Senza confini


Nel settembre scorso i missionari della Consolata hanno festeggiato i primi dieci anni di presenza a Taiwan, in particolare nella diocesi di Hsinchu. Il vescovo John Baptist Lee ha celebrato una messa molto partecipata nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Hsinchu (vedi pag. 5). Oggi l’istituto è presente con sette missionari di cinque diverse nazionalità (Kenya, Tanzania, Corea del Sud, Brasile e Argentina) e ha la gestione di tre parrocchie nella stessa diocesi, oltre a Hsinchu, animata dal 2017, anche Xinpu e Xinfong.

Un primo decimo anniversario, che pare poca cosa, ma rivela una presenza discreta, continua e con prospettive di crescita.

Ho avuto la possibilità di partecipare all’evento al Sacro Cuore e di visitare le altre due parrocchie. Ho potuto vedere e ascoltare persone impegnate nella vita della comunità, ma anche molto accoglienti verso chi viene da fuori. Peter e sua moglie Jennifer, Carmen, Lucia, Cathy, solo per citarne alcune, senza volere fare torto alle altre.

Taiwan, ufficialmente Repubblica di Cina, viene più volte citata anche sui nostri media come centro di tensioni tra la Repubblica popolare di Cina (la Cina comunista continentale) e gli Stati Uniti. Ma è ben più di questo. Vorrei dare qualche elemento della società nella quale stanno operando i missionari da dieci anni.

Si tratta di una società moderna, anzi una società che definirei «tecnologica», dove cioè la tecnologia ha un peso rilevante. Con le relative problematiche: secolarizzazione, i giovani in particolare sentono poco il richiamo della spiritualità di tipo convenzionale, quindi delle religioni, la bassa crescita demografica e l’alto livello di invecchiamento della popolazione che comporta le criticità conosciute anche da noi, le migrazioni da paesi vicini più poveri (in particolare da Filippine, Vietnam, Indonesia, Thailandia).

A Taiwan, inoltre, la Chiesa cattolica è una minoranza tra le minoranze, interessando l’1,3% della popolazione (i fedeli sono circa 300mila su 23 milioni di taiwanesi).

Il vescovo di Hsinchu, monsignor Lee, mi diceva che su settanta sacerdoti della sua diocesi solo due sono originari del Paese. Gli altri sono missionari. Molti sono coreani, poi vietnamiti, filippini e, recentemente, africani. Tutto questo denota la necessità e l’urgenza della missione ad gentes.

Guardando sul planisfero le presenze dei missionari e missionarie della Consolata nel mondo, la missione a Taiwan è forse quella nella società più moderna.

Per contrasto, il mio pensiero va a un’altra missione, che ho avuto la possibilità di visitare molti anni fa. Quella di Catrimani, nello stato di Roraima in Brasile. Una presenza nel mezzo della foresta amazzonica, dove si può arrivare solo a piedi o con piccoli aerei. Un cammino, quello a fianco del popolo Yanomami, che la Consolata porta avanti oramai da 59 anni.

Se penso alla società yanomami, a lungo studiata da generazioni di missionari della Consolata, con la sua lingua (anzi, quattro), le sue credenze, la sua cultura, credo che sia quella meno tecnologica, quella che vive maggiormente in simbiosi con la natura, con la quale i missionari della Consolata si siano confrontati da decenni. In un certo senso, una struttura sociale delicata, che rischia in ogni momento di essere sopraffatta dalla società dominante, quella dei «bianchi», come dicono in Brasile, quella moderna, dico io.

Due ambienti sociali che sembrano, o forse sono, in antitesi. Due culture entrambe distanti da quelle dei missionari che le affrontano, difficili da comprendere e far proprie con un processo di inculturazione, a partire dalle lingue, dai costumi e dalla spiritualità.

Eppure due contesti nei quali i missionari della Consolata sono presenti con il loro approccio ad gentes, ma anche di promozione umana, sociale e dei diritti che da sempre li contraddistingue.

Questo mi fa credere che la missione pensata e maturata da san Giuseppe Allamano prima, e dai suoi missionari e missionarie poi, sia a tutti gli effetti universale e senza confini.





Tutti per la missione


«Per la Giornata missionaria mondiale (20 ottobre, ndr) di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr. Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze” (v. 9). Riflettendo su questa parola chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo».

Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (Gmm) 2024, sottolineando tre aspetti strettamente correlati tra loro: l’andare e invitare tutti alla festa, la festa che è espressione della vocazione alla gioia e alla fraternità, celebrata al banchetto della vita, il banchetto che deve coinvolgere tutti come protagonisti.

La Gmm di quest’anno vedrà, tra l’altro, la canonizzazione di Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, di due suore (una canadese e un italiana), di otto frati minori (sette spagnoli e uno austriaco) e tre fratelli siriani trucidati a Damasco nel 1860. Una celebrazione di universalità che ricorda come tutta la Chiesa è missionaria.

Se oggi celebriamo la Giornata missionaria mondiale, lo dobbiamo anche a GiuseppeAllamano che nel 1912 promosse una petizione prendendo spunto dal Pime (Pontificio istituto missioni estere, all’epoca Seminario lombardo per le missioni estere) che, a Milano, già dal 1910 viveva la «domenica missionaria» annuale. A quel tempo la missione era sentita come qualcosa che sottraeva persone ed energie alle Chiese locali, per cui tanti vescovi ostacolavano chi voleva partire come missionario. Per Allamano, sacerdote diocesano lungo tutto l’arco della vita, però, la missione non era qualcosa che impoveriva, ma parte fondante la Chiesa stessa, qualcosa che doveva coinvolgere ogni cristiano proprio perché battezzato. Sarebbe poi arrivato il Concilio Vaticano II con il documento Ad gentes, a ratificare questa verità.

Tornando a una sottolineatura di papa Bergoglio nel messaggio citato, si osserva che anche la Gmm si inserisce nel percorso del Sinodo. Non potrebbe che essere così. Il «rilancio» della Chiesa – della sua sorgiva e fondante vocazione a portare il Vangelo nelle strade del mondo – passa proprio attraverso il suo profilo missionario. Francesco consegna dunque alla Chiesa universale domande ineludibili: come essere Chiesa sinodale in missione? Come rinnovare l’impegno missionario di tutti? Questo «tutti» si rivela elemento centrale.

Il «cambiamento d’epoca» che stiamo vivendo, con profonde sollecitazioni antropologiche e nuove sfide per il senso religioso, richiede il coinvolgimento e la risposta – matura, generosa, gioiosa e, appunto, missionaria – di ogni cristiano, uomo o donna, per trovare modalità nuove e creative di annunciare il Vangelo all’umanità del terzo millennio.

«La missione per tutti richiede l’impegno di tutti», scrive ancora Francesco. «Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie opere missionarie, che costituiscono i mezzi primari sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna». Un invito, quello del Papa, che ridà senso e coraggio e concreta prospettiva alla missione oggi.

Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)

 




Nessun luogo è sicuro


Quello che sta accadendo nella striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 è qualcosa di gravissimo e senza precedenti. Tutti dobbiamo interrogarci e tutti ne pagheremo le conseguenze. Un giornalista lo ha definito «il peggior massacro della storia moderna».

Il 19 giugno scorso è stato presentato alla 56ª sessione dell’Human rights council dell’Onu il rapporto della Commissione internazionale indipendente del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, Gerusalemme est e Israele. L’inchiesta, coraggiosa, dichiara (al punto 73) che «le autorità israeliane e i gruppi armati palestinesi sono responsabili di crimini di guerra e altre gravi violazioni».

«Le autorità israeliane – si legge ai punti 80 e 81 del rapporto – sono responsabili di crimini di guerra, dell’uso della fame come metodo di guerra, di uccisioni e omicidio volontario, di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro i civili, di trasferimenti forzati, di violenza sessuale e trattamenti inumani e crudeli, di detenzione arbitraria e oltraggio verso la dignità personale». E inoltre: «Crimini contro l’umanità come sterminio, assassinii, persecuzione» ai danni della popolazione civile di Gaza.

A sua volta Israele accusa la Commissione d’inchiesta di «discriminazione sistematica anti israeliana».

L’uso dei bombardamenti con armi pesanti, anche in luoghi scelti dallo stesso esercito israeliano come zone di assembramento degli sfollati – ricordiamo, tra tutti, quello della scuola di Nuseirat dell’Unrwa (agenzia Onu per il soccorso dei profughi palestinesi), tra il 5 e il 6 giugno scorso, nel quale sono morte 45 persone di cui 14 bambini -, l’impedire i corridoi umanitari e la distribuzione del cibo, gli assalti e la distruzione degli ospedali che privano i civili malati o feriti delle cure necessarie, non vuol dire attaccare Hamas, ma tutta la popolazione civile di Gaza. E significa prenderla per fame, bombe e privazione delle cure.

Uomini, donne, bambini. Questi ultimi, sulle oltre 37mila vittime conteggiate al momento in cui scriviamo, sarebbero almeno 15mila (al 24 giugno) su una popolazione di circa due milioni di persone. Senza contare i traumi che si porteranno per tutta la vita i sopravvissuti.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), anch’essa parte delle Nazioni Unite, dichiara che «la situazione di fame nella striscia è catastrofica».

Se la condanna degli atti di Hamas del 7 ottobre e successivi, e il rapimento di civili israeliani, è assoluta e incondizionata, essa non giustifica il massacro in atto nella striscia. Inoltre, il governo estremista di Netanyahu sta facendo il gioco degli stessi terroristi, che usano i civili palestinesi come scudi umani e per i loro scopi politici. Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, lo scorso giugno ha detto: «Le vittime civili? Sacrifici necessari».

L’operazione a Gaza sta facendo aumentare il sentimento anti israeliano in tutto il mondo (in America come in Europa), a tutto vantaggio degli estremisti palestinesi.

Prioritaria, inoltre, per il governo israeliano dovrebbe essere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma pare che non lo sia.

Le Nazioni Unite stanno denunciando, questa volta con coraggio, gli accadimenti, attirandosi la rabbia di Israele. Pensiamo, invece, che i governi dei «grandi» della terra, a partire dagli Usa, non stiano facendo abbastanza per fermare la carneficina.

Opporsi non significa essere contro Israele e il suo diritto a esistere in pace, significa opporsi a una strage di civili comandata da ragioni politiche da un gabinetto di guerra politico. Una cieca vendetta che peserà sul mondo intero: con ondate di antisemitismo e altri innocenti nel mirino di altri estremisti.

Non è questione di essere pacifisti a oltranza, come qualcuno ci accusa di essere. È solo questione di restare umani.

Marco Bello

 

 

 




Santo (in punta di piedi)


Il 23 maggio scorso la sala stampa del Vaticano annunciava che papa Francesco aveva approvato l’avvenuto miracolo della guarigione dell’indigeno Sorino Yanomami, per intercessione di Giuseppe Allamano. Un passaggio che ha aperto le porte alla prossima canonizzazione, cioè alla proclamazione della santità del nostro fondatore (che avverrà il prossimo 20 ottobre, come deciso dal Concistoro del 1° luglio).

Questo atto del Papa è il coronamento di un lungo itinerario, durato parecchi decenni, che aveva trovato il suo culmine nella beatificazione di don Giuseppe Allamano, avvenuta il 7 ottobre 1990 in Piazza San Pietro a Roma, da parte del papa Giovanni Paolo II. Mancava ancora il riconoscimento da parte della Chiesa di un miracolo per poterlo infine proclamare «santo». Ora anche l’ultima meta è stata raggiunta.

Molte persone si interrogheranno sul perché di questo cammino durato tanti anni con la raccolta di testimonianze, documentazione, ricerca delle grazie ricevute in varie parti del mondo. Ne valeva la spesa? Altri ancora, in maniera forse più radicale, si potrebbero domandare: che bisogno ha la Chiesa di proclamare i santi? Essi hanno raggiunto felicemente il loro obiettivo e vivono nella pace del Paradiso. A questi interrogativi risponde in maniera magistrale papa Benedetto XVI che, dopo aver presentato parecchi profili di santi, il 13 aprile 2011, ha affermato: «Nelle udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti santi e sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del popolo di Dio” (Lumen gentium, 50)».

La storia, quella che troviamo scritta nei libri o illustrata in opere d’arte, dà importanza a chi conta nella produzione di beni materiali o a chi rende più bello il mondo con l’arte e la poesia oppure ha aiutato a sconfiggere epidemie. Similmente avviene anche con i santi che hanno arricchito la Chiesa con i loro scritti o la loro testimonianza di vita. La loro opera è a beneficio di tutti, tutti ne godiamo. I santi – possiamo affermare – sono uno scrigno di valori che ridondano a beneficio di tutta la cristianità. Quanto povera sarebbe la Chiesa se perdesse questi legami tra i santi in cielo e noi qui in terra. Per questo motivo essa ci esorta a non lasciare perdere questa comunione tra coloro che già hanno raggiunto il cielo e noi tutti ancora pellgrini qui in terra, ma desiderosi dello stesso traguardo. La ormai prossima canonizzazione, attraverso la voce del Papa, inviterà con forza tutta la Chiesa ad affidarsi con fiducia all’intercessione di Giuseppe Allamano e soprattutto a guardare al suo esempio di vita come faro che illumina e guida il cammino dei cristiani.

Quale messaggio ci possiamo aspettare dalla proclamazione di Giuseppe Allamano «santo»? Senza dubbio che venga rivolto un richiamo forte a ogni battezzato affinché metta sempre Dio al centro della propria vita per farlo punto di riferimento in ogni sua scelta, che aborrisca ogni chiusura per sentirsi quello che tutti noi siamo: famiglia di Dio, solidale e fraterna, aperta e attenta ai segni dei tempi.

Sono sicuro che quando papa Francesco proclamerà l’Allamano santo non mancherà di far riecheggiare ancora una volta uno dei suoi richiami più frequenti affinché la Chiesa sappia imitare i santi come il nostro fondatore per sentirsi «in uscita», aperta al mondo intero e nella predilezione per l’umanità più povera.

La Chiesa in uscita è quella che «sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (Evangelii gaudium 24).




La persona al centro

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre “sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza”».

È l’inizio di Dignitas infinita, la dichiarazione circa la dignità umana che papa Francesco ha rilasciato il 2 aprile scorso. È una forte provocazione a ripensare l’approccio che la nostra società ha oggi verso la persona. Un approccio che si rispecchia nelle scelte politiche che i nostri paesi stanno facendo in questi giorni.

Due sono le aree che destano in me particolare preoccupazione: la difesa della vita dal suo inizio alla sua fine, e la realtà dei profughi e migranti.

Migranti. Oggi, in tutta Europa, assistiamo a una progressiva chiusura sull’accoglienza dei migranti, con la scusa di difendere le frontiere e combattere i trafficanti. Senza andare alle vere cause delle migrazioni rischiamo di convincerci che le persone in fuga da paesi come Afghanistan, Eritrea, Siria, Pakistan, Ciad, Sudan e altri ancora, affidino «per sport o diletto» le loro vite alle promesse dei trafficanti, e non per le durissime condizioni di vita nei loro Stati dilaniati da guerre o segnati da ingiustizie, povertà croniche e mancanza di libertà.

La tristezza è vedere che, dopo aver buttato giù il muro di Berlino, abbiamo costruito nuovi muri e barriere (fisiche, sociali e virtuali) per difendere, si dice, la nostra cultura e identità. E ci si dimentica che da sempre il Mediterraneo e tutta l’Europa sono il crogiolo di popoli diversi: la nostra origine sta nell’India (siamo indoeuropei); dai tempi dell’Impero romano abbiamo importato centinaia di migliaia di schiavi dall’Africa e dall’Asia, non ultimi i molti figli che i nostri soldati hanno generato in Etiopia e Somalia. La nostra cultura è quella che è proprio perché abbiamo saputo assorbire valori e stimoli da tante civiltà diverse.

Difesa della vita. Questo è un altro tema caldo e conflittuale, con posizioni che vogliono far riconoscere sia l’aborto che l’eutanasia non semplicemente come azioni da depenalizzare ma come «diritti umani» da iscrivere in quella che dovrebbe divenire la Costituzione dell’Europa e quindi di ogni Paese, sull’esempio della Francia. Il tutto sostenuto da argomentazioni sofisticate e ammaliatrici, con accuse pesanti e anche minacce, soprattutto sui social media, contro chi la pensa diversamente. Dimenticando, per esempio, che per secoli noi abbiamo trattato da «selvaggi» quei popoli che abbandonavano nella foresta perché venissero finiti dalle fiere gli anziani ormai troppo vecchi e malati, o quei bambini che nascevano fuori da relazioni culturalmente approvate, da ragazze incirconcise o, addirittura, i gemelli che una madre da sola non avrebbe potuto nutrire.

Sono cresciuto con il sogno di un’Europa capace di rigettare il suo passato coloniale e razzista per impegnarsi nella costruzione di un mondo nuovo dove ogni persona fosse accettata per quello che è. Figlio del secondo dopoguerra, credevo avessimo imparato a rifiutare razzismo, autoritarismo, dittatura, etnocentrismo dopo aver sperimentato gli amari frutti dei sistemi dittatoriali che abbiamo avuto prima della nascita della nuova Europa.
Pensavo avessimo messo al centro la pace e il rifiuto della guerra. Che valori come la vita dal suo principio alla fine; la dignità della persona nella sua unicità e nei suoi diritti senza distinzione di genere, di età, di razza o di stato sociale; l’ambiente, «casa» comune, patrimonio e responsabilità di tutti; il lavoro, la salute e la libertà religiosa, fossero ormai nel nostro Dna. Invece, la ricchezza si accumula sempre di più nelle mani di pochi mentre aumentano povertà e sfruttamento, la cura della salute diventa ogni giorno di più un affare per i privati,
il lavoro è sacrificato al profitto, l’«io» prevale sul «noi».

E intanto non ci si sposa, non si fanno figli, si invecchia brontolando, cresce la violenza e il disagio, si svuotano le chiese, si dipende dai social, si ricorre al fentanyl. Dove vai Europa? Troveremo chi è ancora capace di farci sognare? Chi mette al centro la dignità della persona, ogni persona, ogni momento della sua vita?

 




Giustizia e pace si baceranno


Si vis pacem, para bellum! (se vuoi la pace, prepara la guerra).
L’antico adagio, a guardare alle decine di conflitti ad alta o bassa intensità che si combattono nei diversi continenti, sembra tornato di moda. Una guerra non solo di scontri armati ma che paventa una rapida distruzione del pianeta e di quanto lo abita, se dovesse verificarsi lo scenario di un conflitto nucleare, minacciato da chi di pace non intende sentir parlare.

In risposta a questa tentazione, esattamente dieci anni dopo l’ultima imponente manifestazione pubblica per la pace svoltasi nell’aprile 2014 nell’Arena di Verona, torna lo stesso appuntamento, rinnovato, sia per i temi trattati che per le modalità di attuazione, che vede coinvolti a livello nazionale e sovranazionale dozzine di entità ecclesiali e laiche, gruppi ecumenici e interreligiosi, movimenti popolari e organizzazioni non governative, rappresentanti sindacali e società civile.

L’intento è di richiamare con forza il nostro governo a rispettare e applicare l’articolo 11 della Costituzione che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un auspicio e un progetto tuttora disattesi, visto il coinvolgimento diretto o indiretto dell’Italia nelle situazioni di conflitto cui assistiamo nel mondo.

Arena 2024, come le precedenti, nasce dal mondo missionario, ecclesiale e laico, che contrappone la logica della pace a quella della guerra, al fine di spingere le istituzioni politiche a dare una risposta concreta, unitaria e ispirata ai principi di giustizia e di pace, per evitare di cadere nel baratro di un conflitto globale.

Giustizia e pace si baceranno! Queste parole di Isaia – poste a titolo dell’assemblea popolare in Arena – raccolgono l’aspirazione di milioni di persone che sognano un mondo in cui finalmente siano le vie del dialogo, dell’accoglienza reciproca e della pace alla base della convivenza planetaria. A testimoni di pace di oggi dai vari continenti, si unirà la memoria dei grandi profeti, laici o religiosi, da proporre e far conoscere ai giovani: Romano Guardini, Aldo Capitini, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Tonino Bello, Davide Maria Turoldo, Primo Mazzolari, Arturo Paoli e tanti altri protagonisti delle Arene precedenti.

L’impegno per la giustizia e la pace non intende limitarsi all’incontro in Arena del 17-18 maggio; vuole essere invece l’avvio di un processo di costruzione della pace che prosegua dopo l’evento, scuota la coscienza di tutti e coinvolga l’intera società, non solo gli strati più attivi, nella promozione della pace.

È questo il sogno di chi per lunghi mesi ha organizzato l’evento e dei suoi maggiori protagonisti: papa Francesco, che sarà presente e ribadirà il suo chiaro dissenso a guerra e violenza; il vescovo di Verona, monsignor Domenico Pompili, che da mesi anima la preparazione di Arena 2024; l’amministrazione comunale di Verona che in tanti modi ha facilitato e accompagnato l’organizzazione della manifestazione e i componenti dei cinque tavoli di lavoro che per mesi hanno discusso su cinque temi critici: pace e disarmo; ecologia integrale e stili di vita; migrazioni; lavoro; democrazia e diritti.

Parafrasando papa Francesco, Arena 2024 mira «a creare seminatori di cambiamento, promotori di un vero processo virtuoso di cultura della pace; compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza».

In questo rinnovato impegno che parte dall’appuntamento di Verona le riviste missionarie della Fesmi continueranno a esserci con il loro compito: raccontare i tanti cantieri dove questa strada della pace è un’alternativa concreta che prova ogni giorno a costruire un’umanità nuova. Insieme e adesso.

Fesmi
(Federazione stampa missionaria italiana)


Ecco alcuni link alle altre testate Fermi.

 




(Paesi di) Serie A e serie B


Mentre scriviamo seguiamo con apprensione la guerra in Repubblica democratica del Congo. All’Est, le milizie dell’M23 stanno prendendo d’assedio la città di Goma, capitale del Sud Kivu. Due milioni di persone sono prese in trappola e la situazione umanitaria è grave. A causa del conflitto nella regione, inoltre, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha censito 6,9 milioni di sfollati interni, la maggior parte dei quali sono in condizioni di necessità di tipo umanitario: «La Rdc sta vivendo una delle più grandi crisi umanitarie e di spostamento interno di popolazione del mondo».

L’inizio della guerra nell’Est della Rdc si fa risalire al 2 agosto del 1998, quando milizie di etnia banyamulenge attaccarono Goma appoggiate da Rwanda e Uganda, paesi confinanti. Da allora, alcuni conteggi parlano di almeno dieci milioni di morti. Oggi la situazione non è cambiata. I sedicenti «ribelli» si chiamano M23, sono sempre finanziati e dotati di armamenti moderni dal Rwanda. La Missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco), presente nel paese dal 2000, ha ammesso di non avere armi per fronteggiarli. Sullo stesso territorio è presente una missione della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale) con militari sudafricani, tanzaniani e malawiti.

L’esercito ruandese è invece entrato nel Paese (con un’invasione) nella primavera 2022 per appoggiare l’M23, e recentemente si prospettava un’altra aggressione, poi non avvenuta, in quanto truppe erano ammassate a Gisenyi, città ruandese confinante con Goma. Nell’Est della Rdc gli interessi dei Paesi confinanti sono soprattutto minerari. L’area è ricca di coltan (niobio e tantalio) e di altri elementi, essenziali per la realizzazione di componenti elettronici e batterie, ovvero vitali per mettere in atto la «transizione verde». Minerali che prendono illegalmente la via del Rwanda, dove sono lavorati e venduti a paesi terzi. L’Unione europea, il 19 febbraio, ha firmato un accordo con Kigali proprio sulle «materie prime critiche e strategiche» che prevede, tra l’altro, investimenti nel paese africano per assicurarsene la fornitura. Il governo di Kinshasa e la società civile congolese hanno duramente criticato l’accordo, ricordando che il Rwanda non è produttore di tali minerali ma li «preleva» in Congo. L’Ue sta dunque finanziando indirettamente la guerra.

Le domande che sorgono spontanee sono le seguenti: perché una guerra tanto lunga e importante in termini di vittime non provoca un intervento internazionale di mediazione? Perché i paesi occidentali appoggiano il paese aggredito se è europeo, mentre in Africa chiudono gli occhi e finanziano il Paese aggressore? Siamo dell’idea che l’Unione europea e gli Usa dovrebbero fare pressioni sul Rwanda affinché cessi di «appoggiare» l’M23, e interrompere ogni cooperazione economica e militare. Altri Paesi sul continente africano vivono guerre che hanno poca voce in Europa, e non trovano sforzi di mediazione nelle cancellerie.

In America Latina, inoltre, alcune grosse crisi sono dimenticate, come quella interna al Venezuela, che ha già spinto circa sei milioni di venezuelani a lasciare il Paese, per andare a vivere in condizioni di miseria in altri Stati della regione. Oppure in Ecuador, nel quale si sta consumando una guerra civile tra Stato e narcotrafficanti. O ancora in Nicaragua, dove una dittatura famigliare sta tenendo in scacco quasi sette milioni di abitanti.

Noi pensiamo che la guerra sia sempre un errore, ma anche che non ci siano popoli e paesi di serie A e altri di serie B. Crediamo nel principio di autodeterminazione di tutti i popoli e nell’universalità dei diritti umani. Che le vittime dei conflitti in Rdc e in altri paesi africani e latinoamericani siano importanti quanto quelle europee e mediorientali.


Cambiamenti

Prendendo tra le mani il numero di MC di marzo avrete notato qualcosa di diverso. La novità sta soprattutto nel tipo di carta. Speriamo che vi piaccia. Abbiamo deciso per questo cambiamento sia perché occorre sempre rinnovarsi, sia perché ci consente di investire maggiori risorse nel settore digitale della rivista. In effetti, da alcuni mesi il sito web di Missioni Consolata (www.rivistamissioniconsolata.it) è diventato uno spazio nel quale sono pubblicati articoli settimanali, oltre a tutti gli approfondimenti del mensile. Questa operazione ci permette di fornire un’informazione più tempestiva e aggiornata, ma anche di aumentare con molti contenuti l’offerta per il lettore. Vi invitiamo dunque a seguirci anche sul web.




Ritorna il feudalesimo?


Viviamo in un tempo strano e unico. Unico, perché è il solo tempo che abbiamo: nessuno di noi può scegliere quando e dove nascere. Strano, perché, nonostante il nostro orgoglio per le conquiste scientifiche, le nuove possibilità della comunicazione, i risultati in medicina, i sistemi democratici, la crescita di responsabilità nei confronti dell’ambiente, stiamo vivendo innumerevoli contraddizioni.

Tra queste c’è la crisi di identità di genere e, di conseguenza, delle relazioni tra uomini e donne, della famiglia, della natalità e della difesa della vita con aborto e morte assistita che diventano diritti. C’è la democrazia che scricchiola, insidiata da autoritarismi e dittature, ma anche da politici al servizio dei grandi poteri economici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le decisioni sono ancora dettate da chi gestisce petrolio, carbone e grandi industrie. Inoltre, nell’agricoltura si espandono i latifondi a monocoltura e l’allevamento intensivo delle multinazionali che riducono la biodiversità di vegetali e animali, le produzioni a km zero, e tolgono spazio ai piccoli agricoltori.

Altro ambito di grandi potenzialità, ma anche di enormi problematiche, è quello della comunicazione e dell’intelligenza artificiale. L’internet e lo sviluppo del digitale hanno decisamente modificato il nostro modo di comunicare, di essere informati, di studiare e lavorare. E ne sono contento. I miei confratelli dicono che sarei stato uno dei primi missionari della Consolata a usare il cellulare, e ho cominciato a smanettare sui computer dai primi anni Ottanta. Ho vissuto con gioia e aspettativa l’evoluzione di questo mondo, con il sogno che aiutasse a far sparire le guerre, a far crescere la fraternità, favorendo la conoscenza e stima reciproca, e cancellare le disuguaglianze.

Oggi, però, i media digitali rischiano di essere strumenti di manipolazione, disinformazione sistematica e controllo, rafforzando il potere dei regimi autoritari e dei monopoli economici, e facendo crescere la disparità tra la ricchezza di pochi e la miseria di molti.

Guardando alla millenaria storia dell’umanità, ci sentiamo orgogliosi di vivere in un tempo dove non abbiamo più né imperatori né feudatari e dove «uno vale uno». Non siamo più nel Medioevo, ci diciamo. Abbiamo acquistato l’autonomia della politica dalla religione, abbiamo fatto passi da gigante in tutti i campi del sapere… eppure è bastata una crisi come quella del Covid-19 per buttare all’aria tutte le nostre sicurezze e accentuare tutte le nostre fragilità, che rivelano un mondo decisamente malato. Un mondo nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese della maggioranza, non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli del Nord del mondo, mentre le istituzioni sovranazionali, Onu inclusa, diventano via via irrilevanti. Sembra iniziata l’epoca di un nuovo feudalesimo.

Che fare per reagire a una simile situazione?

Non ho soluzioni in tasca. Ma certamente una delle prime cose da fare è quella di sviluppare un pensiero critico e libero che si fondi sulle domande e sulle ragioni centrali del nostro vivere. Un pensiero che passi dall’io al noi, dalla sete di potere e ricchezza alla coscienza che solo diventando servitori del bene comune possiamo costruire bellezza, bene essere e pace.

Questo, per noi che crediamo in Gesù Cristo, può venire solo dal confronto profondo con la Parola di Dio, nella quale troviamo le chiavi e i criteri per la vera libertà interiore, per rinnovare i nostri rapporti interpersonali e sociali, per un approccio bello e responsabile al creato. Lì c’è l’humus per supportare un vero cambio di mentalità («conversione») che non sia solo un’operazione di cosmesi fatta solo di parole, ma diventi un reale impegno che si realizza in piccoli gesti quotidiani e anche in un rinnovato schierarsi nel volontariato e nella politica (come cura della polis, la città, per il bene comune, come scriveva Aristotele).

Nella Parola troviamo anche le motivazioni per non mollare, per non cedere allo scoraggiamento e non rassegnarci alla violenza del mondo nel quale viviamo, e giocare la nostra vita al servizio degli altri, come ha fatto Gesù e, sul suo esempio, tantissimi testimoni che ricorderemo in modo particolare il prossimo 24 marzo, giornata dei missionari martiri.

Gigi Anataloni




L’umanità si è persa


Hadar, David, Fouad erano ragazzi israeliani. Erano studenti di architettura di Tel Aviv e Haifa, e li avevo conosciuti durante un tirocinio a Barcellona. Eravamo diventati amici. Io non conoscevo quasi nulla di Israele e della questione palestinese. Non avevo preconcetti. Loro raramente mi parlavano della situazione nel Paese. A volte si lamentavano del servizio militare che, per tutte e tutti durava tre anni e continuava poi per molto tempo con addestramenti periodici. Un giorno David si spinse a parlarmi degli attentati terroristici, dicendo: «Non ti puoi immaginare l’impressione che fa vedere l’esito di un’esplosione in piena città. E l’odore di carne bruciata…». Avevamo tutti appena finito l’università, avevamo grandi speranze e sogni. I loro, però, erano condizionati dal vivere in un luogo nel quale dovevano costantemente fare attenzione alla loro sicurezza, dove l’organizzazione dello Stato e della vita dei cittadini era impostata sul controllo e sulla protezione personale. Dove essere armati non era poi così strano.

Una decina di anni dopo, a inizio 2001, visitai Israele e la Cisgiordania. Si era nel pieno delle seconda intifada e i Territori palestinesi erano stati chiusi per ridurre al minimo la circolazione delle persone. C’erano stati diversi attentati in Israele a opera di Hamas e della Jihad islamica, per cui c’erano molti controlli e la tensione era alta. I militari ai check point per entrare e uscire dalla Cisgiordania seguivano rigide misure di sicurezza. Erano ragazzi e ragazze che mi ricordarono i miei amici.

Parlai con molte persone: ebrei israeliani, arabi israeliani, palestinesi della Cisgiordania, arabi cristiani, e alcuni stranieri, in particolare religiose e religiosi che vivevano da anni in Israele o nei Territori.

Entrai in contatto con molteplici realtà. Mi sorpresi nel vedere Gerusalemme divisa in quartieri così diversi tra loro. E poi i luoghi santi per ebrei e musulmani, vicini fisicamente ma lontani allo stesso tempo. Al Aqsa, nel mezzo della spianata delle moschee (terzo luogo santo dell’Islam), quasi sorretta dal muro del pianto, sacro per gli ebrei. Capii che gli arabi con nazionalità israeliana (circa il 20% della popolazione), vivevano una sorta di apartheid, con tanto di indicazione dell’etnia sulla carta d’identità.

Vidi le colonie israeliane in Cisgiordania (quindi fuori dello Stato di Israele): «Agglomerati urbani, ultramoderni, con tutti i servizi. Dominano perché costruiti in cima alle colline, spesso vicine alla città palestinesi, le circondano in tutte le direzioni. […] Sono collegate da superstrade, proibite ai palestinesi, e protette dai militari israeliani, che in poche decine di minuti portano alle città israeliane», scrivevo all’epoca. «Abitate normalmente da ebrei ultraortodossi sempre armati, e da cittadini israeliani attirati dalle facilitazioni economiche offerte dallo Stato». E ancora: «È una presenza surreale, inquietante anche a livello psicologico, soprattutto se si pensa che gli abitanti delle due parti (colonie e città palestinesi), così vicini, conducono vite completamente diverse, non hanno gli stessi diritti, e non c’è alcun contatto tra loro».

Vidi le case di Betlemme e di Ramallah bombardate dall’esercito israeliano.

Visitai un kibbuz nel nord di Israele, e parlai con chi ci viveva della loro esperienza comunitaria e pacifica. Una vita un po’ isolata e un po’ protetta allo stesso tempo.

Le tante facce di un piccolo fazzoletto di terra, concentrato di storia e di umanità.

Sono passati più di vent’anni e il mondo si è come dimenticato dei palestinesi. I «due stati per due popoli» non sono stati realizzati. Tuttavia, con gli accordi di Abramo del 2020, era iniziato un processo di distensione dei rapporti tra stati arabi e Israele, e così gli estremisti hanno reagito, avendo la meglio, come spesso accade.

«Hamas è il peggior nemico dei palestinesi». Non solo i suoi miliziani hanno compiuto una carneficina mai vista, ma usano gli abitanti di Gaza come scudi umani per difendersi. E che dire del governo israeliano e del suo esercito che si accanisce contro due milioni di civili – inclusi bambini e malati -, anziché preoccuparsi di liberare gli ostaggi?

Nella mia piccola esperienza dell’area ho visto due popoli, molto simili, che potrebbero dialogare, collaborare, ma si affidano a dirigenti estremisti che li portano a combattersi.

Talvolta penso ad Hadar, David, Fouad. Che ne sarà stato della loro vita blindata?

Intanto il motto di Vittorio Arrigoni, «restiamo umani», rimane inascoltato.

 




La missione è annuncio di pace


Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della Giornata mondiale della pace (1 gennaio 2024).

Mai quanto quest’anno che sta iniziando la Giornata mondiale della pace che la Chiesa celebra nel primo giorno dell’anno ci interpella. Il vento di morte, violenza e distruzione che in queste settimane drammatiche ci ha raggiunto da Gaza, non ha fatto altro che aggiungersi alle ferite della guerra in Ucraina (combattuta tra cristiani, che arrivano addirittura a benedire le proprie armi), al conflitto violentissimo che da quasi tre anni ormai sfigura il Myanmar, a quello tornato a insanguinare il Sudan, alle tante altre guerre dimenticate che sempre più raramente entrano nelle scalette dei notiziari. Secondo l’organizzazione Acled (Armed conflict location and event data project), che raccoglie dati per monitorare i conflitti, al momento ci sono 59 guerre nel mondo.

Con sguardo profetico papa Francesco ci parla da tempo della «terza guerra mondiale a pezzi». In un contesto come questo, quale volto può assumere l’impegno del mondo missionario in favore della pace? Ci rendiamo conto che le parole di circostanza e i richiami generici a un destino comune non bastano più. C’è bisogno di gesti e scelte concrete, capaci di ridare corpo all’impegno per la pace.

Un primo passo è chiedere perdono. Perché le tante guerre tornate a riesplodere tutte insieme hanno un triste denominatore comune: sono il frutto imputridito di ingiustizie che durano da troppo tempo. Diritti negati, interessi predatori, ferite mai rimarginate. Molte volte ne abbiamo parlato sulle nostre riviste, ma senza riuscire a comunicare davvero quanto la sorte di questi fratelli e sorelle ci chiami in causa. Sono il dividendo degli affari che l’industria delle armi continua a mietere nascondendo dietro il paravento di presunte «opportunità» per il made in Italy il loro prezzo di sangue. Lo sappiamo tutti! Eppure abbiamo smesso di ricordarcelo quando questi conflitti falciavano vittime innocenti in terre lontane dai nostri occhi e dal nostro cuore (ad esempio nello Yemen).

Questo 1° gennaio 2024, allora, è davvero un’occasione per ricominciare a dire a tutti che «Pace a voi» è una parola irrinunciabile del Vangelo di Gesù. Che riconoscersi fratelli non è una vaga aspirazione del cuore, ma una precisa scelta di campo nei rapporti tra le nazioni. Che la riconciliazione tra i popoli non è un orizzonte buonista, ma un futuro che si costruisce anch’esso «a pezzi», cominciando dai gesti quotidiani di incontro tra chi dice basta alla logica del nemico.

È la pace che abbiamo visto rinascere in tanti angoli del mondo, in tante nostre missioni sfregiate dalla guerra. La pace di chi ha avuto il coraggio di voltare pagina, aprendo il proprio cuore al perdono. La pace di chi non si è rassegnato alla vendetta per il torto subito, ma ha saputo guardare avanti.
Ed è la strada per accogliere anche nuove grandi sfide globali, come quella dell’uso dell’intelligenza artificiale che papa Francesco ci indica nel suo messaggio di quest’anno: strappiamola a chi è già al lavoro per applicarla ad armi ancora più devastanti, per farne invece realmente un’opportunità di sviluppo al servizio di tutti.

La missione è annuncio di pace: torniamo a ripeterlo all’Italia di oggi.

Disegno di Don Giovanni Berti per Missionari Saveriani 2024