Maschere in crisi

Il nome è uno dei tanti, difficili da pronunciare e ancor più da scrivere, di quelli che solo la fervida fantasia di un genitore sudamericano riesce a concepire per i propri figli nel tentativo di imitare il suono dell’originale yankee. Ha circa trent’anni e guadagna venti-trenta euro al giorno, tirati su senza molta speranza, vestito da cartone animato in una delle più affollate piazze di Madrid.
Il nome lo ascolto distrattamente e alla storia che lo accompagna mi sembra di aver già molte volte prestato attenzione, ovunque mi è capitato di incontrare migrantes latinoamericani: un passato da dimenticare, un presente che si vorrebbe cambiare e un futuro il cui colore oscilla tra il verde degli agognati dollari, sui quali costruire il sogno di una casetta nel paese natio e il grigio di altre giornate spagnole passate a cercare di sopravvivere fino alla fine del mese.
Per il turista che si aggira nella città asburgica, fra la Puerta del Sol e la Plaza Mayor, è impossibile non imbattersi in uno di loro: uomini e donne travestiti da pupazzi. Sono centinaia, attenti a gestirsi ogni singola mattonella di pavé, agghindati nelle fogge più strane fra cui trionfano gigantesche Minnie, ansimanti (per il caldo e il sudore) Pluto… e persino un grottesco Uomo Ragno con tanto di improbabili e debordanti maniglie dell’amore. Alcuni si convertono in statue viventi, altri, molti, si contendono spiccioli di Euro e scampoli di gloria intralciando il passo di chi gira rapito dalle magie dell’architettura e incantato dalla musica di qualche chitarra che suda flamenco. Posano per una foto e chiedono un contributo per le ore spese vestiti da fumetto, modei picaros senza arte né parte.

Presenti in ogni città turistica, a Madrid hanno fatto il nido e conquistato il centro, colorata e allegra denuncia di una crisi economica che non accenna a passare e che vede la Spagna vivere il suo momento più nero dopo gli anni delle vacche grasse.
Per i primi che vi si sono dedicati, questa sorta di attività para-turistica è stata in effetti una buona opportunità per sbarcare il lunario, in attesa di potersi riconvertire professionalmente. Ultimamente, molti hanno infatti perso un lavoro che, fino a pochi anni fa, era ritenuto discretamente sicuro, tanto nell’edilizia quanto nel turismo. Oggi, l’inflazione dei personaggi di gommapiuma crea una stagnazione anche in questa piccola e spontanea Disneyland nel cuore della capitale spagnola.
Due statue viventi esemplificano la situazione. La prima è «l’uomo con le valigie» , figura di «migrante immobile», una vera e propria contraddizione in termini. Eppure, a ben pensarci, modello di non pochi viaggiatori della speranza, fermati alla frontiera del sogno europeo o titubanti se tornare da dove vengono e consegnarsi alla storia di sempre, da cui si è fuggiti, stanchi di sfidare la sorte e le bizze dell’economia spagnola che li sta tradendo.
Il secondo è una caricatura di Gesù, immobile al centro della Plaza del Sol, a guardare inebetito una folla di gente che non lo va più a cercare in chiesa, ma lo trova lì a sudarsi lo spazio fra un guerriero Apache e una sagoma di Pippo. Anche lui, povero Cristo, cerca di guadagnarsi una resurrezione a breve termine. Di questi tempi, si accontenterebbe forse anche solo di quella del Pil.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Il peso del MITO

Monsignor Romero

Ricordo bene la prima volta in cui sentii parlare male di Monsignor Oscar Aulfo Romero. L’invettiva lanciata all’indirizzo dell’ex arcivescovo di San Salvador da parte di una sua relativamente giovane conterranea fu pesante, l’equivalente di «vecchio schifoso comunista». La donna considerava anche lui responsabile della sua situazione di emigrata, nonché della perdita di status e benefici garantiti a lei e alla sua famiglia dal lavoro svolto a suo tempo in patria: impiegata in un ministero. In fondo, riceveva lo stipendio da chi con il vescovo ce l’aveva al punto da farlo fuori. Lo ammetto, ci restai male.
Del resto, che sulla figura del presule salvadoregno non ci sia mai stata uniformità di pensiero è un fatto che non si discute. All’interno della chiesa stessa, per alcuni Romero sarebbe da fare «santo subito», per altri «santo mai». Sono convinto che, come successo in occasione degli anniversari precedenti, neppure la celebrazione del trentennale di questo martire della fede e della giustizia, il 24 marzo prossimo, darà impulso al processo di beatificazione che lo riguarda.

Tuttavia, ciò che dovrebbe farci riflettere, al di là della possibilità di trovare un giorno San Oscar Aulfo sul calendario, è l’ingiallimento progressivo che la sua memoria sta subendo, come se fosse una vecchia foto che l’incedere degli anni priva di contrasto e nitidezza. Non è detto, comunque, che questo fatto debba risultare del tutto negativo. In passato, Romero ha sicuramente pagato lo scotto di una qual certa strumentalizzazione politica, concretizzatasi nella costruzione di un mito tanto ingombrante quanto estraneo alla profonda motivazione cristiana che ne animava l’azione pastorale. Una riscoperta in chiave puramente evangelica della sua persona eviterebbe, forse, di prestare il fianco a pericolose forme di revisionismo e, soprattutto, fornirebbe un modello sempre attuale di testimonianza del Vangelo, senza compromessi e senza frontiere.
Anzi, le battaglie di Romero, proprio perché combattute alla luce e con la forza della Parola e non di un’ideologia, mantengono tutta la loro freschezza e carica ispiratrice, riproponendo una lettura profetica della realtà che, come la Buona Novella, non conosce confini e mai dovrebbe appassire.
Sono innumerevoli, oggi, le sacche di povertà e le situazioni di ingiustizia che chiedono ai cristiani un’azione che sia allo stesso tempo di annuncio e denuncia. La figura dell’arcivescovo di San Salvador, la sua presa di coscienza della realtà e il conseguente, radicale abbraccio al messaggio di giustizia del Vangelo possono e dovrebbero servirci da modello di autentico servizio profetico alla nostra chiesa. Oggi come oggi e anche qui in Italia, il suo «lasciarsi convertire ed evangelizzare dai poveri» rimane per noi una sfida profondamente missionaria, ben sapendo che tale assunzione di responsabilità può arrivare a presentare un conto ben salato.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Bandiere

Sono un inguaribile scettico. Non riesco a credere, ad esempio, che il contingente militare internazionale che si trova oggi in Afghanistan sia lì esclusivamente per aiutare il governo locale ad essere sovrano sul proprio territorio, garantendo sicurezza ed autonomia a quella parte del paese che vuole combattere il terrorismo. Vorrei, ma non ci riesco. Non soltanto perché continuo ad avere dei problemi con l’uso (e l’abuso) del termine «terrorista», ma soprattutto perché non ce la faccio proprio ad immaginarmi un’attenzione occidentale tutta rivolta al governo afgano e al suo presidente eletto (mentre scrivo non si sono ancora svolte le elezioni presidenziali previste per il 20 agosto). Un grillo parlante continua a ripetermi che gas, petrolio e alleanze strategiche hanno a che vedere con il nostro intervento molto più del buon cuore.
La guerra ha una sua logica perversa che purtroppo la distanza dagli eventi non aiuta a comprendere. Si corre il rischio di rimanere affettivamente e intellettualmente indifferenti di fronte al quotidiano svolgersi di un conflitto armato se non ci si è immersi o non si ha un figlio, un fratello, un marito che pattugliano armati le strade di qualche remota vallata o sconosciuta città. Eppure la contemplazione di questi genitori, fratelli o coniugi in divisa dovrebbe, al di là di ogni sentimentalismo, tener sempre viva una domanda che trascenda le ragioni di ogni singolo conflitto: perché la guerra?
Ogni feretro che tra mille onori e squilli di tromba rientra in patria avvolto in una bandiera ci impone una sosta e un interrogativo: perché, da sempre e quasi ineludibilmente, l’essere umano costringe il suo simile alla celebrazione di tali riti? In Inghilterra la chiamano «the visit», la visita, il momento più temuto da migliaia di famiglie britanniche: l’arrivo di un ufficiale in borghese con la notizia che mai e poi mai si sarebbe voluto ascoltare.
Nel mese di luglio ho trascorso un brevissimo periodo a Londra. Un paio di giorni prima del mio arrivo il contingente inglese di stanza in Afghanistan era andato incontro al più sanguinoso episodio bellico di questi ultimi decenni: otto militari di Sua Maestà erano stati uccisi in tre diversi episodi nell’arco di sole 24 ore. Tre di questi soldati erano diciottenni e uno di loro aveva perso la vita cercando di portare in salvo un suo commilitone di appena due anni più anziano. Quel giorno le crude statistiche dei quotidiani d’oltre manica recitavano impietosamente: 184 soldati morti in Afghanistan contro i 179 caduti in Iraq. Politicamente, già le prime reazioni indicavano la volontà di proseguire l’impegno armato al fianco degli alleati, cercando di capire come vincere una guerra che si ha ora paura di perdere. Per la strada, in metropolitana e nella posta dei lettori di molti quotidiani la gente comune si chiedeva invece: «Che ci stiamo a fare lì? Dobbiamo uscire da quel pantano; ogni volta preghiamo che questo morto sia l’ultimo, sapendo che non sarà così».
La nostra domanda di significato deve andare al di là delle fredde analisi politiche come delle emozioni dettate dal singolo episodio, cogliendo e facendosi carico delle ragioni di «tutte» le vittime di un conflitto. A conti fatti, dopo tanto ragionare non dubito che si arriverà alla stessa conclusione a cui ci conduce la follia del vangelo: nessuna guerra ha un senso. Tocca ai cristiani gridarlo a gran voce, più di quanto si stia facendo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




INNAMORATI DELL’UMANITA’

Anno sacerdotale

L’anno sacerdotale (19 giugno 2009 – 19 giugno 2010) indetto dal papa, avente come slogan significativo: «Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote» è una preziosa opportunità per riflettere, non solo sull’attuale momento di difficoltà legata al calo di vocazioni che si riscontra nei paesi di antica cristianità ed in particolare nel nostro paese, ma anche e soprattutto sulle positive prospettive che da sempre il sacerdozio sa esprimere in tempi e situazioni difficili.
In quest’ottica a noi interessa porre l’accento sulla missionarietà del presbitero intesa non solo in senso geografico, ma soprattutto in senso antropologico. La meravigliosa avventura di essere prete, di agire cioè come costruttore di comunità, intessendo relazioni profonde dal punto di vista umano e presiedendo la celebrazione dei sacramenti con la propria gente, pone il servizio sacerdotale in una condizione autorevole di riferimento che di generazione in generazione si è profondamente sedimentata e radicata nel cuore stesso della chiesa popolo di Dio. Va da sé che tale servizio, proprio per essere più che mai aderente allo spirito evangelico, necessita di uomini che siano tali nel vero senso della parola, capaci quindi di esprimere al meglio i talenti ricevuti sia sul piano personale come quelli acquisiti negli anni della formazione.

Q uando nel 1984 Giovanni Paolo II nel ricordo di san Carlo Borromeo visitò il santuario di Varallo Sesia, al quale era particolarmente devoto, incontrò il clero piemontese, a cui diede un mandato insolito; rivolgendosi al folto gruppo di sacerdoti che si era stretto attorno a lui, papa Wojtyla disse: «Uscite dalle canoniche, incontrate la gente, parlate con loro, fatevi raccontare problemi e speranze che attraversano i loro cuori».
Questa autorevole esortazione racchiude un profondo anelito missionario, in quanto presenta il servizio sacerdotale come un cammino continuo accanto agli uomini e alle donne di ogni tempo, mettendo così il presbitero nella condizione di poter parlare a Dio degli uomini e agli uomini di Dio. Oggi più che mai abbiamo bisogno di sacerdoti capaci di relazione, innamorati dell’umanità loro affidata, che si rispecchia nei volti di bambini, giovani, adulti, anziani che incrociando lo sguardo del «loro prete», si sentano capiti e amati più che giudicati!
Tutto ciò implica da parte dei presbiteri un continuo aggioamento del loro modo di essere e del loro modo di fare: verificare fino in fondo quanto importante sia saper «perdere tempo» con la gente, magari anche saper essere presente proprio in quei luoghi dove meno uno si aspetta di vedere la figura del prete.

L’attuale crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo accentua in maniera drammatica la precarietà di tante famiglie dove la insicurezza del lavoro (a volte l’improvvisa mancanza di esso) si ripercuote con crisi familiari che investono rapporti tra marito e moglie, tra genitori, figli, parenti, amici e via dicendo.
La tentazione di uscie con «furbizia italica», magari passando sulla testa dei più deboli, è sempre in agguato: saper convogliare all’interno della comunità cristiana tensioni sociali e drammi familiari che, riletti nell’ottica della speranza cristiana diventano un motore di cambiamento, è un’arte difficile ma preziosissima che ogni sacerdote dovrebbe coltivare, ponendosi alla scuola di quei grandi pastori che anche nelle ore più difficili hanno saputo sostenere il loro gregge, aiutandolo a percorrere impervi sentirneri che da soli forse non sarebbero stati capaci di attraversare.
Non dimentichiamoci mai che la missionarietà, prima di essere vissuta nell’orizzonte dell’impegno ad gentes, deve essere incarnata nell’impegno verso gli altri: Gesù, a differenza di san Paolo, non si allontanò mai dalla sua terra, però ruppe barriere e frantumò schemi mentali inossidabili, come quelli degli scribi e farisei, andando verso categorie e persone tenute ai margini della società e della gente «perbene». La sua missionarietà fu dirompente proprio perché osò andare incontro a persone che l’opinione pubblica del tempo giudicava impure o indegne: l’essersi seduto a tavola con i peccatori, aver dialogato con l’adultera, aver condiviso il pane con amici che al momento della prova lo piantarono in asso, ne fa un modello di missionarietà forse meno appariscente di quello di san Paolo, ma proprio per questo alla portata di ogni presbitero che operi in Italia o nel terzo mondo e sull’esempio del Maestro di Nazareth sia fedele a Dio e amico dell’uomo, ed abbia un’ardente passione per i poveri ed i sofferenti, che arda continuamente nel proprio cuore.

Mario Bandera

Mario Bandera




«Dagli all’immigrato»

(sempre la solita solfa)

Vorremmo non tornare sempre sullo stesso argomento. Vorremmo… ma non si può. È l’attualità, quella stessa attualità che noi, scrivendo su un mensile, siamo costretti a rincorrere senza mai raggiungere, che si impone e detta l’agenda, che oggi dice ancora una volta immigrati e sicurezza.
Parlare del Sud del mondo, come alcuni dei nostri lettori vorrebbero facessimo, stendendo un velo di pietoso quanto omertoso silenzio su quanto sta avvenendo oggi in Italia, significherebbe tradire quei popoli che con la nostra vocazione ci siamo impegnati a servire. Li abbiamo incontrati là, li ritroviamo qui… e a volte non ci riconoscono più per quello che un tempo dicemmo loro di essere. Il cristiano, ancor più se sente sulla propria pelle il fuoco della missione, non può fare scena muta di fronte al continuo aumentare di segnali di intolleranza, ingiustizia e strisciante razzismo che continuano a insinuarsi, giorno dopo giorno, nell’arena politica, nei media e, logicamente, nelle conversazioni da bar. Chiaramente bisogna fare attenzione a non lasciarsi impigliare nelle reti di chi strumentalizza il discorso immigrazione a scopi elettorali; affrontare il dibattito a partire dal modello «destra-sinistra» vuol dire infilarsi nel vicolo cieco della retorica, dalla quale è difficile uscire con proposte concrete che non siano una semplice reazione ad una posizione espressa dalla controparte. Anzi, sarebbe bene che dichiarazioni e prese di posizione non diventino appannaggio esclusivo delle forze politiche, pronti per essere convertiti in spot elettorali. Noi cristiani, per esempio, cosa abbiamo da dire? Noi, uomini e donne che si emozionano nel leggere la parabola del buon Samaritano, persone invitate ad essere benevolenti, chiamate a scorgere e rispettare in ogni uomo quella scintilla divina che crediamo possedere? Cosa ci sentiamo di esprimere? Ci accontentiamo di ripetere il verbo del nostro politico di riferimento o puntiamo a far echeggiare il Verbo, sine glossa, senza compromessi?

Il mondo cattolico è un mondo variegato. C’è sicuramente chi, anche tra i nostri lettori, approva l’operato del Goveo, reclama ancor più sicurezza, si fiderebbe delle ronde civiche come ulteriore mezzo di protezione del cittadino. Sono quei lettori che ogni tanto ci bacchettano per il nostro «buonismo», visto come segno di paura e di lassismo nei confronti dell’avanzata dell’onda migratoria. Sono i cristiani con cui parla Bossi, che si dice fine ascoltatore della sua gente, grande esorcista delle loro paure. Va preso atto di come tale opinione nasconda una legittima preoccupazione, un’inquietudine che interpella le forze politiche a trovare misure adatte a fronteggiare una situazione di non facile soluzione. Non si può però lasciare che alcune percezioni della realtà si enfatizzino a tal punto da trasformarsi in proclami xenofobi. Come missionari sentiamo impellente la necessità di prendere posizione. Occorre farlo prima che, come molte volte succede, mille bugie si trasformino in una inscalfibile verità. Abbiamo dalla nostra l’arma delle denuncia, ma anche quella efficacissima del racconto. A lungo termine, la narrazione delle esperienze di incontro con l’«altro» darebbe forza a chi, nonostante tutto, si ostina a ricordare casi di molti ex-clandestini, ora cittadini integrati, ottimi lavoratori; o a chi, come era solito fare don Tonino Bello, legge la storia dell Mediterraneo come culla dell’accoglienza e non si ritrovano in questo atteggiamento da buttafuori bullo che il Goveo ha ultimamente assunto. Vorremmo davvero non tornare sullo stesso argomento, ma qualcosa ci dice che saremmo invece costretti a farlo.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Acqua delle nostre brame: bisogno, ma non diritto

Si è concluso a Istanbul (Turchia), il 22 marzo scorso, il V Forum mondiale sull’acqua, una settimana di lavori a cui hanno preso parte quasi 30 mila congressisti, delegati da governi e istituzioni inteazionali. La speranza di molti era sintonizzata sulla possibilità che, finalmente, si potesse dare una risposta definitiva a uno dei problemi cruciali che investe oggi la comunità internazionale in materia del cosiddetto «oro blu», ovvero, poter definire una volta per tutte l’accesso all’acqua come un diritto fondamentale e inalienabile di ogni essere umano. Mi permetto di commentare una notizia ormai «di archivio» perché, a nome di una rivista che considera la difesa dell’ambiente e la salvaguardia del creato come parte della sua missione, considero grave il fatto che ciò non sia avvenuto.
Ogni essere umano ha diritto, senza discriminazione alcuna, di accedere a una quantità d’acqua potabile, di buona qualità, che sia facilmente raggiungibile dalla propria abitazione ed economicamente accessibile, per potee fare uso personale e domestico. Questo, in sintesi, potrebbe essere il contenuto del diritto invocato. Si tratta, umanamente parlando, di una pretesa scontata e universalmente condivisibile, che assumerebbe ben altra valenza se le venisse concesso lo status di diritto. Senz’acqua si muore, con poca acqua malsana non si va molto più in là. Purtroppo, invece, l’economico e il politico perdono sovente le tracce dell’umano.

Definendo l’acqua come un bisogno fondamentale dell’umanità, e non come un diritto, si è persa l’occasione di affermare che alla vita ci teniamo sul serio e non solo a parole. Chi difende un bisogno? Chi ne definisce l’oggettività? Chi stabilisce i criteri per cui qualcuno ha più bisogno di altri? Quanto posso o sono disposto a pagare per la soddisfazione di questo bisogno? Eccolo qui, in fin dei conti, il nocciolo del problema: il bisogno determina il prezzo di un bene. Affermare che l’acqua è un bisogno significa dire una verità talmente evidente e scontata di fronte alla quale istintivamente si è tentati di annuire, dimenticandosi che la posta in gioco è la privatizzazione selvaggia in atto di un bene che è di tutti.
Dire che l’acqua è un diritto avrebbe invece messo in chiaro che a tale bene ogni essere umano deve poter accedere senza obbligatoriamente versare un salato obolo alle multinazionali del settore. Non solo, avrebbe contribuito a promuovere altri diritti fondamentali, la cui affermazione verrebbe altrimenti penalizzata dalla mancanza di accesso a fonti di acqua. Alla faccia degli obbiettivi del millennio!

Rimando i lettori a un corposo dossier di Missioni Consolata pubblicato nel numero di giugno 2006, dal significativo titolo «Le mani sull’acqua», nonché ai contributi scientifici pubblicati nella rubrica Nostra madre terra (di Roberto Topino e Rosanna Novara). Sono il segno di un duraturo interesse di Missioni Consolata e della determinazione a continuare dalle nostre pagine la battaglia affinché l’acqua sia finalmente riconosciuta come bene sociale e diritto di tutti.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




DIMENTICANZE

Risale a neppure un mese fa la pubblicazione del quinto «Rapporto sulle crisi dimenticate», lo studio che con periodicità quasi annuale Medici Senza Frontiere (Msf) dedica ad emergenze, conflitti e catastrofi umanitarie che non trovano sufficiente copertura da parte dei nostri principali mezzi di comunicazione.
L’analisi di Msf segue non di molto l’uscita di un altro saggio, questa volta a cura della Caritas Italiana in collaborazione con Famiglia Cristiana e il Regno, dal titolo: «Nell’occhio del ciclone. Rapporto di ricerca su ambiente e povertà, emergenze e conflitti dimenticati». Passando in rassegna avvenimenti e situazioni di crisi del mondo contemporaneo, entrambi i contributi stigmatizzano la sistematicità con cui i nostri media più importanti «dimenticano» eventi, luoghi e volti se non rispondono a precisi criteri dettati dalle leggi del mercato o da interessi di parte. È una vecchia storia, ampiamente e periodicamente ripresa sulle pagine delle riviste ed agenzie missionarie, chiamate a svolgere sempre più spesso un servizio di «grillo parlante» a difesa dei senza voce di ogni tempo e di ogni angolo del mondo.
Il lungo dossier di questo mese, ad esempio, si occupa di un evento recente (il «Forum sociale mondiale» tenutosi a Belém, in Brasile, lo scorso mese di gennaio), di portata ed interesse mondiali, con un tema (l’ambiente) che riguarda la vita e il benessere di tutti, ma immediatamente caduto nell’oblio grazie ad una copertura mediatica a dir poco imbarazzante offerta dai principali media nazionali.
In quanto rivista missionaria sentiamo la responsabilità di insistere ad allargare orizzonti, gettare ponti e aprire finestre sul mondo, su tutto il mondo; soprattutto su quella fetta di globo che rimane invisibile e che pure crea storia, vivendo esperienze di pari dignità rispetto alle nostre. A volte, per individuare questi contesti nascosti e dimenticati non bisogna andare troppo distante. Basta svoltare l’angolo illuminato di una grossa arteria metropolitana e mettersi a camminare i vicoli bui che formano la topografia del lato vulnerabile delle nostre città, quei borghi che escono dall’anonimato soltanto quando diventano un «problema» sociale, un disagio, un urlo che implora sicurezza.
Sappiamo bene che qualcuno ambirebbe a che quelle finestre, che vorremmo aprire per dare ai nostri sguardi una diversa prospettiva, rimanessero chiuse. Oggi, in modo particolare, i tempi di crisi spingono con decisione a scelte egoistiche, protezionistiche ed esclusiviste, al punto che parlare di un mondo «altro» di cui farsi carico, facendo appello alla responsabilità delle nostre scelte di vita, diventa estremamente più difficile.
I «No» secchi espressi  a Bruxelles dai paesi più vecchi e più ricchi dell’Unione Europea alla richiesta di un piano di intervento in favore dei paesi dell’Est povero del nostro continente sono, mutatis mutandis, analoghi ai «No» di ogni tipo che con sempre maggiore frequenza si sentono sbattere sulla faccia i tanti poveri che riempiono le strade del pianeta. Di questi no, piccoli e grandi, sentiamo di dover parlare in ogni caso.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Buonismo o cattivismo?

Pare non esistere più oggi la consapevolezza di dover adattare il linguaggio che si usa alla carica che si riveste. Le parole hanno una carica semantica enorme. Ogni vocabolo si trasforma nel sottile spazio di una sfumatura da generoso complimento a coltellata in mezzo alle spalle, da leggero flatus vocis a macigno dal peso insostenibile. Anche il tempo, oltre che il luogo, dovrebbe suggerire prudenza nell’uso delle parole che vengono pronunciate, tanto nelle private conversazioni, quanto e soprattutto nella pubblica arena.
Ecco allora che, al sentir dire al nostro ministro degli interni, onorevole Maroni,  che non bisogna essere buonisti, ma cattivi per contrastare l’immigrazione clandestina, viene da pensare che questa consapevolezza non fa ancora parte del bagaglio di tutti. Frasi ad effetto come questa sembrano dettate dalla volontà di strumentalizzare politicamente fatti di cronaca come quelli che ultimamente hanno scosso l’opinione pubblica.
No, non si chiede di essere cattivi con chicchessia, tanto meno allo stato nelle cui mani poniamo il nostro bisogno di sicurezza; si chiede soltanto, semmai, di essere giusti. Giusti nel condannare e garantire la certezza della pena a chiunque risulti essere coinvolto in fatti criminali, venga da dove venga, con o senza permesso di soggiorno. Giusti, però, nel ricordare anche alcuni dati che troppe volte giacciono dimenticati nei cassetti di tante redazioni giornalistiche e di tante scrivanie di Montecitorio.

La percentuale dei crimini commessi da italiani e da stranieri che hanno regolato la loro posizione è pressoché uguale. Il problema riguarda appunto gli immigrati clandestini a cui vanno attribuiti i 4/5 dei crimini commessi da stranieri presenti sul nostro territorio.

Ora, la maggior parte degli stranieri che emigrano clandestinamente o si rendono clandestini una volta arrivati a destinazione non lo fanno generalmente per venire a delinquere, ma per guadagnarsi una possibilità alternativa di vita. Bisognerebbe forse, allora, facilitare burocraticamente la regolarizzazione di persone che sono già in Italia e che avrebbero maggior possibilità di lavorare, produrrebbero reddito e pagherebbero anche volentieri le tasse, se si desse loro la possibilità di dormire tranquilli la sera, senza il timore di essere sbattuti fuori dal paese. Oggi, ci ricorda l’ultima edizione del Dossier Caritas/Migrantes, la stima del gettito fiscale annuale degli immigranti si avvicina ai 4 miliardi di Euro. Gli interventi di assistenza in loro favore non raggiunge invece la quarta parte di quanto versato all’erario. Forse con una legge diversa da quella in vigore, meno «cattiva» e più giusta, si potrebbero mettere basi alternative a un fenomeno che nessuno può arrestare.

Se questo è buonismo, allora meglio il buonismo del «cattivismo». La giustizia e il buon senso, comunque, sono ancora un’altra cosa.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Attentti al gorilla

Non sarà che davvero «il troppo stroppia»? Che senso ha la moda, promossa dalle grandi istituzioni inteazionali e ormai consolidata, di istituire quantità incredibili di giornate di sensibilizzazione, se non addirittura intere annate dedicate a tale e talaltro problema?
La domanda nasce dalla contemplazione di un qualsiasi calendario che riporti in bell’ordine tutte le varie iniziative volte a puntare i riflettori sull’uno o l’altro aspetto del nostro vivere insieme e del nostro ambiente. Viene ormai difficile pensare che il disperdere energia in così tanti obiettivi diversi possa sortire alcun effetto. Gioate mondiali, continentali, nazionali indette dalle organizzazioni più svariate si intersecano con programmi annuali, quinquennali, decennali, in un’orgia di date, eventi, incontri sui temi più svariati. Alcune giornate si sdoppiano e si moltiplicano nel tentativo di rispettare le esigenze di calendario di ognuno. Vista la difficoltà di orientarsi in tale babele, dato per scontato che ad un eccesso di offerta sempre segue un senso di stanchezza da parte di chi fruisce, viene da chiedersi a cosa serve proclamare l’istituzione di una giornata o di un anno dedicati ad un certo tema.

L’Onu, nel disperato quanto sterile tentativo di promuovere il conseguimento dei pretenziosi otto obiettivi del Millennio è una delle organizzazioni più provvida di iniziative. Il 2009 è stato proclamato dalle Nazioni Unite, anno internazionale della riconciliazione, dell’astronomia, dello studio dei diritti umani (in realtà si tratta di un biennio che racchiude interamente le celebrazioni per il 60° anniversario della Dichiarazione del ‘48) e delle fibre naturali. A dirla tutta il 2009 è pure l’anno internazionale del gorilla. Dove sono le priorità? Che benefici portano le pie esortazioni del Palazzo di vetro? Come si possono verificare i risultati di tali indizioni? Non sarà che l’intenzione di dedicare un anno a tutto non si risolva in un niente di fatto?
A queste forme di impegno ormai non credo più. L’anno scorso è girato in rete un testo molto bello del teologo e attivista brasiliano Frei Betto: «Felice anno nuovo, rendi nuovo il tuo anno». Se non si lavora sulla persona a poco serve sensibilizzare le istituzioni; è sufficiente leggere il tono generalista del testo di proclamazione dell’anno internazionale della riconciliazione e confrontae i buoni propositi con la sterilità dei risultati di fronte a quelli che sono i nostri normali contesti di conflitto, iniziando da quelli familiari. L’anno veramente importante è quello marcato dal desiderio personale di conseguire, responsabilmente, un piccolo obiettivo che ci consenta di migliorare le nostre relazioni con l’ambiente e con gli esseri che ci circondano, umani e non. Per coloro che credono la cosa assumerà, ovviamente, anche connotazioni religiose; per chi non crede si colorerà di un senso di profondo rispetto per ciò che ci circonda. Sono convinto che di simili piccole risoluzioni potrebbero essere contenti – e persino avvalersene per quest’anno e gli anni a seguire –   anche i gorilla.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




L’utopia continua …

Ai lettori

Il titolo della storica Agenda Latinoamericana per l’anno 2009 è sicuramente curioso e stimolante: «Verso un socialismo nuovo – l’utopia continua». Il pubblico che da anni segue fedelmente questa pubblicazione sa bene che l’Agenda è in realtà ben più che uno strumento per segnare e ricordare appuntamenti, ma una vera e propria antologia di articoli (strutturati da sempre sul classico schema vedere-giudicare-agire), uno strumento ecumenico di analisi, riflessione e denuncia evangelica al servizio delle vittime della storia. Titolo stimolante, si diceva, per i due termini, volutamente associati, che lo compongono.
Innanzi tutto socialismo. Fa una certa impressione ritrovarlo nuovamente sdoganato in forma esplicita, dopo esser stato screditato a più non posso in questi ultimi anni. Gli interventi parlano di «nuovo» socialismo, di rinnovato immaginario socialista, di socialismo alternativo. Che cosa sia questo socialismo e la sua valenza politica saranno da verificare a vari livelli, iniziando proprio dall’applicabilità di tale concetto allo stesso contesto del continente sudamericano. Resta infatti da dimostrare quanto l’apertura a sinistra di quasi tutti i suoi paesi più importanti (ad eccezione della Colombia) sia rappresentativa di o possa dialogare con questa nuova visione di socialismo che nasce dal basso, dai movimenti, dalle minoranze etniche e sociali e che non si lega in prima istanza a partiti politici tradizionali.

C’è da stare curiosamente in attesa. Il Sudamerica, oggi, è ansioso di proporre una nuova narrazione del mondo, quasi volesse offrire ai cinque continenti un piccolo assaggio di speranza latinoamericana, un «Yes, we can» che non sia soltanto uno slogan elettorale, ma un tentativo di risposta concreta ai grandi problemi che affliggono oggi l’umanità, in tutto il pianeta, non solo a Sud della Califoia.
È l’«utopia che continua». Quella utopia che, come scriveva a suo tempo Est Bloch, «non è fuga nell’irreale; è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione». È speranza, tensione dell’umano verso un mondo altro, migliore, una forza che manterrà la sua attrattiva e la sua vera carica rivoluzionaria nel momento in cui non si asservirà ai poteri forti, ma continuerà ad essere la lotta dei piccoli, dei poveri, delle vittime e di coloro che ad essi dedicano la vita: nient’altro che la logica del Regno di Dio.
Anche di ciò si parlerà senz’altro nel Forum Sociale Mondiale e, soprattutto, nel Forum Mondiale di teologia e Liberazione che si terranno a Belem, nel Nord del Brasile, alla fine di questo mese. Speriamo che dagli stimoli amazzonici arrivi, magari con qualche corrente atlantica, una ventata di freschezza per la nostra stanca Europa e la sua ancor più stanca chiesa, entrambe, mi sembra, con molti problemi e ben pochi sogni nel cassetto. Chissà che, tenendo occhi, orecchi e cuore ben aperti ai segni dei tempi, non si possa trovare anche noi la nostra «agenda», etimologicamente: «Ciò che c’è da fare» per dare alla speranza anche un minimo di direzione.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli