La vergogna della fame

La povertà, il sottosviluppo e quindi la fame sono spesso il risultato di atteggiamenti egoistici che partendo dal cuore dell’uomo si manifestano nel suo agire sociale, negli scambi economici, nelle condizioni di mercato, nel mancato accesso al cibo e si traducono nella negazione del diritto primario di ogni persona a nutrirsi e quindi ad essere libera dalla fame. Come possiamo tacere il fatto che anche il cibo è diventato oggetto di speculazioni o è legato agli andamenti di un mercato finanziario che, privo di regole certe e povero di principi morali, appare ancorato al solo obiettivo del profitto? L’alimentazione è una condizione che tocca il fondamentale diritto alla vita. Garantirla significa anche agire direttamente e senza indugio su quei fattori che nel settore agricolo gravano in modo negativo sulla capacità di lavorazione, sui meccanismi della distribuzione e sul mercato internazionale. E questo, pur in presenza di una produzione alimentare globale che, secondo la FAO e autorevoli esperti, è in grado di sfamare la popolazione mondiale.

Papa Benedetto XVI
udienza alla Fao, 1 luglio 2011

Verso metà giugno ho cominciato a ricevere notizie della grave situazione di fame in Kenya, soprattutto nel Nord, dove anche nella «mia» Maralal (è stata la prima missione per me) la gente muore letteralmente di fame a causa di un lunghissimo periodo di siccità. So cosa vogliano dire siccità e fame: ero là nel 1992 quando sconvolsero la vita della gente e nella missione distribuivamo razioni a oltre 2000 persone ogni settimana e acqua ogni giorno a più di 700 famiglie. In quel frangente molto bestiame morì, ma non le persone. Ora, 20 anni dopo, la siccità ha colpito ancora e non solo muore il bestiame, ma con esso le persone, senza che ci siano scorte sufficienti, senza un efficace piano di aiuti, con il prezzo del cibo alle stelle e le solite speculazioni sulla pelle della gente. Questo mentre il Kenya (ma non è l’unico paese africano a farlo!) continua ad esportare fiori verso l’Europa (20% del mercato), latte (anche in Italia), verdura fresca per i supermercati londinesi e granaglie – svuotando le sue riserve – verso altri paesi africani che pagano meglio.
Per contro, viaggiando nella nostra bella Italia si nota facilmente come le aree incolte siano in aumento. Chi è troppo piccolo per l’agricoltura non coltiva più, chi è grande riceve invece sussidi per non coltivare oppure, invece di produrre per cibo, produce per il ben più redditizio mercato della cosiddetta bio-energia, che di «bio» (vita) ha davvero poco.
Poi sento da amici panettieri dell’esorbitante quantità di pane che sono costretti a buttare ogni giorno perché non «fresco di giornata», e dello spreco delle mense aziendali, scolastiche e pubbliche che non possono riciclare il cibo inutilizzato, e dei ristoranti e supermercati che buttano via quantità industriali di prodotti ancora perfettamente commestibili a causa di date di scadenza iperprotettive, spesso più utili alle tasche dei produttori che alla salute dei consumatori. Senza poi dimenticare le tonnellate di prodotti (dal latte alle arance) mandati bellamente al macero per non abbassare i prezzi di mercato, ed i magazzini nazionali e comunitari che hanno riserve di cibo ben inferiori a quanto previsto dalla legge e dal buonsenso perché costa troppo gestirle.
E c’è di peggio: il cibo è diventato preda della speculazione in borsa, con investitori senza scrupolo e senza controllo che ne fanno salire artificialmente il prezzo. E allora si capisce il perché delle «rivolte del pane», della rabbia dei poveri, delle morti per fame. Quale povero, guadagnando due dollari al giorno (se li guadagna!), può permettersi di pagae uno per un solo chilo di farina? E la farina da sola non basta, ci vogliono acqua pulita, carbone, olio, verdura, frutta, carne, sale, zucchero… che diventano lussi impossibili. Quante persone può saziare un chilo di farina, se le sazia?
È semplicemente un’oscenità che dopo tanto parlare, tanti dispendiosi ed enfatici summit a tutti i livelli per debellare la povertà entro il 2015, continuino a morire di fame uomini e donne in molte parti del pianeta. È il fallimento della politica che invece di servire il bene comune si è arresa alla logica del profitto, del più forte e di chi, ancor oggi, continua a pensare che una minoranza ricca abbia il diritto di accaparrarsi tutto, perché il mondo è fatto di dominatori e dominati, padroni e schiavi, benestanti e poveracci, di chi elargisce il lavoro e di chi deve ringraziare di avere il privilegio di lavorare anche se sottopagato, precario, sfruttato e perennemente indebitato.
Qualcuno certo dirà: «Non sono discorsi da missionari questi! Questo è fare politica!»
Forse, però vada a dirlo ai tanti missionari, missionarie e volontari che sul fronte della fame, della guerra, della povertà devono seppellire i morti…

di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Consolazione

Editoriale

Quando l’ultimo giorno di settembre 1964 lasciai casa per entrare in seminario, mia madre aveva le lacrime agli occhi, e non di gioia. Era al nono mese di mio fratello e il mio aiuto in casa (ero il «più grande» di sette [più uno]) sarebbe stato una benedizione. Anni dopo, alla mia ordinazione, il fotografo colse altre lacrime sul suo volto, di gioia stavolta, quella stessa gioia quieta e profonda che traspariva in lei ogni volta che poteva venire con me, anche se non glielo chiedevo, per una messa o una celebrazione. L’immagine della consolazione, contenta per il figlio.
Ho rivisto lei, quel suo sorriso contento, pensando alla Madonna Consolata di cui ricordiamo la festa il 20 di questo mese, Colei che è così colma di consolazione da diventare Consolatrice. Consolazione è rallegrarsi per il bene fatto da altri e realizzato in altri, è vedere la bellezza, sperare contro ogni speranza, vivere la primavera, giornire delle cose buone. Consolazione non si coniuga con invidia, pettegolezzo, gelosia, egoismo e violenza. Consolazione si declina con pazienza, mitezza, comprensione, cooperazione, attenzione, cura, solidarietà, gratuità. Consolazione porta pace, gioia, rispetto, fiducia, stima, apprezzamento. Consolazione non è solo dare, ma anche capacità di ricevere, attitudine questa che forse è la più carente nella nostra vita comunitaria ed ecclesiale.
Lo stile missionario della Consolazione è quello di chi non spegne il «lucignolo fumigante», coglie il positivo anche nelle situazioni più dure, offre una possibilità a chi lo ha già fregato tante volte, benedice i nemici, collabora con chi la pensa in modo diverso, si rallegra per il bene fatto dagli altri, incoraggia chi prova a far qualcosa di buono e nuovo, corregge – non ammazza – chi ha sbagliato, dà speranza ai disperati, accoglie gli emarginati … ups, che stia parlando di Uno che è finito in croce 2000 anni fa? «Andando, evangelizzate», ci ha detto, Lui che è la Consolazione attesa dalle genti. Consolare ed essere consolati: ecco un modo speciale di essere «buona notizia» in questo nostro mondo così pieno di paure, sospetti e rabbie.
I missionari e le missionarie della Consolata, che sono convinti di avere il «carisma» della consolazione come elemento distintivo tra tutti gli altri missionari, concluderanno i capitoli generali proprio il giorno della festa della «loro» Madonna, il prossimo 20 giugno, dopo aver dedicato sei intere settimane a capire cosa significa – in questo oggi – essere missionari di Cristo secondo il carisma della Consolata, nella versione data dal Beato Allamano (vedi il dossier di questo numero). Il desiderio (su cui invitiamo tutti ad unirsi in preghiera) è che abbiano il coraggio del loro «carisma» in questo mondo sempre più tentato di diventare come una colonia di ricci ossessionata dalla paura e dal mito della sicurezza, per continuare a rilanciare il messaggio di Gesù con lo stile che il Beato Giovanni Paolo II ha così ben sintetizzato all’inizio del suo pontificato: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!» (22 ottobre 1978).
È in questo spirito che si guarda con angoscia a quanto succede in Libia e negli altri paesi attorno al Mediterraneo, e che non si possono condividere le paure di chi vorrebbe erigere barriere nel Mare nostrum, come se la causa di tutti i nostri mali venisse solo da fuori. «No alla guerra! – diceva Giovanni Paolo II al Corpo Diplomatico il 13 gennaio 2003 -. La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra Stati, l’esercizio nobile della diplomazia, sono mezzi degni dell’uomo e delle Nazioni per risolvere i loro contenziosi». Chi ci guadagna da questa guerra fatta col contagocce, giocata sulla pelle dei libici e manovrata da non così oscuri interessi?
Grazie a tutti coloro che in questa nostra Italia hanno il coraggio di andare contro il politicamente corretto e il clamore mediatico e, con silenziosa discrezione, continuano a compiere azioni di accoglienza, amore, giustizia, pace e compassione sia verso gli immigrati sia verso gli stessi italiani che più soffrono a causa della crisi sociale e civile che stiamo tutti vivendo.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Guerra libica / Odissea dalla politica

Mentre parlano solo le armi, si resta senza parole. Ammutoliti, sconcertati. Anche noi di Pax Christi, come tante altre persone di buona volontà.
Il regime di Gheddafi ha sempre mostrato il suo volto tirannico. Pax Christi, con altri, ha denunciando le connivenze di chi, Italia in testa, gli foiva una quantità enormi di armi senza dire nulla, anche dopo la sua visita in Italia «sui diritti umani violati in Libia, sulla tragica sorte delle vittime dei respingimenti, su chi muore nel deserto o nelle prigioni libiche. Il dio interesse è un dio assoluto, totalitario, a cui tutto va immolato. Anche a costo di imprigionare innocenti, torturarli, privarli di ogni diritto, purché accada lontano da qui. In Libia.» (Pax Christi 2 settembre 2010).
Il Colonnello era già in guerra con la sua gente anche quando era nostro alleato e amico!
Non possiamo tacere la triste verità di un’operazione militare che, per quanto legittimata dal voto di una incerta e divisa comunità internazionale, porterà ulteriore dolore in un’area così delicata ed esplosiva, piena di incognite ma anche di speranze. Le operazioni militari contro la Libia non ci avvicinano all’alba, come si dice, ma costituiscono un’uscita dalla razionalità, un’ «odissea» perchè viaggio dalla meta incerta e dalle tappe contraddittorie a causa di una debolezza della politica.
Di fronte a questi fatti, vogliamo proporre cinque passi di speranza e uno sguardo di fede.
1) Constatiamo l’assenza della politica e la fretta della guerra. È evidente a tutti che non si sono messe in opera tutte le misure diplomatiche, non sono state chiamate in azione tutte le possibili forze di interposizione. L’opinione pubblica deve essee consapevole e deve chiedere un cambiamento della gestione della politica internazionale.
2) Si avverte la mancanza di una polizia internazionale che garantisca il Diritto dei popoli alla autodeterminazione.
3) Non vogliamo arrenderci alla logica delle armi. Non possiamo accettare che i conflitti diventino guerre. Teniamo desto il dibattito a proposito delle azioni militari, chiediamo che esse siano il più possibile limitate e siano accompagnate da seri impegni di mediazione. Perché si sceglie sempre e solo la strada della guerra? Ce lo hanno chiesto più volte in questi anni i tanti amici che abbiamo in Bosnia, in Serbia, in Kosovo, in Iraq.
4) Operiamo in ogni ambito possibile di confronto e di dialogo perché si faccia ogni sforzo così che l’attuale attacco armato non diventi anche una guerra di religione. In particolare vogliamo rivolgerci al mondo musulmano e insieme, a partire dall’Italia, invocare il Dio della Pace e dell’Amore, non dell’odio e della guerra. Ce lo insegnano tanti testimoni che vivono in molte zone di guerra.
5) Come Pax Christi continuiamo con rinnovata consapevolezza la campagna per il disarmo contro la produzione costosissima di cacciabombardieri F-35. Inoltre invitiamo tutti a mobilitarsi per la difesa della attuale legge sul commercio delle armi, ricordiamo anche le parole accorate di don Tonino Bello: «dovremmo protenderci nel Mediterraneo non come “arco di guerra” ma come “arca di pace”».
Giovanni Paolo II per molti anni ha parlato dei fenomeni bellici contemporanei come «avventura senza ritorno», «spirale di lutto e di violenza», «abisso del male», «suicidio dell’umanità», «crimine», «tragedia umana e catastrofe religiosa». Per lui «le esigenze dell’umanità ci chiedono di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono essere subordinati» (12 .01.1991).*
In questa prospettiva Pax Cristi ricorda ai suoi aderenti che il credente riconosce nei mali collettivi, o strutture di peccato, quel mistero dell’iniquità che sfugge all’atto dell’intelligenza e tuttavia è osservabile nei suoi effetti storici. Nella fede comprendiamo che di questi mali sono complici anche l’acquiescenza dei buoni, la pigrizia di massa, il rifiuto di pensare. Chi è discepolo del Vangelo non smette mai di cercare di comprendere quali sono state le complicità, le omissioni, le colpe. E allo stesso tempo con ogni mezzo dell’azione culturale tende a mettere a fuoco la verità su Dio e sull’uomo.

Sua Ecc.za Mons. Giovanni Giudici
presidente di Pax Christi Italia

Pavia, 21 marzo 2011
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* Vedi il nostro dossier su Giovanni Paoli II in questo stesso numero.

Giovanni Giudici




Italia, 150 anni

Sarà che sono invecchiato e che mi vergogno meno di quando ero giovane nel rivelare i miei sentimenti e che oltre venti anni all’estero hanno approfondito il modo con cui sento il mio paese. Sarà che quando a Nyeri, in Kenya, la seconda domenica di novembre di ogni anno, la comunità italiana cantava l’inno di Mameli prima di cominciare la messa nell’ossario dove riposano oltre 700 nostri soldati mi venivano i lucciconi, e che quando la BBC parlava male dell’Italia – più dei suoi politici, in verità – mi sentivo ferito dentro, mentre mi si riempiva il cuore di giornioso orgoglio al vedere l’ottantenne signor Cassini venire a messa guidando una splendida Alfa Romeo rossa degli anni Venti che lui aveva costruito pezzo per pezzo con le sue mani nella sua officina nella zona industriale di Nairobi. Sarà pure che percorrendo da Naivasha a Limuru la bella e duratura strada «degli italiani», che continua a sfidare la strapiombante scarpata della Rift Valley e i camion sovraccarichi che fanno spola con l’Uganda, mi fermavo a gustare quel grido di dignità, di genio e di fede che è la cappellina colà costruita e decorata dai «nostri» prigionieri di guerra; e che guardando al Monte Kenya mi emozionavo al ricordo dell’impresa di Felice Benuzzi e compagni (raccontata nel libro «Fuga sul Kenya»), i quali, scappando dal campo di prigionia, scalarono quel grandissimo monte per provare a se stessi e ai loro carcerieri che la vera libertà non può essere contenuta da nessun filo spinato; e che visitando, sempre a Nyeri, le tombe dove riposano decine di missionari e missionarie provenienti da ogni angolo d’Italia, non potevo non essere ammirato dal grande lavoro da essi fatto in terra d’Africa, essi che, disarmati, hanno conquistato molto di più di ogni impresa coloniale nazionale. Sarà che entrando nella mostra dedicata a san Giuseppe Cafasso a Castelnuovo Don Bosco, e vedendo la ricostruzione di una cella sotterranea con tre preti incatenati, non ho potuto fare a meno di pensare che la storia d’Italia l’hanno scritta anche i preti che, gettati nelle prigioni sabaude nella seconda metà del 19° secolo, hanno dato testimonianza di coerenza e fedeltà alla loro coscienza contro la ragion politica; e che nella nuova Italia unita, con una Chiesa «assediata», ci fu un’incredibile esplosione di energia missionaria con la nascita di ben quattro Istituti specificamente missionari e la partenza per i quattro angoli del mondo di migliaia di missionari e missionarie, volontari e volontarie che spesso hanno pagato con la vita la loro dedizione ai poveri e al Vangelo…

Sarà che non digerisco il fatto di essere stato classificato, senza essere consultato, come «padano» mentre ho sempre saputo di essere «italiano» dalla nascita, anche se ho mangiato polenta mattino, mezzogiorno e sera tutta la mia infanzia e ho scoperto con piacere la bontà di un piatto di spaghetti e una bella pizza calda solo «da grande»; e che mi rattrista il «particolarismo» dalla memoria corta di chi vuol costruire muri per difendere il proprio benessere e punta il dito contro gli «altri» e si richiama a tradizioni che non sono mai esistite se non nei miti di chi manipola la storia; e che, per di più, sono fiero di essere un italiano-padano frutto di incroci sconosciuti che mescolano sangue e genio dai quattro venti (come da sempre è successo nelle nostre pianure che hanno visto il passaggio di popoli da ogni dove, amici e nemici).

Sarà che …
Potrei andare avanti ancora, ma non serve. Il fatto è che sono felice di essere italiano, di far parte di un’Italia unita, pur con la sua storia non sempre gloriosa e le contraddizioni congenite. Questa nostra nazione non è certo perfetta, in più oggi è corrotta e resa egoista dal troppo benessere, oltre che essere governata da una classe dirigente a dir poco discutibile e azzoppata da una burocrazia che uccide la responsabilità; ma è la mia nazione, dove ho le mie radici e la famiglia e la mia storia. Occorre certo rimboccarsi le maniche affinché la logica del profitto non corrompa tutto, e farlo mentre siamo ancora in tempo, perché, grazie a Dio, l’Italia vera non è quella delle Tv di monopolio o della propaganda politica. Amo quest’Italia fatta di gente normale, né santa né diavola, generosa ed emotiva, fantasiosa e creativa, arroccata spesso nel suo «particolare» eppure così altruista, miscuglio stupendo di razze e popoli che nei millenni qui si sono amalgamati, trasformati e unificati. Amo il verde speranza della sua bandiera, e il bianco che ricorda fede e pura bellezza, e quel rosso che richiama i martiri, e non solo quelli politici, ma per me soprattutto quelli che han dato la loro vita per la Fede, dai tempi antichi ad oggi, visto che ogni anno missionari italiani pagano il prezzo del sangue.
Concludo con un «ciao» a tutti. Il bel «ciao» che, da veneto che era, è ormai è diventato internazionale. Ciao… sciao… schiavo (suo!), forse una volta un saluto servile, oggi invece un semplice, concreto atto di cortesia, affetto, disponibilità e accoglienza. Un saluto italiano e veramente cristiano: farsi servi gli uni degli altri! Ciao.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Non ti è lecito

«Se verrete a conoscere chiaramente che sono in pericolo la salvezza e l’onestà delle figliole,
non dovrete per niente consentire, né sopportare, né aver riguardo alcuno.
Se non potrete provvedere voi, ricorrete alle madri principali e, senza riguardo alcuno,
siate insistenti, anche importune e fastidiose» (Sant’Angela Merici).

Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata
in un territorio a dire di molti «senza speranza». Un territorio, quello casertano,
sempre più in ginocchio per il suo grave degrado ambientale, sociale e culturale, dove
anche la piaga dello sfruttamento sessuale, perpetrato a danno di tante giovani donne
migranti, è assai presente con i suoi segni di violenza e di vera schiavitù.
Come donna, come consacrata, provocata dal Vangelo di Gesù che parla di liberazione e di speranza,
insieme alle mie consorelle, ho scelto di «farmi presenza amica» accanto a queste giovani
donne straniere, spesso minorenni, per offrire loro il vino della speranza, il pane della vita e il
profumo della dignità.
Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, scelto e
accolto con amore, ripensando alla sua storia – una tra le tante storie accolte, la quale ancora
bambina (16 anni) si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare, da violare e da usare
da parte di tanti uomini italiani – sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma
anche di rabbia.
Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono
a Susan per l’indecoroso spettacolo a cui tutti, in questi giorni, stiamo assistendo. E non solo a
Susan, ma anche alle tante donne che hanno trovato aiuto e liberazione e alle tante, troppe donne,
ancora schiave sulle nostre strade. Ma anche ai numerosi volontari e ai tanti giovani che insieme
a noi religiose credono nel valore della persona, in particolare della donna, riconosciuta e rispettata
nella sua dignità e libertà.
Sono sconcertata nell’assistere come da «ville» del potere alcuni rappresentanti del governo,
eletti per cercare e fare unicamente il bene per il nostro Paese, soprattutto in un momento di così
grave crisi, offendano, umilino e deturpino l’immagine della donna. Inquieta vedere esercitare, in
maniera così sfacciata e arrogante, un potere che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro
e di promesse si intrecciano con corpi trasformati in oggetti di godimento.
Di fronte a tale e tanto spettacolo l’indignazione è grande!
Come non andare con la mente all’immagine di un altro «palazzo» del potere, dove circa duemila
anni fa al potente di tuo, incarnato nel re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: «Non ti è
lecito, non ti è lecito!».
Anch’io oggi, anche a nome di Susan, sento di alzare la mia voce e dire ai nostri potenti, agli Erodi
di tuo, non ti è lecito! Non ti è lecito offendere e umiliare la «bellezza» della donna; non ti è lecito
trasformare le relazioni in merce di scambio, guidate da interessi e denaro; e soprattutto oggi
non ti è lecito soffocare il cammino dei giovani nei loro desideri di autenticità, di bellezza, di trasparenza,
di onestà. Tutto questo è il tradimento del Vangelo, della vita e della speranza!
Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i
maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi
c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo
mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un
grande bisogno di liberazione.
E allora grazie a te, Susan, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e nostra indignazione, ora
posso, come donna consacrata e come cittadina, guardarti negli occhi e insieme al piccolo Francis
respirare il profumo della dignità e della libertà.

Sr. Rita e sorelle, comunità Rut

Suor Rita




110 anni di missione, per guardare in avanti

Il 29 gennaio scorso i Missionari della Consolata hanno quietamente celebrato i 110 anni di fondazione, avvenuta nel 1901 per volere della Madonna Consolata, come ha sempre insistito a dire il fondatore di fatto, il Beato Giuseppe Allamano. 110 anni sono troppi per la vita di un uomo, ma molto pochi nella storia bimillenaria della Chiesa. Eppure hanno attraversato uno dei periodi più intensi e fecondi dell’epopea missionaria modea. Nonostante questo, attorno all’avvenimento non si è respirato un’aria di celebrazione o di festa, c’era piuttosto un atteggiamento di riflessione e ricerca. Ci si è volti sì al passato con riconoscenza, ma è al futuro che si guarda cercando di capire dove il Signore sta guidando la sua Chiesa.
L’Istituto, è non solo, deve ripensare profondamente il proprio ruolo nella Chiesa tenendo conto del cambiamento epocale in atto: non solo è cambiata la geografia della missione, ma la Missione stessa! Il cambiamento è così radicale che c’è chi teorizza addirittura la fine degli Istituti Missionari come tali perché diventati ridondanti (se non un ostacolo) in una Chiesa che – stupenda riscoperta del Concilio Vaticano II ! – è tutta missionaria per natura sua.
Quanto sta succedendo non è niente di nuovo. Sono anni che si riflette, discute e ricerca su queste tematiche: che senso abbia la Missione oggi e quale sia il ruolo dei missionari ai nostri giorni. Forse di questi tempi il processo è diventato più urgente a causa di fattori molto contingenti quali la scristianizzazione accelerata del mondo occidentale concomitante con l’invecchiamento del clero, la diminuzione delle vocazioni e l’impossibilità di mantenere il tradizionale numero di attività pastorali, religiose e caritative. Gli effetti di questa situazione sono sentiti da tutti, se non altro perché in tutte le diocesi italiane è in atto una ritrutturazione e ridistribuzione del clero senza precedenti, con accorporazioni, unificazioni e chiusura di parrocchie che spesso lasciano i fedeli smarriti e amareggiati.
In questo contesto anche i missionari (quelli classici, nati per andare nelle parti più remote del mondo) sono messi in discussione. La missione è ovunque! Che senso ha andare ad annunciare il Vangelo ai «lontani» e poi lasciare che i «vicini» lo mettano nel cassetto (quando va bene) o addirittura lo buttino nella spazzatura? In più, il nuovo esercito di preti e suore che vengono dal Sud del mondo a riempire i vuoti nelle nostre case di cura, ospizi e parrocchie, sono davvero missionari o sono solo usati come tappabuchi per mantenere un sistema superato? Domande queste che non si possono evitare, ma la cui risposta non è certo facile. Questioni che gli stessi missionari e missionarie della Consolata – queste ultime appena uscite dalle celebrazioni centenarie – si pongono continuamente e su cui sono chiamati a dare risposte efficaci durante i Capitoli Generali che si svolgeranno nei prossimi mesi di maggio e giugno a Roma.
Il cambiamento in atto non ci deve spaventare. Cambia il modo di fare Missione, ma la ragione fondamentale della Missione è sempre la stessa: Gesù Cristo. La Missione ha senso solo in Lui, missionario del Padre nello Spirito Santo. E lo Spirito Santo, nei secoli, ha dimostrato di avere una fantasia creativa incredibile, senza mai lasciarsi bloccare né dalle inadeguatezze dei missionari, né dalle prepotenza delle opposte forze in campo, né dal progresso tecnologico e scientifico. Da parte nostra basterebbe forse piantarla di lagnarsi, di fare le vittime e i rassegnati, di cercare i colpevoli, di aspettare l’ultima elaborazione teologica o soluzioni magiche, e – a costo di sembrare ingenui – vivere la fede che abbiamo ricevuto in dono, ciascuno secondo il proprio stato e carisma, attraverso una testimonianza di amore fattivo che sia contemplazione, giustizia, pace, vicinanza alla persona e (perché no?) anche impegno politico nuovo. Il «mondo», in fin dei conti, ha «fame» di Gesù. Ma è davvero Gesù, il Cristo, che oggi annunciamo?

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Libertà religiosa, via per la pace

Ai lettori

«Libertà religiosa, via per la pace», questo è il tema della giornata mondiale della pace di quest’anno. Un tema molto caldo, visto che generalmente si considerano le religioni una delle ragioni aggravanti dei conflitti odiei. I più informati si limitano ad accusare i vari fondamentalismi (tutte le religioni ne hanno, anche il cristianesimo); i più arrabbiati se la prendono con le religioni in sé, ogni religione. Intanto la libertà religiosa è minacciata ovunque nel mondo.
Nel nostro Paese c’è confusione sull’argomento e coesistono bellissime esperienze di tolleranza accanto a pregiudizi e preclusioni che combattono, a suon di decreti, regolamenti e dichiarazioni di piazza, le legittime aspirazioni dei non cristiani ad avere un luogo di culto dignitoso.
Quando i fondamentalisti islamici evocano le crociate come scusa per terrorizzare e uccidere cristiani, tradiscono la loro religione e il loro Dio tanto quanto i cristiani che si oppongono alle moschee in nome della cultura occidentale «cristiana». In tutti i casi si disonora Dio, il Misericordioso e il Padre di tutti, proprio quando si è convinti di difenderlo. Dio non ha bisogno di essere difeso, ma amato. E Dio si ama comportandosi da Dio, cioè amando gli altri, come insegna Gesù.
è vero, a livello d’istinto, l’idea di avere una moschea o un tempio nel mio paesello natio mi mette a disagio: la sento come una violazione della storia e della memoria. Ma se invece comincio ad usare la testa e il cuore, non la pancia, allora riesco a chiedermi in quale Dio credo davvero. Impedendo ad altri di pregare a modo loro sto davvero lodando e amando il Dio di Gesù Cristo o, invece, sto solo obbedendo alle mie paure e difendendo una realtà (cultura) che non c’è più? Impedendo agli «altri» di esercitare uno dei loro diritti fondamentali, quello di esprimere liberamente e pubblicamente la propria fede (noi missionari viviamo di questo diritto!), non aiuto certo a creare un ambiente di pace, anzi dò motivi agli «altri» per essere arrabbiati e frustrati. Con questo non stò dicendo di dare le nostre chiese per farle diventare luoghi di culto di altre religioni … (ma questo è un argomento che va ben oltre un editoriale!).
Forse quel che non voglio capire è che la mia religione non è messa in pericolo dalle religioni «altre», ma dal mio stesso stile di vita imbevuto di consumismo. Un consumismo – non cristiano – così invadente e totalizzante da regolare ogni momento della mia vita con un controllo così capillare che nessuna religione è mai riuscita ad esercitare (nonostante i miti dell’inquisizione!). Certo non è un controllo poliziesco, anzi è molto soft, persuasivo, spesso cercato e voluto anche dall’individuo-vittima, ma avvolge ogni minuto della vita usando i mezzi più disparati: sport, musica, arte, vacanze, centri commerciali omnicomprensivi (= nuove cattedrali del consumismo), pubblicità, pressione sociale, televisione, radio, internet, telefonini, tempo libero, moda, viaggi … Non un minuto per sé!

Vogliamo la pace? Garantiamo alle persone la vera libertà religiosa, la libertà di esprimere la propria fede in Dio. La vera ricerca di Dio porta alla verità e la verità rende liberi.
Nella verità di Dio possiamo allora guardare al 2011 con speranza e ottimismo. Tanti auguri per il nuovo anno. La pazienza di Dio ci dà ancora tempo per imparare a vivere da uomini e fratelli. Non buttiamo via questa splendida possibilità. Pace a tutti.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Natale e martirio

Vita e morte, principio e fine, nascita e sepoltura: sono dei binomi che ci spiazzano, di cui non vorremmo parlare, soprattutto a Natale, dove vita, gioia e pace sembrano dover essere le parole d’ordine. In realtà, da sempre, la liturgia della Chiesa fa seguire il Natale, festa della vita, da due feste di sangue, santo Stefano e i santi Innocenti. Questo ci ricorda che sullo sfondo del Natale c’è sempre la Pasqua con il suo mistero di passione, sofferenza, morte e risurrezione. Il messaggio è ripetuto sette giorni dopo con la memoria della presentazione di Gesù al tempio quando il vecchio Simeone ricorda a Maria tutta la sofferenza che le sta dinnanzi. Da ultimo, i regali dei tre Magi all’Epifania, se da un lato esaltano la divinità e la regalità del Bambino, dall’altra annunciano la sua immolazione sacrificale, il suo martirio.
Il martirio, che richiama persecuzioni d’altri tempi, è oggi una parola che è rimbalzata su tutti i media del mondo dopo il massacro degli oltre 50 cristiani a Baghdad lo scorso 31 ottobre. Secondo le statistiche il XX secolo è stato quello con il maggior numero di martiri cristiani. Tuttavia il XXI secolo sembra voler battere il record sia per il perpetuarsi di sistemi ad influenza comunista che per la nuova virulenza del fondamentalismo (sia esso islamico, indù o buddista), come per lo svilupparsi di nuove forme di intolleranza e cristianofobia nei paesi che pure hanno fatto della tolleranza la loro bandiera. Sta già succedendo qua e là nel mondo, ma diventerà sempre più frequente, che cristiani siano imprigionati o penalizzati per coerenza alla loro fede circa questioni come aborto, omosessualità, eutanasia, famiglia e difesa della vita. Saranno colpiti sacerdoti che predicano principi morali che invece la legge civile ha abolito, medici e operatori sanitari che fanno obiezione di coscienza, giornalisti che non accettano il politicamente corretto e normali cittadini convinti che «bisogna obbedire prima a Dio». Questo accadrà non perché saranno emanate leggi apertamente ostili alla libertà religiosa, ma solo grazie a mille regolamenti contorti, approvati grazie a lobbies interessate e applicati da funzionari che hanno rinunciato al buon senso.
Certo continueranno, e diventeranno anche più feroci, le persecuzioni dolorosamente plateali ad opera di chi mette in carcere vescovi e preti e continua a mandare cristiani in campi di rieducazione, di chi impedisce ogni manifestazione pubblica della fede, di chi usa la scusa del proselitismo per reprimere, di chi ricorre a bombe e minacce, assassinio e terrorismo, ma nei nostri paesi si svilupperanno altre modalità sicuramente meno intrusive ed esecrabili, perciò più facilmente giustificabili ed addirittura accettabili, ma non per questo meno intolleranti e violente.
Pessimista? Lo spero. Ma non mi spaventa, anzi. Mi preoccuperebbe di più se il martirio cessasse totalmente. Vorrebbe dire che i cristiani non sono più «sale della terra», che hanno talmente diluito la loro testimonianza da diventare innocua parte del sistema, preoccupati più dei loro privilegi che della fedeltà al loro Maestro, morto in croce. Non è forse questo il rischio che stiamo correndo proprio nel nostro paese? «Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). «Beati voi quando vi perseguiteranno per causa mia» (Mt 5,11). Non è fuori posto ricordare questo a Natale, perché, non dimentichiamolo mai, il Natale è sotto il segno della Croce.
Concludendo, faccio di vero cuore i più sinceri auguri di Buon Natale a tutti i nostri lettori, amici e benefattori a nome dell’intera redazione e dei Missionari della Consolata, con i quali esprimo solidarietà e vicinanza a tutti coloro che in Italia sono stati vittime del maltempo, in particolare in Veneto – dove sono molti dei nostri lettori -, e di altre calamità frutto dell’irresponsabilità dell’uomo. Che l’esempio di coerenza, amore e difesa della vita dato dalla Santa Famiglia possa essere di incoraggiamento alla nostra quotidiana testimonianza di fede e carità in una realtà sempre più segnata da paura, intolleranza e diffidenza verso gli altri. Che la comprensione del Natale alla luce della Pasqua sostenga la nostra fede e ci aiuti a «dar ragione della nostra speranza» (cf 1 Pt 3,15).
Buon Natale a tutti voi anche dai nostri missionari e dalle persone che essi amano, con voi.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Su due piedi …

C’era una volta un bravo ragazzo, ben educato. Scriveva con la destra, faceva il segno di croce con la destra, dava la destra per salutare e, naturalmente, rispettava la destra. Anche quando si misurava le scarpe nuove offriva il piede destro. Andava tutto perfettamente bene, anche se, sì, un problemino c’era. Le scarpe nuove andavano benissimo per il piede destro, ma il sinistro ci stava sacrificato e, sotto sforzo, normalmente ci rimetteva l’unghia dell’alluce. Un bel paio di sandali alla fraticella risolvevano bene il problema durante l’estate, ma d’inverno il sinistro tornava a soffrire. Il tutto durò per anni, fino a quando, un giorno d’estate, a piedi nudi sulla sabbia, commiserando l’alluce sinistro che ancora portava i segni dell’ultima unghia caduta, gli venne il ghiribizzo di misurarsi i piedi. Il piede sinistro era quasi un centimetro più lungo del destro. Dentro lo sapeva da sempre, ma visto lì, in quelle righe nella sabbia, sembrava incredibile. Tutto quel tempo a soffrire per niente! Avesse ascoltato il piede sinistro tanti anni prima! Nelle scarpe nuove, una misura più del suo solito, il sinistro stava a suo agio e il destro non soffriva di certo, anzi, e insieme camminavano meglio.
Questa piccola storia di ordinaria stupidaggine mi ha fatto pensare a questo nostro paese dove sembra esserci la mania di classificare tutto e tutti, fino al ridicolo: sinistra, destra, ultra e centro, con tutte le variazioni possibili e immaginabili. Tutto è etichettato: politica, religione, cultura, economia e società. Ciascuno deve appartenere, perché solo l’essere di parte garantisce la verità e la stabilità. Chi non appartiene, chi non è classificabile, disturba. Sei padrone, destra. Sei operaio, sinistra. Vuoi sicurezza, destra. difendi gli extracomunitari, sinistra… Gli esempi abbondano. Neppure i preti si salvano. I missionari poi, sono sopportati solo finché non parlano troppo.
Quel povero piede sinistro, che per anni ha subito in silenzio l’ignoranza di quello destro, aveva pur le sue ragioni. Quando lui soffriva, era tutto il corpo, anche il piede destro, che soffriva. Ora che sta meglio, nelle scarpe nuove a sua misura, tutto il corpo cammina meglio, su due piedi!
Che? Non sono queste riflessioni da rivista missionaria? Forse. A dir la verità mi sono un po’ scocciato di sentirmi classificato ogni volta che scrivo o di ricevere lettere insultanti contro i missionari perché stanno dalla parte degli extracomunitari e si permettono perfino di aiutare quei nemici della civiltà cristiana che sono i musulmani, non importa se disastrati da una catastrofe naturale senza precedenti (ne parleremo sul numero di dicembre).
Noi missionari italiani (di una certa età, figli del dopo guerra – per me sono 60, proprio oggi mentre revisiono queste righe) ci troviamo in una situazione davvero poco invidiabile. siamo partiti da una comunità che aveva una fede vibrante in un contesto di diffusa povertà e tanta voglia di lavorare. alle frontiere del mondo siamo stati testimoni di tutte le sofferenze possibili e immaginabili e là abbiamo visto fiorire la fede. tornati a casa nostra, siamo presi con il nostro popolo nel vortice di un benessere mai sognato, con le chiese – bellissime e ben tenute – quasi vuote, centri commerciali che traboccano, televisioni che ci inondano di frivolezze e lotterie da capogiro. Tanto benessere (anche se c’è la crisi) e poca felicità. Se parliamo di alfabetizzazione, di ambiente, di culture e di poveri bambini, riusciamo anche a farci ascoltare o a far commuovere per un po’. Ma se ci permettiamo di dire giustizia, fratellanza, accoglienza, nuova pastorale, impegno personale, conversione, sobrietà, cambiamento di stili di vita e vangelo…  siamo visti con sospetto (ed etichettati, di sinistra!) o messi su un piedistallo (il che è anche peggio).
La realtà è che abbiamo bisogno di tutti per stare bene, come abbiamo bisogno di due piedi per camminare, correre e danzare. La verità non è monopolio di nessuno, tantomeno di chi sta bene e pensa di avere le soluzioni in tasca per chi soffre. In Italia c’è un sacco di positivo, di cui noi missionari siamo testimoni privilegiati. E questo dà molta speranza. Se solo ci ascoltassimo di più, rendendoci conto che abbiamo bisogno gli uni degli altri (questo vale anche per i vari talebani del mondo, così sicuri di sé)… riusciremmo davvero a costruire un mondo migliore per tutti, che danza su due piedi…

Gigi Anataloni




Ricominciare per Continuare

Diventare direttore di questa rivista, era una delle possibilità prevedibili fin da quando ho cominciato il mio servizio missionario nella stampa ormai 34 anni fa, appena ordinato sacerdote. Me lo avevano perfino augurato alla fine del liceo. Ma che lo diventi all’età di andare in pensione mi sembra buffo. Rientrato dopo 21 anni di Kenya, dove per 17 anni ho fatto di tutto (anche l’editore) nella rivista che pubblicavo laggiù (il Seme, The Seed), mi trovo ora a ricominciare (perché qui ho già lavorato dall’80 all’86) con voi questa avventura in una rivista ricca di storia come è Missioni Consolata. Già, la storia ultracentenaria di questa rivista mi affascina e mi spaventa. È una responsabilità non da poco succedere al canonico Giacomo Camisassa e a grandi direttori come i padri Vittorio Sandrone, Mario Bianchi, Giovanni Mazza, Gabriele Soldati, Francesco Beardi, Benedetto Bellesi e Ugo Pozzoli, solo per nominae alcuni.

Questa si definisce la rivista missionaria della famiglia. Sono due qualifiche: missionaria e della famiglia, che mi danno a pensare. Missionaria: rimanda alla Missione; quella con la M maiuscola non è certo cambiata: è sempre l’annuncio di Gesù figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza dell’umanità e del cosmo, l’unico Signore e Salvatore che ci chiama ad accogliere il regno di Dio. Ma la missione, quella spicciola e quotidiana, quella che è traduzione in azione e vita della grande Missione, è sempre in cambiamento e trasformazione. Cosa vuol dire fare, pensare ed essere missione nel 2010? Come raccontarla oggi? È una grande sfida. Della famiglia! La mia esperienza di famiglia, quasi patriarcale, sembra lontana anni luce da quanto si vive oggi. Anche la visione africana della famiglia, che ha avuto un ruolo importante nella mia esperienza keniana, e che tanto ha ispirato la Chiesa africana, è una realtà che sta passando attraverso un grande processo di trasformazione, spesso sofferto e contraddittorio. Quale famiglia oggi in questa nostra Italia, in questa Europa?

C’è un terzo elemento qualificante: Consolata. Consolata indica la dimensione mariana: la Madonna Consolata, fondatrice dell’istituto. Ma non solo, Consolata indica anche un metodo missionario secondo il cuore del beato Giuseppe Allamano: il bene fatto bene (e senza rumore) per l’uomo totale, anima e corpo, nel suo oggi, dove evangelizzazione e promozione umana vanno a braccetto. Per questo “tutto quello che è umano ci interessa”. Per questo possiamo parlare di politica ed economia, di musica e di arte, di sviluppo e di cultura, di moda e di ecologia, di poesia e danza, di giustizia e di pace, di inquinamento e di emigranti, di adozioni e turismo responsabile, di razzismo e guerra, schiavismo e liberazione, acqua e terra, e chi più ne ha più ne metta … e, nello stesso tempo, raccontare sempre più di evangelizzazione e conversione, di battesimi e nuove chiese, di ordinazioni e vescovi, di morale e teologia, religioni ed ecumenismo, papa e catechisti, famiglia e vocazioni, inculturazione e liturgia, preghiera e spiritualità …
Consolata è anche un filtro privilegiato. Non vogliamo e non possiamo essere qualunquisti. Siamo Consolata. Per cui questa non è una rivista neutrale. Siamo schierati, con libertà e senso critico, amore e rispetto. E come Consolata abbiamo un difetto: vediamo le cose con gli occhi del Sud del mondo, dalla prospettiva dei poveri.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni