Le immagini di degrado che dai teleschermi si riversano nelle nostre case sembrano veicolare anche il fetore miasmatico dei rifiuti che tutti producono e che tutti a loro volta rifiutano. Le oltre 3.500 tonnellate di «munnezza» che invadono le strade della città sono il monumento osceno alla bulimia dei produttori, alla cecità degli amministratori e all’incoscienza dei consumatori. Ciò che scandalizza, tra la rabbia di questi ultimi, il balbettio dei secondi e il silenzio dei primi, è la mancanza di un pur minimo tentativo di individuazione delle cause che hanno portato a questo stato di cose e, ancor più, l’assenza assoluta di ogni voce critica circa questo modello di sviluppo totalmente appiattito sulla categoria della produzione e del mercato.
Lasciamo agli esperti e agli specialisti il compito di ricercare le cause locali e circostanziate che hanno generato questo caos di putrescenza, anche perché noi non siamo all’altezza e non siamo in possesso dei dati necessari per una disanima precisa e imparziale. Ci preme piuttosto rilevare che la crisi napoletana è la manifestazione traumatica di qualcosa che sta avvenendo ovunque, in Italia e fuori. La crisi è planetaria.
«I mercati avanzano sulla desertificazione della società» ebbe a scrivere non molto tempo fa Karl Polanyi, mentre già nel 1932 Gandhi preannunciava la catastrofe: «Si esige oggi che la produzione industriale aumenti di anno in anno. Questa è un’autentica follia che non può portare altro che alla catastrofe».
Il «pensiero unico», ovvero il monoteismo della merce, che impone come imperativo categorico una crescita economica senza limiti sino a scaraventarci nel vortice del «guadagna e spendi» e «dell’usa e getta», non può che produrre quel consumismo sfrenato che uccide fisicamente chi non può accedervi e uccide moralmente i beneficiari, recando inoltre numerosi danni all’ecosistema. La nostra civiltà sopravvive consumando e consumandosi… La «megamacchina sociale» (cfr. Serge Latouche) riproduce se stessa divorando, dissipando irreversibilmente energie, beni, risorse, opere e linguaggi, culture, forme di vita e d’organizzazione, degradando complessità, omologando differenze e moltiplicando entropia.
I nostri rappresentanti istituzionali, indistintamente, di destra e di sinistra, inalberando l’ideologia dello «sviluppo» e agendo come complici di imprenditori senza scrupoli hanno dilapidato montagne di denaro e prodotto montagne di rifiuti. Il livello di intossicazione è tale da ritrovarci anche con la coscienza inquinata. Siamo disposti a concedere credito anche ai valori improduttivi, purché li induciamo a produrre: l’arte per promuovere il turismo, l’amore per «accasarsi», Dio per concedere favori, la preghiera per salvarsi l’anima. Questo involgarimento delle esperienze umane più elevate, ridotte a beni di consumo, dà la misura del nostro modello antropologico, direbbe Adriana Zarri, fatto di «buon senso o di calcolo e del tutto privo di gratuità e di stupore».
Appunto: i mercati avanzano sulla desertificazione della società! Non solo. In questa (in)civiltà, dove le cose importano sempre più e le persone sempre meno, i fini sono stati sequestrati dai mezzi, fino a sovvertie il rapporto: le cose ci posseggono, le auto ci guidano, il computer ci programma, la televisione ci comanda. Crediamo di possedere ma siamo dei posseduti.
Le discariche, ormai, sono il buco nero in cui tutto è destinato a precipitare: usi e costumi, lavoro e divertimento, pensieri e sentimenti, sogni e realtà.
In due secoli la popolazione del pianeta è triplicata, ma nei soli ultimi 50 anni la produzione e i consumi materiali sono sestuplicati. Nonostante questo, continuiamo a comportarci come se il pianeta avesse una capienza infinita per assorbire i resti del nostro banchetto tossico.
Ulderico Pesce ha messo in scena a Milano, a fine gennaio, il suo nuovo spettacolo «Asso di Monnezza». Vi si ricostruisce, attraverso la storia di una famiglia pugliese, il traffico di rifiuti industriali «speciali» che, dalle fabbriche del nord, finiscono in Campania e nel resto del meridione, dopo essere stati «trasformati» in rifiuti normali, grazie all’intervento della criminalità organizzata. In particolare, fa luce sulla complicità di alcuni laboratori di analisi chimiche della Toscana, dove i rifiuti speciali sostano per poco, prima di ripartire verso sud: giusto il tempo di essere riclassificati come innocui. Le imprese del nord, in questo modo, risparmiano i costi di bonifica e i rifiuti finiscono nelle discariche abusive o in finte fabbriche di compost e quindi nel terreno.
E non si tratta solo di «invenzione» teatrale. Già 8 anni fa, una commissione parlamentare accertò l’arrivo a Pianura dei rifiuti velenosi dell’Acna di Cengio (Savona). Massimo Scalia, docente di Fisica alla Sapienza di Roma, che tra il 1998 e il 2000 ha presieduto la commissione di inchiesta sui rifiuti, dice: «Otto anni fa, nel nostro lavoro d’indagine, accertammo in modo incontrovertibile che a Pianura erano finiti sicuramente i fanghi velenosi dell’Acna di Cengio. Un quantitativo rilevante, che purtroppo non riuscimmo a definire con esattezza, perché buona parte della documentazione che riguardava i trasporti o era andata distrutta o era incompleta. Quei fanghi, ovviamente, sono ancora lì, a Pianura. E se nessuno metterà mano continueranno ad avvelenare la terra e l’acqua. Per sempre».
Sorprende il silenzio di allora della popolazione. Una domanda si fa strada nella selva intrigata dei dubbi e delle ipotesi: forse che i lauti guadagni della mafia nel riempire le tasche dei pochi ha chiuso la bocca ai molti?
L’inversione di rotta è ormai improcrastinabile: produrre di meno e consumare di meno. La salvezza ci può venire solo da una presa di coscienza forte da parte dei consumatori, trovandosi, essi, in una posizione strategica: in base ai loro acquisti si possono trasformare in complici delle imprese che inquinano e sfruttano o in agenti di cambiamento.
A noi non resta che lavorare a questa coscientizzazione, fortemente convinti che un altro mondo è possibile e avendo già da tempo fatto nostro il monito di Mohawk: «Quando avrete inquinato l’ultimo fiume e avrete preso l’ultimo pesce, quando avrete abbattuto l’ultimo albero, allora e solo allora vi renderete conto che non potete mangiare il denaro che avete ammucchiato nelle vostre banche».
Di Aldo Antonelli
Aldo Antonelli