Natale e concilio

2015_12 MC Pagina_03Il Natale di quest’anno accade in un contesto tutto particolare, da un lato c’è il Giubileo della Misericordia, un’occasione per tutti di sperimentare l’amore personale, incondizionato e rigenerante di Dio, dall’altro c’è il circo mediatico che si nutre di notizie, di scandali che coinvolgono persone di Chiesa, di Vatileaks, di gossip e speculazioni su papa Francesco e di molto altro. Non entro nel merito delle varie notizie, spesso purtroppo vere anche se esagerate e fuori contesto; non mi interessa conoscere i particolari. Vorrei solo cercare di capire il senso di quanto sta succedendo. E forse il Natale, quello vero, mi aiuta a farlo.

La storia di cui facciamo memoria è, di per sé, un’anti-storia: quella del figlio di un povero senza terra – immagino Giuseppe dire a Maria (come fece mio padre con mia madre): «Ho solo queste braccia e il bene che ti voglio» – che, appena nato, viene rifiutato dai potenti ed esaltato dagli umili. Partorito durante un viaggio, in una casa non sua, subito cercato per essere ucciso e reso profugo, va poi a vivere nel villaggio più umile e nascosto di tutto Israele, Nazareth. Altro che Messia glorioso e vittorioso, atteso e temuto, altro che «Signore dei Signori, re della terra». La storia del Natale è piuttosto quella di un signor nessuno, ultimo degli ultimi, come cercheranno di dimostrare i suoi uccisori, esponenti di una strana alleanza politico-religiosa, facendogli subire il supplizio riservato agli schiavi-cose con l’inchiodarlo alla croce.

L’evento ricordato a Natale è stato l’inizio di una storia che continua ancora oggi: la contrapposizione tra la logica di Dio e quella degli uomini. L’azione di Dio è libera, gratuita, nascosta, periferica, rispettosa, inclusiva; quella degli uomini, anche di «religione», cerca invece successo, approvazione, potenza, visibilità, centralità, onori e ricchezze. L’uomo vuole impadronirsi di Dio per usarlo per i suoi scopi; invece Dio si offre alla libertà dell’uomo in maniere sempre nuove e non convenzionali.

Cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II iniziava un faticoso cammino per liberare la fede dalle sovrastrutture religiose accumulate nei secoli, per restituire alla Chiesa, popolo di Dio, la missione di essere testimone non della potenza giudicante e selettiva di un Dio glorioso nei cieli, ma dell’amore di un Dio che si è fatto uomo e tutti accoglie con una preferenza spiccata per i poveri, i peccatori, gli emarginati e gli scarti, un Dio che disdegna i grandi templi e preferisce i cuori; testimone di un Dio che non parla in lingue auliche che hanno bisogno di interpreti, ma che comunica nel linguaggio comune perché tutti lo conoscano davvero come Padre misericordioso, Pastore buono che conosce ciascuno per nome, Fratello e amico che si fa pane spezzato. È stato un vento impetuoso, il Concilio, che ha disperso le nubi, aperto nuovi orizzonti, alimentato la speranza, ma ha anche creato scompiglio in chi ha visto i propri privilegi e le proprie sicurezze messi in discussione.

In questo mezzo secolo sembra però che quel vento abbia pian piano perso vigore, non solo perché noi uomini abbiamo la memoria corta e ci abituiamo a tutto, ma anche perché quelli a cui piace un Dio sonnacchioso che dall’alto dei cieli si accontenta di nuvole d’incenso, di belle chiese e di tante candele, sono corsi a chiudere porte e finestre, a tagliare ponti e innalzare barricate.

Poi è arrivato il ciclone delle dimissioni di Benedetto XVI, e il vento fresco di Francesco. «Poveri, scarti, emarginati, chiesa in uscita, chiesa ospedale, accoglienza, attenzione alla persona, povertà, trasparenza, sobrietà…»: le parole di sempre, dette in modo nuovo, sgravate dal vetusto «chiesese» dei documenti curiali, sono tornate in libertà. E non solo le parole, ma soprattutto i gesti di Francesco, spiazzano e confondono, oppure confortano e incoraggiano. La reazione dei custodi della tradizione, riluttanti alleati di terremotatori gongolanti, non si è fatta attendere, come abbiamo visto in questi ultimi mesi, prima, durante e dopo il Sinodo sulla famiglia. Il paradigma del Natale si è ripetuto.

Ma il Natale, storia di libertà e gratuità, di semplicità e incontro, non si lascia ingabbiare. Nemmeno dagli scandali che periodicamente scuotono la Chiesa. Come il primo Natale non è stato fermato dalle violenze di Erode o dall’ipocrisia dei custodi del «Tempio e della Legge», così anche il cammino iniziato anni fa dal Concilio e galvanizzato oggi dal carisma di Francesco, non sarà fermato. Anzi, come la storia sacra ci insegna, questi scandali e le sofferenze a essi legate, nelle mani di Dio stanno diventando un’occasione di grazia e rinnovamento, un pungolo a continuare il cammino per la confusione dei «beffardi» e la consolazione e dei «miti e puri di cuore».

Buon Natale. E che il 2016 sia davvero l’anno della misericordia.

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Buona lettura.




Famiglia al centro

Mentre scrivo, il Sinodo ordinario su «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» è appena cominciato. Al centro è la famiglia, il pilastro di ogni società, che nel nostro mondo europeo e nordamericano è messa in discussione dal modello di vita individual-consumista e che nel resto del mondo subisce invece lo stress della violenza delle guerre, della povertà, delle malattie, delle migrazioni forzate.

In questi ultimi anni la famiglia italiana ha subito un grande cambiamento: drastica riduzione del numero dei matrimoni (sia religiosi che civili), crescita delle unioni di fatto, nozze ritardate, pochi figli o nessuno e spesso in tarda età, aumento dei single per scelta o per necessità, separazioni, divorzio «breve», educazione gender, mateità surrogata… Tutto questo accompagnato da una cacofonia di attacchi alla famiglia tradizionale vista come ostacolo alla libertà, alla modeità, ai diritti individuali e alla nuova realtà di una società in continua evoluzione. Chi cerca di resistere a questa ondata è bollato come tradizionalista, antidiluviano, fondamentalista e troglodita, se non omofobo e via dicendo, con una serie colorita di epiteti vilificanti.

La crisi della famiglia è sotto gli occhi di tutti, e sembra aver creato uno strano stato di assuefazione al cambiamento, e, anzi, anche una sorta di malsana aspettativa del nuovo che ormai non sorprende più. Un nuovo visto da alcuni come dovuta evoluzione di un processo di liberazione e modeizzazione, da altri come nefasta conseguenza di un’aberrazione istituzionalizzata. Vedi l’ultimissima notizia di questi primi giorni di ottobre della cosiddetta miss transegender che vuole essere padre e madre del proprio figlio.

Quando leggerete queste righe, il Sinodo sarà già concluso e sono sicuro che quelli che si aspettavano grandi novità saranno delusi, come saranno delusi i conservatori che ritengono il diritto canonico più importante anche del Vangelo. Papa Francesco sta guidando la Chiesa a vivere la fedeltà a Cristo nell’oggi senza arroccarsi sulla «legge», difesa e sostenuta da un numero crescente di regole e commi per far fronte a tutte le possibili novità. Richiamando alla fedeltà al Vangelo, Francesco obbliga la Chiesa a vivere e sperimentare la misericordia di Dio e a rimettere la persona al centro: la persona, uomo e donna, nella sua concretezza, bellezza e forza, ma anche nella sua grande fragilità. Evita così le trappole della «casuistica». Come ha fatto Gesù con i «farisei» che gli tendevano trappole con questioni capziose come quella della moglie di sette mariti, della liceità del divorzio, dei soldi dati al tempio, della definizione del «mio prossimo», e così via. Gesù non ha aggiunto nuove regole modeizzanti. Lui è andato al nocciolo, al progetto originale di Dio: un progetto di amore nel quale l’unità e la complementarità dell’uomo maschio e femmina è fondante, perché immagine della natura di Dio stesso. Il suo discorso è stato duro, tanto da spiazzatre anche i discepoli, «meglio non sposarsi» allora (Mt 19,1-10). Ma non per questo ha ammorbidito la sua proposta: «L’uomo non divida ciò che Dio ha unito».

Alla logica del «piacere» che mette al centro l’«io», Gesù oppone la forza dell’«amore» che pone al centro il «tu» e il «noi». Alla felicità come «piacere» immediato e personale, in cui l’altro è valutato per quanto mi dà o mi soddisfa, oppone la felicità come relazione nell’armonia, nella pace e nell’unità, nella quale la felicità dell’altro diventa spazio, supporto e realizzazione della mia felicità. Una proposta non facile, ma l’unica che secondo Gesù permette davvero all’uomo di raggiungere la pienezza della sua dignità.

Perchè è allora essenziale per la Chiesa difendere la famiglia? Perché è l’immagine di Dio, è il luogo più ordinario della sua presenza. Senza la famiglia non si può capire la Trinità che è comunità di amore, non si capisce la gratuità dell’amore e la bellezza e complementarità della diversità. Senza la famiglia, generare la vita diventa un’azione industriale, il bambino si trasforma in un prodotto. Senza famiglia non si capisce la Chiesa, famiglia di Dio, comunità di fratelli e sorelle, figli e figlie dello stesso Padre, animati dallo stesso Spirito, uniti come un corpo allo stesso Cristo. Senza famiglia non si capisce cosa siano il dono e l’accoglienza, e si lascia libero campo solo a relazioni di utilità, di interesse, di dominio, di possesso. Senza famiglia non si capisce la «misericordia» che nasce dall’amore viscerale tra madre e figlio. Senza famiglia non si capisce Dio.


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Gigi Anataloni




Dalla parte dei Poveri

È il tema che la
Chiesa italiana propone per questo Ottobre missionario come risposta a papa
Francesco il quale ha ricordato ai direttori delle Pontificie Opere Missionarie
che «L’evangelizzazione, che deve raggiungere tutti, è chiamata a partire dagli
ultimi, dai poveri, da quelli che hanno le spalle piagate sotto il peso e la
fatica della vita. […] La Chiesa è il popolo delle beatitudini, la casa dei
poveri, degli afflitti, degli esclusi e dei perseguitati, di coloro che hanno
fame e sete di giustizia. A voi è chiesto di operare affinché le comunità
ecclesiali sappiano accogliere con amore preferenziale i poveri, tenendo le
porte della Chiesa aperte perché tutti vi possano entrare e trovare rifugio» (Ai
direttori delle PP.OO.MM.
, 9 maggio 2014).

Essere dalla parte dei poveri è nel Dna della Chiesa fin dalle sue
origini, anche se spesso uomini di Chiesa hanno tradito questo ideale. È un
impegno che nei secoli ha generato miriadi di attività e per il quale centinaia
e centinaia di santi hanno dato la vita, non ultima la nostra beata Irene. Ma
dove c’è «il grano» trovi sempre anche «la zizzania». Già san Giacomo se la
prendeva con i cristiani che davano i primi posti ai ricchi impomatati e
cacciavano in un angolo i poveri puzzolenti (Gc 2,1-4). E se fosse tra noi
oggi, cosa direbbe a noi cristiani del «bel paese»?

Nella nostra bella Italia ci sono due facce della stessa medaglia: da
una parte una generosità incredibile ed eroica, dall’altra una durezza di cuore
da vergognarsi. L’Italia che amo ha un cuore grande che batte in milioni di
volontari, negli angeli del fango, in chi è impegnato in migliaia di onlus, in
chi sostiene l’adozione a distanza, nei gruppi missionari, nei benefattori e
amici di missionari e volontari, nei laici impegnati, in chi lotta per la pace
e la giustizia e sfida la mafia e la camorra, in chi accoglie rifugiati,
fuggitivi e migranti senza se e senza ma… L’altra faccia ha il volto dello
sfruttamento della prostituzione dove mafia e camorra e cartelli di trafficanti
di uomini prosperano al servizio dei gusti perversi di clienti insospettabili;
delle industrie agroalimentari a caccia di tutto quello che costa meno anche
sapendo di sfruttare migliaia di lavoratori schiavizzati da caporalati
criminali e mafiosi; dei politici che cavalcano e alimentano le paure della
gente con l’occhio ai sondaggi e poi non fanno il loro dovere al servizio del
bene comune persi come sono nelle loro diatribe, ripicche, ricatti; dei giornalisti
che provano un godimento morboso nello scrivere di «invasioni, masse,
conquiste, furti, violenze, contagi e contaminazioni», dimenticando che paesi
molto più poveri del nostro hanno accolto centinaia di migliaia di fuggitivi,
rifugiati e migranti senza fare tutte le storie che facciamo noi che pure
abbiamo tantissimi alloggi sfitti, interi paesi disabitati e abbandonati e un
gran numero di posti lavoro nell’agricoltura, nei servizi e nell’artigianato
rifiutati dai più; dei super cristiani che nella difesa della purezza della
religione vogliono insegnare il mestiere al papa che si permette di mettere in
discussione il loro perbenismo affumicato d’incenso ed esteriorità.

I lettori di
questa rivista senza pretese sanno bene che stare dalla parte dei poveri fa
bene allo spirito e alla società, e non amano gli slogan, il vociare per
sentirsi e farsi sentire. Essere amici dei missionari significa condividee la
scelta preferenziale per i poveri ovunque essi siano. E non solo con un aiuto
economico, ma soprattutto con uno stile di vita che parte dal cuore. Solo
qualche settimana fa, era il 30 agosto, il Vangelo ci ha ricordato che
l’inquinamento delle persone viene dal di dentro. Gesù ha elencato 12 fattori
di inquinamento, tra cui avidità, inganno, malvagità e superbia. L’avidità, che
san Paolo definisce come idolatria, fa perdere il baricentro: non si pensa più
secondo il progetto d’amore di Dio, ma si diventa schiavi del denaro, del
potere, delle cose, del proprio piccolo mondo. Guai a chi lo tocca. La malvagità
ha molte forme, una è particolarmente pericolosa: il godimento nel diffondere
informazioni sbagliate e diffamanti sugli altri. La superbia o arroganza mette
il «sé» al centro e rifiuta ogni confronto e dialogo. L’inganno, tra le sue
molte facce, fa passare per vero quello che è spudoratamente falso.

Bisogna reagire a questo inquinamento, che è come una polvere sottile
che ci penetra e ci corrompe. La cura è quella indicata dal papa: rimanere
accoglienti verso i poveri, i migranti, i rifugiati, i disperati, i senza
lavoro, chiunque sia nel bisogno, senza distinguo. Stare dalla parte dei poveri
ci aiuta a rimanere umani, a mantenere il cuore limpido, ad avere le mani
libere per accogliere, abbracciare, accarezzare, consolare, aiutare e ricevere.

Stare dalla parte dei poveri fa bene a noi, fa bene alla Chiesa, fa
bene alla società.

Gigi Anataloni




Solo per amore

Il vescovo di Orano (Algeria), il domenicano Pierre
Claverie, dopo il massacro dei sette monaci trappisti di Nôtre Dame
de l’Atlas
, avvenuto quaranta giorni prima di essere a sua
volta assassinato il 1° agosto 1996, rispondendo indirettamente a quanti gli
domandavano perché lui e molti altri cristiani avessero deciso di rimanere
nella tormentata terra di Algeria, in un’omelia tenuta il 23 giugno 1996 a
Prouilhe (Francia), dove si era recato per un viaggio, così diceva: «Dopo
l’inizio del dramma algerino mi è stato chiesto più di una volta: “Ma cosa ci
fate voi laggiù, in Algeria? Perché rimanete in quel paese? Ma scuotete
finalmente la polvere dai vostri calzari, e tornatevene a casa”. A casa […] ma
dov’è davvero la nostra casa? […] Noi siamo in Algeria per amore di questo
Messia crocifisso, solo e unicamente per amore suo! Non abbiamo alcun interesse
da salvare, alcuna influenza da difendere, non siamo stati spinti da alcuna
perversione masochista, non abbiamo alcun potere, ma siamo laggiù come al
capezzale di un amico, di un fratello ammalato, stringendogli la mano e
asciugandogli il sudore dalla sua fronte! Solo per amore di Gesù poiché è lui
che sta soffrendo a motivo di questa violenza che non risparmia nessuno,
crocifisso nuovamente nella carne di migliaia di innocenti. Come Maria, la
Madre, e l’apostolo Giovanni, anche noi ci troviamo ai piedi della croce su cui
Gesù muore abbandonato dai suoi e scheito dalla folla. Non è forse il dovere
di ogni cristiano esser presente nei luoghi dove qualcuno viene respinto e
abbandonato? […] Dove può trovarsi la Chiesa, che è il corpo mistico di Cristo,
se non in prima linea? Io credo che muore del non essere vicina alla Croce del
suo Signore. Per quanto possa sembrare paradossale, e san Paolo lo ha
dimostrato con chiarezza, la forza, la vitalità, la speranza cristiana, la
fecondità della Chiesa vengono appunto di là, da nessun altro luogo e in nessun
altro modo. La Chiesa si inganna e inganna il mondo quando si allinea con le
altre potenze, come un’organizzazione umanitaria o come un movimento evangelico
amante della spettacolarità. In quel modo essa potrà brillare, ma non certo
bruciare del fuoco dell’amore di Dio, “forte come la morte”, come dice il
Cantico dei Cantici, perché qui si tratta davvero di amore, di amore
innanzitutto, e solo di amore, una passione di cui Gesù ci ha trasmesso il
gusto e ha tracciato il cammino. “Non c’è amore più grande di questo: dare la
vita per chi si ama!”». (Jean-Jacques Pérennès, Vescovo tra i musulmani.
Pierre Claverie, martire in Algeria
, Città Nuova, 2004).

Ho trovato questa citazione nella
lettera che il nostro superiore generale, padre Stefano Camerlengo, ha mandato
alla fine di giugno per aggioare i confratelli sulla vita dell’Istituto. Mi è
parsa troppo bella per non condividerla con voi. Sono parole che a quasi
vent’anni di distanza non hanno perso il loro valore, anzi, considerando
l’impressionante numero di martiri di questi primi anni del terzo millennio,
sono più vere che mai. A dispetto dei mille luoghi comuni che si ostinano a
etichettare la Chiesa con i suoi errori veri o presunti: crociate,
inquisizione, preti pedofili, conquista, caccia alle streghe, omofobia,
scandali finanziari, la Chiesa continua a testimoniare l’amore di Dio per gli
uomini con la forza della mitezza di migliaia e migliaia di persone che
continuano a resistere all’odio e alla violenza. Uomini e donne che rimangono
al proprio posto sfuggendo l’esposizione mediatica, che testimoniano la potenza
dell’amore nel nascondimento, nella vita di ogni giorno e nei piccoli atti di
perdono e compassione, e opponendo solidarietà all’indifferenza, vicinanza al
distacco, condivisione allo sfruttamento, relazione personale alla
massificazione indifferenziata.

Tempo fa – era il dicembre 2012 -, proprio in questa pagina, ricordavo
un «fante della missione», che non aveva certo la stoffa dell’eroe, ma era
ripartito a 72 anni verso il centro dell’Africa. Un missionario semplice che
oltre ai 33mila rosari confezionati con le sue mani, ha seminato preghiera,
amore e serenità per 42 anni in Zaire, nel frattempo diventato Congo. Fino
all’ultimo, quando debilitato da un’improvvisa malattia è stato rimpatriato
d’urgenza e, dopo una sola settimana, è andato a godere la beatitudine dei
santi, per sempre. Padre Tarcisio Crestani (7/12/1940-30/05/2015), 775°
missionario della Consolata a terminare la corsa e ricevere il premio, è
vissuto e ha concluso la sua lunga camminata nel nascondimento e lontano dalla
terra che ha tanto amato. Ma la sua umile testimonianza, preziosissima agli
occhi di Dio, ha lasciato un segno perché si è lasciato bruciare, senza
pretese, dal fuoco dell’amore di Dio, fino alla fine, rinunciando anche al
desiderio di morire là, in mezzo alla gente per cui si era speso, in quel di
Isiro, tra i bambini del Gajien. Ultima offerta di totale povertà, segno di una
vita spesa, pur con limiti e contraddizioni, «tutta per Gesù».

Gigi Anataloni




Rompere l’assedio

Il IV Convegno missionario nazionale
celebrato a Sacrofano (Roma) dal 20 al 23 novembre scorso, è stato un bell’evento,
carico di passione missionaria, di realismo e di speranza. Ne cominciamo a
parlare su queste pagine. Prendo spunto da due relazioni per queste poche righe
di inizio 2015: dalla relazione del prof. Aluisi Tosolini e quella del padre
Gustavo Gutiérrez.

Tosolini, che ha fatto la sintesi
delle risposte al questionario preparatorio, tra le molte cose, ha anche
scritto: «Leggendo i materiali pervenuti si ha spesso l’impressione che chi
scrive si percepisca sotto assedio. Mi pare che il lutto per la fine della
“civiltà cattolica” non sia stato ancora elaborato [da chi vive in Italia, ndr].
L’essere minoranza – piccolo gregge è invece percepito in modo del tutto
differente dai Fidei Donum [sacerdoti diocesani mandati in missione
dalle loro diocesi, ndr] che operano in missione: è visto come una
ricchezza ed una sfida piuttosto che come un limite o un pericolo. Da qui la
metafora della “comunità sotto assedio” e dei tre diversi comportamenti che in
teoria si possono pensare quando si è sotto assedio. Il primo è arrendersi,
o venire a patti, trattare la resa. Il secondo comportamento è resistere.
Attrezzarsi per resistere all’infinito, sviluppando tutti i vissuti tipici
della persona sotto assedio: vittimismo, chiusura, incapacità di cogliere i
nuovi contesti e le diverse occasioni di interazione con essi, dogmatismo, … Il
terzo atteggiamento è uscire, sortire dall’assedio. Aprire le porte,
eliminare le mura. Correre il rischio di camminare su spazi sconosciuti. Avere
il coraggio di affrontare nuove domande e nuove sfide. Lasciare il centro per
rischiare la vita nelle periferie».

Gutiérrez ha ricordato (la citazione
dalla registrazione è con molte parentesi, perché parlava un misto di italiano,
spagnolo, inglese e altre lingue, ndr) che c’è un miracolo nei Vangeli
che è raccontato ben cinque volte ed è comune a tutti gli evangelisti, Giovanni
compreso: la moltiplicazione dei pani. Una tale ripetizione indica che nasconde
un messaggio molto importante. «Il messaggio non (è) tanto la capacità di
moltiplicare il pane, noi non possiamo fare questo. Credo che il messaggio sia
condividere. La comunione è entrare in contatto con altre persone (anche se
avessimo delle ragioni) per dire “non posso condividere”. (Ma Gesù ha fatto)
condividere partendo da due pani e cinque pesci (che sono) niente. Noi non
dobbiamo aspettare di condividere quando abbiamo tante cose.
Essere
cristiano è condividere la gioia di essere amato da Dio, la compassione e la
simpatia (tutte e due significano “patire con”). La compassione non solo
avvicinarsi a una persona sofferente, ma anche a altre persone, è simpatia, è
parlare di frateità. Il messaggio è che (per far presente il) Regno di Dio
nella storia, (occorre) condividere». Ha poi ricordato che Giovanni ricorda che
sono avanzate dodici ceste. Un numero non certo casuale. «Perché 12 è il numero
del popolo di Dio, 12 tribù di Israele, 12 discepoli di Gesù. Mi sembra che
queste 12 dodici ceste (siano) una sfida storica ai futuri discepoli (affinché
facciano) come Gesù: condividere».

Stiamo iniziando un nuovo anno, con
tante sfide davanti a noi. L’analisi che il dottor Caselli ci fa in questo
numero evidenzia quelle italiane. Il dossier ci butta addosso quelle a livello
internazionale. C’è di che disperare. Ma il prof. Aluisi ci ricorda che
l’alternativa vera a tutti questi problemi non è arrendersi e neppure solo
resistere, occorre uscire per rompere l’assedio. E padre Gutiérrez ci indica lo
strumento che ci permette di uscire: la condivisione (che è frateità, amore e
«con-passione») e, sull’esempio di Gesù, ci incoraggia a «con-patire» anche se
non siamo nella situazione ideale, anche se abbiamo solo «cinque pani e due
pesci».

Una cosa simile propone papa Francesco che nel suo messaggio per la
giornata della pace del 1° gennaio ci invita a vivere da fratelli per
contrastare le (nuove) schiavitù. Frateità, compassione, simpatia e
condivisione: l’antidoto alla logica di morte e di ingiustizia, alla
disperazione e alla paura. Che questo 2015 sia un anno di «grazia del Signore».
Buon anno.


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Gigi Anataloni




Non lasciamoci rubare la gioia

«Cari fratelli e sorelle, non
lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione! Vi invito ad immergervi nella
gioia del Vangelo, ed alimentare un amore in grado di illuminare la vostra
vocazione e missione. Vi esorto a fare memoria, come in un pellegrinaggio
interiore, del “primo amore” con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il
cuore di ciascuno, non per un sentimento di nostalgia, ma per perseverare nella
gioia. Il discepolo del Signore persevera nella gioia quando sta con Lui,
quando fa la sua volontà, quando condivide la fede, la speranza e la carità
evangelica» (Francesco, Messaggio per la Giornata Missionaria 2014; cfr.
pag. 70).

Non lasciamoci rubare la gioia! Mi ha colpito molto questo invito
pressante del Papa. Dopo la sua esortazione apostolica sulla gioia del Vangelo
(Evangelii gaudium), ecco un nuovo richiamo non solo a essere giorniosi,
ma anche a difendere la gioia, quella vera, che nasce dall’incontro autentico,
profondo, personale e condiviso con Gesù.

Degli anni vissuti in Kenya mi manca molto la giorniosa celebrazione
della fede che si esprime anche in canti e danze, a volte troppo vivaci, ma
soprattutto nello stare insieme senza guardare l’orologio e in una
partecipazione corale in cui tutti si sentono attori e non spettatori. Quante
volte invece qui in Italia capita di celebrare la messa nella noia più
assoluta, per (non «con») gente frettolosa o addirittura per «spettatori»
completamente spaesati e incapaci di contribuire, nonostante i lontani ricordi
del catechismo e un battesimo ormai rimasto solo sulla carta. Funzione, non
celebrazione e festa, specchio di una religione in cui, malgrado gli sforzi di
tanti pastori, prevalgono i riti. Le chiese, belle e restaurate ma ridotte a «beni
culturali» e attrazioni turistiche, non sono più il luogo dell’assemblea
giorniosa della famiglia di Dio che vi celebra l’esperienza del perdono,
dell’accoglienza e della pace.

Anche nel cuore di chi si dice cristiano Dio è stato messo al margine,
soppiantato da nuovi «dei» nei cui «templi» si celebrano i modei riti del
divertimento per scaricare le tensioni di una vita frustrata e per dimenticare
che si è schiavi di un sistema consumistico volto prima di tutto a svuotare gli
individui dal di dentro e a rubare loro la speranza.

Certo, la domanda di felicità è sempre
altissima. Nessuno vuole vivere per essere infelice. Ma una società come la
nostra che privilegia l’avere sull’essere, il diritto sul dovere e l’io sul
noi, non può che lasciare l’amaro in bocca, perché la felicità non si compra. I
soldi possono pagare per il divertimento, il piacere, lo sballo, la
trasgressione, il lusso, il potere. Ma la felicità si ha solo donandola,
condividendola, facendo felici gli altri. è
questo il segreto di Gesù: perdere la vita per ritrovarla, morire per vivere. è il segreto di perdonare per essere
perdonati, dell’amare perché amati.

L’appello di papa Francesco è
più attuale che mai. Non possiamo lasciarci rubare la gioia di questa via alla
felicità: più uno si lascia prendere dal Signore Gesù e dalla logica della sua
Parola, più uno sperimenta un senso di pace, di serenità, più uno diventa
positivo e tollerante verso gli altri e meno ansioso verso gli accadimenti
quotidiani: il mangiare, il vestire, l’opinione altrui, la moda, il «così fan
tutti». Più uno lascia che Gesù diventi il «suo Signore», e più è capace di
empatia, di essere partecipe di giornie e sofferenze, attento ai bisogni di
tutti. Non è un cammino facile, le resistenze sono tante, l’orgoglio è forte.
Ma più uno si lascia «evangelizzare» più la gioia cresce. Niente di miracoloso,
certo, ma uno si scopre sempre più capace di meravigliarsi, di ringraziare e di
giornire delle piccole cose, con una desiderio di bellezza (purezza, onestà,
integrità) che lo fa reagire, anche con energia, a tutto ciò che è falso,
ingiusto, corrotto, umiliante, infanga la dignità della persona e uccide la
grandezza «dell’infante» che è dentro di lui. «Non lasciarci rubare la gioia» è
quindi resistere a un sistema che ci vuole appiattire e cosificare, rubandoci i
sogni e l’innocenza, infangando l’immagine di Dio che è in noi e che Gesù
Cristo, sulla croce, ha restaurato alla sua bellezza originale. Non lasciarci
rubare la gioia significa mantenere una relazione viva con Gesù Cristo,
l’Emmanuele Dio-con-noi e in mezzo a noi, senza rassegnarsi al fatto che venga
ridotto a un mero marchio di identità culturale sulle pareti di luoghi
pubblici. Sarebbe meglio invece che fosse come il crocefisso delle vecchie
edicole delle strade e sentirneri di campagna e montagna: compagno di viaggio nel
difficile cammino della vita.

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Gigi Anataloni




Santa Audacia

«Dacci la santa audacia di cercare
nuove strade | perché giunga a tutti | il dono della bellezza che non si spegne»
(Francesco, preghiera finale dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium).

Mi piace questo invito alla «santa audacia». Ne abbiamo proprio
bisogno, perché nel vivere la nostra fede ci siamo davvero appiattiti. Chiamati
alle vette, pensiamo invece che le belle colline su cui viviamo siano anche
troppo impervie per le nostre deboli gambe.

È coraggioso che Francesco metta insieme gioia, bellezza e audacia,
tre dimensioni dell’essere cristiani che sembrano sparite dal nostro dizionario
e da tutto quello che esprime la nostra fede. Basti pensare a molte delle
chiese costruite alla fine del secolo scorso, spesso livellate da
un’architettura populista incolore che non ha più neppure l’eco della giorniosa
bellezza e dello slancio audace delle chiese gotiche. Specchio di una fede che
ha perso il sapore, che non osa più.

Ben venga allora il respiro nuovo proposto da Francesco.

Gioia «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro
che si incontrano con Gesù». Sono le prime parole della lunga esortazione.
Quante volte ci è stato detto che noi cristiani non siamo più tali perché non
abbiamo gioia, anche se diciamo di credere nella Risurrezione. Ci siamo ridotti
come i discepoli di Emmaus in fuga da Gerusalemme. Viaggiamo nella vita a capo
chino, quasi vergognandoci di quello cui crediamo, abbagliati dalle mille luci
della ribalta del mondo. «Non ci ardeva il
cuore in petto?», domandano a se stessi i discepoli dopo l’incontro con Gesù.
Il cuore  che arde, pieno di gioia:
quante volte sentiamo davvero la gioia di essere di Cristo? Quante volte questa
gioia si riversa nelle nostre relazioni, negli incontri, nel lavoro, nella
scuola, nel tempo libero?

Bellezza  Abituati a una bellezza che si ottiene tramite lunghi trattamenti
di make-up, estenuanti esercizi di fitness, diete specializzate e
ritocchi al computer, ci siamo dimenticati che bellezza è semplicità,
innocenza, purezza e soprattutto verità. Come Dio, semplicità e bellezza
assoluta: «Dio è Amore». E basta. Eppure noi stessi abbiamo opacizzato questa
bellezza con il nostro essere cristiani pieni di contraddizioni e paure, con la
nostra mediocrità e con i nostri scandali. Noti e ben pubblicizzati sono quelli
della Chiesa gerarchica, ma i cristiani ordinari sono davvero immuni dal dare
scandalo?
Aprirsi alla bellezza è accettare la sfida della verità, dell’amore e
della libertà. «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile,
onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri
pensieri» (Fil 4,8).

Audacia  È chiamata al coraggio e alla creatività, alla sobrietà generosa
(l’unica cosa che si può sprecare è l’Amore!) e all’uscire verso gli altri,
alla fiducia piena di speranza e al camminare insieme. È osare la pace. È
praticare l’accoglienza, non solo quando c’è abbondanza, ma anche quando
bisogna stringersi un po’ e si deve condividere dallo stesso magro piatto.

Audacia è il coraggio di confrontarsi con la Parola per decodificare
le menzogne sublimate a verità dagli urlatori di tuo, dai magnati rifatti e
ritoccati o dai guru della pubblicità. Audacia è il dire no alla pressione del
gruppo, della gang, della curva, degli amici, della moda, del politicamente
corretto, del sentito dire. Audacia: per reinvenatare il proprio essere
cristiani a immagine di Cristo.

Bellezza, gioia e audacia: che queste tre parole diano sapore al nostro «pellegrinare»
nel 2014.

Gigi Anataloni




A rischio di schiavitù

Schiavo: «Agg. Individuo di
condizione non libera, giuridicamente considerato come proprietà privata e
quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio
del legittimo proprietario» (Treccani.it). Cosa del passato, ci viene da
pensare! Oppure, qualcosa che sopravvive solo in alcuni luoghi arretrati e
lontani del mondo. Qui da noi? Niente schiavitù. Siamo liberi. Per questo
abbiamo la costituzione, i diritti umani, la «civiltà cristiana»…

Eppure, ascoltando quanto ha detto papa Francesco nel Molise su lavoro
e riposo domenicale e riflettendo sul significato del riposo nella Bibbia, mi
sono venuti un sacco di dubbi riguardo alla nostra presunta libertà. I conti
non tornano. Non tornano per i giovani che vivono di precariato o sono
costretti a lavori semivolontari malpagati e insicuri. Non tornano per gli
immigrati, rifiutati da tutti ma poi sfruttati in nero. Non tornano per chi è
costretto a lavorare anche la domenica o a fare tui massacranti sacrificando
la famiglia e la pratica della propria fede. Non tornano per chi si fa le
maratone di fine settimana sulle piste da sci o sulle spiagge, allo stadio o in
discoteca per incontrare altra gente e divertirsi, e si trova invece solo e
vuoto. Non tornano per chi vive in un alloggio extra blindato di 60-80 mq con
affitti esorbitanti o stra-tassato se di proprietà, dove non c’è spazio per un
figlio in più, gli amici, una festa. Non tornano quando le persone sono
giudicate in base alla moda del momento, moda che è manipolata da monopolii
mediatici, produttivi e commerciali mirati non all’utilità sociale ma al
proprio profitto.

Non tornano neppure per milioni di persone che sopravvivono in tuguri
in cui noi non metteremmo neppure le nostre galline, che, pur lavorando
quotidianamente dodici o più ore, non riescono a pagarsi due pasti decenti al
giorno, si vestono con abiti comperati al mercato dell’usato, scarpinano per
chilometri per arrivare la posto di lavoro, non hanno protezione sanitaria e
neppure i soldi per comperare libri, quadei e vestiti ai loro figli.
Sfruttati, sottopagati e ricattati: una protesta, una malattia, e sono fuori.
Ci sono altre migliaia di disperati disposti a farsi sfruttare al posto loro.

Questi conti non tornano neppure quando si guarda al moltiplicarsi di
leggi, regolamenti e cavilli, spesso imposti non dal buon senso o dal bene
comune, ma da lobbies economiche piene di soldi che sfuggono a ogni
controllo, intente a rafforzare i propri poteri e la propria influenza, o da
sistemi ideologici che per difendere le loro libertà calpestano quelle degli
altri.

Faccio fatica a vedere libertà in
tutto questo. Sembra che ci sia una logica perversa per la quale ciascuno debba
lavorare di più per guadagnare di meno e spendere di più. E guai se uno non
spende, perché è colpa sua se c’è la recessione e le fabbriche chiudono. Così
vorrebbero che tu cambiassi i vestiti a ogni stagione, lo smartphone ogni sei
mesi, la macchina ogni tre anni, la lavatrice ogni… e via discorrendo. Sei
libero, sì: di spendere, consumare, indebitarti, incollarti alla Tv, lasciarti
riempire di bla bla, crearti relazioni digitali, ammassarti in spiaggia, far la
coda in autostrada. Ma non puoi fermarti: per stare in famiglia, godere dei
figli (se ci sono), leggere, curare la tua casa, creare e far crescere
relazioni e scoprire così che fai parte di una comunità e non di un vicinato
anonimo e minaccioso. Soprattutto non hai più tempo per Dio. Sparita la
domenica (giorno del Signore), prevale il fine settimana (giorno di altri
signori: shopping, sport, sci, mare, movida…). Perché se dai tempo a Dio
rischi di cominciare a pensare e finisci per scoprirti triste, vuoto,
manipolato, ingannato e sfruttato. Se metti Dio al centro riscopri te stesso e
la tua dignità, che non può essere riempita solo dall’avere, consumare,
correre, «divertirsi», cercare sport o esperienze estreme.

Ci sono voluti millenni perché l’umanità (o parte di essa) ripudiasse
la schiavitù come sistema. Ma il dubbio che oggi esista un altro tipo di
schiavitù m ‘inquieta. Si scrive e parla tanto di diritti umani, abbiamo
centinaia di associazioni piccole e grosse che li difendono e promuovono,
eppure l’impressione è che in un mondo dove si dà sempre meno spazio a Dio
diminuiscano anche la libertà e la dignità dell’uomo. Una pagina web chiedeva «quanti
schiavi hai?». Forse oggi è tempo di domandarci anche: «Ci rendiamo conto che
rischiamo di vivere da schiavi e che la libertà va difesa sempre, per se stessi
e per ogni altra persona?».

Buona estate e ogni bene a tutti voi, lettori di MC.

Tags: schiavitù, costume

Gigi Anataloni




Piangere e «spogliarsi»

Scrivo mentre non si fa che parlare del terribile
naufragio di Lampedusa, con i pochi superstiti rei di clandestinità. Una
tragedia che ha provocato pietà e rabbia, compassione e sdegno e anche tanta
retorica. Eppure presto sarà dimenticata nella logica della
spettacolarizzazione mediatica. Chi ricorda ancora i 72 macellati nel Westgate
di Nairobi? Chi non è assuefatto al ripetersi delle bombe sui civili in Iraq? O
delle chiese bruciate in Nigeria? E degli scontri in Egitto? E in Siria? Chi fa
caso a cosa succede in Somalia, o si preoccupa della situazione in Centrafrica
o nel Nord-Est del Congo o in Libia? E quanti sono gli scomparsi dei quali non
si sa proprio niente, morti nel silenzio, nella clandestinità, nelle
reti dei trafficanti di uomini, nella follia apocalittica dei fanatici mutati
in terroristi in nome di Dio? E le vittime, gli schiavi e gli sfruttati del
perverso sistema economico in cui viviamo: giovani senza lavoro, anziani
abbandonati, esodati e licenziati, cassintegrati e senza casa, indebitati con
banche e strozzini (che è quasi lo stesso)… chi li conta più?

«Oggi sono qui con voi. Tanti di voi – ha
detto il Papa ad Assisi il 4 ottobre scorso – sono stati spogliati da questo
mondo selvaggio, che non dà lavoro, che non aiuta; a cui non importa se ci sono
bambini che muoiono di fame nel mondo; non importa se tante famiglie non hanno
da mangiare, non hanno la dignità di portare pane a casa; non importa che tanta
gente debba fuggire dalla schiavitù, dalla fame e fuggire cercando la libertà.
Con quanto dolore, tante volte, vediamo che trovano la morte, come è successo
ieri a Lampedusa: oggi è un giorno di pianto!».

Piangere! Invece prevale la tentazione di fare
la predica o di essere saccenti: «Bisogna fare così, bisogna fare cosà…». Di
fatto nessuno ha soluzioni in tasca. I problemi sono veramente complessi e
ramificati e il Male (come l’ha chiamato Domenico Quirico uscito dall’inferno
siriano) non solo penetra con i suoi tentacoli anche le istituzioni che
dovrebbero essere più integre e pure ma compromette anche la nostra capacità di
ragionare in modo obiettivo, di cercare la verità. Provaiamo solo a pensare
alla situazione dei cosiddetti «clandestini» che «vengono a invaderci», che «sono
pieni di pretese», che «conoscono solo la parola “diritti” e non quella
“doveri”», che «approfittano di noi», che «rubano il lavoro ai nostri figli»…
Da vittime sono trasformati in carnefici. Eppure chi lucra sul traffico di
uomini, fa documenti falsi, manipola le leggi, sottopaga in nero, intasca le
bustarelle o collude con le mafie, non sono certo i disperati che sbarcano a
Lampedusa ma insospettabili connazionali: funzionari, tutori dell’ordine,
avvocati, industriali, coltivatori, costruttori… In questo gioco perverso i
poveri sono usati contro i poveri, mentre molti politici cavalcano il
malcontento per una manciata di voti.

Piangere e cambiare il cuore. Piangere e spogliarci dai
pregiudizi, dall’apatia, dal pensare in piccolo, dal demonizzare le vittime. Ad
Assisi il Papa ci ha detto: «Queste cose le fa lo spirito del mondo». E ci ha
invitato a «spogliarci», sull’esempio di San Francesco. Perché «la mondanità
spirituale uccide! Uccide l’anima! Uccide le persone! Uccide la Chiesa!».
Occorre «spogliarci dello spirito del mondo, che è la lebbra, è il cancro della
società! È il cancro della rivelazione di Dio! Lo spirito del mondo è il nemico
di Gesù! Chiedo al Signore che, a tutti noi, dia questa grazia di spogliarci».

Sì, piangere i morti di tutte le Lampeduse del
mondo. Ma piangere per rinascere, spogliandoci della passività,
dell’indifferenza, dell’assuefazione, della svendita della nostra capacità
critica e, soprattutto, dell’indurimento del cuore. Per non essere solo dei «brontoloni»
inerti, ma «cristiani» cittadini d’Italia e del mondo: responsabili ed
esigenti, critici e onesti, «samaritani» e «profeti».

E ho finito per fare la predica! Scusatemi…

Gigi Anataloni




Sulle strade dell’uomo

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«Andando annunciate» (Mt 10,7) ha detto Gesù ai suoi discepoli. Due verbi essenziali e dinamici. Andare: è movimento, passaggio, esodo, direzione. Annunciare: è comunicare... anche con le parole, è testimoniare con i fatti, è realizzare con le azioni, è relazionarsi e interagire con chi si incontra, con i compagni di viaggio. Andare è spezzare la solitudine e uscire da sé; annunciare è creare comunione e relazioni nuove. Andare è sconfiggere l’intimismo, la paura degli altri, la diffidenza che fa innalzare barriere. Annunciare è costruire ponti, creare legami, abbattere i muri di silenzio e ignoranza. Andare accorcia le distanze; annunciare colora il mondo di vita.

Ricordo una storia raccolta da un missionario in terra d’Africa. La sintetizzo. Un padre manda i suoi due figli a scoprire il mondo con una raccomandazione: «Andando lasciate segni del vostro passaggio». I due partono. Il primo si affanna a marchiare tronchi e rocce, a far cumuli di pietre. Il secondo non muove un dito godendosi il paesaggio e la sera, arrivati in un villaggio, saluta, chiacchiera, beve, fa festa e conosce tutti. Così per giorni. Toati dal padre raccontano tutto, e questi si mette subito in strada per ripercorrere il cammino coi figli. Il primo lo invita a notare i suoi inconfondibili segni biasimando la pigrizia del fratello. Il pigro è accolto ogni sera con grande festa ovunque si fermino a dormire: invitato a cenare nelle famiglie con i suoi compagni, si trova anche una sposa (da cui avrà tanti bei figli «cioccolatini») con la benedizione del padre.

Lascio a voi indovinare chi ha davvero capito la raccomandazione iniziale.

Ci sono dunque due modi di «lasciare segni» viaggiando nel mondo.

C’è chi va in giro per i propri interessi e lascia segni di distruzione, indifferenza, sfruttamento e orgoglio. Questi vanno in cerca dei luoghi migliori per fare affari, dei paradisi fiscali per frodare il fisco, delle aree ricche di risorse naturali ancora intoccate, dei campi adatti per coltivazioni estensive per il biodiesel, dei paesi dove la manodopera locale si può ancora sfruttare, dei focolai di guerra per vendere sempre più armi. Purché si possano fare soldi, leciti o illeciti, si arriva ovunque: traffico di persone, prostituzione, gioco d’azzardo, sfruttamento di risorse, affossamento di rifiuti pericolosi, costruzioni di enormi bacini idroelettrici, acquisizione di grandi estensioni di terre, libere o meno... e chi più ne ha più ne metta. Anche certo turismo rientra in questa categoria: vado dove ho voglia, spendo bene i miei soldi e mi diverto, faccio esperienze uniche in «isole felici», prendo tutto quello che posso senza lasciarmi coinvolgere più di tanto dalle situazioni locali. Importante è aver belle foto da mostrare agli amici.

C’è chi invece viaggia seguendo il filo rosso dell’amore e della gratuità. Si va per conoscere e condividere, per costruire e guarire, per abbattere barriere e gettare ponti. Si va per giornire delle meraviglie che Dio opera nel cuore degli uomini, per portare amore dove c’è odio, pace dove impera la violenza. Si va per scoprire le tracce di Dio nel volto degli uomini, per rinnovare i legami profondi che uniscono tutta la famiglia umana, per condividere la buona notizia che Dio in Gesù ama gli uomini, ogni uomo, con preferenza per i piccoli, i poveri, gli oppressi.

Troppo idealista il secondo approccio? Forse. Ma certo ci sono moltissime persone nel mondo che pagano di persona per questo, senza avee un tornaconto personale. Mentre scrivo è appena stato liberato Domenico Quirico, giornalista amante della verità, dopo 150 giorni di prigionia in Siria, anche se non si sa ancora niente di padre Paolo Dall’Oglio in missione di pace e riconciliazione (vedi l’articolo a pag. 16). Papa Francesco è uno di questi viaggiatori che esce da sé, dal ruolo e dalle formalità per farsi incontro agli altri, per farsi carico dei drammi di ogni persona, per gridare che la guerra non è mai una soluzione (come sta facendo in questi giorni - speriamo ascoltato - per la Siria). E con lui tanti altri viaggiatori di pace e di amore, fanti sconosciuti e umili, missionari e volontari, religiosi e semplici cristiani, che si spendono per lasciare tracce d’amore sulle strade dell’uomo: segni indelebili nel cuore di ciascuno. Lo possiamo essere anche noi, io e te.


Gigi Anataloni