Sogno un Natale …

Notte di Natale, la più santa che ci sia, con stelle, campane, musica celestiale. Quanto vorrei che assieme a tutta questa luce e poetica tenerezza ci fosse anche la visione di Dio, per capire se siamo sulla stessa sintonia o se ci perdiamo in un’altra lunghezza d’onda con un mondo, una vita e un sentire completamente differenti.
Io so che quel bambino adagiato sulla paglia in una stalla, perché la povertà dei suoi genitori non consentiva di avere un altro posto, era figlio di Dio. Non vennero riconosciuti i suoi diritti di Signore del cielo e della terra per i tratti umani che mostrava. Che tragico errore di categorie mentali ingiuste che condannavano Dio solo perché si mostrava uomo povero! Che tragedia! Avessero mai saputo o anche soltanto immaginato che in quel bambino si celava la pienezza della natura divina… chissà che feste, che celebrazioni imponenti e spettacolari.
Nelle sacre scritture non ho mai letto che Dio ordinava la preparazione di liturgie straordinarie. Ha sempre ribadito di preferire la misericordia, di dare priorità al diritto e alla giustizia. Dio ha fatto sapere esattamente cosa vuole. È ancora scritto e nessuno lo ha cancellato: «Io voglio – dice Dio – essere per voi un padre, e che voi siate miei figli».
Lungo i secoli, i «devoti» hanno costruito una serie di esigenze, che sono entrate nella mentalità comune, e tutti accettano pacificamente sacrifici, offerte, olocausti, manifestazioni gloriose.

Nel mondo indio, che ho conosciuto direttamente, la festa di Natale è quasi ignorata come celebrazione trionfale, a differenza degli altri che invece si indebitano, per fare cose pompose e straordinarie da ricordare e vantarsene. Gli indios ne rimangono ai margini, partecipandovi solo se ingaggiati come comparse per i balli folklorici, che accompagnano le parate e le processioni del Bambin Gesù. Ricordo che non ho mai avuto fede accogliente per queste celebrazioni natalizie, dove si mangia e si beve, ma non nasce niente di Gesù, di Cristo, di Figlio di Dio, di Padre Divino.

Io sogno un Natale che fa nascere un mondo differente, un mondo che viene affidato alla nostra fede e alla nostra carità per diventare senza mali, senza offese e discriminazioni, senza ostentazioni a scapito della solidarietà amata e promossa a tutti i livelli, comunitari e sociali. Il Natale è Dio che si è avvicinato per essere padre e figlio, per incarnare il suo amore e la sua misericordia. Natale vuol dire che la grazia diventa grazia ricevuta e Dio, finalmente, può arrivare a tutti, con la sua benevolenza e dolcezza. In questo modo, il Natale diventa la più bella notizia per l’uomo e per il mondo, canto di dignità per il povero e l’umiliato, sorgente perenne di libertà e speranza per tutti.
Non succeda mai che si celebri il Natale di Gesù, senza far posto alla sua nascita nella nostra vita. Non ci può essere Natale di Gesù senza la sua nascita in noi.

Giuseppe Ramponi




Un’impronta da lasciare

Alcuni eventi di discriminazione sociale che in questi ultimi mesi hanno riempito le pagine dei nostri giornali e rotocalchi hanno acuito interrogativi che da tempo abitano il nostro cuore e la nostra mente. Che ne è di Gesù Cristo? Che ne è della fede e della testimonianza cristiana nelle nostre società? Soprattutto, che ne sarà del cristianesimo in un prossimo futuro? Ancora recentemente qualcuno paveggiava una lenta dissoluzione, uno sciogliersi indolore (ancorché, forse, arricchente) dei valori cristiani all’interno del più vasto patrimonio etico dell’umanità. Altri ancora si immaginavano – o si auguravano -una chiesa sempre capace di conciliare gli opposti, grazie al suo seno generoso portato ad accogliere tendenze non solo diverse, ma a volte perfino contraddittorie. Oggi tutto ciò non avviene più; anzi, ci pare che la tentazione più seria che colpisce i testimoni del Signore Gesù, fattosi uomo come noi, morto e risorto per ristabilire la piena comunione dell’umanità e del cosmo intero con Dio, venga dall’irresistibile fascino di un cristianesimo apologetico, propenso a orientarsi sempre di più sulla sicurezza della legge e molto meno sul rischio della profezia.

Il cristianesimo sarà profezia oggi se rinuncerà a ogni forma di potere che non sia quello della Parola «disarmata». Sarà profezia se farà prevalere la compassione sulla legge, l’incontro sulla paura e la minaccia, la vita su ogni idolatria di morte. Sarà profezia se troverà, come diceva Giovanni Paolo II, discepoli capaci di essere «sentinelle della libertà, della giustizia e della pace».
In questi ultimi tempi, non sono mancati segnali che puntano decisamente in questa direzione. Il lucido editoriale di «Famiglia Cristiana», scritto nel luglio scorso contro la proposta di «catalogazione» dei bimbi Rom avanzata dal Ministro dell’Inteo, ha dato una sincera scossa a un mondo ecclesiale rassegnato, perché atrofizzato dalla paura e quindi incapace di assumere scelte profetiche ma impopolari. Insieme ad altre prese di posizione ufficiali (Caritas, Cei), ha contribuito a fornire un punto di riferimento concreto alla confusione di tanti fedeli, disorientati dall’aggressività e dalla parzialità con cui i media presentano oggi il problema migrazione.
Sono voci fuori dal coro che annunciano speranza in una società in cui la paura del diverso sembra prevalere, creando rancori e malcontenti, che sfociano frequentemente in autentiche guerre tra poveri. Sono voci che non devono rimanere inascoltate, in quanto ci dicono come oggi un cristianesimo che sappia ripresentare l’inaudito di una «Buona Notizia» debba ritrovare il suo senso e il suo posto. C’è ancora spazio per cristiani liberati dalle paure e aperti al dialogo e all’incontro con la diversità. Sarebbero fonte di speranza per tutti. Non soltanto per i poveri che abitano i campi nomadi o i famigerati centri di identificazione ed espulsione, ma per tutti i bambini e gli adulti che, in questo nostro mondo, sono «schedati» dalla fame, dall’indigenza, dallo sfruttamento… semplicemente perché appartengono alla classe dei miserabili. È lì tra loro, dove la chiesa deve lasciare la sua impronta.

Di Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Paolo di Tarso: bimillenario della nascita

I l 28 giugno scorso, nella basilica di San Paolo fuori le mura, Benedetto xvi ha ufficialmente inaugurato l’«Anno Paolino», per commemorare il secondo millennio della nascita di san Paolo. Lo «speciale anno giubilare», che si chiuderà il 29 giugno del 2009, sarà caratterizzato da numerose iniziative pastorali, religiose e artistiche, con lo scopo di conoscere e far conoscere meglio la figura del più grande missionario di tutti i tempi e la ricchezza gigantesca del suo insegnamento. In secondo luogo, la celebrazione avrà una «dimensione ecumenica», secondo le parole stesse del papa: «L’apostolo delle genti particolarmente impegnato a portare la Buona Notizia a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani».
L’annuncio di tale evento era già stato dato l’anno scorso, il 28 giugno 2007, nella stessa basilica paolina. Accogliendo con gioia tale annuncio, abbiamo voluto in qualche modo anticipare le celebrazioni, dedicando alla figura del grande missionario il calendario 2008 e invitando i nostri lettori a camminare per tutto l’anno in corso «sulle orme di Paolo, apostolo delle genti». E continueremo nei prossimi numeri di Missioni Consolata a presentare alcuni aspetti della personalità e dell’insegnamento del grande evangelizzatore.

P er la sua importanza nella storia delle origini del cristianesimo Paolo è stato definito «il primo dopo l’Unico», cioè secondo solo a Gesù Cristo. È chiamato pure «tredicesimo apostolo», un titolo che egli rivendica nelle sue lettere ogni qual volta i suoi avversari cercano di screditare la sua missione: più volte si definisce «apostolo per vocazione», cioè chiamato direttamente da Cristo. Al tempo stesso, con i più intimi non esita a dichiararsi servo: «Servo di Cristo», dal quale si sente «afferrato», e «servo di tutti» per amore di Cristo (1Cor 9,19-23). Senza l’infaticabile e coraggiosa impresa missionaria di Paolo, il cristianesimo avrebbe rischiato di rimanere a lungo una fra le tante sette giudaiche. Egli ha aperto le porte della chiesa, ha spalancato gli orizzonti dei discepoli e delle discepole di Gesù e ha portato la Buona Notizia al mondo intero.
Ci sembra superfluo dire che, a duemila anni dalla sua nascita, san Paolo è ancora attuale: lo è sempre stato e lo sarà per tutti i secoli a venire. Tuttavia, è utile evidenziare uno dei suoi tratti fondamentali, capaci di ispirare e rinnovare il nostro essere discepoli di Cristo nel mondo in cui viviamo oggi: un mondo globalizzato, multiculturale, di incontri e scontri di civiltà… Un mondo con molti tratti simili a quelli in cui è vissuto il grande apostolo.
«Paolo è nato bifronte» ha scritto un esegeta, nel senso che appartiene a due civiltà che non si amavano affatto: quella giudaica e quella greca. Per di più, nei suoi viaggi missionari è entrato in contatto con molti popoli, diversi per stirpe, etnia, lingua e cultura; ha incontrato uomini e donne di differenti situazioni economiche e sociali: di tutti ha riconosciuto la dignità della persona e la chiamata a fare parte dell’unica famiglia di Dio, nella quale «non c’è più né pagano né ebreo, né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna» (Gal 3,28). Non è stato facile per Paolo giungere a tale convinzione, se si tiene presente che, almeno fino all’età di 28-30 anni, nelle preghiere del mattino aveva recitato, come ogni pio israelita, una tripla benedizione: «Io ti benedico, o Dio, per non avermi creato pagano, ma ebreo, per avermi creato libero e non schiavo, uomo e non donna».
Uomo senza frontiere, Paolo aveva compreso che una cosa è il vangelo e un’altra la cultura dei popoli. Con la sua vita e i suoi scritti ha lavorato con passione per costruire un’umanità unificata nell’abbraccio misericordioso di Dio: umanità egregiamente espressa con l’immagine delle molte membra che formano un solo corpo. Egli continua a insegnare che la chiesa, nella sfida di inculturare concretamente il messaggio di Cristo, può avere forme molto diverse e che nessun popolo può legittimamente imporre agli altri stili di essere, di sentire, di pensare, di agire e di celebrare.

di Bnedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Paraguay, il vescovo che diventò presidente

Ancora una volta la fantasia latinoamericana sorprende l’opinione pubblica internazionale: a fare notizia l’affermazione di un vescovo cattolico a presidente della Repubblica del Paraguay. Nell’Ottocento era la più florida e prospera nazione sudamericana; ma venne praticamente annichilita dalle trame coloniali della potenza imperiale del tempo: l’Inghilterra, allo scopo di impadronirsi delle sue ricchezze e, al tempo stesso, controllare l’intera area regionale da una posizione strategica. Da paese indipendente e autonomo, con una buona produzione industriale, costruita senza prestiti capestro dalla City di Londra, alla fine di un lungo e sanguinoso conflitto, si ritrovò con la popolazione dimezzata e il territorio ridotto a meno della metà: i vincitori (Argentina e Brasile) si appropriarono di vaste aree produttive, provocandone così un collasso umano ed economico.
Negli anni Trenta del secolo scorso, un’altra guerra, con la Bolivia, costò al Paraguay oltre 50 mila vite umane; guerra orchestrata dalle multinazionali del petrolio, Standard Oil e Shell, che si contendevano i territori del Gran Chaco, ritenuti ricchi di giacimenti petroliferi.
Stremato, l’economia a pezzi, il Paraguay attraversò una lunga, difficile fase, con diversi colpi di stato, finché nel 1954, un’alleanza politica tra esercito e Partido Colorado, portò il generale Alfredo Stroessner al governo del paese. Da allora il Partido Colorado, come una piovra, si è infilato in ogni fessura della vita pubblica e sociale. Con l’appoggio degli Usa e la politica della dottrina della sicurezza nazionale, Stroessner avviò un regime dittatoriale, sopprimendo tutte le libertà civili e democratiche e applicando il terrorismo di stato, con omicidi, sparizioni, imprigionamenti senza processo e torture. Negli anni Settanta, quando in tutta l’America Latina si installarono regimi autoritari, il Paraguay collaborò con le giunte militari per esportare il suo modello in ogni angolo dello stesso continente.
Dopo la seconda guerra mondiale il Paraguay diventò un rifugio per parecchi gerarchi nazisti; vi trovò asilo anche il dittatore Somoza del Nicaragua, quando fu cacciato dal Movimento sandinista. Autoritarismo e connivenza con il peggio dei regimi militari, con la regia del Partido Colorado, trasformarono il Paraguay in un paese dall’economia fasulla, dove però il riciclaggio del denaro sporco proveniente dal narcotraffico, commercio delle armi e loschi affari delle mafie inteazionali, generarono una situazione sempre più insostenibile.

Con il rovesciamento di Stroessner, per mano del consuocero Andrès Rodriguez, capo dell’esercito, iniziò una lenta ma costante evoluzione nella politica del Paraguay che, pur con rovesciamenti di fronte e aspri confronti tra diversi protagonisti politici provenienti dalle stesse fila del Partido Colorado e dell’esercito, ha condotto il paese a vivere la stessa transizione verso la democrazia avviata dalle altre nazioni latinoamericane. Tale processo, alimentato da ampi settori della chiesa cattolica e dalle forze più vive della società, ha avuto nel vescovo emerito di San Pedro, mons. Feando Lugo, la figura di spicco nella quale sono confluite le attese e speranze di una democrazia vera e un futuro migliore di gran parte del popolo paraguayano. Con la costituzione dell’Alleanza patriottica per il cambiamento (Apc), interprete politica della voglia di rinnovamento della società del Paraguay, di cui Lugo è stato riconosciuto leader indiscusso, queste attese hanno avuto una risposta piena e definitiva domenica 20 aprile, quando ha vinto le elezioni, aprendo un capitolo nuovo nella storia del paese.
Mons. Lugo, che per iniziare questa esperienza, per certi versi inedita e affascinante, era stato sospeso a divinis dalla Santa Sede, potrà finalmente avviare la riforma agraria e mettere ordine nella corruzione dilagante in ampi settori della società. Oltre che sui cittadini che l’hanno votato, potrà contare su gran parte della chiesa paraguayana (compresa la maggioranza dei vescovi, tranne uno dell’Opus Dei) e su tutte quelle persone desiderose di vivere in un paese normale, finalmente liberato dalla morsa del Partito-padrone che ne ha tarpato le ali per mezzo secolo. Se per avviare questo processo c’era bisogno di una originale figura, come un vescovo cattolico da prestare alla politica, sarà solo il tempo a dire se un evento così inedito sarà per il Paraguay davvero provvidenziale.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Le Frecce impazzite

La serie di articoli su droghe e tossicodipendenze proposti nel dossier di questo mese dal dottor Topino e dalla dottoressa Novara, sensibili ed attenti studiosi dei problemi legati all’ambiente e alla salute, interpella da tempo la missione e i suoi agenti.
Innanzitutto perché ciò che sa di «globale» sfida il mondo missionario e se c’è un tema con tale caratteristica è proprio questo. La carta geografica colorata pubblicata nella seconda pagina di introduzione al dossier descrive, meglio di tante parole, come il nostro bistrattato pianeta sia diventato anche un «mondo di droghe». A quella mappa – che evidenzia i paesi  produttori di sostanze stupefacenti e quelli che maggiormente le consumano – provate ad associare la cartina presentata in questa pagina. È la carta delle «frecce impazzite», che illustra il viaggio della droga verso i più floridi mercati, tra i quali, fa pena dirlo, si distingue il nostro bel paese: porti protetti di smercio o scambio dei prodotti, sedi di mafie che hanno il controllo dello spaccio in determinati territori, corridoi privilegiati per il trasporto della droga. Di mondo non contaminato ne resta davvero poco.

Il missionario vive il lungo viaggio della «merce» dal suo inizio, dai villaggi dove cannabis, coca e papavero da oppio vengono coltivati. È presente negli anfratti più bui delle «terre di mezzo»: nei corridoi dove la droga passa a fiumi attraverso canali di smercio sicuri o nelle baraccopoli alla periferia delle grandi metropoli, dove il marcio delle lamiere delle baracche fa da scudo a quelle ben più brillanti di SUV con vetri polarizzati di proprietà dei narcos. Accompagna il cammino fino a qui, nel nostro Occidente industrializzato e super-tecnologico, dove narcotraffico e tossicodipendenza segnano una delle tante frontiere impalpabili della missione di oggi. In questo tragitto, l’annuncio del vangelo passa principalmente attraverso  un lavoro di formazione volto a irrobustire la persona nella lotta fra coscienza individuale e il dio mercato. È quest’ultimo, infatti, il nemico vero dietro il quale si genera la narco-coscienza, quella sorta di hybris criminale, che si esalta nel mito del denaro facile, che non ha nessun rispetto se non quello garantito dal potere d’acquisto.
In tutti questi anni, Missioni Consolata ha più volte incrociato le frecce impazzite delle rotte delinquenziali della droga, raccontando di progetti produttivi alternativi, iniziative di sviluppo sostenibile, programmi di riabilitazione e recupero, ecc. Ha raccontato storie, fotografato luoghi e situazioni, inseguendo le frecce nel buio della selva amazzonica, sulle pendici scoscese delle Ande, sugli altopiani asiatici, negli slums di metropoli africane o latinoamericane. Questo dossier ci sfida a riposizionare ancora una volta la nostra missione alla fine del percorso per scoprire che, guarda caso, scandalo nello scandalo, il punto conclusivo coincide con quello di partenza. È il punto dove meno vorremmo trovarci: casa nostra.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Quale profezia?

La storia dell’uomo si evolve grazie alle impronte lasciate da pochi e capaci di influenzare i più. La storia della chiesa e della missione non fa eccezione. Fermo restando che in questo campo bisogna riconoscere allo Spirito Santo un protagonismo indiscusso, i grandi cambiamenti sono fenomeni che nascono da una base pressoché elitaria. Se non tutti sono santi o profeti, va però detto che tali figure non appartengono alla galassia dei superuomini, ma vivono tra noi. Anzi, la «zampata» decisiva, quella che lascia il segno indelebile sulla storia, potrebbe essere uno di noi a darla. Perché no?
Ciò che caratterizza la profezia è la spontaneità assoluta, l’imprevedibilità radicata nell’iniziativa di Dio, in seguito accolta e, quindi, tradotta in realtà. La profezia va letta nel quotidiano, scovata negli anfratti della storia, stanata dalle pieghe della marginalità. La profezia alberga nelle stanze degli esclusi e per tal ragione è poco visibile, anche se di per sé illuminante.
Quali profezie si scorgono, in atto o in potenza, nell’oggi della missione in Italia?
Se lo sono chiesti più di cento missionari e missionarie che hanno preso parte nel mese di febbraio al Forum della C.I.M.I., la Conferenza che riunisce i superiori provinciali degli istituti esclusivamente ad gentes presenti in Italia. Al di là della bella esperienza del trovarsi insieme a Pacognano, nella penisola sorrentina, qualcosa non ha funzionato.

Gli interrogativi non sono mancati, anche se sono stati conditi da un senso di smarrimento, inadeguatezza, difficoltà ad adattarsi a un mondo – quello europeo e italiano – che a molti sembra non appartenere geneticamente al Dna del missionario. Le conferenze su un’Europa da ri-conoscere e nella quale ubicarsi efficacemente come missionari, sulla contestualizzazione del lascito carismatico dei fondatori dei vari istituti missionari e della teologia per una missione in Europa hanno offerto solo in parte piste da percorrere. Le proposte finali su un’ipotesi di lavoro missionario comune sono rimaste imbrigliate nel tentativo di fare giusta sintesi tra utopia e disincanto.
I momenti di maggior impatto si sono avuti grazie ad alcune testimonianze, offerte sia da ospiti estei, come anche da partecipanti al Forum. Il condividere esperienze missionarie significative, talvolta difficili, di frontiera e nello stesso tempo gratificanti, ha dato fiducia all’assemblea, indicando cammini possibili per una missione profetica in Italia e ribadendo ancora una volta la centralità del racconto come strumento di animazione missionaria.
Il missionario, abitualmente un grande fagocitatore e ripetitore di storie, pare faticare una volta rientrato in Europa a nutrirsi del racconto dell’altro. Commette, forse, l’errore di pensare di esser l’unico ad avere una narrazione che vale la pena di essere ascoltata e si chiude alle storie di chi incontra. In che altro spazio merita andare a cercare uno spunto profetico se non nel vissuto di chi ci circonda? Una delle immagini di maggior impatto di tutto il Forum è stata quella del confine. Il missionario, una volta inviato ad «attraversare» i confini, è ora chiamato ad «abitare» quei bordi sfrangiati che la modeità ha ricavato dall’erosione costante delle frontiere geopolitiche, sociali, generazionali, ecc. Occorre far sì che tali confini si riempiano di storie di vita vissuta, da raccogliere, ripensare ed elaborare, al fine di costruire la missione di domani. Un approccio che non tenga conto di questi racconti già in atto potrà forse costruire un’ideologia della missione, ma non troverà la strada per la missione profetica sulla quale ci si interroga e di cui si ha bisogno.
di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Napoli e dintorni: anno del signore 2008

Le immagini di degrado che dai teleschermi si riversano nelle nostre case sembrano veicolare anche il fetore miasmatico dei rifiuti che tutti producono e che tutti a loro volta rifiutano. Le oltre 3.500 tonnellate di «munnezza» che invadono le strade della città sono il monumento osceno alla bulimia dei produttori, alla cecità degli amministratori e all’incoscienza dei consumatori. Ciò che scandalizza, tra la rabbia di questi ultimi, il balbettio dei secondi e il silenzio dei primi, è la mancanza di un pur minimo tentativo di individuazione delle cause che hanno portato a questo stato di cose e, ancor più, l’assenza assoluta di ogni voce critica  circa questo modello di sviluppo totalmente appiattito sulla categoria della produzione e del mercato.
Lasciamo agli esperti e agli specialisti il compito di ricercare le cause locali e circostanziate che hanno generato questo caos di putrescenza, anche perché noi non siamo all’altezza e non siamo in possesso dei dati necessari per una disanima precisa e imparziale. Ci preme piuttosto rilevare che la crisi napoletana è la manifestazione traumatica di qualcosa che sta avvenendo ovunque, in Italia e fuori. La crisi è planetaria.
«I mercati avanzano sulla desertificazione della società» ebbe a scrivere non molto tempo fa Karl Polanyi, mentre già nel 1932 Gandhi preannunciava la catastrofe: «Si esige oggi che la produzione industriale aumenti di anno in anno. Questa è un’autentica follia che non può portare altro che alla catastrofe».
Il «pensiero unico», ovvero il monoteismo della merce, che impone come imperativo categorico una crescita economica senza limiti sino a scaraventarci nel vortice del «guadagna e spendi» e «dell’usa e getta», non può che produrre quel consumismo sfrenato che uccide fisicamente chi non può accedervi e uccide moralmente i beneficiari, recando inoltre numerosi danni all’ecosistema. La nostra civiltà sopravvive consumando e consumandosi… La «megamacchina sociale» (cfr. Serge Latouche) riproduce se stessa divorando, dissipando irreversibilmente energie, beni, risorse, opere e linguaggi, culture, forme di vita e d’organizzazione, degradando complessità, omologando differenze e moltiplicando entropia.  

I nostri rappresentanti istituzionali, indistintamente, di destra e di sinistra, inalberando l’ideologia dello «sviluppo» e agendo come complici di imprenditori senza scrupoli hanno dilapidato montagne di denaro e prodotto montagne di rifiuti. Il livello di intossicazione è tale da ritrovarci anche con la coscienza inquinata. Siamo disposti a concedere credito anche ai valori improduttivi, purché li induciamo a produrre: l’arte per promuovere il turismo, l’amore per «accasarsi», Dio per concedere favori, la preghiera per salvarsi l’anima. Questo involgarimento delle esperienze umane più elevate, ridotte a beni di consumo, dà la misura del nostro modello antropologico, direbbe Adriana Zarri, fatto di «buon senso o di calcolo e del tutto privo di gratuità e di stupore».  
Appunto: i mercati avanzano sulla desertificazione della società! Non solo. In questa (in)civiltà, dove le cose importano sempre più e le persone sempre meno, i fini sono stati sequestrati dai mezzi, fino a sovvertie il rapporto: le cose ci posseggono, le auto ci guidano, il computer ci programma, la televisione ci comanda. Crediamo di possedere ma siamo dei posseduti.
Le discariche, ormai, sono il buco nero in cui tutto è destinato a precipitare: usi e costumi, lavoro e divertimento, pensieri e sentimenti, sogni e realtà.

In due secoli la popolazione del pianeta è triplicata, ma nei soli ultimi 50 anni la produzione e i consumi materiali sono sestuplicati. Nonostante questo, continuiamo a comportarci come se il pianeta avesse una capienza infinita per assorbire i resti del nostro banchetto tossico.
Ulderico Pesce ha messo in scena a Milano, a fine gennaio, il suo nuovo spettacolo «Asso di Monnezza». Vi si ricostruisce, attraverso la storia di una famiglia pugliese, il traffico di rifiuti industriali «speciali» che, dalle fabbriche del nord, finiscono in Campania e nel resto del meridione, dopo essere stati «trasformati» in rifiuti normali, grazie all’intervento della criminalità organizzata. In particolare, fa luce sulla complicità di alcuni laboratori di analisi chimiche della Toscana, dove i rifiuti speciali sostano per poco, prima di ripartire verso sud: giusto il tempo di essere riclassificati come innocui. Le imprese del nord, in questo modo, risparmiano i costi di bonifica e i rifiuti finiscono nelle discariche abusive o in finte fabbriche di compost e quindi nel terreno.
E non si tratta solo di «invenzione» teatrale. Già 8 anni fa, una commissione parlamentare accertò l’arrivo a Pianura dei rifiuti velenosi dell’Acna di Cengio (Savona). Massimo Scalia, docente di Fisica alla Sapienza di Roma, che tra il 1998 e il 2000 ha presieduto la commissione di inchiesta sui rifiuti, dice: «Otto anni fa, nel nostro lavoro d’indagine, accertammo in modo incontrovertibile che a Pianura erano finiti sicuramente i fanghi velenosi dell’Acna di Cengio. Un quantitativo rilevante, che purtroppo non riuscimmo a definire con esattezza, perché buona parte della documentazione che riguardava i trasporti o era andata distrutta o era incompleta. Quei fanghi, ovviamente, sono ancora lì, a Pianura. E se nessuno metterà mano continueranno ad avvelenare la terra e l’acqua. Per sempre».
Sorprende il silenzio di allora della popolazione. Una domanda si fa strada nella selva intrigata dei dubbi e delle ipotesi: forse che i lauti guadagni della mafia nel riempire le tasche dei pochi ha chiuso la bocca ai molti?

L’inversione di rotta è ormai improcrastinabile: produrre di meno e consumare di meno. La salvezza ci può venire solo da una presa di coscienza forte da parte dei consumatori, trovandosi, essi, in una posizione strategica: in base ai loro acquisti si possono trasformare in complici delle imprese che inquinano e sfruttano o in agenti di cambiamento.
A noi non resta che lavorare a questa coscientizzazione, fortemente convinti che un altro mondo è possibile e avendo già da tempo fatto nostro il monito di Mohawk: «Quando avrete inquinato l’ultimo fiume e avrete preso l’ultimo pesce, quando avrete abbattuto l’ultimo albero, allora e solo allora vi renderete conto che non potete mangiare il denaro che avete ammucchiato nelle vostre banche».

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Quale pace per il Kenya?

Dopo l’«indigestione» di notizie del mese scorso, per il Kenya c’è il rischio molto alto che i riflettori si spengano su questo come su altri paesi africani. Basti pensare alla copertura mediatica offerta un anno fa, sempre nel mese di gennaio, per il primo World Social Forum organizzato in Africa, proprio a Nairobi: un silenzio imbarazzante, interrotto da pochi lanci di agenzia disseminati qua e là fra le pagine dei maggiori quotidiani.
I fatti di violenza di un mese fa, scatenati dalla contestata elezione presidenziale, sono stati amplificati anche dal fatto che un buon numero di nostri connazionali fosse andato a svernare sulle spiagge del paradiso artificiale di Malindi. Grazie anche a un certo gusto del macabro, che sempre aiuta a vendere bene il prodotto, anche in Italia ci si è resi conto che il Kenya è ben di più che gli scorci da cartolina della sua costa. Si sono scoperte località ai più sconosciute, come Kisumu e Eldoret, e si è fatto capolino nelle periferie disagiate di Nairobi: Kibera, Korogocho.
Nel racconto delle violenze ci si è soffermati sulle lotte tribali che hanno insanguinato il paese: Luo, Luia, Kalenjin, gruppi che si sentono emarginati dalla vita politica ed economica del paese, che si trova invece saldamente nelle mani dei Kikuyu. Sicuramente questo è un elemento da tenere sempre presente e da approfondire quando si affrontano problemi africani: non si capiscono la storia e la vita politica di un paese se non si considerano i rapporti fra le diverse etnie che lo colorano demograficamente. L’errore, semmai, è quello di sdoganare la questione etnica come l’unica possibile ragione del fallimento post-coloniale della maggior parte degli stati africani.
Sicuramente, rimangono moltissimi punti interrogativi che l’analisi offerta dagli organi d’informazione occidentali, specie europei, non ha neppure sfiorato. Occorre, a mio giudizio, andare al di là del giudizio di colpevolezza attribuito in forma univoca all’odio tribale, facile da comprendere e di forte impatto emotivo per la nostra gente. Pensare, però, che le sommosse e le violenze siano da imputare solamente a questo fattore non solo non aiuta a spiegare il fenomeno nella sua complessità, ma serve a nascondere quelle che sono in realtà le nostre responsabilità in quanto occidentali ed europei.
I tumulti del mese passato sono infatti un atto di accusa all’atteggiamento aggressivo dei paesi industrializzati (e multinazionali che ne muovono le fila) nei confronti di un continente malato e volutamente lasciato in lungo-degenza da quelle stesse potenze occidentali che oggi cercano la mediazione politica fra le parti in conflitto. Ipocrisia bella e buona di chi finora si è solamente interessato del Kenya «utile»: quello delle località turistiche, regione oggetto di investimenti, paese delle «zone franche» per l’industria tessile e dei fiori. Facile battuta, ma in Kenya, per davvero, «non è tutto rose e fiori». Anche gli slums di Nairobi, dove alberga un’umanità di milioni di disperati, ci dice che l’odio tribale è una concausa (se non una scusa) del malessere di un intero continente. Lì dove la forbice tra ricchi e poveri è così tragicamente aperta, dove la sperequazione è troppo evidente per non sfociare nell’ingiustizia, fa molto più comodo una guerra fra poveri che non una coalizione, anche pacifica, dei poveri contro il sistema.

All’Africa delle nuove conquiste coloniali corrisponde, come conseguenza, l’Africa malata, il continente delle tragedie, dei profughi, degli interi villaggi decimati dalla guerra o Aids. La situazione che oggi si è venuta a creare in Kenya interpella moltissimi di noi, agenti di pastorale a vari livelli, esercito di «buoni samaritani», sempre pronti a mettere le bende lì dove le ferite sanguinano, ma forse non così decisivi nell’analizzare, informare e denunciare le cause di ciò che provoca tanta sofferenza nei più poveri, in coloro che sempre rimangono ai margini e non hanno voce in capitolo.
Questi fatti dovrebbero aiutarci a valutare il modo in cui, oggi, ci presentiamo nelle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, spingendoci a riflettere, per esempio, sul modo in cui formiamo le persone che inviamo in Kenya o in altri paesi africani, sia per brevi viaggi di conoscenza come per più lunghi periodi di volontariato a sostegno delle missioni. In che misura aiutiamo queste persone a leggere una realtà di disagio, molto più complessa di quella che si può cogliere in superficie e di come ci viene raccontata dai nostri mezzi di comunicazione?

Antonio Rovelli




Caro Amico

Caro Amico,

per anni gli editoriali che hanno occupato la tua prima pagina sono iniziati così, con la leggerezza e il calore di una lettera ai lettori, ragazzi e ragazze, compagni di cammino che da sempre hai chiamato con confidenza «amici», cari amici.
E proprio in qualità di «amici di amico» oggi ti auguriamo «Buon Compleanno». Mezzo secolo di vita – mica uno scherzo – al servizio della missione, sempre attento ai cambiamenti che questa ha presentato sullo scenario di un mondo sempre più complesso e sempre più grande. «Ti sei saputo conservare bene»; te lo diciamo noi che guardiamo lo stesso universo in cui sei immerso tu e lo facciamo da ben più tempo (pensa un po’, proprio quest’anno «Missioni Consolata» compie 110 anni).
Una cosa che ti ho sempre invidiato, te lo dico francamente, è il nome: amico, una parola che immediatamente richiama una relazione positiva fra le persone. Cinque lettere cariche di un profondo significato teologico e missionario, ma che sono anche il felice frutto di un acronimo: a.mi.co.: «Agenzia Missioni Consolata». Padre Caera, l’uomo che ti vide nascere,  mi disse una volta che ti chiamò «agenzia» perché voleva che tutti, sin dall’inizio, ti prendessero sul serio. E così è stato. Sei nato come una vera e propria agenzia di notizie, pubblicando sulle tue pagine le lettere dei missionari che lavoravano sul campo. Erano i seminaristi a raccoglierle e, una volta ciclostilate, le distribuivano ad altri giovani affinché potessero conoscere cosa succedeva dall’altra parte del mondo: in Africa… in America Latina. Il tutto per creare una relazione fra la missione di frontiera e quella imparata a tavolino: una relazione di amicizia.

Con il tempo sei cresciuto. Hai cambiato molte volte formato e altrettante volte stile, seguendo l’istinto di chi si occupava di te e, soprattutto, le tendenze della missione. Dopo gli anni del Concilio hai avuto una grande metamorfosi, sei diventato adulto e hai assunto il carattere che ancora oggi ti identifica: quello di essere uno strumento di «form-Azione» missionaria per i giovani. Pagine da leggere, ma che invitano anche ad agire. Una rivista che, soprattutto, ha sempre ricordato l’importanza di «raccontare» la missione, strumento su cui si fonda ogni animazione missionaria di ieri, di oggi, di sempre.
Ancora oggi, lo stile che ti rende ciò che sei, amico,  può essere sintetizzato attraverso un semplice schema. Il punto di partenza è la vita. È la realtà che ci interpella, attraverso situazioni che, di volta in volta, aprono finestre sugli universi della giustizia e della pace, della salvaguardia del creato, dell’alterità, della mondialità. Una realtà colta nella sua complessità, ma presentata ai giovani senza reticenze e con indicazioni per poter affrontare individualmente o in gruppo un determinato tema. Tutto ciò – e siamo al secondo passo – insisti nel volerlo interpretare alla luce della Parola di Dio, ponendo Gesù, la sua vita, le sue scelte, la sua missione come punto di riferimento del tuo rivolgerti ai giovani.
Infine, continui a ricordare che la vita, illuminata dalla luce della buona notizia, deve mirare all’azione e alla testimonianza. Lo fai comunicando l’esperienza di coloro che vivono l’ad gentes in prima persona e cercando, nel medesimo tempo, di far innamorare della missione coloro che ti leggono in Italia.
Insomma, un bello sforzo. Per essere un cinquantenne, caro amico, ti difendi «alla grande».

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




I rom, i rumeni e l’italia: molti muri, pochi ponti

Ogni crimine, ogni delitto, ogni omicidio è sempre un episodio sconvolgente, che dovrebbe far inorridire la coscienza di ciascuno. Tuttavia, quando a commettere un delitto sono dei rom, sembra che il crimine diventi particolarmente odioso e l’assassino si trasforma in un mostro da sbattere in prima pagina. I fatti di novembre, accaduti in una degradata periferia di Roma, sono lì a dimostrarlo.
Gli zingari (siano essi rom o sinti) da secoli sono discriminati ed emarginati, la loro semplice apparizione in un qualsiasi comune o borgata delle nostre città, scatena una repulsione immediata per la fama poco onorevole che li accompagna. Nell’immaginario collettivo essi sono visti come ladri o, peggio, rapitori di bambini, ma quello che sconcerta ancora di più è che i rom non sembrano preoccuparsi di questa nomea che si sono procurati con alcuni loro atteggiamenti ripugnanti come il furto o il mandare i bambini ad elemosinare lungo le strade, allontanando un difficile ma non impossibile inserimento nella nostra società. Nel passato molti governanti hanno tentato di porre soluzione al problema degli zingari, attraverso delle leggi che costantemente li mettevano al bando. Hitler, unitamente agli ebrei, attuò la soluzione finale anche nei loro confronti. La sconfitta del nazismo evitò che questo criminale disegno si compisse, ma è amaro scoprire, visitando i vari campi di sterminio, che ci sono lapidi e cippi a ricordo di tutte le vittime dei popoli soggiogati dal nazismo, ma stranamente non c’è nessun ricordo che faccia memoria delle migliaia di vittime del popolo zingaro.
Non è certamente facile il dialogo con chi vive ai margini della società e della legge. Tuttavia, in una società multietnica e multiculturale come quella europea, non si può pensare di erigere mura che separano o ghettizzano, ma deve essere un punto centrale delle istituzioni cercare di costruire ponti che favoriscano la conoscenza ed il dialogo reciproco. La comunità cristiana (al contrario del circostante mondo «celtico-padano» che invoca «soluzioni forti» nei confronti dei rom) ha il dovere di percorrere queste strade.

D iverso il discorso relativo ai rumeni. Il fatto che la Romania sia entrata a far parte dell’Unione europea, li pone nella condizione di potersi muovere senza nessun problema all’interno degli stati membri. In Italia essi sono già la prima comunità straniera e, purtroppo, stando alle statistiche, anche la prima comunità per numero di reati. Il fatto che il presidente rumeno Calin Popescu Tariceanu, dopo i fatti di Roma si sia affrettato a venire in Italia (lo scorso 7 novembre) a discutere con Prodi i problemi legati alle relazioni tra i due paesi, la dice lunga sulla posta in gioco. Se la presenza dei rumeni in Italia ha raggiunto cifre ragguardevoli, garantendo attraverso le rimesse degli emigranti entrate sostanziose al bilancio rumeno, va anche tenuto presente che sono oltre 20.000 le imprese italiane operanti in Romania.
Il cammino dell’integrazione è difficile da percorrere, soprattutto tenendo conto che chi ha vissuto per anni sotto il tallone di Ceausescu ha sviluppato un senso di rifiuto per le leggi e questo ha portato a una forma mentis collettiva che relativizza di molto i principi morali. Tutto ciò non per giustificare chi delinque, ma per comprendere che alla base di tutto c’è il bisogno immenso di costruire non solo la nostra cortese tolleranza, ma un cammino pedagogico di formazione delle coscienze a cui tutti sono chiamati e in modo particolare il mondo istituzionale.
Alla luce di questi fatti, possiamo dire che la presenza del male nel mondo va contrastata vivendo fino in fondo la logica del Vangelo, e forse è il caso di ricordare che esso si basa sull’amore e non sull’odio, sull’accoglienza e non sul rifiuto dell’altro. Chiunque esso sia.

Di Mario Bandera

Mario Bandera