Attaccati alla stessa corda

Era il 1992, vent’anni fa, a febbraio. I miei ultimi mesi a Maralal, Kenya. La siccità imperava.
Tutti ne soffrivano. In missione, mettendo insieme tutte le nostre risorse, avevamo
aperto un rubinetto per la gente. La coda cominciava alle quattro del mattino. Si dava acqua
fino alle sette di sera, quando era già buio pesto. A ognuno un bidoncino da 20 litri.
Venivano i bambini, marinando scuola. C’erano le donne/mamme, contente di non dover far chilometri
e trovare acqua pulita. C’erano i poverissimi e i benestanti del paese, accomunati da un
problema che rendeva tutti uguali. Anche se chi poteva, negozianti soprattutto, pagava dei giovanotti,
altrimenti sfaccendati, per l’incombenza. I miei ragazzotti dell’Azione Cattolica distribuivano
l’acqua e tenevano la disciplina. I litigi erano frequenti. I bambini si perdevano a giocare, le
donne si imponevano sui bambini, i giovanotti a cottimo scavalcavano tutti per guadagnare di più.
Neanche le bacchettate distribuite generosamente dai miei «ascari» riuscivano a mantenere
l’ordine. E si sprecava un sacco d’acqua. Provammo così con i tappi delle bottigliette. Ne raccogliemmo
un bel po’ e li numerammo con dei punzoni. Entro sera non ce n’era più uno in giro: i
bambini li avevano presi tutti per giocare. In magazzino c’era un rotolo di spago. Infilammo allora
lo spago nei manici dei bidoncini per bloccarli in una fila ordinata. L’ultimo arrivato andava in
coda, infilava il suo bidone e attendeva tranquillo il suo tuo e, se bambino, poteva anche perdersi
a giocare. Funzionò per alcune ore. Poi lo spago si bagnò, si sfilacciò e si spezzò. Fioccarono
bacchettate. Inutili. Occorreva una soluzione radicale. Comprammo allora una lunga corda di
nailon, robusta, resistente all’acqua, difficile da tagliare senza farsi notare. Finalmente si formò
una lunga coda ben ordinata, senza litigi, immune da bullismo, da distrazioni, da petulanza. Tutti
uguali, bambini e adulti, ricchi e poveri a condividere quel bene così prezioso ed essenziale.
Si potesse trovare una corda così per affrontare insieme la gestione di questo nostro mondo!
Era lo scorso agosto, quando è stato dato l’allarme che avevamo già consumato la nostra
razione annuale di risorse e che stavamo già consumando la quota dell’anno prossimo.
Ci è anche stato detto che quell’«avevamo» non include tutti gli abitanti della terra in
maniera uguale. C’è un 20% di mangioni che consumano l’ 80% del tutto, ed è indifferente, se
non arrabbiato, al fatto che l’altro 80% voglia una fetta più grande della torta o addirittura parti
uguali. Si inquina il mondo, e gli inquinatori pensano di risolvere il problema comperando le
quote verdi di chi (per ora) non inquina. C’è un bisogno vorace di energia per il dio «auto» e tutte
le altre comodità della vita, Inteet compreso. Allora si fanno le «operazioni di pace» che lasciano
lutti e rimpinguano i fabbricanti d’armi, e si affamano quelli che son già poveri per prendee
le terre e produrre il cosiddetto biofuel, che di bio (vita) ha ben poco perché sta causando
la morte per fame (quella vera) di milioni di persone. Una parte del mondo consuma troppo. Invece
di dire: «Condividiamo in giustizia ed equità», dice «siamo troppi» e vuol risolvere il problema
impedendo la crescita di chi già consuma poco attraverso controllo delle nascite, aborti facili,
sterilizzazioni forzate. Certo, questo non viene detto così brutalmente, ma presentato con belle
parole che confondono anche gli onesti. Non dimenticherò mai quelle due consonanti, «T.L.»,
scritte nell’angolo in basso a destra di un foglio di quaderno che doveva essere la cartella clinica
di una giovane madre keniota a cui avevano legato le tube (T.L.= tube ligation) senza neanche
informarla, solo perché ragazza madre, disoccupata, analfabeta e al terzo figlio.
Niente di nuovo in quanto scrivo e non ci stancheremo mai di scrivere su questa rivista. Un
approccio troppo sociologico? Dipende dai punti di vista. Un tempo la Chiesa è stata accusata
di aver benedetto la colonizzazione del mondo. Tacere oggi sulle ipocrisie di un
benessere (di pochi) costruito sulla pelle dei più poveri (molti), è rendersi complici di un
sistema schiavista e ingiusto che di cristiano non ha niente. Questo nostro mondo non si salva
con delle «arche» per pochi, ma con una cordata dove tutti fanno la propria parte.

                                                                                                                              Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Una voce in meno

L’editoriale di ottobre della
rivista «Popoli», dopo un caldo saluto a lettori e lettrici, recitava: «Vi
comunico la sofferta decisione di interrompere, con il numero di dicembre 2014,
la pubblicazione». Probabilmente, a voi, amici lettori di Missioni Consolata,
questa comunicazione dice poco. Io, invece, non ho potuto fare a meno di
piangere, poche, sentite lacrime, per una notizia che mi ha dato tristezza. Una
tristezza ampiamente condivisa dagli amici e colleghi di tutta la stampa
missionaria.

«Popoli» è la rivista missionaria dei Gesuiti italiani. Fondata nel
1915 col nome di «Le Missioni della Compagnia di Gesù», diventata «Popoli e
Missioni» nel 1970 e poi «Popoli» a fine anni Ottanta. A dicembre conclude 100
anni di servizio alla missione. Nata durante la prima guerra mondiale, muore
mentre è in corso quella che il papa chiama la «terza guerra mondiale». E muore
per fallimento economico, strozzata dai debiti. Sanissima quanto a idee,
progetti e visione, «Popoli» è vittima però più della crisi «missionaria» del
nostro paese che della crisi economica.

Non è di conforto il fatto che non sia l’unica vittima nel settore
della stampa missionaria e che negli altri paesi europei sia ancora peggio. «Ad
Gentes» dell’Editrice Missionaria Italiana ha chiuso in questo 2014, «Afriche»
della Società Missioni Africane nel 2010, il nostro «Amico» nel 2010, altre
hanno ridotto il numero delle pagine o la periodicità, altre ancora si sono
fuse tra loro. Le riviste missionarie ancora in circolazione, nonostante il
grande sforzo di rinnovamento e di riqualificazione a servizio del Vangelo e
dei poveri, non scoppiano di salute, condividendo in pieno tutte le difficoltà
dell’editoria italiana, religiosa e non.

Con gli altri amici della stampa missionaria italiana (che non è poi
solo stampa, ma è web, e video, e tanto altro) ci chiediamo se la chiusura di «Popoli»,
al di là delle ragioni oggettive portate dagli editori, non sia un sintomo di
una situazione ben più complessa. Ogni anno vediamo drammaticamente invecchiare
e diminuire di numero i missionari italiani «a vita» (17 mila negli anni
Ottanta, poche migliaia già oggi e in continuo calo), chiudere comunità,
rarefarsi le partenze non compensate dal pur crescente numero di missionari
laici. Allo stesso tempo si chiudono o si accorpano parrocchie, si vendono
chiese, per la preoccupante diminuzione del numero dei sacerdoti.

è questo solo un momento di purificazione? O la fiaccola della missione è stata tolta ai cristiani italiani
per essere affidata ad altri? è
la missione che non interessa più o non ci sono più neppure i cristiani che
possano appassionarsi ad essa? Oppure è la missione che è talmente cambiata da non avere più bisogno di missionari e
tantomeno delle loro delle riviste?

Le riviste missionarie raccontano della bellezza della missione,
della dedizione di tanti missionari, del sogno di un mondo più fraterno, di una
Chiesa viva che cresce nelle periferie del mondo, dello Spirito che suscita
nuovi evangelizzatori da ogni angolo della terra. Pur nella loro povertà e
debolezza (evidente nel confronto con gli altri media!), sono testimonianza di
speranza e di un mondo più fraterno. Non hanno più nulla da dire? Quello che
scrivono non interessa più a nessuno? O non c’è più nessuno che creda nel
mandato di annunciare il Vangelo fino ai confini del mondo?

Sempre il mio vizio di far domande! Anche perché non ho risposte
chiare in una situazione così fluida come quella che stiamo vivendo. Certamente
gli interessi degli italiani sono cambiati in questi anni. E l’annuncio del
Vangelo non è in cima alle loro preoccupazioni. La nostra società è sempre meno
cristiana nonostante il numero sempre alto dei battezzati. I cristiani
praticanti costituiscono ormai una minoranza e sembra che la maggior parte dei
giovani non si identifichi più con la Chiesa. Questi sono dati di fatto,
confermati da abbondanti statistiche.

In un simile contesto la chiusura di una o più riviste missionarie non
cambia molto le cose. Però fa riflettere: quale sarà la prossima? Noi intanto
andiamo avanti con serenità nel nostro servizio, cercando in tutti i modi di «far
bene il bene», fino in fondo. Abbiamo (noi missionari) una convinzione
profonda: «Siamo semplicemente dei servi» (Lc 17,10). Il vero missionario è lo
Spirito di Dio. Anche se una voce si spegne qua o là, Lui farà «parlare anche
le pietre» (cfr. Lc 14,40). E non ditemi, come fa il mio correttore di bozze,
che queste ultime sono solo parole di consolazione messe lì per non chiudere
l’editoriale con troppa tristezza. Ogni bene a voi.

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Buona lettura!

Gigi Anataloni




Globalizzazione dell’”I care”

Abbiamo
appena dato l’addio al nostro fratello padre Benedetto Bellesi
, un
missionario generoso che ha dedicato ben 27 anni della sua vita a
questa rivista. Gioalista e fotoreporter, ha girato in lungo e in
largo tutte le missioni della Consolata per offrire ai lettori di MC
una documentazione di prima mano, onesta e verificata, sul vissuto
della missione. Formato come insegnante di lettere, con un buon dono
per le lingue – maneggiava oltre che un perfetto italiano e un buon
latino e greco, anche un inglese fluente con francese, portoghese,
spagnolo e zulu – e una grande passione per la Bibbia, padre
Benedetto ha sempre curato i suoi articoli nel dettaglio per rispetto
all’intelligenza e al cuore dei lettori. Non credo si sia mai
identificato con le parole di Elbert Hubbard: «Il lavoro del
giornalista consiste soprattutto nel separare il grano dalla pula. E,
naturalmente, nel provvedere che la pula sia stampata». No, lui
raccontava del grano, anche a costo di non essere alla moda. Perché
era prima di tutto un missionario, servitore della verità. Servire
la verità era per lui servire il Signore nascosto negli ultimi, nei
poveri, nei diseredati della terra.

Penso
a questo mentre cerco di rendermi conto di cosa significherà fare la
rivista senza di lui.
Una rivista che non vuole giocare sul
pietismo, che non cerca di manovrare le emozioni, che desidera
evitare i luoghi comuni e ama e rispetta le persone e i popoli di cui
scrive, come ama e rispetta i suoi lettori. Padre Benedetto ha
dedicato il meglio di sé per un sogno di frateità, di pace e di
giustizia, raccontando in maniera pacata e documentata di persone e
fatti che non fanno breccia in un mondo di comunicazione rapida, che
brucia le notizie, che rende la realtà finzione e la finzione stile
di vita, che rende spettacolo le tragedie ed eventi mondiali le
vanità e le cose fatue, fino all’intontimento delle coscienze e
all’indifferenza totale per tutto quello che non tocca il «mio»
benessere immediato.

A
proposito di indifferenza
, ho sotto gli occhi il testo dell’omelia
di papa Francesco a
Lampedusa (8 luglio 2013). «Chi è il
responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti
noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri,
non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: “Dov’è il sangue
del tuo fratello che grida fino a me?”. Oggi nessuno nel mondo si
sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della
responsabilità fratea; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita
del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù
nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto
sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo
per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci
tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che
ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida
degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non
sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta
all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione
dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo
caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati
alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non
è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La
globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”,
responsabili senza
nome e senza volto».

«Voce
contro la globalizzazione dell’indifferenza»: oso applicare questa
espressione alla nostra rivista e alle altre riviste missionarie –
con cui stiamo condividendo tempi difficili -. Siamo una piccola
realtà, non abbiamo la forza dei grandi network, ma per
quanto riguarda l’amore alla verità e la passione per i
«senzavoce», non siamo secondi a nessuno. Neppure per quel che
riguarda il rispetto dei nostri lettori e del loro impegno per un
mondo più giusto, fraterno, bello e giornioso. Padre Benedetto ha
speso gran parte della sua vita in favore della «globalizzazione
dell’I care», quel «m’interessa, mi sento responsabile e
me ne occupo» che è l’unica forza che può cambiare il mondo.
Buona estate.

Gigi Anataloni




Amore contro paura

 

«Sono andato a Baragoi a supervisionare un bacino
artificiale che stiamo costruendo. Appena arrivato mi hanno
detto che giù nella
Suguta Valley c’era un ragazzo ferito da razziatori Pokot. Era là, in quelle condizioni, già da quattro giorni.
Ho deciso d’impulso di andare a prenderlo e portarlo all’ospedale di Wamba. La gamba

puzzava terribilmente, vermi bianchi uscivano dalla
ferita da arma da fuoco. Il ragazzo
non mangiava da quattro giorni, io non ho mangiato per due, ma ora è salvo».

Queste parole sono il semplice commento alla foto stomachevole di una gamba ferita simile alle tante immagini che ci stiamo abituando a vedere nei reportages dalla
guerra di Tripoli
che Evans ha messo sulla
sua pagina di facebook in agosto. Quello che un tempo era un chierichetto e appassionato giocatore di calcio nell’oratorio della missione, lavora ora come coordinatore
dei progetti di sviluppo della
diocesi di Maralal. Là, a Baragoi (Samburu County,
Kenya), ha fatto quel
che il cuore gli diceva, senza
ascoltare la paura e calcolare il rischio.

Ho
pensato a lui cominciando a scrivere questo editoriale d’ottobre, il mese missionario per eccellenza, perché mi ha ricordato una cosa importante: il bisogno di vincere le nostre paure con
un po’ di amore, gratuito e perché no? anche
un po’ incosciente.

Stiamo vivendo un tempo di grazia unico e irrepetibile che sfida a fondo la fede di chi si fregia di
un nome grande: cristiani, cioè di Cristo. È un tempo di grandi trasformazioni e problemi, con-
fusioni e potenzialità, segnali
di morte e luci di vita, grandi libertà
contrastate da emergenti
fondamentalismi e particolarismi, globalizzazione e violazioni della
privacy, ingiustizie impuni- te e violenze dilaganti insieme
al progresso inarrestabile della scienza,
comunicazione capilla- re e manipolazione dell’informazione. Di fronte a tutto questo il grande rischio
è la paura: paura
della mancanza di futuro, paura che gli altri
mi tolgano spazio vitale, lavoro e risorse, paura dei
guai, paura dei vicini,
paura degli stranieri, paura della
futilità dell’impegno
perché «tanto non
cambia mai nulla» e «chi paga sono sempre i soliti onesti e chi ingrassa sono sempre i furbi»,
una paura che immobilizza perché ci fa sentire impotenti di fronte a problemi troppo grandi.

 

 

Antidoto alla paura è l’amore. Vince contro l’inazione e la rassegnazione, perché è ottimista,
non guarda all’enormità dei problemi, sa che è importante fare qualcosa per chi è nel
bisogno, anche fosse una persona sola.
L’amore non calcola costi, rischi e guadagni
prima di incominciare; gli studi di fattibilità li fa dopo aver iniziato. Non aspetta la Tv per f
ar spettacolo. È così incosciente da assumersi responsabilità e prendere iniziative senza aspettare gli ordini,
senza curarsi della
pubblica opinione. Questo amore nella
Chiesa diventa
missione: andare verso chi ha bisogno, fino agli estremi confini,
per far scoprire il vero volto dellAmore, Gesù Cristo.

«La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, nuovo entusiasmo
e nuove motivazioni.
La fede si rafforza donandola!». Sono parole di Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio.
Papa Benedetto XVI le ripropone nel messaggio
per la Gioata Mis- sionaria Mondiale che celebriamo il prossimo 23 ottobre (vedi
pp. 74-75).

Attraverso questa missione-amore «il cristiano diventa costruttore della
comunione, della
pa- ce, della
solidarietà che Cristo ci ha donat senza
trascurare «la promozione
umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppresione»
e la Chiesa «si prende a cuore della vita umana a
senso pieno» in un mondo
dove ancora troppi non conoscono il Signore Gesù e dove anche quelli che lo conoscono, lo hanno
dimenticato e non si riconoscono più nella
comunità che è la Chiesa.

Forse abbiamo proprio bisogno
di riscoprire la gratuità
e l’incoscienza di questa missione-amore per vincere le nostre paure, reagire alla disperazione
e continuare ad annunciare la gioia
del Cristo Risorto dove viviamo e a tutto il mondo.

 di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




C’è pancia … e pancia

 

Scrivo a brevissima distanza dalla conclusione delle elezioni regionali. Non entro nel merito dell’incredibile capacità di cantar vittoria che tutti i nostri politici hanno, ma non posso
tacere davanti a soluzioni «ruspanti» e alla disgustosa manipolazione della verità, complice tanta stampa che invece di essere la coscienza della politica, ne è la serva. Certamente il dramma dei migranti e la crescente presenza di «stranieri», nella situazione di grave crisi economica e di disoccupazione in cui ci troviamo, tocca corde molto sensibili e può far scattare reazioni nervose,
arrabbiate e anche irrazionali. Ma che dei politici senza senso della storia cavalchino «la pancia» della gente per raccogliere più voti, dimenticandosi delle proprie responsabilità e del significato vero della parola politica, è perlomeno triste. Contesto loro la mancanza di «senso della Storia», quella con la «S» maiuscola, quella che mostra come il popolo (o popoli?) italiano sia frutto di innumerevoli migrazioni. E il pio Enea da Troia non è stato neppure il primo dei migranti che hanno fatto grande l’Italia. Essa ci insegna anche che siamo stati migranti per necessità fino a meno di un secolo fa (e lo siamo ancora oggi), in cerca di un futuro migliore contribuendo con qualche decina di milioni di «stranieri» alla prosperità di Europa, America e Australia. Abbiamo
provato anche ad allargarci in Africa, e in alcuni posti abbiamo pure fatto delle cose belle, ma ci hanno sbattuti fuori perché volevamo starci da padroni… La Storia poi documenta che il dramma dell’Africa, il macello in Siria, il caos decennale dell’Iraq e Afghanistan – tra le cause prime delle presenti ondate migratorie – non sono nati per caso, per autocombustione. I nostri governi e il nostro sistema economico hanno delle precise responsabilità.
Se poi la Storia si alleasse con la sociologia, ci farebbe capire come ci sia un legame indissolubile di causa ed effetto tra il nostro stile di vita e il bisogno sempre crescente di forza lavoro a basso costo di migranti/schiavi/sfruttati. Le scienze economiche, poi, ci spiegherebbero come il capitalismo liberista sia ormai fuori dal controllo della politica e dei governi nazionali e come usi senza pietà sia noi, popoli del «ricco» mondo occidentale, che quelli poveri e impoveriti del Sud, e non solo ci usi, ma ci metta gli uni contro gli altri in una guerra tra sfruttati in cui solo pochi guadagnano.

Scrivere questo non significa che non si debbano mettere in atto le dovute azioni della giustizia nei confronti di stranieri che rubano,
imbrogliano, sono organizzati in mafie per controllare prostituzione, droga, gioco d’azzardo e traffico di persone, vandalizzano proprietà private o pubbliche, o importunano, anche con violenza, gli anziani davanti alle chiese. Né legittima chi tra i forestieri pensa di essere al di fuori o al di sopra di ogni legge e senza responsabilità sociali. E neppure l’inerzia e/o corruzione di certe autorità pubbliche o di chi specula sul business dei migranti e dei rom.

Queste sono cose che un cristiano dovrebbe sapere per non lasciarsi ingannare dal «panciaruspismo» di chi, imitando nefasti predecessori illustri, invece di affrontare le cause dei problemi, va a caccia di colpevoli. Nerone docet. I cristiani non dovrebbero mai dimenticarlo. Come non dovrebbero mai dimenticare queste parole: «Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto» (Esodo 10,19; cfr 23,9; Deut 24,19-22; ecc.). Da sempre i forestieri, migranti o stranieri hanno sofferto per mano degli stanziali, di chi si ritiene padrone di una certa terra. Da sempre sono stati visti come una minaccia. Non si spiegherebbe altrimenti l’insistenza della Bibbia nel mettere forestieri, orfani e vedove sullo stesso livello, come le categorie di persone più indifese e violentate e, quindi, le più amate da Dio che si identifica con loro fino al punto di mettere la loro protezione e difesa addirittura al di sopra del culto.

Due principi forti devono essere nel Dna del Cristiano: su questa terra siamo tutti forestieri e nomadi e ogni uomo è figlio o figlia, fratello o sorella nella grande famiglia di Dio. Se dimentichiamo questo mettiamo in gioco il nostro stesso essere uomini. «Pensare con la pancia» non è fare di tutto perché la propria pancia sia piena e mettere se stessi e i propri interessi al centro. Piuttosto è pensare come una madre che porta il figlio nel suo grembo: il biblico «sentire con le viscere» o avere misericordia. Misericordia: è il vedere/conoscere/agire alla maniera di Dio. Misericordia: l’esaltazione dell’io che si realizza nel noi. Misericordia: l’uomo che si comporta da Dio. A partire
dalla «pancia».

Gigi Anataloni




Giustizia e mentalità nuova

 

A metà aprile sono scappato per un
paio di giorni dalla città, questo luogo in cui per vedere il cielo devo
guardare in su. Ho fatto un bagno di primavera. Brevissimo. Poi l’inverno è
tornato di prepotenza: i migranti annegati, il terremoto in Nepal, la morte
improvvisa di un confratello, la violenta manifestazione a Milano, l’aumento
della disoccupazione, la gravissima situazione della Grecia, le vuote promesse
dei politici, il rapporto Caritas sullo sfruttamento e il traffico di persone
nel Sud-Est asiatico, il massacro degli Yazidi, le tensioni in Burundi e anche
le piccole grandi notizie di malattie, speranze deluse, mancanza di lavoro, di
fame che mi arrivano alla spicciolata da tante persone che ho amato in Kenya…
Sono quasi quarant’anni che faccio questo mestiere, dovrei essere abituato alle
cattive notizie. Ma non ci riesco. E soprattutto non riesco ad abituarmi alle
sparate di quelli che colgono al volo occasioni di forte emotività per fare
proposte miracoliste di soluzione ai problemi del mondo. Proposte accattivanti,
magari anche esplosive, che, se guardate con occhio critico, non vanno oltre il
solito buonismo.

Anche il grande avvenimento dell’Expo
rischia di titillare l’orgoglio buonista senza affrontare le cause vere di
un’ingiustizia che penalizza gran parte dell’umanità. Il tema «Nutrire il
pianeta, energia per la vita», è di grande attualità. «Purché non resti solo un
“tema”, purché sia sempre accompagnato dalla coscienza dei “volti”: i volti di
milioni di persone che oggi hanno fame, che oggi non mangeranno in modo degno
di un essere umano», ha detto papa Francesco all’inaugurazione, nella quale i
bambini, modificando l’Inno di Mameli, hanno cantato di essere «pronti alla
vita». Ha poi continuato: «Vorrei che ogni persona – a partire da oggi -, ogni
persona che passerà a visitare l’Expo di Milano, attraversando quei
meravigliosi padiglioni, possa percepire la presenza di quei volti. Una
presenza nascosta, ma che in realtà dev’essere la vera protagonista
dell’evento: i volti degli uomini e delle donne che hanno fame, e che si
ammalano, e persino muoiono, per un’alimentazione troppo carente o nociva.
[…] Anche la Expo, per certi aspetti, fa parte [… del] “paradosso
dell’abbondanza”, se obbedisce alla cultura dello spreco, dello scarto, e non
contribuisce a un modello di sviluppo equo e sostenibile. Dunque, facciamo in
modo che questa Expo sia occasione di un cambiamento di mentalità, per smettere di
pensare che le nostre azioni quotidiane – a ogni grado di responsabilità – non
abbiano un impatto sulla vita di chi, vicino o lontano, soffre la fame».

Cambiamento di mentalità. Ecco le
parole chiave. L’aumento degli aiuti e della cooperazione internazionale
(arrivando finalmente allo 0,7% del Pil), una riedizione del Mare Nostrum,
un’accoglienza più responsabile e condivisa possono aiutare a non far finire in
tragedia quello che è già un dramma. Ma non bastano. Occorre un grandissimo
cambiamento di mentalità che investa la politica, l’economia e le relazioni
inteazionali. La politica deve riappropriarsi dell’economia e non esserle
suddita. I paesi da cui fuggono i migranti hanno bisogno di pace, giustizia e
lavoro. Giustizia soprattutto: nelle retribuzioni di chi lavora (persone, non
schiavi); nel commercio delle materie prime e dei prodotti agricoli (non
rapina, desertificazione, inquinamento, land grabbing e monocolture);
nel movimento delle persone (no alla tratta, al traffico dei minori, al turismo
sessuale). E ancora: eliminare il commercio delle armi, le guerre per procura,
la corruzione dei politici, e riscrivere i trattati di «libero» scambio. La
lista di ciò che si deve fare per evitare il disastro dell’umanità è lunga.
Troppo ambiziosa per un semplice editoriale e oltre la capacità della singola
persona. Ma non si può stare con le mani in mano, aspettando che siano gli
altri a cambiare mentalità.

Informazione, formazione e azione sono le altre parole chiave per
cambiare. Informarsi criticamente, senza accontentarsi di slogan ed emozioni.
Approfondire le conoscenze, studiare, capire. E cambiare il nostro modo di fare
la spesa, di utilizzare le risorse, di relazionarci con gli altri, di
partecipare alla vita politica, di vivere l’ambiente.

Toiamo a sognare allora e a fare sognare, non da soli, ma insieme. E
torniamo ad agire, cominciando dal nostro «piccolo»: «Se molti uomini di poco
conto – come ha scritto anche Giorgio Torelli -, in molti posti di poco conto,
facessero cose di poco conto, allora il mondo potrebbe cambiare».

Gigi Anataloni




Martiri: Il Sale non ha perso sapore

 

In questi primi giorni di aprile tutto
e tutti parlano del massacro dei cristiani nel mondo. Pur con mille distinguo.
L’eccidio di Garissa, in Kenya, sembra aver fatto traboccare il vaso. Perfino
papa Francesco ha ripetutamente richiamato le nazioni con toni più duri del
solito. Due pesi e due misure: è l’accusa più comune soprattutto ai governi
occidentali. Grande partecipazione e mobilitazione per i tristi fatti di
Parigi, indifferenza e silenzio invece per le vittime di Garissa, Damasco,
Lahore, Mogadiscio, Bangui, Iraq, Nigeria. … Non voglio perdermi nei meandri
di una casistica infinita.

Due fatti mi hanno colpito in modo particolare: la coincidenza
(voluta?) con la Pasqua e con il centenario del «Grande Male», cioè la mattanza
di oltre un milione di Armeni cristiani in Turchia che ha visto il suo picco a
partire dal 24 aprile 1915.

È verissimo ciò da più parti
viene ribadito con insistenza, non è in atto una guerra di religione, non è
Islam contro Cristianesimo. Le cause di tutto questo vanno ricercate
nell’arbitraria divisione del mondo dopo la prima guerra mondiale, nella
tutt’altro che santa alleanza tra il capitale petrolifero e la casa di Saud,
nella grande bugia interventista a difesa della democrazia, nell’asservimento
della politica al neo liberismo sovranazionale, nell’impoverimento e
schiavizzazione progressiva della maggior parte della popolazione mondiale,
nella corsa agli armamenti e dominio delle lobbies economiche,
nell’ignoranza in cui gran parte dell’umanità è ancora mantenuta, privata anche
di servizi necessari come l’istruzione e la salute, e nell’impotenza delle
istituzioni sovranazionali. Ma è pur vero che il Cristianesimo è diventato il
capro espiatorio di colpe che non sono sue. Poi sul terreno, per i giovani di
Garissa o la gente della Nigeria o della Siria o dell’Iraq, questo poco
importa. Vittime due volte: dell’ingiusto sistema sociale ed economico mondiale
e del fanatismo dei puri che, nuovi veri idolatri, si sono costruiti un dio a
propria immagine e somiglianza.

«Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi», ha detto Gesù (Gv
15,20). L’abbiamo ben visto proprio durante il tempo di preparazione alla Pasqua.
Gesù è stato fatto fuori perché ha presentato un Dio diverso da quello
incasellato negli schemi ufficiali di chi gestiva il potere, un Dio impossibile
da piegare alla loro visione del mondo che professa il Dio della vendetta,
dell’elezione, della potenza, della distruzione dei nemici, del premio ai puri
ed eletti. Forse per alcuni sarà eccessivo scrivere che non c’è differenza tra
l’atteggiamento autogiustificatorio dei farisei e loro accoliti e quello dei
fanatici dello stato islamico. Come non è troppo dire che erano della stessa
pasta i rivoluzionari del Terrore francese, i bolscevichi anticapitalisti della
rivoluzione russa, i Kemalisti turchi intenti al riscatto di una nazione
umiliata, le brigate inteazionali e i franchisti della guerra civile
spagnola, i nazisti di Hitler, i fascisti, i maoisti, i talebani e troppi altri
che sono sicuri di essere gli unici nel giusto.

Gesù è stato ucciso perché
rappresentava la libertà di Dio, un Dio signore dell’uomo e non strumento nelle
mani degli uomini. Un Dio che preferisce i deboli, i peccatori, gli esclusi,
gli scarti, gli orfani e le vedove. Un Dio che apprezza di più un bicchiere
d’acqua dato per amore che i grandi templi luccicanti d’oro. Un Dio che si fa
servo, anzi schiavo. Un Dio che allarga i recinti, che esce incontro, che va a
cercare chi è fuori, diverso, escluso, impuro. Un Dio mite e paziente, che è
perdono, che è inclusivo non esclusivo. Il Dio amore che chiede di amare come
lui ci ha amato, di perdonare i nemici, di fare il bene a coloro che ci odiano,
di essere misericordiosi a misura della sua misericordia. Gesù ha mostrato un
mondo diverso, a misura di Dio.

Di questo Dio sono testimoni i giovani cristiani di Garissa, i caldei
della Siria e dell’Iraq, i copti dell’Egitto, le ragazze rapite della Nigeria,
le Asha Bibi del Pakistan, le Leonella e Annalena della Somalia, gli Oscar
Romero dell’America Latina, i Bakanja del Congo. …

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno» (Mt 5,11). Non
c’è da aver paura se oggi le persecuzioni si intensificano. È segno che i Cristiani nel mondo sono
ancora testimoni del vero Dio di Gesù Cristo. Sarebbe molto più preoccupante se
tutti li applaudissero. Forse sarebbe un sintomo che il sale ha perso sapore.

Gigi Anataloni




Luce nelle tenebre

 

Ricordo una veglia pasquale di tanti
anni fa, 1991, a Maralal: ci fu un black out totale proprio pochi minuti
prima dell’inizio. Buio completo. Alla luce di candele quella è stata una delle
veglie più suggestive che abbia mai celebrato. Un ricordo tira l’altro.
Febbraio 1983, prima domenica di quaresima. Accompagno il compianto padre Oscar
Goapper a celebrare il primo passo dell’iniziazione cristiana dei catecumeni in
un villaggio di Neisu, dove allora stava sorgendo la missione che oggi vanta il
miglior ospedale dell’Alto Huele, Nord-Est del Congo RD, allora Zaire. È buio
presto all’equatore, uniche luci, le stelle. La celebrazione comincia attorno
al fuoco e poi, pian piano, come per magia, la notte si illumina: una, dieci,
centinaia di candele si accendono. Salgo su un termitaio per essere sopra
quelle piccole luci che danzano nella notte. Stelle cadute dal cielo, gocce di
gioia e pace, isola di luce nell’oscurità della foresta. Ma too al ricordo di
Maralal. Dal fuoco nuovo viene acceso il cero pasquale. Entrare in chiesa al
buio non è un problema per la maggior parte dei presenti, abituati a vivere
senza elettricità. Entra la Luce, «Mwanga wa Kristu!» (la luce di Cristo) canto.
Piccola luce di un cero, ma grande luce di Cristo, che tutti illumina.

Il cero pasquale, icona di Cristo, icona della missione della Chiesa.
Mi affascina che in questo nostro tempo di lampade sempre più potenti, di luci
che illuminano a giorno, si continui a usare questo segno debole che è il cero
pasquale. Una luce piccola e fragile che però ha dentro una forza dirompente:
condivisa, può illuminare il mondo e incendiare la terra. Per vederla devi
essere al buio. Per lasciarti illuminare devi avvicinarti. Per sentirne il
calore devi ridurre le distanze. Per accenderti devi lasciarti toccare. E
toccato ti infiammi. Infiammato, ti consumi. Consumandoti, doni luce, accendi
speranze, scacci il buio e le sue paure, fai vedere il bello, comunichi gioia.

Ma sembra che oggi si abbia paura a
guardare questa luce che ti fa vedere dentro, che ti obbliga a incontrare te
stesso e gli altri. Altre luci ammaliano, attirano e accecano. Denaro,
divertimento, sesso, droga, potere. Luci che falsano i colori e rendono normale,
accettabile, giustificato quello che non lo è: dalla corruzione al rave,
dal sesso a tredici anni alla volgarità esibita in Tv, dalla coda per uno smartphone alla protesta contro i
rifugiati, dall’evasione alla satira senza rispetto per niente e nessuno,
dall’aborto all’eutanasia, dall’indottrinamento gender allo sfruttamento
dei precari e stranieri sottopagati e schiavizzati, … Anche il fanatismo
ideologico alla maniera dell’Isis è una delle luci che accecano tanti. Dico
fanatismo ideologico e non religioso, perché il dio dell’Isis non è Dio, ma un
mostro, una aberrazione dell’orgoglio umano che si è costruito un dio a misura
della sua superbia. Una luce violenta che esplode ogni tanto lungo la storia
dell’umanità, con nomi diversi, ma sempre gli stessi frutti di morte e
distruzione.

Niente di nuovo in quanto sto scrivendo. Ma è anche vero che noi
abbiamo la memoria corta e abbiamo bisogno di rinfrescarci le idee. Quante
volte abbiamo sentito nella nostra vita il racconto della passione, morte e
risurrezione di Gesù? Eppure ogni anno abbiamo bisogno di ridircelo, non solo
per ricordare ma per rivivere. Per rispondere alla domanda «C’eri tu alla croce
di Gesù?», «Sì, ci sono, oggi!». «Ci sono» alla sua morte e alla sua
resurrezione, perché oggi la sua morte e resurrezione danno senso alla mia
vita. E quello che «vedo e tocco» oggi dell’amore di Dio per me, lo testimonio,
lo canto, lo vivo. La luce debole del cero pasquale mi ricorda questo, fa
riconoscere dentro di me che l’amore di Dio in Gesù non è qualcosa del passato,
ma è un fatto che mi riguarda adesso, ogni adesso. E accendendo la mia candela
da quel cero, ne condivido sì la fragilità e debolezza, ma nello stesso tempo
ne moltiplico la forza. Quello che ho veduto, quello che ho ascoltato, quello
che ho toccato, quello che ho sperimentato come amore gratuito e liberante,
questo oggi annuncio e testimonio. E la tenebra è meno oscura, grazie alle
innumerevoli piccole luci che si sono lasciate toccare dalla Luce di Cristo e
come Lui si lasciano consumare per amore.

Buona Pasqua.

Gigi Anataloni




Quaresima (in)differente?

Nel messaggio di Quaresima, papa
Francesco, con la sua usuale franchezza, ci invita a confrontarci con una
malattia che ci sta distruggendo dal di dentro e sta alterando i nostri
rapporti con noi stessi, con gli altri e con Dio: l’indifferenza. «Succede che
quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli
altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le
loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade
nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di
quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha
preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una
globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani,
dobbiamo affrontare», scrive papa Francesco.

L’indifferenza è micidiale: non fa vedere, non fa sentire e non fa parlare.
Rinchiude ciascuno nel proprio mondo e il resto non esiste più. Più facile
ignorare che lottare contro il male. L’altro, il diverso da me, ciò che è fuori
dai miei interessi, non mi riguarda. Che pianga o rida, sia libero o schiavo,
sano o malato: se non esiste, perché preoccuparmi?

Il mio cellulare costa milioni di morti in Congo? I miei vestiti sono
confezionati da schiavi? Le mie patatine sono cotte in olio ricavato da palmeti
che distruggono le foreste? Il contadino che coltiva i miei fiori preferiti
lavora senza protezioni e ha un salario da fame? La benzina per la mia auto
finanzia il fondamentalismo islamico? La famiglia è attaccata da tutte le parti
nel nome della non discriminazione, dei diritti, del gender? L’aborto, che è
omicidio, è presentato come un diritto che esalta la dignità della donna?

Non mi riguarda; non ci posso far nulla; così è la vita; il mondo
cambia, bisogna adeguarsi.

«L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione
anche per noi cristiani», ricorda il papa. Da qui la sua proposta di reagire a
tutti i livelli: di Chiesa, di comunità locale e di persona.

Non voglio ripetere qui quello che il
pontefice scrive molto meglio di me. Mi permetto solo di condividere due
considerazioni che faccio anzitutto per me stesso. Per vincere la battaglia
contro l’indifferenza occorrono conversione e resistenza. Conversione
come confronto continuo della propria mentalità con i parametri del Vangelo, resistenza
come capacità di impegno quotidiano fatto di proposte e scelte controcorrente,
non omologate e non scontate.

«Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15), sono le prime parole
di Gesù nel Vangelo di Marco, un invito a modellare il nostro modo di essere su
di Lui, secondo le sue priorità, il suo stile, il suo modo di «uscire» verso le
persone. Conversione è allora rivoluzione. Infatti anche solo la pratica
dei tre punti focali del Padre nostro (1. Dio al centro / la sua volontà;
2. uso «povero/sobrio» dei beni di questo mondo / pane di ogni giorno; 3. amore
per gli altri / perdono; gli stessi punti richiamati nella liturgia del
Mercoledì delle Ceneri: preghiera, digiuno, elemosina) manda a ko
l’egocentrismo, l’accumulo di risorse e il consumismo che ci paiono normali e
necessari, e l’orgoglio e la litigiosità senza fine di cui sono ammalate le
nostre relazioni. E così, sono scalzate le radici stesse dell’indifferenza. La
conversione obbliga a creare relazioni, a uscire da sé, a incontrare le
persone, a pensare, sognare e agire con gli altri: l’altro diventa parte della
propria vita e la propria di quella dell’altro. Il riferimento non è più l’io,
ma il noi, non il mio, ma il nostro.

E resistenza. Per non lasciarsi scoraggiare, per non soccombere
al suadente grigiore della normalità, che in teoria lascia liberi di fare tutto
quello che si vuole purché si continui a consumare sempre di più per mantenere
un sistema che arricchisce pochi alle spese di miliardi di «schiavi felici».
Resistere è prendere coscienza, interessarsi, approfondire ed essere testimoni.
Resistere è prendere posizione per la verità, la luce, il bello,
l’autenticamente umano e quindi autenticamente divino. Con tre armi «pesanti»:
fede, amore e speranza, come dice san Paolo in 1Tess 5,8.

Non diciamo che siamo immuni all’indifferenza. La lotta è appena
cominciata. Per questo preghiamo Cristo in questa Quaresima insieme a papa
Francesco: «“Rendi il nostro cuore simile al tuo”. Allora avremo un cuore forte
e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e
non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza».

Gigi Anataloni




Africa, terra di martiri

’8 ottobre 1964, cinquanta anni fa, papa Paolo VI dichiarava santi
i 22 martiri d’Uganda, uccisi tra il 1885 e il 1887 per ordine di re Mwanga II,
e scriveva: «Questi Martiri Africani aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è
il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi
a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi modei, uomini di poca fede,
pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. […] Questi Martiri
Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di
contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L’Africa, bagnata
dal sangue di questi Martiri, primi dell’èra nuova (oh, Dio voglia che siano
gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!), risorge libera e
redenta».

Erano gli anni Sessanta, tempi di grande ottimismo. L’Africa si era
appena affacciata all’indipendenza. E quel «Dio voglia che siano gli ultimi» esprimeva
una grande speranza di pace, dialogo, tolleranza e libertà, non solo per i
cristiani, ma per ogni uomo.

Cinquant’anni dopo, quel grido, rimasto purtroppo inascoltato, risuona
ancora con forza. L’Africa di oggi è terra di martiri. Dall’Egitto alla Libia,
dalla Somalia al Centrafrica, dalla Nigeria al Kenya, dal Sudan alla Sierra
Leone, dal Rwanda alla Rd Congo (e l’elenco non è completo), migliaia di
cristiani testimoniano, a prezzo della vita, la loro fede nel Dio
misericordioso e Padre di tutti, rivelato dall’incarnazione, passione, morte e
risurrezione di Gesù, il Cristo. Ogni tanto qualche nome attira l’attenzione
dei media, come quello di Meriam, la madre sudanese che speriamo libera nel
momento in cui voi leggete queste righe, o quelli dei due missionari rapiti e
liberati in Cameroon. La maggior parte, centinaia (forse addirittura migliaia)
di cristiani spariscono nell’anonimato dei massacri di massa o
dell’indifferenza generalizzata.

Per anni l’Africa è stata timida a
parlare dei suoi martiri. Chi ha mai sentito parlare dei 149 «martiri di
Mombasa», uccisi nel 1631? Chi ha mai considerato come martiri gli innumerevoli
cristiani uccisi nei secoli in Egitto o quelli rapiti, venduti e schiavizzati
in Etiopia? E le vittime dei Simba (1964) in Congo? I 70 martiri Kikuyu uccisi
dai Mau Mau tra il 1951 e il 1954? E i martiri di Guiua in Mozambico (uccisi
tra il 1975 e il 1992)? E oggi? Ogni giorno sentiamo di violenze sui cristiani.
Il martirologio della grande Chiesa d’Africa continua ad arricchirsi di
splendide stelle. «Il sangue dei martiri è seme di Cristiani», diceva
Tertulliano (Cartagine, 155 ca. – 230). Paolo VI si augurava un’Africa risorta,
libera e redenta. Un auspicio che si scontra ancora oggi con una dura realtà di
violenza, sfruttamento, ingiustizie e guerre. Che il sangue di tanti uomini e
donne pacifici, nonviolenti, inermi e innamorati di Dio, sia davvero fecondo di
pace, giustizia e armonia per tutta l’Africa.

P.S. Mentre pubblichiamo sul web questa pagina, Meriam è stata liberata dalla prigione in cui era, ma si trova ancora confinata nell’ambasciata americana di Khartoum.

Gigi Anataloni