Un sogno da bambini

Ho visto una recita. Una storia di
Natale, interpretata da bambini di un asilo multietnico.
C’è Giuseppe, il falegname che mette tutto il suo impegno a martellare un
chiodo ostinato a non entrare. Un Giuseppe pieno di attenzioni, con un bastone
in mano, troppo lungo per lui, alla guida di un asino bambino, troppo piccolo
per portare qualcuno. Giuseppe accompagna la moglie incinta tra il rifiuto
gridato degli osti e lo sguardo cipiglioso di soldatini altrimenti sorridenti
nelle loro scintillanti uniformi.

Maria è una bambina bellissima, piena di dignità, cosciente del suo
ruolo nei bei vestiti di seta e con il velo azzurro splendente. Certo, Maria
deve essere bellissima.

In un angolo, attorno a un fuoco di carta rossa, fanno finta di
dormire i pastori e anche gli agnelli bambino, mentre entrano gli angeli,
saltellanti come passeri, le alucce posticce, per annunciare loro la nascita
del piccolo Gesù a Betlemme.

E subito Gesù entra in scena, correndo leggero nella sua bella
tunichetta di seta bianca e con una corona dorata sul capo. Un Gesù un po’
birichino, che sorride a tutti mentre affettuosamente gratta le orecchie della
pecora bambino che ha abbandonato il suo capo su di lui.

Di colpo la musica cambia. Arrivano tre carovane: una dall’Africa, una
dall’Asia, una dall’Europa. Tre re e la loro scorta. Bambini d’ogni popolo e
nazione portano doni al piccolo Gesù. Offrono frutta, dolci, cibo, tamburi e
musica e tanti sorrisi di innocenza.

E accade il miracolo. Gli osti aprono il cuore. I soldati depongono le
armi. I pastori offrono la loro buona volontà. I re s’inginocchiano davanti a
un bambino, re del mondo, in un pellegrinaggio di pace. Sono davvero di paesi,
razze e lingue diversi, uniti da un unico cuore, semplice, giornioso e innocente.
Bambini capaci di rendere vero un sogno d’amore.

Era solo una recita di Natale, solo un teatrino dei piccoli.
Ho desiderato fosse il teatro dei grandi.
Ho sperato fosse la storia di oggi.
Ho sognato tanto che gli adulti diventino di nuovo bambini.
Buon Natale!

In cauda venenum.
Il 23 ottobre scorso, su La Stampa a pag. 22, un articolo a tutta pagina
conclude così: «In Africa oggi non c’è bisogno di missionari ma di giustizia
sociale». Tale frase ha fatto saltare la mosca al naso a un vecchio missionario
che mi ha segnalato la perla. Ho cercato l’articolo, l’ho letto e l’ho trovato
buono. Quasi tutto, eccetto il finale. Che l’Africa abbia bisogno di giustizia
sociale è verissimo, ma affermare – anche solo implicitamente – che i
missionari sono l’opposto di essa, è una grande ingiustizia e un’offesa
gratuita. Da molto tempo ormai i missionari sono tutt’altro dal buonismo
consolatore che insega alla gente a sopportare anche le violenze più grandi con
rassegnazione. Anzi, questo l’hanno fatto solo nella letteratura faziosa di un
certo laicismo di moda. Ché? I missionari si farebbero ammazzare in nome di una
carità pelosa? «L’impegno per l’Africa non va visto come carità pelosa:
si tratta di semplice restituzione», è scritto nella penultima frase
dell’articolo. L’ultima è quella già citata. In cauda venenum. Così
dicevano gli antichi, «il veleno (è) nella coda».

Dispiace che per promuovere le proprie iniziative qualcuno ceda alla
tentazione di denigrare quelle degli altri. Se scegliere di vivere in mezzo ai
più poveri del mondo condividendo con loro l’insicurezza, i pericoli, le
malattie, il cibo e anche il cimitero è carità pelosa, lo lascio giudicare a
voi.

Benvengano imprenditori, finanzieri, industriali e politici che si
impegnano in Africa coscienti di dover «restituire» a un continente derubato da
tempi immemorabili (Indiani, Arabi, Egiziani e Romani derubavano il Continente
nero ben prima di Cristo!). Sarebbe solo giustizia. Per questo non c’è bisogno
di opporre giustizia e missionari. Anzi, forse sarebbe il caso di andare a
leggere quanto i missionari, da un paio di secoli in qua, hanno scritto e
continuano a scrivere sulla dignità dell’Africa, i diritti dei popoli,
l’esigenza di giustizia e il dovere di riparazione.

Ancora Buon Natale a tutti voi e grazie di cuore
per il vostro affetto e sostegno alle nostre missioni.

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Gigi Anataloni




Dalla Consolata al mondo

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Questa frase è stata molto usata per spiegare la vocazione dei missionari e missionarie della Consolata, il cui Dna viene dal cuore della Madonna, patrona di Torino, sì, ma madre dell’umanità. Va ricordato che il quadro torinese, nascosta sotto la coice, porta la scritta «Sa Maria de Pplo de Urbe», Santa Maria del popolo dell’Urbe, perché copia di quello venerato nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, a sua volta copia di un’altra icona attribuita addirittura a San Luca. I torinesi fecero presto sparire quel «de Urbe», e nel 1714, trecento anni fa, acclamarono Maria Consolatrice come patrona del «popolo di Torino», e cominciarono a chiamarla «Consolà», complice l’affettuosa familiarità del dialetto che aborre nomi lunghi. La Consolata, che non si lascia ingabbiare o privatizzare da nessuno, non volle restare proprietà dei torinesi, e a fine Ottocento cominciò a viaggiare oltre oceano con i molti emigranti piemontesi diretti in Argentina. Ma l’universalizzazione ebbe il suo momento forte quando la Consolata stessa - lo testimonia il beato Allamano - «forzò» la mano al suo «tesoriere» a fondare un istituto, anzi due, totalmente dedicati all’evangelizzazione dei popoli. Da quel giorno la Consolata è diventata irrevocabilmente cittadina del mondo.

La parabola della Madre di Dio venerata sotto il nome di Consolata offre spunti forti al nostro essere cristiani oggi. Certo, Maria, la madre di Gesù, è cittadina del mondo anche senza essere «la Consolata». Però quel nome «Consolata» ha in sè una intrinseca forza missionaria. La Madre di Dio è anima della missione  fin dal giorno di Pentecoste e non può essere consolata se non da chi diventa «consolatore»: costruendo la famiglia di Gesù, «fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri», la pace dove c’è guerra, la gioia dove c’è paura, libertà e amore là dove c’è sfruttamento e schiavitù, amore dove c’è abbandono e odio. Lei è davvero Consolata solo quando i fratelli e le sorelle di suo Figlio vivono davvero la loro vocazione di essere «famigliari di Dio e cittadini del cielo». Osservando il mondo in cui viviamo, scorrendo le statistiche circa le vocazioni missionarie, vedendo le nostre chiese sempre più vuote, sperimentando il materialismo più dilagante, viene anche da chiedersi se la Consolata si sia stufata di Torino e dell’Italia; se come ha lasciato Roma tanto tempo fa per incontrare persone nuove altrove, così anche oggi non sia alla ricerca di «consolatori» in altre parti del mondo, pronta a mostrarci grosse sorprese... A meno che non ci svegliamo, qui nella nostra bella Italia drogata dal benessere, e torniamo a guardare a Colui che lo sguardo e la mano della Consolata continuano ad indicarci. Ci vuole poco, lasciamoci aiutare da lei.

Gigi Anataloni




Una bussola per L’Europa 

Questo editoriale è sottoscritto dalle testate missionarie italiane
aderenti alla Fesmi (Federazione della
Stampa Missionaria Italiana
) tra cui anche Missioni Consolata.

Oggi la percentuale degli europei che
non hanno fiducia nel parlamento comunitario supera di 8 punti quella di coloro
che invece ne hanno. Solo qualche anno fa gli estimatori erano oltre il 30% in
più dei detrattori. Ancora più accentuata è la perdita di fiducia nei confronti
della Commissione, del Consiglio e soprattutto della Banca centrale.

Eppure a Bruxelles si decidono le sorti di mezzo miliardo di cittadini
di 28 paesi. Scegliere una lista e individuare un candidato da votare, quindi,
non possono essere atti stanchi e inconsapevoli.

Il voto del prossimo 25 maggio è lo strumento – l’unico – in nostro
possesso per indicare un nuovo percorso, per incamminarci sulla strada di
un’altra Europa: quella dell’eguaglianza, dei beni comuni, dell’accoglienza,
della pace.

Per questo, come riviste missionarie, riteniamo
che i rappresentanti eletti a Strasburgo e Bruxelles debbano avere a cuore
almeno cinque grandi tematiche: gli Epa (Accordi di partenariato economico);
la pace e il commercio delle armi; l’emigrazione e l’immigrazione; la
cooperazione internazionale e il volontariato; la libertà religiosa.

1. Con gli Accordi di
partenariato economico
, l’Ue chiede ai paesi Acp (Africa, Caribi, Pacifico)
di eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio. Le
nazioni africane, togliendo i dazi e aprendosi alla concorrenza, permettono
all’agricoltura europea, che vende i suoi prodotti a basso costo perché
sostenuta da denaro pubblico, di invadere i loro mercati, con conseguenze
potenzialmente drammatiche. Sono pertanto accordi da rivedere.

2. Per uscire dalla crisi,
Bruxelles vuole sostenere lo sviluppo delle capacità militari continentali, con
l’obiettivo di fare dell’industria armiera un volano economico. Una
scelta intollerabile per chi ricerca le vie del dialogo e del disarmo per
risolvere situazioni di tensione e ostilità. Ci vuole un nuovo modello di
difesa che trasformi l’Europa in una potenza di pace, a cominciare dalla
costituzione dei Corpi Civili di Pace europei, come forza d’intervento tesa
alla prevenzione e ricomposizione nonviolenta dei conflitti. I casi della Siria
e dell’Ucraina sono un monito per tutti.

3. Sui temi dell’immigrazione,
è urgente una riforma del regolamento di Dublino: introdotto nel 2003 per
chiarire le competenze dei singoli stati sulle domande di asilo politico, si è
rivelato uno strumento inadeguato e in contrasto con il principio di protezione
dei rifugiati. Più in generale, l’Europa deve dimostrare che quello
dell’accoglienza è tra i suoi principi fondativi.

4. A ciò contribuirebbe
l’omogeneizzazione delle legislazioni nazionali in tema di cooperazione.
L’Europa, tramite i suoi paesi, è il primo donatore per l’Africa. Ma spesso le
sue azioni sono dispersive, non legate a un progetto comune, e quindi poco
efficaci. La cooperazione deve diventare lo strumento principe per una politica
di pace che voglia garantire la convivenza e il benessere, nel rispetto dei
diritti fondamentali di tutti i cittadini e valorizzando il contributo gratuito
e volontario della società civile.

5. Infine, c’è il tema della libertà
religiosa
: parrebbe un diritto garantito e tutelato nel Vecchio Continente.
Invece ha bisogno di un buon restauro perché l’Europa non è immune da casi di
violazione della libertà di credo, di attacchi a membri delle minoranze
religiose sulla base delle loro convinzioni, e di discriminazioni per motivi
religiosi. La stessa attenzione che chiediamo alle istituzioni europee nei
confronti dei paesi non europei, la chiediamo anche nei confronti dei paesi
membri dell’Ue.

I candidati parlamentari attraverso i loro
programmi che manifestino sensibilità su questi temi, i cittadini attraverso la
scelta di tali candidati, possono far imboccare all’Ue la strada del
cambiamento.

Federazione Stampa Missionaria Italiana


Vedi anche

ecco alcune delle riviste che hanno già pubblicato questo editoriale:

Su la rivista Nigrizia

Su la rivista Popoli

Sulla rivista Africa

Su la rivista Andare alle Genti

Fesmi




Consumarsi fino all’ultimo 

«Famiglie». Questa è l’ultima parola
che ha scritto. Poi basta. Non aveva più niente da dare. Consumata fino all’ultimo.
Prima in Africa e poi in Italia, ha registrato pensieri, conferenze, prediche,
interventi, emozioni, critiche e arrabbiature, pensieri santi e programmi di
lavoro, numeri e parole. In quest’epoca digitale non capita spesso di assistere
a una fine così, dopo chilometri di parole scritte fino all’esaurimento totale.
La fine della mia penna biro. Gli ultimi giorni di carnevale, vigilia di
quaresima.

Quaresima, il tempo che si conclude con un
soffio: «Tutto è compiuto»! (Gv 19,30). Consummatum est! Le ultime
parole di Uno che ha dato tutto per amore. Non vogliatemene se oso mettere
vicini una vecchia biro e il Figlio di Dio in croce. Ma mi sento in buona
compagnia. «Io non sono che una piccola matita nelle mani di Dio», aveva
scritto Madre Teresa. La fine della mia penna, che ha servito fino all’ultimo,
mi ha un po’ emozionato e fatto pensare.

• All’Allamano, il beato che noi vorremmo presto
santo – come non lo fosse già -, che nel suo testamento ha scritto ai
missionari e alle missionarie: «Per voi ho dato tutto: impegno, salute, denaro,
vita. Spero, morendo di diventare vostro protettore in Cielo».

• Al mio compagno di noviziato, amico e fratello
in Italia e in Kenya, padre Giuseppe Ettorri, consumato dalla malattia a
sessant’anni, il 23 febbraio di quattro anni fa. Il tutto era esploso solo
pochi giorni prima, proprio il 16, giorno anniversario della morte del beato
Allamano.

• A suor Paolita, di cui a metà gennaio di
quest’anno ho benedetto il funerale, mia immancabile compagna di banco durante
la preghiera del mattino nella chiesa del beato Allamano, che è andata in cielo
a «esultare di gioia indicibile e gloriosa» avendo conseguito la Meta di tutta
una vita di fede e dedizione (cfr. 1 Pt 1,8-9 e Eb 12,2).

• A padre Giorda, di cui scriviamo questo mese, ripartito per il
Tanzania alla bella età di 87 anni, con in cuore un motto: «Punda afe, mizigo
afike!» (muoia l’asino, [purché] il carico [la Buona Notizia di Gesù] arrivi».

Pensieri arruffati. Molti i volti che
si affollano nel cuore. Persone che non hanno ancora finito di consumare il
loro inchiostro e persone che hanno dato tutto raggiungendo la Meta dopo una
corsa gagliarda, guardando in avanti. Questi ultimi mi ispirano una gioia
profonda perché sono giunti là dove avevano tanto desiderato arrivare, liberandosi
nel lungo viaggio di tutto il superfluo per acquistare il solo Tesoro (cfr. Mc
10, 21) per cui vale spendere la vita. Persone che nel loro cammino hanno
irradiato speranza, comunicato serenità, condiviso amore. Non «facce da
quaresima», ma piccole umili luci della Pasqua.

La Pasqua, memoriale dell’avvenimento centrale della nostra fede senza
il quale il Cristianesimo sarebbe solo una religione come tante, è ormai
imminente. Guardiamo a Colui che ha vinto la morte e il male consumandosi sino
all’ultimo per far trionfare la vita e l’amore. Ricarichiamoci di luce per
continuare a tracciare segni – seppur piccoli – di speranza, di coraggio, di
gratuità, di gioia e di frateità in un mondo avvolto dall’oscurità della
disperazione, della violenza, del sopruso e dell’avidità. Buona Pasqua.

Gigi Anataloni




Acqua, Pane & Olio

Quaresima. Con marzo entriamo ancora una volta in un tempo
speciale di grazia che ci offre l’opportunità di riflettere, approfondire e
cambiare in meglio la nostra vita di fede. è
un pellegrinaggio di quaranta giorni per il quale non sono necessarie molte
cose. Anzi, più il bagaglio è ridotto ai minimi termini, più il viaggio è
spedito. Cosa mettere allora nello zaino per questi quaranta giorni? Mi
permetto di suggerire tre cose: acqua, olio e pane.

Acqua. Nasciamo nell’acqua,
viviamo d’acqua, siamo fatti d’acqua. Il vino è giornioso, il vino fa festa, ma
senza vino si vive, senz’acqua no. Allora in questo tempo via il vino, le
bibite, gli aperitivi, i succhi e tutte quelle altre cose inventate per far
bene prima di tutto a chi le produce. Toiamo all’acqua, alle «chiare,
fresche, dolci acque», alla «sor’Acqua, la quale è multo utile et humile et
pretiosa et casta». No, non l’acqua della pubblicità. Piuttosto quella del
digiuno, della sobrietà ed essenzialità. Viviamo giorni in cui molti digiunano
non per scelta ma per necessità. Quello non è digiuno, è povertà. Occorre fare
del digiuno una scelta, non un’imposizione. Una scelta di libertà dal
consumismo, dallo spreco, dall’accumulo di cose inutili. Un impegno di
giustizia: sprecare, usare male dei beni di questo mondo, accumulare più del
necessario, vivere sopra le proprie possibilità, è un grande atto di
ingiustizia verso i poveri, gli sfrutatti e gli schiavizzati del mondo.

Pane. Quante volte ho desiderato il nostro buon pane quando ero in Kenya:
profumato, saporito, nutriente. Non c’è biscotto o torta che tenga di fronte al
buon pane fresco di foo. Ma non è questo il pane da mettere nel nostro zaino
per il viaggio quaresimale. è piuttosto
il pane della Parola e dell’Eucarestia, il pane della preghiera come incontro
giornioso col Padre. Il pane che ci rende commensali di Dio e ci fa riconosecre
la presenza di Gesù in mezzo a noi, il vero pane spezzato che nutre la nostra
vita. Mangiare la Parola: dare tempo all’ascolto, alla meditazione, al
silenzio.
Siamo circondati di parole, fino alla nausea: voci, rumori, musica, sussurri e
provocazioni, immagini e suoni, una cacofonia incessante. Non hai né spazio né
tempo per pensare, capire, interiorizzare. Un bombardamento. Per questo diventa
essenziale lo slow-food servito nella preghiera, nel silenzio,
nell’adorazione, nella celebrazione dell’Eucarestia. Occorre sbocconcellare il
Pane della Vita per non correre il rischio di essere come i discepoli che sulla
barca nella tempesta «non avevano ancora capito il fatto dei pani» (Mc 6,52;
8,17-18).

Olio. Di oliva naturalmente. Quello biblico, quello che anche Gesù
conosceva e usava. L’olio dà sapore al cibo, bellezza alle donne e forza agli
atleti. L’olio è consacrazione per i preti, segno dello Spirito per i
battezzati e balsamo per le piaghe dei feriti. Si consuma nelle lampade per
dare luce nella notte e cacciare oscurità e paure. L’olio è segno della carità
e dell’amore vigilante. Carità che è condivisione ed elemosina (cioè «atto di pietas»,
amore concreto per l’altro fondato sull’imitazione e restituzione dell’amore di
Dio), gratuità e dono, accoglienza e perdono, impegno e giustizia. E tanto di
più, perché la misura dell’amore si trova solo in Dio.

Non c’è niente di nuovo in quanto vi ho scritto.
La liturgia ci ricorda questa trilogia (preghiera, elemosina e digiuno) fin dal
primo giorno di Quaresima con la lettura di Matteo 6. A tutti un buon cammino
quaresimale. Viaggiamo leggeri, portiamo l’essenziale.

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Gigi Anataloni




Di viaggi e incontri… e anche di cresima e cani

Siamo un po’
tutti nomadi nel cuore. Emancipati dal vincolo dell’agricoltura di sussistenza
che ci legava indissolubilmente alla terra, abbiamo riscoperto quello spirito
nomade che fa parte del nostro Dna ancestrale. Che siano le uscite del fine
settimana, le vacanze estive o quelle invernali, sentiamo il bisogno di
muoverci, di uscire, di conoscere, di vedere: sempre più in là, sempre più
oltre. Per tantissimi invece muoversi non è una scelta, ma una necessità:
emigrare o morire. Interi popoli si muovono ancora oggi per questo. Per noi
Italiani è la fuga dei cervelli. Ma questo è vero non solo per noi: quanti
immigrati approdati sulle nostre coste hanno titoli universitari che non
possono investire nei loro paesi!

C’è invece chi si muove
per piacere e conoscenza. Un paio di secoli fa solo i ricchi potevano
permettersi il lusso di grandi viaggi, di esplorazioni avventurose. La gente
normale vi partecipava leggendone i libri. Così gli africani hanno conosciuto i
primi bianchi: esploratori, gente che andava in giro apparentemente senza una
meta precisa, wazungu appunto (quelli che vanno in giro), come dicono in
kiswahili, la lingua franca dell’Africa dell’Est. Oggi invece è turismo di
massa. Con un aereo si arriva agli antipodi in poche ore. Il mondo è alla
portata di tanti.

Quale incredibile
occasione di incontro, confronto e conoscenza, di creare nuove relazioni, di
aprire i propri orizzonti, di amare la mirabile varietà di facce della razza
umana, di incontrare persone vere. Eppure… quante occasioni perdute, quanta
superficialità, quanta fretta, quanti abusi e incomprensioni. Ci si incontra e
non ci si conosce; non ci si conosce e non ci si capisce; non ci si capisce e
non ci si ama. Dopo il viaggio restano i soliti stereotipi e le foto da
mostrare agli amici: io nel villaggio, io col leone, io col vestito afro, io
con le treccine a foggia indigena, io al mercato. Gli amici si annoiano e non è
cambiato niente.

Diventassero i nostri
viaggi occasione per conoscerci di più, quanti pregiudizi potrebbero cadere. Si
avrebbe il piacere di scoprire che siamo tutti «uomini» e non bestie strane o
alieni, nemici o minacce. Smetteremmo forse di parlare per slogan: «Gli
africani sono tutti…, gli albanesi, i romeni, i napoletani, i romani…». Gli
africani? Quali africani? Quelli del Marocco o del Sudafrica? I pastori Maasai
o gli agricoltori Kikuyu? I Pigmei dell’Ituri o i Boscimani del Botswana? Noi
stessi non amiamo essere classificati con generalizzazioni, soprattutto se
negative. Non vale lo stesso per gli altri? Verrà il giorno in cui parlando dei
nostri vicini potremo dire «il mio amico Li», invece de «i cinesi»; «il signor
Ali» invece de «i marocchini», «la mia vicina Klodiana» invece de «gli Albanesi»?
Sì, può venire. Basterebbe cominciare da cose semplici: farci un amico nuovo
ogni volta che andiamo in un posto nuovo e scambiarci qualche buona ricetta;
imparare una breve preghiera in lingua locale e magari andare a messa insieme
nella parrocchia del posto; conoscere un po’ della storia e cultura. Forse
basterebbero solo fantasia e cuore.

 —————–

Stavo
scrivendo queste poche righe, quando una suora è arrivata trafelata con un
bigliettino in mano: «In occasione della mia S. Cresima ho voluto fare un gesto
di amore donando al posto della bomboniera, pappa e cure ai miei amici a 4
zampe». «Non ho dormito tutta la notte», mi ha detto. «Come è possibile dopo
cinque anni di catechesi? Cosa hanno capito? E siamo in un quartiere dove oltre
un terzo della popolazione è a rischio di sfratto, ma con tantissimi cani e ben
curati. Abbiamo parlato con loro di servizio, di carità, di accoglienza, di
condivisione. E mi fanno la “cresima per i cani”! Devi scrivere qualcosa».

Cara sorella, che scrivo?
Lo sa che non è politicamente corretto dire che prima vengono le persone e poi
i cani e che se i cani stanno male è perché gli uomini stanno peggio. Forse
potrei solo constatare che è meno impegnativo risolvere i problemi dei cani che
quelli degli uomini.

Papa Francesco ha detto (il
5/6/2013
) che c’è bisogno di una ecologia umana, perché «la persona umana è
oggi in pericolo, … sacrificata agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura
dello scarto”». Così continuiamo a scrivere che non si tratta di fare una
scelta tra gli uomini e i cani, ma di amare «e l’uomo e il cane»!

Gigi Anataloni




GRAZIE

È una parola che da sola vale più di mille altre
scribacchiate a fatica. «Grazie» riassume tutto quest’anno vissuto insieme, e
anche il dono del Natale che ci prepariamo a rivivere e il nuovo anno che
aspettiamo tra timori e speranze. «Grazie». Una parola a volte così difficile
da dire. Perché detta col cuore richiede il rifiuto del «tutto (mi) è dovuto e
garantito» e l’apertura giorniosa al dono e alla gratuità. Allora…

Grazie per padre
Benedetto Bellesi che è arrivato alla méta del suo lungo cammino e per gli
altri 17 missionari e altrettante missionarie della nostra famiglia che negli
ultimi dieci mesi (gennaio – ottobre) sono stati accolti al Grande Banchetto di
tutti i popoli.

Grazie per tutti i missionari: preti, fratelli, suore e
laici, che in umiltà e fedeltà si mescolano come lievito nella pasta
dell’umanità per far emergere i segni del Regno. 

 Grazie a voi lettori,
parenti, amici e benefattori, sostenitori, membri di Onlus e Ong amiche, perché
anche in questo anno difficile ci siete stati molto vicini nonostante gli
obiettivi problemi economici, sociali e politici che tutti stiamo vivendo.
Grazie perché insieme a noi credete ancora che è possibile un mondo di condivisione,
di rispetto, di riconciliazione e pace, un mondo più giusto dove la vita sia
accolta, amata e rispettata, dove i popoli – nella loro diversità – possano
cantare insieme la meravigliosa sinfonia dell’amore di Dio che è Padre di tutti
e ha cura di tutti e di ognuno.

Grazie per il dono del Natale che ci offre la possibilità di
riscoprire il volto umano dell’amore divino. Un avvenimento che non solo ci
parla dell’amore «senza se e senza ma» di Dio, ma ci stimola ad «amare da Dio»
gratuitamente e liberamente, accogliendo coloro con cui Gesù stesso si è più
identificato: «poveri, orfani, vedove e stranieri».

Grazie anche per questi tempi difficili, per questa crisi
che ci offre un’occasione insperata – anche se dura – per ripensare il nostro
stile di vita. Non per tornare alla povertà di una volta, ma per recuperare
quei valori di umanità che abbiamo buttato via assieme alla povertà: sobrietà,
condivisione, semplicità, risparmio, tempo per stare insieme e far famiglia,
valorizzazione di risorse locali, cura dell’ambiente…

Grazie per il nuovo anno che viene, un nuovo dono della
pazienza di Dio, amante della vita, che non si è ancora stancato di noi e ci dà
altro tempo per crescere, capire e tornare a lui tornando agli altri,
raccogliendo soprattutto la sfida della giustizia e della pace, del perdono e
della riconciliazione nel mondo.

Da tutti i missionari e le missionarie della Consolata:
grazie a voi. Non vi mandiamo regali, non vi promettiamo favori. Vi assicuriamo
solo il nostro impegno a essere quello che il nostro Fondatore, il beato
Giuseppe Allamano, voleva che noi fossimo: dei canali di amore verso i più
poveri, più lontani, oppressi e dimenticati, e delle conche, non pozzanghere,
ma laghi, dove l’amore di Dio possa riversarsi in abbondanza per tutti. Pregate
per noi. Mentre chiediamo con insistenza il riconoscimento della santità del
beato Allamano, vorremmo davvero prima di tutto imitarlo nell’amore per Dio e
il prossimo.

Buon Natale e auguri per un 2014 benedetto.

Gigi Anataloni




Cultura di morte

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Qualche tempo fa il telegiornale ha presentato l’ultima tendenza in fatto di sballo giovanile: «L’alcolizzazione degli occhi». Non so se si chiami così. Lo sballo è assicurato con un processo molto semplice: ti anneghi gli occhi con un bagno di liquore forte. Il dolore è lancinante e il risultato tremendo. Risultati aggiuntivi: congiuntiviti, problemi oculari vari, danneggiamento della cornea, e via dicendo. Nonostante l’ovvia pericolosità dell’operazione, gli adepti aumentano ogni giorno, anche grazie ai folli video su youtube e ai post sui social network.

In testa mi si sono accavallate allora tante altre immagini: donne vittime della violenza e disagio maschile; ragazzi giovanissimi già alcolizzati; donne schiavizzate costrette a vendersi lungo le strade o nei bordelli più o meno clandestini; tatuaggi a gogo, piercing estremi e mode dark; giochi sempre più rischiosi, legittimati come nuovi sport; armi in regalo a bimbi piccolissimi; bambini nel ventre di miniere o incatenati a telai invece di essere sui banchi di scuola; contadini cacciati dalle loro terre accaparrate da multinazionali o altre nazioni; lavoratori lasciati a casa; fabbriche chiuse; giovani sfruttati; giochi di borsa che dissanguano nazioni... una lunghissima lista di morte con cui tutti abbiamo a che fare ogni giorno, olocausto al dio denaro, ricchezza e potere, l’antico Mammona che non demorde mai. Un dio che ha niente da spartire con il Dio di Gesù Cristo fatto di misericordia, giustizia e pace, paladino di uguaglianza, accoglienza e rispetto per ogni uomo e tenerezza soprattutto per i più piccoli e poveri.

La lista, forzatamente parziale, ben evidenzia come questa cultura di morte abbia molte facce e si adatti alla persone più diverse. Sta cambiando le nostre leggi, trasformando le tradizioni, rivoluzionando la cultura, delegittimando la pietà, la compassione, la sofferenza, l’onesto lavoro, la cultura della solidarietà, la tolleranza e l’accoglienza dell’«altro». Rende normale quello che era considerato «non normale» dalla stragrande maggioranza delle persone e dei popoli. Proclama la libertà di pensiero, ma è intollerante con chi non la pensa alla stessa maniera, soprattutto in termini di vita, famiglia e sessualità. Appiattisce tutto e tutti e rende il «tutti fanno così» la suprema regola di vita. Si alimenta di slogan e spot, trasforma le tragedie in spettacolo e lo spettacolo in realtà. Viaggia a suon di sondaggi e si adatta al mutare delle emozioni. Si alimenta dei riti di fine settimana - mare, montagna, centri commerciali, avvenimenti sportivi - che massificano l’individuo e rendono noiose le vere celebrazioni, come la messa domenicale e il pranzo in famiglia, che invece costruiscono comunità e offrono spazi di ascolto e interiorizzazione.

Mi rendo conto che ci vorrebbe molto più delle frasi provocatorie di un editoriale per decodificare l’enorme montagna di falsità che ci circonda e vuole rendere superfluo ogni riferimento a Dio, privata l’esperienza spirituale e folcloristica la religione. Una piccolezza mi ha fatto pensare molto: la notte di Pasqua, nel buio della chiesa, il cero pasquale era ben visibile a tutti, mentre di giorno, alla luce del sole, quella fiammella era quasi invisibile. Mi sono chiesto perché mai la Chiesa abbia affidato a un simbolo così debole una valenza così forte: quella di rappresentare la dirompente vittoria della Vita sulla morte, della Luce sulle tenebre, del perdono sulla vendetta.

Ho pensato che l’annuncio del Vangelo non si impone mai col rigore delle leggi, il potere suasivo della pubblicità, la forza delle armi, la seduzione del denaro, l’ebbrezza del potere, la fragorosità del tuono. è invece una piccola luce, invisibile nell’abbagliante mare dell’esteriorità, ma chiarissima nel silenzio dell’ascolto interiore, nell’amore fatto servizio, nella fedeltà senza ricompense, nella gratuità del volontariato, nel «bene fatto bene e senza rumore». Un annuncio affidato alla fragilità di uomini che credono e, pur nella loro debolezza, rendono credibile il Vangelo nel quotidiano. Scriveva Rosario Levantino, citato da Don Ciotti su La Stampa del 9/5/2013: «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo credibili».

E' questo il segreto della Missione: uomini e donne credenti che danno «ragione della speranza» (Luce) che è in loro pagando di persona sia ai «confini del mondo» che nell’anonimato del vissuto quotidiano, «interferendo» («il parlar chiaro che è contrario all’ipocrisia», dice Don Ciotti) nella cultura di morte con scelte di vita e gratuità.

Gigi Anataloni




Forte Tenerezza

Nell’editoriale dello scorso mese esprimevo l’aspettativa
che lo Spirito Santo ci sorprendesse con un papa inedito, secondo il cuore di
Cristo. Lo Spirito ci ha ascoltati. Anzi, ha aggiunto sorpresa a sorpresa: ci
ha dato il papa della tenerezza. E questo è davvero una specie di nemesi
storica. Papa Francesco viene da un continente dove il Vangelo, soprattutto nei
primi secoli, è stato imposto più con la forza delle armi che con la
testimonianza dell’amore e ora, proprio quel continente dona alla Chiesa
universale un testimone della tenerezza di Dio. Mi sembra bellissimo.

Voglia di tenerezza. Era il titolo di un film del 1983 di J. L. Brooks.
Abbiamo tutti bisogno di tenerezza e misericordia. Questo papa ci sta facendo
capire la bellezza e la forza della tenerezza di Dio: un padre che sente
come una madre (vedi la parabola del «padre misericordioso» in Luca). E questo
mi riporta alla mente ricordi lontani. Forse maggio 1955. Ho appena quattro
anni. Mio padre è in ospedale da mesi. Una sera ritorno a casa dall’asilo. La
strada in salita è inondata dal sole al tramonto. All’improvviso dal grande
portone della cascina mezzadrile esce un uomo, nera siluette nel sole
accecante. è lui! Corro,
lasciando indietro i cuginetti. «Ubà!» (babbo). E sono nelle sue braccia. Gioia
indicibile. Il ricordo di una tenerezza che non mi lascia più. Spalle forti da
contadino, braccia muscolose come un pugile, mani callose che potevano
immobilizzare un toro per le coa ma si rifiutavano di dare una pur dovuta
sculacciata per timore di far troppo male. La forza e la tenerezza di un padre.

Papa Francesco con le
sue parole e la sua gestualità riporta la tenerezza nel cuore della missione
della Chiesa. La gioia raggiante sul volto di un ragazzo disabile offerto
all’abbraccio del papa in Piazza san Pietro parla della tenerezza di Dio mille
volte di più di tanti dotti documenti o liturgie sontuose. E davvero il mondo
di oggi ha tanta «voglia di tenerezza», tenerezza che è mettere al centro la
persona, è offrire attenzione all’altro, aiuto al povero, accoglienza allo
straniero, servizio all’ammalato, accompagnamento nel recupero al carcerato,
compagnia e aiuto all’anziano, protezione al bambino e molto altro, senza
limiti alla fantasia e alla creatività.

Papa Francesco sta aiutando tutta la Chiesa a ricuperare
questa dimensione divina dell’amore, infangata dalle tristi storie di pedofilia
che hanno offuscato quelle di dedizione e servizio di milioni di cristiani e
tantissimi sacerdoti, religiosi e missionari. La tenerezza di Madre Teresa, di
Giovanni XXIII, di Padre Pio, di Annalena Tonelli e di tantissimi altri, donne
e uomini, che hanno anche pagato con la vita il loro amore per gli altri, ha
aiutato un gran numero di persone a scoprire il vero amore di Dio, tenero e
forte, misericordioso ed esigente.

In questi anni si è prodotto
molto nel nostro mondo cristiano: documenti profondi, catechismi rinnovati,
traduzioni nuovissime della Bibbia, splendide riviste, pagine web, produzioni
cinematografiche e televisive; tutto materiale di altissima qualità. Con un
difetto forse: si è puntato troppo alla mente e poco al cuore. La gestualità
inedita e informale di papa Francesco riporta al centro il cuore e la persona.
La Chiesa missionaria sa bene quanto questo sia importante. è la testimonianza dell’amore vissuto
che conquista i cuori. Predicazione, catechesi e liturgia vengono dopo. Questo è
vero negli angoli più remoti del mondo come nelle parrocchie della nostra
Italia, dove la carenza cronica di preti rischia di ridurre gli stessi a
diventare funzionari del sacro e non a essere pastori che abbiano addosso
l’odore delle pecore.

Negli anni Sessanta
alcune delle mie sorelle lavoravano come «serve» in città. Toando a casa per
le feste o le ferie, si lamentavano con nostro padre perché puzzava di stalla,
dove conosceva ogni mucca per nome e loro conoscevano lui, anche da distante,
tanto che bastava il suono dei suoi passi per farle quietare. Oggi, invece,
nelle stalle ci sono troppe mucche, ognuna è un numero controllato a distanza,
schedato in un computer, e il «pastore» fa la doccia e non puzza più di vacca.
Almeno, così è nel nostro mondo. Ma là, alla «fine del mondo», da dove viene
papa Francesco, non è così. Il «pastore» conosce ancora le sue mucche/pecore
per nome, ne condivide l’odore, ne conosce i bisogni, le guida ancora nella ricerca
di pascoli erbosi e di acque fresche.

Grazie papa Francesco
per aver riportato la tenerezza di Dio al centro della vita e della missione
della Chiesa.

Gigi Anataloni




L’Attesa

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Aspettare. I primi giorni di marzo in cui scrivo sono i giorni dell’attesa: l’attesa di un nuovo papa, l’attesa del nuovo governo, l’attesa che in Kenya le elezioni si concludano senza un nuovo bagno di sangue. Ero ancora là, a fine 2007, quando in poche ore il paese fu travolto da un’ondata di violenza politica organizzata senza precedenti. Le notti illuminate dai bagliori rossastri dei roghi degli slum di Kibera, i bruschi risvegli ai colpi di arma da fuoco, gli incendi di chiese, le informazioni convulse, l’odio che come peste stava contagiando tutti, preti compresi, e insieme le scarne notizie di speranza, la resistenza dei pacifici, la solidarietà discreta di chi dava rifugio e salvezza a vicini di tribù «nemiche», e l’incessante preghiera di tantissimi, come quelli che si trovavano nella cappella dell’adorazione del Santuario della Consolata a Nairobi che mai chiuse le sue porte, anche nelle notti di grande paura… E le lacrime per le persone amate, di ogni tribù, coinvolte nella furia degli eventi. E l’impotenza di fronte a tanta pazzia. Sono ricordi che non mi lasciano. Come il grido-promessa: «Mai più!».

Attendiamo. Anche se vorrei poter scrivere subito che in Italia abbiamo un nuovo governo di persone che non fanno giochi di potere, ma davvero si curano del bene comune e della pace. E che lo Spirito Santo si è preso gioco delle mille elucubrazioni dei media e ci ha dato un papa a sorpresa, uno secondo il cuore di Cristo. E, infine, che in Kenya la gente ha dato una lezione di democrazia e partecipazione ai suoi politici arroganti e maneggioni e ha fatto una scelta di pace e stabilità.

L’attesa è speranza. L’attesa è fiducia nella parte migliore di ogni uomo. E allora il grido-promessa di cinque anni fa, «Mai più!», oggi diventa una preghiera. Mai più politici corrotti e corruttori. Mai più prelati che ragionano in termini di potere e di carriera. Mai più violenza per sopraffare gli altri, per vincere ad ogni costo, per imporre le proprie idee, per difendere i propri interessi. Mai più la vergogna di essere lo zimbello del mondo (basta provare a vivere all’estero per un po’!) perché italiano. Mai più una politica miope che costruisce barriere, che prende e non dà, che ragiona in termini di forza e armi invece che di giustizia, corresponsabilità e pace.

Se non credessimo in un mondo diverso, se non avessimo fiducia nell’uomo, in ogni uomo, se non amassimo questa nostra terra e gli italiani, con i quali in tutti questi anni abbiamo fatto e vissuto cose meravigliose e condiviso un grande cammino, dovremmo chiudere immediatamente questa rivista, che invece è una voce di speranza, di utopia, di universalità.

Non so quali saranno le sorprese del primo aprile, primo giorno di vita ufficiale di questo numero della rivista che è nelle vostre mani. Sarà il primo giorno dopo Pasqua, la festa di cui ogni nostra speranza e ogni nostra attesa si alimentano. Noi siamo fiduciosi e scommettiamo sul futuro. Per questo continuiamo questa pubblicazione con passione e cura, rinnoviamo il nostro sito e investiamo nell’ambizioso progetto dello sfogliabile MC che radicandosi nel passato alimenta il futuro (il progetto cioè di mettere in rete tutte le annate della rivista in pdf da sfogliare, ricercare, scaricare, stampare e molto di più).

Qualcuno la chiama pazzia: scommettere sulla carta e investire sul web. Sì, proprio una scommessa, anche con quelli che ritenendo la rivista cartacea causa di degradazione dell’ambiente e fonte di inquinamento, preferirebbero che noi sparissimo dalla circolazione. Scommessa con chi riceve la rivista (magari ereditata dalla nonna) e la butta automaticamente nel cestino senza nemmeno aprirla. Scommessa con i figli e i nipoti di tanti nostri amici e benefattori che ritengono un passatempo inutile e alienante quello che invece ha riempito il cuore dei loro cari. Scommessa con chi crede che il mondo sia fatto solo di Nord e non si accorge che il Nord non ha senso senza le splendide albe dell’Est, il calore del Sud e gli infuocati tramonti dell’Ovest. Scommessa che facciamo insieme a chi usa la rete non solo per divertirsi o vivere l’illusione di amicizie, ma soprattutto per trovare informazione sostanziosa, documentata, vissuta, libera e aperta a nuovi orizzonti di frateità e impegno.

Non ci aspettiamo miracoli. Per questo viviamo un’attesa operosa, dando ragione della nostra Speranza.

Gigi Anataloni