BENEFICENZA E CARITÀ

Incontrare dei missionari (rari, per grazia di Dio) che, pur avendo
dedicato la loro vita all’Africa fino alla consumazione di tutte le loro forze,
rivelano atteggiamenti di profondo razzismo verso gli africani, mi ha sempre
causato un disagio profondo fin dai tempi in cui ero un giovane studente di
teologia. Non è certo la norma, e non voglio né giudicare né scandalizzare
alcuno, ma proprio non sono mai riuscito a capire come un missionario possa
fare tanto del bene agli altri senza amarli, mantenendo anzi atteggiamenti di
superiorità e quasi di disprezzo. Per «amare gli altri» intendo qui accettarli
e trattarli come uguali a sé, avee stima per quel che sono, credere in loro,
rispettarli anche nella loro diversità.

Il caso di quei
missionari è emblematico. Succede infatti, e più spesso di quanto immaginiamo,
che si aiutino gli altri e si faccia beneficenza e volontariato anche a prezzo
di indicibili sacrifici personali, ma senza mai far scattare quell’extra che è
unico del cristiano: l’accettazione totale dell’altro come fratello o sorella,
anzi di più, come Cristo stesso che mi visita. Finché l’altro rimane “inferiore”
a me, tutto va bene. Non faccio esempi, perché farli è fin troppo facile ma
potrebbe essere fuorviante.

Il dramma, anche di tanti
cristiani, è quello di fare delle opere di bene per obbligo o per abitudine,
come l’elemosina in chiesa. Oppure per commozione. Non c’è niente che faccia
aprire le borse come l’immagine di un bimbo che soffre. Guardate negli occhi la
bimba della copertina, col suo abitino bello arrivato da chissà dove attraverso
il mercato dei vestiti usati, e il fagottino del fratellino addormentato (o
malato) in braccio. Bisogna far qualcosa! …

E qualcosa si fa, anche
tanto. Il volontariato e la solidarietà sono due grandi elementi di speranza in
questa nostra Italia. Però poi si continua a mantenere un atteggiamento
razzista verso gli extracomunitari, a essere pieni di pregiudizi verso quelli
del Sud, a sostenere amministrazioni che discriminano i rom, a votare per un
partito xenofobo, a sostenere l’aborto e il controllo (anzi, più politicamente
corretto, la «pianificazione») delle nascite, ad avere un atteggiamento irresponsabile
verso l’ambiente, e amenità simili… E tutto sembra perfettamente normale.

Ma per un cristiano questo normale non è. Per lui, umanitarismo,
solidarietà, beneficenza, elemosina, volontariato, e quanto altro si voglia
includere, hanno la loro sintesi e radice nella parola chiave «carità», che a
sua volta si coniuga con giustizia e frateità. Invece succede che, come dice
Benedetto XVI nel messaggio per la Quaresima 2013, talvolta «si tende a
circoscrivere il termine “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto
umanitario». è lo svilimento – da
noi stessi inconsciamente favorito – di una Parola che invece ha una portata
rivoluzionaria. Ci si accontenta del «fare la carità», invece di vivere nella
Carità, con la Carità e per la Carità, imitando, cioè, Gesù stesso.

Ma la Carità, continua il
messaggio, è «un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è
mai “concluso” e completato. Da [esso] deriva per tutti i cristiani […] la
necessità della fede, di quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro
l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo
non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una
conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore. Il
cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da
questo amore – caritas Christi urget nos (2 Cor 5,14) -, è aperto in
modo profondo e concreto all’amore per il prossimo». «Tutto parte dall’umile
accoglienza della fede (il sapersi amati da Dio), ma deve giungere alla verità
della carità (il saper amare Dio e il prossimo), che rimane per sempre, come compimento
di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13)». «Carissimi
fratelli e sorelle – conclude il Papa -, in questo tempo di Quaresima, in cui
ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale
l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi
di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare
nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella
che incontriamo nella nostra vita».

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Gigi Anataloni




COSTRUTTORI DI PACE

Mi sarebbe tanto piaciuto poter cominciare questa pagina con una bella citazione del messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2013 (che viene ben ricordato in Amico), ma non è stato possibile perché il testo ufficiale viene pubblicato mentre noi siamo già in stampa. Questo però non impedisce di parlare di pace. Anzi, se ne deve parlare, scrivere, discutere e si deve agire sempre più, senza aspettare la benedizione dei discorsi ufficiali.
I costruttori di pace hanno la vita dura. Lo scoraggiamento è sempre alle porte, perché sembra che la natura umana voglia la pace solo a parole, mentre nei fatti investe più facilmente le sue energie nella «guerra». Ho visto lo sconforto e la delusione sulla faccia e nel cuore del vescovo di Maralal, mons. Virgilio Pante, lo scorso novembre. Se c’è una persona che ha investito tutte le sue energie per la pace è proprio lui (vedi MC 12/2012, p. 67). Da quando è vescovo, in undici anni, ha sempre lavorato, dialogato, viaggiato, sudato, danzato, bevuto tè a fiumi, mangiato carne attorno al fuoco durante incontri interminabili con anziani e giovani, ha pregato, celebrato, implorato, è stato pellegrino e nomade, è sceso nelle valli e salito sulle cime dei monti… per far crescere la pace nella sua martoriata diocesi dove, dal 1996, sembrano inutili tutti gli sforzi. Era il 13 novembre, quando una notizia, che ha appena sfiorato i nostri media, l’ha raggiunto a Torino dove si trovava per motivi di salute: ancora morti a Baragoi, oltre 40 soldati uccisi in un’imboscata dai razziatori di bestiame nella Suguta Valley, la caldissima e inospitale valle della morte. Quello di monsignore era lo stesso scoraggiamento che ha fatto rimanere senza parole i missionari che lavorano in quell’area e il cornordinatore dei programmi di riconciliazione e pace della diocesi: anni di lavoro paziente andati in fumo per un’operazione di polizia istigata da politicanti arrivisti e male organizzata da comandanti incompetenti. Il tutto ufficialmente per recuperare 480 vacche rubate dagli «altri». Non è stata la paura a zittire i missionari, ma la durezza dei cuori e l’assurdità dei giochi di potere che usano la gente spietatamente mimetizzando il tutto dietro belle parole. Risultati ottenuti: oltre 60 morti, villaggi abbandonati, fame e insicurezza, decadenza di strutture sociali e statali, aumento dell’odio tra le comunità, gente in fuga a riempire le già congestionate periferie di Maralal e Isiolo, rifugi insicuri di tanti disperati.

Occorre ricominciare da capo. Come deve ricominciare, dopo un ennesimo disastroso flash flood, quell’altro grande costruttore di pace che è fratel Argese, l’uomo che per garantire quel bene indispensabile che è l’acqua, a ottant’anni, continua a lottare con pazienza e tenacia contro avversità naturali e avidità e imbrogli umani (vedi pag. 29).
Tentati dallo scoraggiamento, ma senza mollare mai. Uomini e donne che in ogni parte del mondo sono segno, strumento e fermento di pace. Uomini e donne che, innamorati di Cristo, lo amano nei più abbandonati, schiavizzati e oppressi del mondo, siano essi i pigmei a rischio sfratto per la semplice colpa di trovarsi su terre ricchissime di minerali pregiati, o gli indios difensori di un modo di vivere alternativo, oppure le minoranze etniche e religiose schiacciate dai fondamentalismi e dai giochi di potere dei grandi; si tratti di bambini condannati a non nascere, di donne vittime della tratta per l’insaziabile mercato del sesso o di disperati che emigrano per ragioni politiche ed economiche, o di chiunque intralci progetti megaeconomici: città turistiche, dighe, centrali, agribusiness e bioenergia, fabbriche sottocosto che dir si voglia. Sono questi uomini e donne che non cercano premi e riconoscimenti, ma che aborriscono la logica degli F-35, il proliferare delle armi, il ricatto dei mercanti di morte, i tagli che si accaniscono su chi ha già meno del necessario, la crescita economica che moltiplica gli sfruttati, l’uso diseguale delle risorse.
Uomini e donne che sanno guardare avanti, con un’inguaribile fiducia nell’uomo, proprio perché hanno fede nel crocefisso e risorto Signore della Pace. Imitandolo, con la loro testimonianza, annunciano: «Stiamo in piedi, alziamo la testa, perché la nostra liberazione è vicina» (cf. Lc 21,28). Beati voi quando vi perseguiteranno.

Gigi Anataloni




E dagli alla Chiesa

Ai lettori

Scrivo queste righe ai primi di giugno, mentre il terremoto in Emilia e dintorni ancora impazza occupando il primo posto nei notiziari e pagine di giornale, tra molta verità e tanta esagerazione. Su La Stampa ho letto (finalmente) l’invito di un giornalista, Michele Brambilla, ad attenersi ai fatti e alla verità. «Basta esagerazioni. Atteniamoci ai fatti. Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico». Voi mi state leggendo circa un mese dopo. Per allora (lo spero proprio!) la grande voglia di vivere della gente delle zone del terremoto, tra cui abbiamo tantissimi affezionati amici, benefattori e sostenitori delle nostre missioni, avrà avuto la meglio sulla paura e i tremori della terra. Allora, forse, le notizie non saranno più sul disastro ma sulla ricostruzione e la grande dignità e voglia di riscatto di questi nostri fratelli e sorelle. Forse i media avranno perso interesse per le case crollate, i monumenti polverizzati, le formaggerie sventrate e si saranno già buttati su qualche altra voluttuosa notizia.
Intanto, come da copione, un’altra notizia fa da spalla a quella del terremoto: la saga-thriller degli scandali del Vaticano o della Chiesa, dove sulla base di poca verità, il gossip si spreca e si lancia verso vette insuperabili di speculazioni gratuite.
Qui abuso della vostra pazienza per dire che sono stufo della grossolanità dell’informazione che passa in questi giorni, dell’identificazione del Vaticano con la Chiesa (quella con la «C» maiuscola), del tirare ad indovinare informazioni che non ci sono, del vedere il complotto a tutti i costi, del far passare come legittima informazione un libraccio di documenti – di dubbio interesse pubblico – ottenuti in maniera fraudolenta violando un mucchio di leggi ma soprattutto il rispetto per le persone e la giustizia. Lo scrivo: non sono un entusiasta del «sistema vaticano» che spesso mi sembra così distante dalla vita reale della Chiesa. E amo molto questo Papa. Mi guarderei bene, però, dal dire e scrivere che quel che succede in Vaticano è indice della crisi di una Chiesa corrotta e corruttrice, e dall’usare i termini Vaticano e Chiesa come sinonimi.
Grazie a Dio conosco una Chiesa che è ben diversa da quella dipinta dai giornali. L’ho incontrata a Camp Garba, il primo gennaio di quest’anno, celebrando l’eucarestia nel povero asilo di Kiwanja con tanti che avevano perso tutto a causa della violenza. La vedo nella comunità di Toribio, in Colombia, che pian piano ricostruisce la sua parrocchia devastata da una bomba che sa più di narcotraffico che di rivoluzione. È Chiesa in Asha Bibi, la semplice donna cristiana condannata a morte in Pakistan sotto la pretestuosa accusa di blasfemia. È Chiesa in don Ivan, che muore per salvare la sua bandiera, quella statua della Madonna così cara alla sua comunità parrocchiale. È negli occhi limpidi e giorniosi di Sandra che ho confessato pochi giorni fa prima della cresima. È nello sguardo di S&V mentre si dicono di sì per tutta la vita. È nella determinata serenità di Anna che, sapendo di avere pochissimo da vivere, con suo marito prepara in anticipo il suo funerale perché sia una festa e non un mortorio. È nei giovani che si sono incontrati a Madrid con Benedetto XVI e le famiglie che con lui a Milano hanno celebrato la centralità di Gesù nella famiglia di oggi. È quella che nel nord della Nigeria vive sotto le bombe e le minacce. È nel vescovo Pante che in moto percorre le piste della sua vasta diocesi portando riconciliazione tra le tribù. È la Chiesa che celebra l’eucaristia danzando dentro povere capanne di fango e paglia o sotto grandi alberi, più numerosa certamente di quella che frequenta le grandi cattedrali-museo. È la Chiesa viva, fatta di uomini e donne, pur peccatori, che vivono con semplicità e senza ostentazione in questo difficile mondo, pagando di persona, testimoni veri della risurrezione di Gesù.
È questa la Chiesa che amo, di cui il papa è pastore nel nome di Cristo. Di questa Chiesa sono orgoglioso e con questa Chiesa prego perché chi sbaglia si converta, chi comanda lo faccia come colui che serve, chi ha peccato accolga il perdono e diventi capace di ricominciare, con umiltà, anche in Vaticano. Perché quando un cristiano pecca o fa male, che sia io o uno disperso nella foresta o nei meandri dei palazzi del potere, tutti ne soffriamo, come in una famiglia.
Perché siamo Chiesa.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Cavalli, cammelli e uomini

Qualche tempo fa una notizia ha occupato gran parte di un telegiornale delle 20: alcuni cavalli
stavano morendo di fame perché il loro padrone era sull’orlo del fallimento e non ce
la faceva più a nutrirli. Il lungo servizio informava sulla salute dei cavalli, la mobilitazione
delle istituzioni, le proteste degli animalisti e la gara di generosità dei volontari per salvare
i nobili quadrupedi. Mi aspettavo due parole sulla condizione del povero contadino indebitato
e disperato… niente. Che forse valga meno dei suoi cavalli?
Come figlio di contadini e missionario tra i pastori nomadi, so bene che normalmente un pastore
(ricordate il «buon pastore» del Vangelo?) fa di tutto per evitare che le sue bestie soffrano. Piuttosto
patisce la fame lui, ma le bestie no. Ho davanti agli occhi le immagini di cammelli scheletriti
e cani pelle e ossa nelle zone aride del nord del Kenya. Quando si incontrano animali in quello
stato, bisogna aspettarsi i loro padroni in condizioni ancora peggiori!
Il primo maggio mi è arrivata dal Kenya una documentazione drammatica su Camp Garba. Ricordate
che sul numero di marzo scorso avevo scritto di quella missione e concluso che «questo
2012 sarà un anno difficilissimo con un crescendo di violenza» (MC 3/2012, p. 13)? Purtroppo ci
ho azzeccato! Agli inizi di maggio – mentre scrivo – ci sono oltre 3.000 persone rese «profughe a
casa loro» e accampate nella missione, vicino a scuole-cappelle o fuggite nella foresta. Il tutto
perché i «soliti» pastori sono arrivati con migliaia di cammelli che affamati, hanno esercitato il
loro diritto costituzionale a sfamarsi pascolando nei campicelli piantati da chi viveva sul posto
mentre i loro padroni hanno devastato scuole, vandalizzato chiesette, bruciato case, ammazzato
persone che aveano il torto di occupare quelli che sono i «pascoli ancestrali»… il tutto nell’indifferenza
delle autorità. D’altra parte – sostengono le autorità locali – la costituzione del paese garantisce
ad ogni cittadino libertà di movimento in tutta la nazione. Che la stessa costituzione garantisca
anche il diritto di residenza e proprietà a chi già vive e coltiva in un certo luogo, è un corollario
secondario. Se poi si considera che a proposito di quelle aree si parla di petrolio e di
enormi investimenti turistici, si capisce facilmente perchè i poveracci non facciano notizia, anzi,
prima si tolgono dai piedi meglio è per tutti.
Scusate il tono un po’ sarcastico, ma cosa resta da fare ai missionari che in loco vedono il loro
«gregge» disperso, ucciso, affamato e spaventato? Sono talmente presi dal dramma, dal darsi
da fare per aiutare, curare, consolare, asciugare lacrime, seppellire i morti e nutrire i vivi da
non avere neanche il tempo e la voglia di gridare e denunciare. Purtroppo i nostri tempi di
pubblicazione non ci permettono una tempestività di informazione e denuncia, ma abbiamo
cercato di supplire attraverso altri media (vedi suwww.missioniconsolataonlus.it/mco/,
www.consolata.org e sul nostro sito). Ma queste cose non è che interessino più di tanto e poi,
con tutti i problemi che ci sono …

Cavalli, cammelli e uomini. Scusate, pur con tutto l’affetto per gli animali, noi tifiamo ancora
per gli uomini. È un fatto: dove gli uomini stanno bene (inteso come pace – dentro e attorno
-, cibo, lavoro, sicurezza…), anche gli animali stanno bene. In più, come missionari
(e della Consolata), abbiamo il vizio di fare il tifo per i più disgraziati del mondo: che siano
i rifugiati di Camp Garba, gli indios di Roraima, i pigmei del Congo RD, i bambini delle Ande ecuadoriane,
i malati di … Questo è il mese della nostra fondatrice, la Madonna Consolata e Consolatrice,
che certo sapeva quel che faceva quando ha forzato la mano ai superiori e ci ha mandato a
Camp Garba. «Dio non ha mani, ha solo le tue mani. Dio non ha piedi, ha solo i tuoi piedi», dice un
canto religioso scritto con parole ispirate da Raul Foullereau. La Madonna continua a consolare
attraverso i suoi missionari, i quali alimentano la loro carità con la solidariatà fattiva di tanti che
sono capaci di aver compassione pur vivendo – forse proprio perché si vivono – tempi difficili.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




S.S.S.

AI LETTORI

Molti anni fa, prima di entrare in seminario, mi diedero un libro da leggere. S’intitolava
«I fioretti di p. Cencio». Era la biografia di p. Vincenzo Dolza, pioniere del Meru in
Kenya. Lessi e rilessi quel libro con tanta allegria e partecipazione, fin quasi a saperlo a
memoria. Ogni tanto, oggi, un ricordo riemerge. Due sono tornati con insistenza in una
notte insonne d’aprile – insonne perché ai primi di maggio riprendono le scuole in Kenya e le
scuole vogliono contanti, non promesse -: la storia dei «Canada» e dei «Canapia» e le sue
famose lettere agli amici con scritto un solo e grande «S.S.S.» e firmate «Cencio».
Avendo ricevuto una volta la visita di un cacciatore canadese di passaggio, divennero subito
amici. Questi, vedendo l’estrema povertà del padre, si offrì di aiutarlo. P. Cencio gli spiegò che
erano fatti l’uno per l’altro, perché uno proveniva dal «Can-a-dà» (colui che da, in piemontese)
e, l’altro era cittadino di «Can-a-pia» (colui che prende). Invece l’«S.S.S.» significava semplicemente
«Sono Senza Soldi»; plastica espressione per indicare il suo stato di perenne indebitato a
causa della generosità con cui si dedicava ai poveri (vedi foto p. 65, MC 12/2011). P. Cencio aveva
imparato bene dall’Allamano che il missionario deve essere un canale per quel che riguarda i
soldi e una conca nel suo rapporto con Dio. Quel vecchio libro dovrebbe far parte dei testi di
formazione nei seminari missionari e probabilmente farebbe del bene anche a molti politici
nostrani.
Non sono sicuro di aver imitato p. Cencio nell’essere una conca di santità, ma quanto all’altro
aspetto, un po’ ci ho provato. Quando sono partito per il Kenya nel 1988, non ho cercato soldi,
perché non li consideravo una priorità. Sognavo l’evangelizzazione pura: catechesi, formazione,
testimonianza, camminare con la gente, imparare da loro ed essere «povero con i poveri».
È andato tutto bene fino a quando non mi sono scontrato faccia a faccia con la povertà, anzi no,
con i poveri, quelli veri, di carne e ossa, con nome e cognome, una faccia, una storia, un odore.
Incontri fatti spesso solo di un semplice sguardo, un gesto, pochissime parole, o scontri fatti
anche di storie lunghissime che puzzavano pure d’imbroglio, forse goffo tentativo di coprire con
un po’ di orgoglio una dignità umiliata dalla miseria. Da allora sono diventato anch’io un
«canapia», non per me, non ne ho bisogno, ma per quelli che, volente o nolente, mi accompagnano
sempre – «i tuoi poveri, i tuoi bambini» -, anche quando vado a mangiare una pizza con gli amici.
Perché vi scrivo questo? Il binomio «missione=soldi per i poveri» è talmente solido nella
mente di tanti buoni cattolici da indurre gruppi missionari a definirsi tali più per quanto
raccolgono in favore del loro progetto che per come vivono la missione. Ci sono poi molti
missionari che sono diventati quasi «prigionieri» dell’aiuto ai poveri, a causa della crisi
economica, ormai mondiale, che ha impoverito i donatori, riducendone le risorse, e peggiorato
la situazione dei poveri con l’aumento dei prezzi e del costo della vita, e sta rendendo impossibile
sostenere programmi e progetti come scuole, orfanotrofi, ospedali e adozioni che esigono
continuità. L’equilibrio di un tempo è saltato e la crisi è pagata soprattutto da chi è già povero.
E il missionario si sente tra l’incudine e il martello.
La crisi di cui tutti parliamo e soffriamo evidenzia un sistema che non ha più l’uomo al centro,
ma il profitto per il profitto; un sistema che premia la speculazione (a vantaggio di pochi) e
penalizza il lavoro di chi, in fondo, è trattato peggio di uno schiavo; una monetizzazione del
tutto (anche dell’uomo), dove l’azzardo finanziario (ormai democratizzato dal «gratta e vinci»)
conta più del sudore della fronte e gli algoritmi di banche e fondi d’investimento mandano a
K.O. nazioni intere.
Che senso ha in questa situazione un missionario che scriva agli amici un «S.S.S.»? Forse è
uno che, nonostante tutto, ha ancora fiducia nell’uomo perché ha fede in Dio, il Dio fatto uomo
in Gesù Cristo. Crede ancora che nel cuore di ogni persona, anche quella in difficoltà, ci sia
una capacità di compassione e di solidarietà inesplorata e inestinguibile, una capacità d’amore
che nessuna crisi economica può uccidere, perché imparata dal Figlio di Dio, un Dio dalla
parte dei poveri.
                                                                                                                              Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Una specie in via d’estinzione?

Ai lettori

Quando qualcosa va male, normalmente, si incolpa il tempo o il governo. Ma con chi prendersela
se i primi mesi del 2012 sono stati tempi di mietitura per sorella morte che ha
presentato il biglietto di ritorno a Casa a un buon numero di missionari (8) e missionarie
della Consolata (5)? Tredici in meno di due mesi sono tanti! Tutte persone che hanno dato
molto, anzi, tutto per la missione.
Penso a questo mentre sento il mio superiore generale commentare le statistiche dell’Istituto. A
fine 2011 i missionari della Consolata erano in tutto poco più di mille, di cui italiani solo 364, con
un’età media di sessantasei anni. Ora sono solo 356, di cui uno studente di teologia e un novizio.
E mi guardo intorno. Tanti di questi 356 sono ora in Italia, consumati da anni di vita spesa senza
pensare a se stessi, bisognosi di cure e assistenza e un po’ sconsolati nel vedere che non ci sono
giovani italiani a cui passare il testimone. «Eppure», dice un missionario novantaseienne, «la vocazione
missionaria è la più bella di tutte. Dovessi rinascere, vorrei ancora essere missionario».
Chissà se rinascendo oggi in questa nostra Italia, davvero rifarebbe la scelta di essere missionario!
Non sembra proprio una delle scelte più di moda.
Il 29 aprile sarà la giornata di preghiera per le tutte le vocazioni, in particolare quelle sacerdotali
e di vita consacrata. Occorre pregare affinché ogni cristiano risponda con generosità alla sua
specifica vocazione e perché ogni vocazione, specialmente quella al sacerdozio, sia veramente
missionaria. La missionarietà – direbbe il beato Giuseppe Allamano – è la perfezione del sacerdozio.
C’è bisogno di chiedere a Dio – non solo il 29 aprile – che «mandi operai nella sua vigna»,
perché troppi vignaioli hanno già superato l’età della pensione da un pezzo e non ce la fanno più.
In Italia siamo ancora privilegiati. Secondo le statistiche c’è ancora un sacerdote ogni 2.000 abitanti
circa (ogni 1.250 se contiamo anche i preti religiosi). In più, la domenica, abbiamo solo l’imbarazzo
della scelta per andare a messa. Però la situazione sta cambiando rapidamente. «La
chiesa cattolica [in Italia, ndr.] non è mai stata così forte, non ha mai avuto un consenso così ampio
(anche tra chi non crede). Eppure si avvia verso l’estinzione: per mancanza di preti. Lo dice
uno studio socio-demografico della Fondazione Agnelli, benedetto dai vescovi italiani», così
scriveva Gianni Barbacetto nel suo sito nel 2009. La situazione non è certo migliorata oggi, a tre
anni di distanza.
Che fare? Disperarsi? Rassegnarci? Ovviamente niente di tutto questo. La Chiesa è passata anche
attraverso crisi peggiori durante due millenni di storia e continua a vivere e rinnovarsi perché
è opera di Dio e non di uomini. Ciò non significa che dobbiamo starcene con le mani in mano
in attesa che faccia tutto Dio. Certamente è Lui che chiama e manda, ma ha bisogno della nostra
collaborazione. Le vocazioni non è un affare del Vaticano o dei vescovi, ma della Chiesa e quindi
«mio» in quanto sono cristiano. La «mia» Chiesa ha bisogno di sacerdoti, religiosi, suore, ministri,
catechisti, animatori e missionari per vivere, celebrare e annunciare. Una Chiesa locale che
non ha più vocazioni deve davvero interrogarsi sulla qualità della sua vita di fede, chiedersi se
l’evento della risurrezione di Gesù abbia in essa ancora la forza rivoluzionaria delle origini, se
sia ancora vissuta come una «buona notizia» per cui vale la spesa lasciare tutto e andare fino
agli estremi confini del mondo per condividerla con tutti. Non è forse che siamo diventati tutti un
po’ idolatri, schiavi del nostro benessere e quindi incapaci di quella gratuità e abbandono fiducioso
che il «vieni e seguimi» di Gesù richiede?
Aprile è tempo di Pasqua, memoria della resurrezione del Signore, la «buona notizia» che continua
a cambiare il mondo e la nostra vita. Diventiamone giorniosi testimoni! Allora i missionari non
saranno più una specie in via di estinzione.
Buona Pasqua.

                                                                                                                               Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Attenzione contro indifferenza

Il messaggio quaresimale del Papa è finalmente arrivato, anche se all’ultimo minuto, pochi
giorni prima della Quaresima. Il tema è preso dalla lettera agli Ebrei (10,24): «Prestiamo attenzione
gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone». Tre i punti
sottolineati: l’attenzione contro l’indifferenza, la reciprocità contro l’individualismo materialista,
lo stimolo al bene contro l’appiattimento e la mancanza di speranza.
Sono parole attualissime in questa nostra società di grandi brontoloni individualisti e senza speranza.
Cito abbondantemente dal messaggio con qualche povero commento per sintetizzare in
questa paginetta dell’editoriale un testo che merita di essere letto nella sua interezza (si trova facilmente
in www.vatican.va).
«Il verbo che apre la nostra esortazione (fare attenzione, ndr.) invita a fissare lo sguardo sull’altro,
prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti
alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il
disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la “sfera privata”.
Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura
dell’altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere “custodi” dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare
relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell’altro e a tutto il suo bene.
Il grande comandamento dell’amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere
una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in
molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell’altro un vero alter ego, amato in modo infinito
dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di frateità, la solidarietà, la giustizia, così come
la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore».
Quest’attenzione ci porta ad avere a cuore il bene totale dell’altro: fisico, morale e spirituale. È un
antidoto contro il «cuore indurito» che rende ciechi alle sofferenze e bisogni altrui. Presi dai nostri
problemi, dalla crisi economica, dalla morsa del gelo, dal degrado sociale e dalla paura, noi
tutti siamo davvero a rischio di ritrovarci col cuore «indurito», cieco ed intristito. «Non bisogna tacere
di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per
semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri
fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene».
Per reagire a questa situazione occorrono reciprocità e solidarietà. L’«attenzione» è dare e ricevere,
scambiarsi doni, aiuto, sostegno, stimoli. Diventa gareggiare nel bene, rallegrarsi e ringraziare
dell’azione di Dio in mezzo agli uomini. «I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia,
vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò
significa che l’altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza.
Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione: la nostra esistenza è correlata
con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche
una dimensione sociale».
Da ultimo il Papa ci invita a «stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone: camminare insieme
nella santità». Sembra quasi un invito assurdo in questo nostro mondo, parlare addirittura
di santità in tempi in cui si fa fatica a vedere oltre il muro di neve che ci circonda, in cui si è persa la
capacità di sognare e il sopravvivere sembra la regola principale.
«Prima santi», diceva il beato Giuseppe Allamano. Puntare alla santità oggi non vuol dire essere
persone che vivono fuori del mondo, ma essere in questo mondo con una carica di speranza, di
energia, di rinnovamento unica. È una carica che fa reagire all’appiattimento, alla mediocrità, alla
disperazione. Rende capaci di ottimismo, «fa gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere
buone». Non per buonismo, ma per sete di giustizia, di solidarietà, di un nuovo modo di fare politica,
di nuove relazioni dove la persona e non il profitto sia al centro, perché la persona è immagine
di Dio. Vivere da santi è allora vivere, non semplicemente lasciarsi vivere.

                                                                                                                                         Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Pensare alternativo

Ai lettori

Due nonni sprint hanno scritto questo messaggio  natalizio  e di fine anno ai propri nipoti.
«Quest’anno vogliamo farvi un regalo in più: un po’ di fame, anzi tanta fame.
Fame di conoscere e di sapere;
fame di guardare al di là del corto orizzonte  delmondo che vi circonda;
fame d elevarvi sopra le idee ristrette che predominano nelvostro am bie nte;
fame d superare il”fanno tutti così”, il”tanto non c’è niente da fare” e il”non t occa a me” ;
fame d mettervi in gioco ogni giorno fino alla fine dei vostri  giorni;
fame d sottrarvi alla logica dell’arrivismo, dei soldi,  dell’individualismo;
fame d far prevalere ildiritto degli altri, soprattutto dei deboli e degli ultimi, sulvostro diritto;
fame d mettere davanti a tutto  ilBene Comune e non ilvostro personale;
fame d lasciarvi  escludere perché non volete conformarvi alle idee degli altri, del gruppo;
fame d ideali grandi, che vi diano la libertà e la felicità del cuore;
fame d Dio e della sua Parola, che nutra la vostra libertà, sete di giustizia  e bellezza. Elevatevil Diventate autonomi, anticonformisti, liberil Siate voi stessi l Sempre.
Oggi facciamo memoria della nascita di Dio: Dio si fa carne, diventa uno di noi, uomo come noi.
Vi liberi  dalle catene della pigrizia,  degli stereotipi e dei pregiudizi, della acriticità.
Vi doni la Sapienza, cioè l’Intelligenza, la capacità di partire dalpassato per leggere ilpresente e progettare ilvostro futuro.
Vi accompagni in scelte e in azioni sempre  positive. Questo è l’augurio che vi fanno i vostri  nonni».

Questo messaggio è stato scritto dai due nonni  dopo aver rimuginato con un po’ di amici sul primo  dei cosiddetti «dieci comandamenti» delBeato Giuseppe Alla mano: «Elevatevi ald i sopra delle idee ristrette delvostro ambiente».
Ne è venuta fuori un’interessante attualizzazione.
Mentre  scrivo, all’inizio di dicembre, ilnostro paese sta vivendo le ore traumatiche del decreto
«Salva Italia» in un misto di rassegnazione e rabbia e puntate secessioniste. Nelmondo… Avevo scritto qui una lunga lista di situazioni difficili che marcano  ilnostro tempo:  troppe e fin troppo facili  da elencare. L.:ho cancellata. Credo che tutti siamo  ben coscienti  delmomento diffici­ le per ilnostro paese e per l’umanità, anche senza altre parole superflue.
Non abbiamo bisogno di compilare liste, ma di reagire a questa situazione per non farci appiattire dalla mancanza di speranza,  dall’apparente ineluttabilità degli eventi e dalbla-bla dei politici. C’è bisogno dawero di «elevarsi aldi sopra delle idee ristrette delnostro ambien  e»
nuare a vivere e sognare e diventare soggetti  non vittime della nostra storia.  E vero, ci vogliono misure tecniche,  politche ed economiche per uscire dalla crisi in cui ci troviamo, ma queste da sole non bastano. Occorre cogliere questo tempo per fare delle riforme dentro noi stessi, nelno­ stro modo di pensare, relazionarci e agire. La crisi richiede ed offre la possibilità di un profondo rinnovamento della persona e delsuo  modo di vivere. C’è bisogno di un uomo nuovo più solidale, più sobrio, più responsabile, capace di fare ilcammino della vita a piedi e non comodamente se­ duto in macchina  brontolando nella mega-coda della vita.
Questa crisi  può essere l’occasione per riscoprire le dimensioni più vere della nostra umanità, per vedere con occh i e cuore nuovo ilnostro vicino, per inventare nuove forme d i solidarietà e costrui­ re ponti invece che trincee,  per approfondire la valenza rigeneratrice del dono della fede che sca­ tena la nostra carità e alimenta la speranza,  per liberarci dall’invasione delle cose che occupano ogni angolo di casa nostra ed anche i nostri pensieri. Pensare alternativo, pensare fraterno, pen­ sare «divino»: si può, cogliamo l’occasione.
Buon 2012.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Dare per ricevere

Editoriale

Trattati da «re»! C’è un tempo dell’anno in cui quasi tutti gli adulti sono considerati dei «re», non perché si mostri loro più rispetto, ma perché sembra scontato che possano spendere da «re», come i Re Magi di evangelica memoria, o il Babbo Natale globalizzato dalla pubblicità. A Natale, anzi molto prima, tutti mirano alle tasche del «re»: spendi, compra, dai, regala, fatti il regalo, occasioni, offerte… una girandola inarrestabile e irresistibile: cassette della posta piene, pubblicità televisiva martellante, babbi natale e sculettanti «babbe» natale che ammiccano da cartelloni pubblicitari o avvolgono i mezzi pubblici.
In quest’orgia di sollecitazioni ecco che s’inserisce anche la voce dei poveri: gridata dalle grandi organizzazioni inteazionali che li contano a milioni, sfruttata da chi su di essi ci fa la cresta nascondendosi dietro a miriadi di sigle accattivanti, sussurrata da chi con i poveri davvero ci vive e li conosce per nome.
Noi di Missioni Consolata, con i nostri missionari e missionarie sul campo, vorremmo essere la voce di chi i poveri li conosce per nome, con i poveri vive e con essi condivide l’insicurezza, la paura, il pianto, il dramma della fame, l’abbruttimento dell’ignoranza, la violenza della guerra.
Il sogno di ogni missionario è quello di potersi dedicare completamente alla lode di Dio, all’annuncio della Parola, alla celebrazione della vita e della gioia di una comunità che cresce nella pace. La realtà è invece ben altra: ha a che fare ogni giorno con le sofferenze di chi è marginalizzato, discriminato, tagliato fuori da sanità ed educazione, sfruttato e sottopagato, costantemente malnutrito, violentato da guerre e ignorato. Lui, l’uomo della Parola e dell’Eucaristia, deve allora farsi mendicante in favore della gente che ama, dare voce a chi non ha voce, rompere amici e uomini di buona volontà che vivono in un mondo dove la povertà degli altri dà quasi fastidio perché percepita come una minaccia o una seccatura in più in questo contesto di crisi economica, di sfascio politico, di fine del sogno di poter vivere al di sopra dei propri mezzi.
È per amore dei poveri con cui abbiamo a che fare ogni giorno che come missionari continuiamo a bussare al vostro cuore e lo facciamo in modo particolare in questo tempo di Natale. Sono tempi di magra anche in Italia. Ma se soffriamo noi, i poveri soffrono ancora di più, perché il loro livello di vita era già allo stremo da tempo. Sicuramente oggi siamo tutti a corto di soldi, ma non dovremmo essere a corto di cuore. Condividere quando si ha il sovrappiù forse è facile (certo non per la «casta»!). Condividere quando si è in difficoltà, richiede grande amore. Un amore così è un segno di speranza, è una dichiarazione di fiducia, è attestare che l’Umanità non è morta.
Per questo Natale l’appello principale è quello della fame nel Coo d’Africa (vedi reportage a pag. 49-53), una situazione che non si corregge in pochi giorni: l’emergenza durerà almeno fino a febbraio 2012. Ma accanto a questo ci sono tutte le altre opere di ordinaria carità soprattutto nel campo della sanità e dell’educazione. A gennaio 2012 comincia il nuovo anno scolastico in tutta l’Africa e in diversi paesi dell’America Latina: rette scolastiche, divise, libri, materiale didattico, strutture di accoglienza, cibo per i collegi… le adozioni a distanza (sia tramite la nostra onlus/ong, che attraverso gruppi e onlus/ong che sostengono i Missionari della Consolata nel mondo) sono un aiuto essenziale per dare continuità ad un servizio educativo che ha bisogno di tempi lunghi.
«Date e vi sarà dato, una misura colma, abbondante…». Le parole di Gesù non sono vane. Se state pensando a come vivere il Natale, pianificando i regali da fare, le vacanze da far stare dentro i bilanci sempre più magri… non dimenticate i poveri. Vi ritoerà tutto con gli interessi. Grazie.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Pace in terra …

«E questo l’annuncio degli Angeli che, 2000 anni fa, accompagnò la nascita di Gesù Cristo (cfr. Lc 2,14) e che sentiremo risuonare giorniosamente nella santa notte di Natale, quando verrà solennemente aperto il Grande Giubileo. Questo messaggio di speranza che giunge dalla grotta di Betlemme vogliamo riproporre all’inizio del nuovo Millennio: Dio ama tutti gli uomini e le donne della terra e dona loro la speranza di un tempo nuovo, un tempo di pace. Il suo amore, pienamente rivelato nel Figlio fatto carne, è il fondamento della pace universale. Accolto nell’intimo del cuore, esso riconcilia ciascuno con Dio e con se stesso, rinnova i rapporti tra gli uomini e suscita quella sete di frateità capace di allontanare la tentazione della violenza e della guerra».
Così scriveva Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace dell’anno 2000, all’inizio del terzo millennio. Sono parole che mantengono tutta la loro attualità anche alla fine di questo 2011 che è stato così pieno di speranza e disperazione e sembra concludersi all’ombra di nuove minacce di guerra. Ho provato mentalmente a ripercorrere gli avvenimenti di morte che hanno segnato quest’anno. È una lista impressionante: terremoti, guerre, attentati, fame, crisi politica, crisi economica, alluvioni, l’ostinazione dei dittatori, licenziamenti, insicurezza, dimostrazioni violente… Da far dire «basta con 2011»! Ho poi pensato alle positività, agli avvenimenti che incoraggiano e danno speranza. Ne ho vissuti diversi a livello personale: è una lunga lista, ma non voglio tediarvi col mio particolare. Di quelli più universali ne ricordo alcuni, a caso: la nascita del nuovo Sudan, la primavera araba, la giornata della gioventù a Madrid, la bella solidarietà da gente a gente nelle calamità, la generosità contro la fame, l’incontro di Assisi…
Ecco, l’incontro di Assisi! Ci riporta al tema della pace, dono del Dio fatto Uomo e proposta d’impegno della Giornata della Pace all’inizio del nuovo anno. «Educare i giovani alla Giustizia e alla Pace» è il tema del 2012.
Educare alla pace: è una sfida per tutti. Si educa alla pace vivendo la pace. Ma come si possono educare i giovani alla pace se noi non la viviamo? E come possiamo viverla se non viviamo la fede in Colui che «la nostra Pace»? Papa Benedetto, ad Assisi, ha detto con forza che usare la fede cristiana per giustificare la violenza, l’esclusione, le barriere e le segregazioni, «è una vergogna», è «un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua natura. Il Dio in cui noi cristiani crediamo è il Creatore e Padre di tutti gli uomini, a partire dal quale tutte le persone sono tra loro fratelli e sorelle e costituiscono un’unica famiglia. La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l’altro e l’amare con l’altro. Il suo nome è “Dio dell’amore e della pace” (2 Cor 13,11)».
Per educare alla vera pace è necessario allora ritornare alle radici della fede, perché la pace può essere davvero accolta e vissuta solo da quelli che vivono per piacere a Dio. Qual è il sacrificio davvero gradito a Dio? Fare la sua volontà, con cuore puro. «Questa è la volontà del Padre mio, che vi amiate… Questo vi comando: amatevi come io vi ho amato».
Una visione troppo idealista e spiritualista? Forse. Ma se davvero provassimo a vivere quello che diciamo di essere, a passare dall’apparire all’essere cristiani (di/in/con/per Cristo), dal relegare la fede alla chiesa al viverla nel quotidiano senza paura del prezzo da pagare e senza i compromessi del politicamente corretto, allora sì, la pace avrebbe davvero la possibilità di prevalere in questo mondo.

Pace in terra agli uomini in cui Dio si compiace…
Buon Natale e che la Speranza che è nel nostro cuore diventi amore e giustizia vissuta nel quotidiano dell’anno che viene.

Gigi Anataloni