l’elenco potrebbe continuare. Ma c’è anche un altro aspetto: sono gli effetti devastanti che si scatenerebbero nella stessa Serbia, dove nella provincia del Sangiaccato l’«Armata nazionale albanese» opera con assalti, attentati, violenze, collegata con un’altra forza secessionista albanese della Valle del Presevo nel sud della Serbia, per unirsi al Kosovo indipendente; ma nella stessa strategia operano forze secessioniste albanesi in Macedonia, Montenegro, Grecia del nord.
Dopo la vergognosa partecipazione dell’Italia ai bombardamenti del 1999, il nostro paese sarebbe nuovamente coinvolto direttamente in scenari di guerra, con le relative conseguenze. Per opporci a tutto questo, per lavorare per la pace e contro la guerra, per continuare a lavorare per la convivenza e l’amicizia tra i popoli, lanciamo un appello/manifesto (sosyugoslavia@libero.it) come strumento positivo per una soluzione pacifica e negoziale del problema Kosovo Metohija e delle genti che lo hanno sempre abitato.

Enrico Vigna
(Forum Belgrado Italia e Associazione SOS Yugoslavia)

Enrico Vigna




«NOTIZIE, NON GOSSIP»

«Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario». Parola di Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. Attivo da alcuni mesi, il suo ufficio, intitolato a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin uccisi in Somalia nel 1994, verrà ufficialmente inaugurato di qui a qualche settimana. Riportiamo la notizia con una certa soddisfazione. I lettori infatti ricorderanno l’iniziativa «Notizie, non gossip», che le riviste missionarie, riunite nella Fesmi, lanciarono all’inizio del 2006, chiedendo un salto di qualità nell’informazione televisiva, in modo particolare di quella offerta dal servizio pubblico, i cui costi sono pagati anche dal canone dei cittadini. Molti firmarono il nostro appello e ci scrissero messaggi di incoraggiamento.
L’appello della Fesmi e gli incontri di alcuni direttori delle testate missionarie con i vertici Rai (prima Meocci, poi Cappon) un risultato significativo l’hanno dunque sortito. A dimostrazione che un impegno corale del mondo missionario e un sano lavoro di lobby e «pressing» sono preziosi. Ma, vinto il primo round, c’è ora da continuare la partita. La soddisfazione per un traguardo raggiunto non deve abbassare il livello di guardia. L’informazione – l’abbiamo detto e lo ripetiamo – è la prima forma di solidarietà. Perciò riteniamo che ora si debba insistere per alzare ulteriormente, nel pubblico italiano, il tasso di consapevolezza delle questioni inteazionali e, specificamente, il grado di conoscenza della realtà del Sud del mondo.
A poco servirebbe una sede in Kenya (così come le altre aperte di recente in India e Turchia) se poi l’approccio alle notizie e il taglio dei servizi rimanesse quello oggi predominante, tendenzialmente sbilanciato sui fatti negativi e clamorosi (guerre, eventi disastrosi…) e poco capace di cogliere i cambiamenti positivi, le novità all’orizzonte, il vissuto della gente.

In virtù dell’apertura di nuove «finestre sul mondo», ci sentiamo di chiedere alla Rai un giornalismo che sappia far parlare le persone, che metta in luce il positivo di un continente, l’Africa, che è molto diversa da quel ricettacolo di mali e problemi che spesso viene dipinto. Crediamo che un diverso racconto dell’Africa potrebbe contribuire ad abbattere troppi stereotipi e immagini stantie che ancora si registrano sugli immigrati africani (e non solo). Potrebbe inoltre sortire influssi sorprendentemente positivi sugli africani di casa ormai in Italia, che si sentirebbero finalmente visti in una luce più veritiera.
In questo senso, diamo il benvenuto all’iniziativa «Dimmi di più» che Medici senza Frontiere ha lanciato di recente per far sì che su crisi inteazionali e guerre l’informazione non si limiti a resoconti episodici e frammentari. A nostro giudizio, occorre andare ben oltre: c’è tutto un mondo – donne e uomini che vogliono essere protagonisti del loro domani, una società civile in crescita, culture e tradizioni ricchissime – che merita d’essere raccontato. Scriveva Missione Oggi in una lettera aperta a Enzo Nucci qualche mese fa: «Con te e la Rai a Nairobi l’Africa si fa più vicina: vogliamo credere che sarai capace di raccontarci non solo gli eventi di rilievo, ma anche un nuovo stile di vita, fatto di aggregazione sociale e una gran voglia di futuro».
Insomma: diteci di più sulle guerre, ma diteci anche qualcosa che non siano solo le guerre. Soprattutto ditecelo non a notte inoltrata, in spazi che assomigliano a oasi nel deserto dei palinsesti affollati di Grandi Fratelli e di Vallettopoli. A poco servirebbe una nuova sede Rai se non si traducesse in una piccola-grande occasione per osare un nuovo stile, cambiare mentalità. In una parola: per fare cultura.
È troppo chiedere che la direzione generale della Rai mantenga la sua promessa di un monitoraggio sui Tg e la loro attenzione al Sud del mondo? È troppo ipotizzare che in un futuro non lontano i Tg ospitino spazi fissi di approfondimento su temi e questioni inteazionali, come oggi fanno per motori o enogastronomia?
Come cittadini – prima che come rappresentanti di donne e uomini impegnati in nome del Vangelo nei diversi continenti a servizio delle persone di qualsiasi etnia e religione – siamo convinte e convinti che una Rai più attenta a quanto si muove nel Sud del mondo faccia il bene dei suoi utenti e, di riflesso, contribuisca a renderli un po’ di più, giorno per giorno, «cittadini del mondo».

Federazione Stampa Missionaria Italiana




Una morte in più o tante morti in meno?

Ufficialmente è stato stroncato da un infarto fulminante, conseguenza di una polmonite che già si stava trascinando da tempo. L’aggressione subita dieci giorni prima nella missione di Manizales (Colombia), dove da anni risiedeva, aveva avuto pesanti effetti collaterali sul suo già precario stato di salute. Le botte, lo spavento, le ore passate disteso nel freddo e nell’umidità della notte, legato e imbavagliato in attesa di soccorso hanno minato le poche energie rimaste. È morto così padre Mario Bianco, missionario della Consolata novantenne, cinque decadi in Colombia, dopo una precedente esperienza in Mozambico. Uomo schivo, silenzioso, scioglieva la lingua solo quando poteva raccontare qualcuna delle sue tante avventure. Quest’ultima, purtroppo, ha avuto poco tempo per diffonderla.

La morte di padre Mario, avvenuta lo scorso 12 febbraio, ha coinciso con l’omicidio di una turista genovese assaltata a scopo di rapina mentre era in compagnia del marito, anch’egli ferito. Questa volta il fatto è avvenuto a Cartagena de las Indias, sulla costa atlantica, uno dei centri turistici più belli e frequentati del paese sudamericano. Due eventi senza nessun collegamento fra di loro se non quello di riguardare entrambi cittadini italiani. Due morti la cui causa è da ricondurre alla micro-criminalità urbana,  in cui non c’entra il conflitto armato che da decenni insanguina il paese; nonostante, va detto, il confine fra le morti a causa del conflitto e quelle dovute alla «violenza ordinaria» sia molto labile. Eppure, le fonti governative del paese continuano a parlare di drastiche diminuzioni nel numero di omicidi. Il comandante della polizia colombiana, generale Jorge Daniel Castro, ha comunicato recentemente che nel 2006 si sono verificati nel paese 17.206 omicidi, 500 in meno dell’anno precedente. Un netto calo si è registrato anche nel numero di sequestri. Il merito di ciò viene attribuito alla politica di sicurezza democratica lanciata dal presidente Uribe  e al conseguente rafforzamento della forza militare. I dubbi riguardano  la reale entità di questa diminuzione e, soprattutto, la vera ragione che l’ha prodotta.

Già nel 2005, il «Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo» (Pnud) aveva pubblicato un interessante studio sulle ragioni di questo calo, notando come a una diminuzione del tasso di omicidi nelle grandi città corrispondesse un aumento degli stessi in comuni più piccoli, meno facili da sottoporre a rilevazione statistica. Inoltre, la diminuzione si deve anche a precise strategie dei vari gruppi armati. Merita ricordare che le Auc, i gruppi paramilitari di estrema destra, in fase di trattative con il governo per la loro smobilitazione, hanno proclamato, a partire dal 2003,  vari «cessate il fuoco» che, sebbene molte volte non rispettati, hanno effettivamente portato a una diminuzione dei morti assassinati.

L’analisi del Pnud evidenzia come la decrescita degli omicidi nelle grandi città si debba soprattutto a politiche sociali di sicurezza cittadina e partecipazione democratica. Strategie di convivenza, azioni preventive concordate con i cittadini, programmi educativi nei quartieri più a rischio hanno dato molti più frutti della politica di sicurezza democratica sponsorizzata con forza dal governo. Perché non esportare questi modelli in altre zone del paese?

Avendo ereditato dal grande fratello nordamericano armi e vocabolario, Uribe si trova ora nelle condizioni di doverli usare  e continua a testa bassa nella lotta «contro il terrorismo». La parola «sociale» suona stonata ai suoi orecchi e le molte Ong (nazionali e inteazionali) che operano sul territorio sono da sempre sulla sua agenda nera. Non è esattamente questa la pista che la Colombia dovrebbe percorrere se vuole veder diminuire ulteriormente casi di morte violenta come quelli che hanno coinvolto l’incolpevole padre Mario.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




L’Abbé Pierre e altri profeti inascoltati

Lungo l’Avenida Carlos Maria Ramires, una strada che taglia in due la periferia di Montevideo, nel cuore del barrio «La Teja», là dove le case in muratura lasciano intravedere misere catapecchie di legno e lamiera, sorge la parrocchia «Sagrada Familia». Negli anni ‘70-‘80 era affidata ai missionari Fidei donum di Novara. L’edificio religioso, sorto grazie alla genialità di un architetto squattrinato e alla povertà di mezzi del quartiere, era un po’ atipico rispetto alla tradizionale architettura montevideana: pensata per avere splendide vetrate colorate, la chiesa era costretta al recupero dei più umili vetri di uso domestico. Al di là della povertà di tale struttura, la parrocchia de La Teja divenne subito il punto di riferimento per tante persone schiacciate dalla situazione politica ed economica del piccolo paese sudamericano. L’ampia piazza antistante la chiesa era il punto di partenza dei vietatissimi cortei di protesta, che, snodandosi lungo tutta l’arteria principale, arrivano al cuore della città, sfidando repressione e violenza.
Grazie anche all’opera dei preti novaresi, la parrocchia diventò in breve tempo la base per due istituzioni di risonanza mondiale, che si inserirono in maniera formidabile nel tessuto sociale di quella gente: «Paz y Justicia», fondato dal premio Nobel argentino Adolfo Pérez Esquivel, e movimento Emmaus, fondato dal compianto Abbé Pierre. In breve tempo, le due realtà raccolsero un numero sempre crescente di simpatizzanti e aderenti. Paz y Justicia, con una capillare e intensiva azione di raccordo con moltissime persone, faceva passare l’ideale di un ritorno alla democrazia attraverso la lotta non violenta: una originalità di pensiero nel contesto delle dittature latinoamericane, che portò il suo fondatore a ricevere il premio Nobel per la Pace. L’azione creata dal gruppo Emmaus trascinò un numero sempre crescente di persone a coinvolgersi sul riutilizzo di beni e strumenti da rimodeare e riattivare, al fine di elevare le condizioni di vita della gente del quartiere. Queste attività materiali si intrecciarono in maniera splendida con tutto un lavoro di impegno per il futuro e di attenzione alle persone toccate nella loro carne dalla dittatura militare; anche nei periodi più duri, nella parrocchia della Teja brillava una fiammella di speranza.

I due carismatici fondatori erano di casa alla Teja. Esquivel fece visita più volte, grazie alla vicinanza geografica con l’Argentina; mentre le visite dell’Abbé Pierre furono più centellinate. Una sera, nei lontani anni ‘70, in un freddo inverno australe, queste due figure straordinarie, impegnate  a trecentosessanta gradi per la promozione dei diritti dell’uomo, per la giustizia e la pace, credenti dalla fede cristallina, conversando con gli amici novaresi e montevideani presenti, sottolinearono come il seme della speranza, gettato anche nel solco della dittatura più nera, alla lunga porta i suoi frutti.
Non si evidenzia a sufficienza cosa ha significato non solo la figura dell’Abbé Pierre, ma anche di Perez Esquivel, dom Helder Camara e tanti altri protagonisti della missione; soprattutto non si parlerà mai abbastanza di ciò che essi hanno saputo seminare e alimentare nelle zone più depresse del terzo mondo, nei cuori delle persone che vivevano situazioni disperate. In particolare, le comunità Emmaus non si limitarono a soccorrere il ferito giacente sulla strada, come il buon samaritano della parabola, ma crearono le condizioni perché coloro che venivano a contatto con il carisma dell’Abbé Pierre e di tanti altri profeti inascoltati e osteggiati sulle frontiere missionarie, diventassero a loro volta seminatori di speranza, operatori di giustizia e costruttori di pace: un processo che ha prodotto risultati incredibili.
Aver conosciuto persone di questa statura, aver goduto della loro stima e simpatia, averli a più riprese avuti come ospiti e testimoni nelle nostre chiese ci dà una consapevolezza maggiore nel prendere la fiaccola accesa da loro, per consegnarla alle giovani generazioni. Un impegno, alla luce della recente scomparsa dell’Abbé Pierre, da onorare con quella carica d’umanità che ha saputo trasmetterci.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Occhio ai poli

A partire da questo mese fino al marzo 2008, Artide e Antartide saranno
«osservati speciali». Le Nazioni Unite hanno infatti dichiarato il
2007-2008 «Anno internazionale dei poli» (Inteational Polar Year,
Ipy). L’obiettivo principale è quello di coinvolgere organizzazioni di
tutto il mondo in programmi di ricerca nelle regioni polari, iniziative
scientifiche, campagne ambientali ed eventi di ogni tipo. Da quando fu
tenuto il primo Ipy, ne lontano 1882-83, numerose iniziative di
carattere scientifico, intraprese da singole nazione e a livello
internazionale, hanno fornito un’infinità di dati che permettono di
comprendere la formazione e la storia del nostro pianeta e hanno
sviluppato varie discipline scientifiche che favoriscono la conoscenza
dei vari fenomeni globali.
All’interesse scientifico l’anno polare aggiunge lo scopo di promuovere
attività educative, per sollecitare e aumentare il pubblico interesse
circa l’impatto che le remote regioni polari esercitano sui sistemi
climatici dell’intero pianeta e, di conseguenza, sensibilizzare
l’opinione pubblica sui gravi problemi che minacciano le regioni polari
e si ripercuotono sugli altri continenti. Nessuno dubita
dell’interdipendenza tra le masse glaciali dell’Artide e Antartide e il
resto del globo terracqueo. I cambiamenti climatici che avvengono ai
poli provocano cambiamenti nel resto del del pianeta e viceversa.

Il confronto tra i dati foiti dai satelliti e quelli raccolti dalla
rete di stazioni permanenti stabilite nelle regioni polari indicano che
i ghiacciai artici stanno diminuendo in spessore e si accorciano
mediamente di 50 metri l’anno; gli stessi dati satellitari affermano
che dal 1979 al 2005 la fascia climatica subtropicale si è allargata di
1° di latitudine, pari a 120 km sia a nord che a sud. Causa di tali
cambiamenti è il surriscaldamento globale, provocato dalle emissioni
del cosiddetto gas serra.
Fino a pochi decenni fa, afferma lo scienziato americano Barry
Commoner, un guru nel campo dell’ecologia, «tale riscaldamento era
graduale e regolare. Ora, invece, ci troviamo di fronte ad
accelerazioni improvvise, sterzate brusche, imprevedibili nella loro
esatta dinamica, che portano al moltiplicarsi delle ondate violente di
calore e degli uragani». Ne è una prova l’anno 2006: è stato il 6° anno
più caldo dell’epoca modea. La temperatura media della superficie
terrestre è stata di 0,42°C superiore alla media del periodo 1961-1990.

Continuando di questo passo, se cioè non si pone rimedio al fenomeno
del riscaldamento globale, afferma uno studio voluto dalla Unione
europea e pubblicato lo scorso gennaio, entro la fine di questo secolo
esso potrebbe aumentare di 3°C, con conseguenze catastrofiche per
l’intero pianeta e in particolare per molte regioni europee:
desertificazione delle zone del Mediterraneo (Italia, Spagna e Grecia),
tropicalizzazione dei mari, modificazioni della flora e della fauna,
innalzamento del livello del mare di circa mezzo metro nei prossimi
decenni e quasi un metro alla fine  secolo. Ciò significa la
scomparsa di città lagunari e costiere, sommersione di pianure
fluviali, compresa buona parte della pianura padana.

La diagnosi è chiara – afferma Barry Commoner – e non ci sono
alternative: per salvare la nostra società e le loro economie bisogna
uscire dalla dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili.
Bisogna lanciare il fotovoltaico e risorse rinnovabili, aumentare
l’efficienza energetica e trasferire il traffico dalla gomma al ferro».
È quanto propone la Commissione europea, per riducendone l’aumento al
2°C: diminuire del 20% le importazioni europee di gas e petrolio entro
il 2030, tagliando così il 30% dei gas serra entro il 2020 e il 50%
entro il 2050, e promuovere l’incremento delle le tecnologie pulite.
Tale impegno chiede la collaborazione non solo di stati e rispettivi
governi, ma anche del singolo cittadino. Da anni parliamo della
necessità di cambiare i nostri stili di vita, che si concretizza anche
nel risparmio energetico e adozione di fonti non inquinanti. È in gioco
il futuro del pianeta, che il Creatore ci ha affidato per «lavorarlo e
custodirlo» (Genesi 2,15).
L’anno polare offre uno stimolo in più per prendere coscienza dei
problemi che minacciano il nostro pianeta e per impegnarci nella
salvaguardia del creato. 

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




La persona umana: cuore della pace

Primo gennaio 2007: 40ma Giornata mondiale della pace

F u Paolo VI, 40 anni fa, a «lanciare l’idea» di una «Giornata della
pace», da «celebrarsi alle calende di ogni nuovo anno» (1° gennaio).
Con un messaggio chiamava cristiani e «mondo civile» a riflettere e
impegnarsi nella costruzione di una «pace vera, giusta ed equilibrata,
nel riconoscimento sincero dei diritti della persona umana»; una pace
che «non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della
vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità,
la giustizia, la libertà, l’amore».
Anno dopo anno, siamo giunti alla 40a Giornata Mondiale della Pace, che
ha come tema: Persona umana, cuore della pace. «Sono convinto – afferma
papa Benedetto xvi nel suo messaggio per tale celebrazione – che
rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si
pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si
prepara un futuro sereno per le nuove generazioni».
Tale dignità, continua il papa, è dono di Dio, che ha creato
l’uomo  a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27), ed è compito
al tempo stesso, che chiama «l’essere umano a maturare se stesso nella
capacità d’amore e far progredire il mondo, rinnovandolo nella
giustizia e nella pace. Con un’efficace sintesi sant’Agostino insegna:
“Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di
noi”». Dalla consapevolezza di tale trascendenza deriva che «anche la
pace è insieme un dono e un compito. La pace, infatti, è una
caratteristica dell’agire divino, che si manifesta sia nella creazione
di un universo ordinato e armonioso come pure nella redenzione
dell’umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del
peccato… La pace è anche un compito che impegna ciascuno a una
risposta personale coerente col piano divino», poiché nella coscienza
della persona umana sono scritte «l’insieme di regole dell’agire
individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia
e solidarietà».
Molti i temi toccati nel documento, in cui si evidenzia la stretta
relazione tra la persona umana e la promozione della pace; temi seguiti
da relativi richiami e denunce. Prima di tutto il diritto alla vita, in
cui viene denunciato «lo scempio che di essa si fa nella nostra
società: accanto alle vittime dei conflitti armati, terrorismo e
svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate da
fame, aborto, sperimentazione sugli embrioni ed eutanasia». A riguardo
della libertà religiosa viene lamentato come in molte parti del mondo i
cristiani siano perseguitati o dileggiati.
Un seconto tema riguarda l’affermazione «dell’uguaglianza di natura di
tutte le persone», denunciando «da una parte le disuguaglianze
nell’accesso a beni essenziali, come cibo, acqua,  casa, salute;
dall’altra, le persistenti disuguaglianze tra uomo e donna
nell’esercizio dei diritti umani fondamentali».
La seconda parte introduce un concetto innovativo:  l’«ecologia
della pace». «Chi ha a cuore la pace deve tenere sempre più presenti le
connessioni tra l’ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e
l’ecologia umana su cui organizzare la società», afferma il papa,
facendo riferimento anche al problema dell’energia e dei rifoimenti
energetici, con uno sguardo speciale ai paesi in via di sviluppo o
sottosviluppo. 
Nel 2007 ricorre pure il 40° anniversario dell’enciclica Populorum
progressio, un documento di Paolo vi più attuale che mai. Per questo,
lo abbiamo scelto come guida del nostro calendario: «365 giorni con
l’enciclica Populorum progressio». Ogni mese troveremo una delle
affermazioni più significative, che ci stimolano a camminare sulla via
della promozione dello «sviluppo integrale di ogni persona, di tutta la
persona e di tutti i popoli», poiché, come afferma un’espressione
finale della stessa enciclica, con un motto che ha valore: «Lo sviluppo
è il nuovo nome della pace».
«Se in questi 40 anni l’insegnamento della Populorum progressio, tanto
profetico, fosse stato ascoltato, non saremmo nella situazione attuale
del mondo» afferma il cardinal Poupard.
Non perdiamo altro tempo.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




LA BABY SITTER DELL’HONDURAS

Scivolata lungo i telegiornali della sera della scorsa estate, una notizia si è imposta proprio per il suo carattere singolare. Una baby sitter hondureña, in Italia senza documenti, quindi impiegata in nero, è annegata sul litorale dell’Argentario per salvare una bambina di 11 anni che le era stata affidata dalla famiglia e con la quale stava facendo il bagno nel Tirreno.
Iris Noelia Palacios Cruz, come milioni di altre persone alla ricerca di un lavoro onesto, era approdata nel nostro paese per dare un futuro di speranza alle sue grame condizioni di vita; insieme a lei c’era la sua famiglia; tutti avevano lasciato la misera realtà del Centro America per cercare uno spazio migliore nell’opulenta Europa. Ma in Italia si è incontrata con un tragico destino, lei latinoamericana ventisettenne, ha offerto la sua vita per salvare una bambina undicenne che i genitori avevano affidato alle sue cure. Questo tragico fatto fa il paio con quello accaduto l’anno scorso, dove un altro extracomunitario era annegato per salvare la vita a un cittadino italiano che stava per affogare.
Vogliamo sottolineare questi gesti, perché essi vanno nella direzione opposta a quella che una certa opinione pubblica del nostro paese tende sempre più a considerare, attraverso una frase semplificatoria, extracomunitario uguale delinquente. Ci sono degli esponenti politici di spicco che non hanno nessuna remora nel ripetere questo stantio ritornello, alimentando così un brodo di coltura razzista che lentamente, ma inesorabilmente, s’insinua nel modo di pensare generale.
Il problema vero è che l’industria e l’agricoltura del nostro paese, come di tutti gli altri paesi sviluppati, hanno bisogno di braccia per poter andare avanti, ma insieme alle braccia, arrivano le teste che pensano, che ragionano, arrivano uomini e donne che vogliono vivere, amare, lottare, per dare un futuro più dignitoso ai loro figli. L’emigrazione come tutti i fenomeni sociali complessi, porta con sé il meglio delle realtà da cui prende avvio, sia nel bene come nel male, del resto questo fenomeno è accaduto, neanche tanto tempo fa, all’emigrazione italiana approdata nelle Americhe, il gangster Al Capone e il detective Fiorello La Guardia, al cui nome è dedicato uno degli aeroporti di New York, erano figli della stessa terra e germinavano dallo stesso humus italico; solo che uno divenne un delinquente, l’altro uno dei più brillanti poliziotti di tutti gli Stati Uniti.
Lo stesso si può dire per l’immigrazione che arriva in Italia, ci sono uomini e donne che attratti da un guadagno facile non esitano a delinquere, e ci sono altri, che noi crediamo la maggioranza, che rimboccandosi le maniche percorrono l’amaro cammino dell’integrazione in un paese che non è il loro, dando il meglio di se stessi.

S e la punta dell’iceberg rappresentata dal sacrificio della vita, come nel caso della baby sitter hondureña, può essere ancora un caso sporadico, non lo è certamente quell’impegno positivo che tanti extracomunitari profondono nel tessuto sociale della nostra realtà: conosciamo molti immigrati che fanno del volontariato a beneficio di enti e associazioni, che se dovessero appoggiarsi esclusivamente sulle forze nostrane potrebbero chiudere già domani mattina.
Il cammino dell’integrazione tra uomini e donne provenienti da popoli con cultura, sensibilità e religioni diverse, non è né semplice né facile; necessita da parte di tutti di un’attenzione costante e particolare; il brandire lo spauracchio dell’immigrazione clandestina, il presentare dei poveri cristi del Terzo Mondo come dei «bingo bongo» trogloditi, da respingere con tutti i mezzi leciti e illeciti, ci sembra sia una demenzialità tanto quanto il tasso di intelligenza di coloro che esprimono simili concetti!
Il lavoro da fare per creare una società multietnica e multiculturale è lungo e faticoso. A questo compito nessuno può sottrarsi, meno che meno la comunità cristiana: un auspicio questo che è molto di più di un semplice desiderio.

Mario Bandera




Al di là dei muri

C’ era una volta un muro, anzi «il muro». Sagomato nel cuore dell’Europa, parte integrante del panorama internazionale della guerra fredda, era il «muro della vergogna» il muro della «cortina di ferro», il muro di Berlino. Sotto certi versi era rassicurante: di qua c’erano i buoni e di là i cattivi, da una parte libero mercato e libertà, dall’altra dittatura e socialismo di stato… Poi nel novembre del 1989 quel muro è caduto e ci siamo sentiti tutti più sollevati, finalmente non c’erano più muri che dividevano il mondo.
Passata la sbornia di discorsi inneggianti alla tale caduta, eccoci a fare i conti con altri muri, che spuntano in varie parti del mondo, senza che nessuno dica niente. È vero che ogni tanto salta fuori qualche articolo o vignetta, che mette alla berlina il muro che in Terra Santa divide gli israeliani dai palestinesi; un’autentica vergogna, che però resta isolata nei commenti della stampa di casa nostra. Nessuno si sogna di mettere in evidenza come gli Stati Uniti, sempre pronti a esportare il loro sistema di vita, stanno erigendo un muro che separerà di netto l’America Wasp (White Anglo Saxon Protestant) dalla meticcia America Latina e dall’invadenza creola. Eppure si tratta di un’opera che arriverà a coprire quasi l’intero confine terrestre con il Messico; sarà lungo circa 3.300 km; verrà dotata di sofisticati sistemi elettronici, cellule fotoelettriche, cavalli di frisia e opportuni fossati in luoghi strategici, per scoraggiare l’immigrazione latinoamericana.
Nel silenzio generale, l’India sta erigendo due muri: uno separerà la sua frontiera sul fronte caldo del Kashmir, conteso allo storico rivale Pakistan; l’altro demarcherà il confine con il Bangladesh. Il Marocco da anni sta erigendo una barriera che perpetuerà l’occupazione del Sahara Occidentale, alla faccia delle prese di posizione dell’Onu sulla legittima sovranità del popolo saharawi. Sempre in Africa, con i soldi della Comunità europea, la Spagna sta fortificando le enclaves di Ceuta e Melilla con muri, reticolati di filo spinato e quant’altro, dato che a Bruxelles esse sono viste come la porta di servizio in cui i disperati del continente nero s’infiltrano nella vecchia Europa. E per restare nel contesto europeo, l’ultimo stato annesso all’UE, l’isola di Cipro, si è portato in dote un muro che la taglia in due, separando la comunità greca da quella turca, alla faccia dell’integrazione dei popoli. E che dire del muro di Belfast, nell’Irlanda del Nord, che separa i quartieri cattolici da quelli protestanti? Anch’esso ormai fa parte del paesaggio della verde Irlanda e più nessuno ci fa caso. Inoltre, vale la pena di ricordare che, a casa nostra, solo qualche anno fa fu abbattuto il muro che separava Gorizia da Nova Gorica.
Se poi consideriamo quello che, più di un muro, è una vera e propria barriera, eredità avvelenata della guerra fredda che taglia in due la Corea del Nord dalla Corea del Sud, ci rendiamo conto che anche di questa divisione si parla poco e, purtroppo, tale forma di separazione tra realtà omogenee fa scuola all’interno di generali prospettive politiche, tendenti sempre più a escludere che accogliere. Così l’Arabia Saudita, ritenuto paese arabo moderato, sta erigendo un muro nel deserto, che marchi la distanza e la differenza dal confinante Yemen, visto come uno stato dove prosperano bande di predoni beduini da cui difendersi. In Sudafrica, abbattuto il regime dell’apartheid, sono tutt’ora presenti nell’urbanistica di Soweto i muri e barriere di filo spinato che delimitavano l’area riservata alla gente di colore. In altre parti del mondo, altri muri sorgono in maniera surrettizia, come quelli nella ex-Jugoslavia tra Serbia, Croazia, Kossovo, Albania.

U no sguardo al passato aiuta a capire come l’ansia di erigere muri non sia tipica dei tempi nostri. I romani tagliarono in due la Britannia con il Vallo di Adriano; l’impero cinese eresse la Grande Muraglia; i francesi la linea Maginot; mura e fortezze medioevali ci rammentano, insieme ai ghetti, come l’erigere muri non sia servito molto a difendersi dai barbari, come pure il rinchiudere gli ebrei in quartieri distinti da quelli cristiani non ha aiutato a trovare punti d’incontro per favorire l’integrazione reciproca.
Oggi accanto a questi muri, ce ne sono altri più subdoli e pericolosi. La scarsa conoscenza degli altri porta a erigere muri interiori di fronte alla presenza di uomini e donne che arrivano da altri paesi e che stanno delineando una società sempre più multiculturale. Cadute le ideologie, ci si è affrettati a creare l’ideologia dello scontro di civiltà tra Occidente e islam, alimentando ansie e paure nell’opinione pubblica, che sono l’autentico brodo di coltura per i germi del più bieco razzismo nostrano. A fronte di queste considerazioni cresce e si fa strada più forte che mai nelle persone di buona volontà il desiderio di un più forte impegno, affinché non sorgano altri muri e si abbattano quelli esistenti; è utopia tutto questo? Noi crediamo di no e, come al suono delle trombe bibliche caddero le mura di Gerico, a maggior ragione crediamo che alla fine anche queste crolleranno.

Mario Bandera




Tibhirine: 10 anni dopo

Nel mese di maggio 1996, a Tibhirine in Algeria, 7 monaci trappisti venivano uccisi da una banda di integralisti islamici. La loro presenza in terra d’Algeria era da anni contrassegnata da un profondo anelito di preghiera e da una delicata amicizia verso il popolo umile e semplice con cui condividevano la vita di ogni giorno. A 10 anni di distanza, fare memoria di questi martiri cristiani è un dovere essenziale da parte nostra, per evitare che la dimenticanza del loro martirio annacqui il cammino di dialogo aperto da questi silenziosi testimoni del vangelo di Gesù.
Sulla scia del loro sacrificio, altri uomini e donne hanno pagato la fedeltà al messaggio evangelico nel mondo islamico: nello stesso periodo fu ucciso il vescovo di Orano, mons. Pierre Claverie; successivamente la laica italiana Annalena Tonelli veniva assassinata in Somalia nell’ospedale che essa stessa aveva costruito per alleviare le sofferenze della povera gente; ultimo, ancora fresco di memoria, lo scorso febbraio, a Trebisonda in Turchia venne ucciso il sacerdote italiano fidei donum don Andrea Santoro. Solo restando in contemplazione di questi nomi, ci prende un senso di sgomento: a cosa serve la nostra presenza in terra islamica, se il prezzo da pagare è quasi inevitabilmente quello del martirio?
Per una serena e approfondita riflessione su questi avvenimenti, forse vale la pena prendere l’avvio dal precursore del dialogo con il mondo islamico: Charles De Foucauld. In tempi in cui la parola ecumenismo non era ancora stata coniata e il dialogo con altre religioni non aveva ancora fatto i primi passi, con una scelta coraggiosa egli si stabiliva a Tamanrasset, nel cuore del deserto del Sahara, e attraverso una presenza discreta, umile, poco appariscente, dava inizio a un solco di evangelizzazione con i tuareg del deserto di cui solo adesso si cominciano a vedere i primi frutti.

Siamo di fronte a uno stile missionario radicalmente diverso, che per certi versi ci coglie impreparati. Quando si evoca la missione o si parla di terzo mondo, immaginiamo quasi sempre la povera gente che bisogna aiutare, offrendo quelle strutture (scuole, ospedali, servizi sociali, ecc.) di cui a nostro avviso avrebbero bisogno per uscire dalla loro povertà. Non ci sfiora minimamente il dubbio che il primo approccio con gente diversa per lingua e cultura vada fatto secondo lo stile indicato proprio da questi testimoni, con una presenza nel cuore del vissuto delle persone, discreta e silenziosa, caratterizzata da un intenso e fecondo dialogo con Dio.
Già i contemporanei di Charles De Foucauld percepirono il nuovo stile di dialogo, quello, cioè, di un uomo profondamente innamorato del suo Dio, tale da doverlo contemplare di fronte all’immensità del deserto, nel cuore di un popolo che, apprezzandone la discrezione, non esitò a qualificarlo come «marabutto», cioè santo. Nella stessa scia si sono mossi i trappisti di Tibhirine, Annalena Tonelli e don Andrea Santoro: essi hanno indicato a una cristianità sonnolenta e distratta quale sia il futuro che attende un cristianesimo sempre più minoranza, senza più garanzie foite da una società cristiana e quindi intraprendere un itinerario di ascesi e dialogo, dove l’essenzialità del messaggio evangelico rifulga proprio attraverso l’adesione alla vita di Cristo.
Poco prima di morire, fratel Christian scriveva: «L’insicurezza? È una grazia di fede. La più scomoda per chi pensa solo a dormire. La più adatta alla vigilanza… A Cristo è stato proposto di scegliere tra due stabilità: il trono o la croce. Ha scelto la croce: ne ha fatto il suo trono, lo sgabello del suo regno. Purtroppo nel corso della storia, la chiesa ha spesso preferito il trono. Soprattutto dopo che l’editto di Costantino ha reso la croce più diffusa e il trono più complice». Queste parole vergate da un martire dei nostri tempi, non sono solo un monito per ogni cristiano, ma indicano una strada ai fratelli e sorelle nella fede, essere battezzati è una cosa seria e scegliere di vivere in pienezza il proprio cristianesimo, può avere come conseguenza anche il martirio.
Riscoprire queste ricchezze perdute, ci aiuta a essere grati a quella folta schiera di testimoni di ogni lingua, razza, popolo e nazione, che hanno versato il loro sangue per l’attaccamento al vangelo di Cristo e per la fedeltà all’uomo di ogni tempo. Cercando di rendere il nostro cristianesimo più comodo, lasciandoci attrarre dal potente di tuo nel suo palazzo, ricercando privilegi e esenzioni, alla lunga può essere più pericoloso e più deleterio per una sincera, onesta e corretta vita cristiana. Lasciarci condurre per mano da questi testimoni, sulle strade aspre e difficili del dialogo, può essere davvero un modo nuovo per vivere la nostra fede.

Mario Bandera