Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della Giornata mondiale della pace (1 gennaio 2024).
Mai quanto quest’anno che sta iniziando la Giornata mondiale della pace che la Chiesa celebra nel primo giorno dell’anno ci interpella. Il vento di morte, violenza e distruzione che in queste settimane drammatiche ci ha raggiunto da Gaza, non ha fatto altro che aggiungersi alle ferite della guerra in Ucraina (combattuta tra cristiani, che arrivano addirittura a benedire le proprie armi), al conflitto violentissimo che da quasi tre anni ormai sfigura il Myanmar, a quello tornato a insanguinare il Sudan, alle tante altre guerre dimenticate che sempre più raramente entrano nelle scalette dei notiziari. Secondo l’organizzazione Acled (Armed conflict location and event data project), che raccoglie dati per monitorare i conflitti, al momento ci sono 59 guerre nel mondo.
Con sguardo profetico papa Francesco ci parla da tempo della «terza guerra mondiale a pezzi». In un contesto come questo, quale volto può assumere l’impegno del mondo missionario in favore della pace? Ci rendiamo conto che le parole di circostanza e i richiami generici a un destino comune non bastano più. C’è bisogno di gesti e scelte concrete, capaci di ridare corpo all’impegno per la pace.
Un primo passo è chiedere perdono. Perché le tante guerre tornate a riesplodere tutte insieme hanno un triste denominatore comune: sono il frutto imputridito di ingiustizie che durano da troppo tempo. Diritti negati, interessi predatori, ferite mai rimarginate. Molte volte ne abbiamo parlato sulle nostre riviste, ma senza riuscire a comunicare davvero quanto la sorte di questi fratelli e sorelle ci chiami in causa. Sono il dividendo degli affari che l’industria delle armi continua a mietere nascondendo dietro il paravento di presunte «opportunità» per il made in Italy il loro prezzo di sangue. Lo sappiamo tutti! Eppure abbiamo smesso di ricordarcelo quando questi conflitti falciavano vittime innocenti in terre lontane dai nostri occhi e dal nostro cuore (ad esempio nello Yemen).
Questo 1° gennaio 2024, allora, è davvero un’occasione per ricominciare a dire a tutti che «Pace a voi» è una parola irrinunciabile del Vangelo di Gesù. Che riconoscersi fratelli non è una vaga aspirazione del cuore, ma una precisa scelta di campo nei rapporti tra le nazioni. Che la riconciliazione tra i popoli non è un orizzonte buonista, ma un futuro che si costruisce anch’esso «a pezzi», cominciando dai gesti quotidiani di incontro tra chi dice basta alla logica del nemico.
È la pace che abbiamo visto rinascere in tanti angoli del mondo, in tante nostre missioni sfregiate dalla guerra. La pace di chi ha avuto il coraggio di voltare pagina, aprendo il proprio cuore al perdono. La pace di chi non si è rassegnato alla vendetta per il torto subito, ma ha saputo guardare avanti.
Ed è la strada per accogliere anche nuove grandi sfide globali, come quella dell’uso dell’intelligenza artificiale che papa Francesco ci indica nel suo messaggio di quest’anno: strappiamola a chi è già al lavoro per applicarla ad armi ancora più devastanti, per farne invece realmente un’opportunità di sviluppo al servizio di tutti.
La missione è annuncio di pace: torniamo a ripeterlo all’Italia di oggi.
Tempi di angoscia e confusione
Caro Gesù Bambino,
come ogni dicembre torno a scriverti nel ricordo della tua venuta, festa di luce e di pace. Quest’anno però sono più confuso che mai, vista la situazione di crisi internazionale che tutti stiamo vivendo. Pensa che, probabilmente, a Betlemme quest’anno non potranno celebrare in sicurezza e libertà la memoria della tua nascita.
È proprio la terribile guerra che è riesplosa nella terra dove tu sei nato che aumenta il mio disagio e la mia confusione. La Palestina non trova pace, oggi come ieri: devastata nei secoli da violenze e stragi da cui anche tu sei stato colpito, quando sei dovuto fuggire con la tua famiglia dalla spietatezza degli sgherri di Erode venuti nel tuo villaggio a uccidere senza pietà tutti i bambini per essere certi di colpire te.
La guerra di oggi mostra la stessa spietatezza: non passa giorno che non ci siano notizie di massacri di bambini, addirittura neonati, senza contare quelli di anziani, donne e persone indifese. Non passa giorno senza la distruzione di case, scuole, ospedali e luoghi di culto. Neanche la guerra in Ucraina, con le sue folli violenze, ci ha abituati a una violenza sui civili tanto indiscriminata e su vasta scala.
Ma quello che fa male è soprattutto il fatto che, invece di spingerci a reagire rinnovando il nostro impegno per la pace e la vita, questa ennesima guerra (ennesima, perché sono almeno 59 quelle in atto nel mondo, con violenze inenarrabili sui civili, nell’indifferenza generale) sta tirando fuori il peggio di noi stessi, facendoci schierare – spesso con intolleranza – per una parte o per l’altra. La logica della violenza ci travolge, modella i nostri comportamenti, ci convince che solo con la distruzione dell’altro, il nemico, la pace sia possibile. E tornano in campo stereotipi che pensavamo superati, il razzismo riprende quota, la caccia al nemico diventa un dovere, l’antisemitismo riemerge. E tutti diventano nemici senza volto per i quali non c’è compassione, ma solo rabbia, rancore, odio o totale indifferenza. Ma non è con «mors tua vita mea» (la tua morte è la mia vita) che si ritrova la pace.
In questa logica, non vediamo più le persone vere e concrete, ma un’indistinta massa di nemici da colpire.
Proprio tutto il contrario di quanto tu hai provato a insegnarci con la tua vita, e papa Francesco ci ripete oggi senza stancarsi: la guerra è una follia che non risolve i problemi, non migliora la vita, non crea giustizia, non porta alla pace. L’unica risposta vera che costruisce la pace è l’amore, il perdono, la misericordia. «Porgi l’altra guancia», ci hai detto. «Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano».
Rompere, rovesciare la logica della violenza, come hai fatto tu sulla croce, è l’unica via.
Grazie di averci donato una persona come papa Francesco che, come il profeta anonimo di cui parliamo questo mese (vedi pag. 32), continua a ricordarci quello che davvero conta per la vita, per la pace, per l’ambiente: guardare a te che ti sei fatto vicino, che cammini con noi, che non ci molli mai, che sei la luce che scaccia confusione, tenebra, indifferenza, assuefazione e scoraggiamento, che sei parola di verità che decodifica fake news, luoghi comuni e slogan urlati senza contraddittorio.
Grazie anche per tutti coloro che, pur non facendo notizia, siano essi israeliani o arabi, ebrei, musulmani o cristiani, continuano a operare nel silenzio per la pace, pagando di persona per essere vicini a chi soffre, e contestano la logica della guerra con azioni concrete di riconciliazione, di vicinanza alle vittime, di soccorso a chi ha perso tutto.
Grazie per chi, in Palestina o in altre parti del mondo, continua a credere con te che la luce vince le tenebre, l’amore è più forte dell’odio, e che la pace si costruisce col perdono, il dialogo, il rispetto di tutti, specialmente dei più piccoli e dei più poveri.
È urgente imparare da te la misericordia, quella forza originariamente femminile e materna con la quale ti sei immedesimato, che cambia il nostro modo di relazionarci gli uni agli altri e ci fa vedere, pensare e agire in modo nuovo.
Che la luce della tua nascita possa essere per tutti più luminosa dei bagliori dei bombardamenti, del fuoco degli incendi, dell’oscurita dell’odio. Cacci ansia, confusione, indifferenza e riaccenda in ciascuno di noi la voglia di operare per la pace. Che la tua luce ci dia la capacità di guardarci in faccia senza paura e scoprirci fratelli e sorelle.
L’Africa dei militari
L’Africa, e in particolare il Sahel, ha vissuto una serie di colpi di stato dal 2020 a oggi. Due in Mali (18 agosto 2020 e 25 maggio 2021), uno in Guinea (5 settembre 2021), due in Burkina Faso (24 gennaio e 30 settembre 2022) e infine in Niger e in Gabon (26 luglio e 30 agosto 2023). Del golpe in Niger si è parlato molto, a sorpresa, anche in Italia. Forse perché è un paese strategico come crocevia delle migrazioni e di molti altri traffici. Forse perché vi sono presenti diversi eserciti stranieri, tra i quali un contingente italiano (sul quale si è spesso taciuto).
Sovente le popolazioni, soprattutto i giovani, hanno salutato con favore questi colpi di stato. In alcuni casi, le manifestazioni pro putsch sono state organizzate o promosse dalle giunte militari, mentre quelle contrarie prontamente represse (ad esempio in Niger).
La presa del potere con le armi è il sintomo di profondi problemi che sfociano in una deriva autoritaria e militarista.
La grave situazione di insicurezza dei paesi del Sahel, causata del proliferare e rafforzarsi di una galassia di gruppi armati legati ai diversi cartelli jihadisti (aggravatasi con la caduta di Gheddafi in Libia nel 2011, ma già iniziata in precedenza), ha portato a profonde crisi economiche e sociali. Il sociologo ed ex ministro del Burkina Faso Antoine Raogo Sawadogo ci diceva (MC maggio 2022): «Il colpo di stato è solo l’atto finale di una crisi istituzionale profonda, di società toccate da problematiche alle quali i regimi democratici non sono stati in grado di dare soluzioni». E ancora: «L’appoggio, almeno iniziale, delle popolazioni è dovuto al fatto che queste sperano che un governo forte, seppur non democratico, possa risolvere i loro problemi», e quindi «la democrazia all’occidentale è diventata una questione di secondo ordine, adesso si tratta di sopravvivenza».
Ma i militari non saranno la soluzione, neppure dei problemi di sicurezza, come già stanno dimostrando in Mali e in Burkina Faso. D’altronde sono gli stessi eserciti che non hanno saputo vincere i gruppi jihadisti prima dei colpi di stato.
Anzi, i golpe portano alla luce anche una crisi dello stesso esercito repubblicano. Un’istituzione che dovrebbe difendere la popolazione anziché prendere il potere con la forza.
Il risultato è una regressione dei diritti civili che, faticosamente, avevano fatto qualche passo avanti. Peggio, in molti casi, è la repressione violenta della popolazione. Come è avvenuto in diversi eccidi perpetrati dalle Forze armate maliane (Fama), affiancate dai nuovi alleati russi del gruppo Wagner. Un esempio tra i tanti è quello del villaggio di Moura, dove il 27 marzo 2022 sono state trucidate tra le 200 e le 400 persone dai militari loro compatrioti.
Tra i massacri di civili compiuti dall’esercito in Burkina Faso, ricordiamo quello a Karma, a 15 km dalla città di Ouahigouya, nel Nord del paese, il 20 aprile scorso. Qui i militari hanno ucciso almeno 147 civili inermi, tra cui 45 bambini.
Fa riflettere, poi, ascoltare le parole del presidente golpista del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré che, all’incontro Africa-Russia a San Pietroburgo, nel luglio scorso, ha fatto un discorso populista atteggiandosi a novello Thomas Sankara (il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, assassinato il 15 ottobre 1987), consegnando però il paese nella mani della Russia di Putin. «Qui di Sankara non ce ne sono», ci dicono dal Sahel. E si vede: Sankara non avrebbe mai fatto massacrare il suo popolo.
Il sentimento antifrancese e antimperialista presente in tutta l’area è legittimo (noi in MC abbiamo sempre denunciato lo sfruttamento dell’Africa da parte delle potenze occidentali), ma chi applaude ai diversi golpe solo perché si contrappongono alla presenza francese ha una visione superficiale, se non miope. Intanto i golpisti si rivolgono a nuovi attori imperialisti, come il citato gruppo Wagner, dalla nota attitudine predatoria nei confronti dei paesi loro alleati. Inoltre in Niger è stato deposto un presidente che tentava di contrastare la corruzione della classe politica, e indirettamente anche il potere neocoloniale francese.
Non saranno i militari a portare lo sviluppo e l’autonomia all’Africa. Il potere autoritario delle armi e di una classe – nella quale è presente a grandi dosi la corruzione – incapace di progetti politici non salverà il continente. Insomma: Africa indietro tutta.
Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che si svolge a Roma dal 4 al 29 ottobre e che ha per tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione». […]
Tra l’8 maggio e il 24 giugno si sono tenuti i due capitoli generali dei missionari e delle missionarie della Consolata. Le due assemblee hanno avuto anche una due giorni in comune, il 3 e 4 giugno, durante la quale hanno partecipato in collegamento online anche diversi laici missionari della Consolata, che completano la famiglia Allamaniana.
Il capitolo generale si tiene ogni sei anni. È un’assemblea della durata di circa un mese, durante il quale i delegati o le delegate degli istituti, provenienti da tutto il mondo, si riuniscono e condividono riflessioni, bilanci e programmi. Infine, l’assemblea dei capitolari elegge i nuovi consiglieri, il (o la) generale e il (o la) vice generale, che saranno le guide dei rispettivi istituti fino al 2029.
In questo periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi, pensiamo che i prossimi sei anni saranno fondamentali per i due istituti fondati da Giuseppe Allamano. Abbiamo dunque ritenuto importante raccontare in un dossier, senza pretese di essere esaustivi, le linee principali emerse dai lavori. […]
La presenza di Mosca nei paesi latinoamericani è mutata nel corso degli anni: da estemporanea (con i flussi migratori) è diventata politica ed economica. In tempi recenti, ha amplificato la sua influenza tramite i suoi canali informativi (Rt e Sputnik). Dopo l’aggressione all’Ucraina, cos’è cambiato? E come sono le relazioni con la Cina, alleata a livello politico ma concorrente in America Latina? […]
Colline, vigneti, borghi, panorami, cantine. Dal 2014, le Langhe sono patrimonio dell’Unesco. Sono bellezza, lavoro, denaro, fama. Nel caso (unico) dell’«Accademia della vigna», nata esattamente un anno fa, possono significare anche buone pratiche e sostenibilità sociale, riscatto e integrazione.
Il giovane Ousmane viene dalla Guinea Conakry. Ha trovato finalmente un lavoro stabile, e ogni mattina inforca la sua bicicletta e raggiunge l’azienda agricola Mirafiore, dove è stato assunto in qualità di operaio di vigna. […]
Le scuole italiane aprono le porte alle Forze armate. La società civile si organizza per reclamare la priorità del valore della pace e della nonviolenza come colonna portante del percorso formativo dei minori. L’Osservatorio, nato solo pochi mesi fa, raccoglie e diffonde informazioni su questa pericolosa deriva.
Pochi giorni prima della chiusura delle scuole, il 5 giugno scorso, 200 studenti di Messina, di età compresa tra i 9 e i 16 anni, hanno partecipato alla festa dell’Arma dei Carabinieri nella locale base della Marina militare. […]
Uno stato debole ma che c’è, e ha promesso di sconfiggere i fondamentalisti entro un anno. Occorre rilanciare l’economia piegata da tre decadi di guerra. Forse questo sarà un anno di svolta. Intanto cresce l’influenza della Turchia. E l’Italia che fa?
I fucili mitragliatori a tracolla pronti a essere utilizzati. Addosso elmetti e giubbotti antiproiettili in kevlar. Gli sguardi sempre puntati intorno, verso possibili minacce. Gli agenti della scorta sono all’erta. […]
A Torino, migranti di diversi paesi sono diventati «accompagnatori interculturali» nella città che li ha accolti. Gli obiettivi sono importanti: promuovere la coesione sociale e la convivenza, valorizzare il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso. Il successo del progetto è stato tale che oggi viene proposto in altre città italiane ed europee.
L’altro giorno stavo andando a fare la spesa a Porta Palazzo, quando all’angolo tra piazza della Repubblica e via Milano mi sono imbattuto in una comitiva di turisti. Francesi? No. Tedeschi? Nemmeno. Americani? Neanche. Giapponesi? Neppure. Si trattava di turisti ancora più esotici. […]
Trovo sempre meno testimonianze di vita vissuta nella rivista MC (spesso solo in qualche trafiletto nelle ultime pagine), e molto più, certo apprezzabile, giornalismo che racconta i vari paesi del mondo. Ecco, perdonatemi la richiesta, ma secondo me sarebbe bello vi fosse molto più spazio dei racconti della vita di missione, come forse era alle origini quando era l’allegato a raccogliere i racconti dei missionari. […]
Onorificenza pontificia a padre Sandro Faedi
Papa Francesco ha voluto riconoscere e distinguere padre Sandro Faedi, missionario della Consolata nativo di Gambettola (Cesena), con la decorazione «Pro Ecclesia et Pontifice». La cerimonia di consegna della medaglia d’onore al missionario (nella foto, al centro padre Sandro Faedi e a sinistra il vescovo di Tete monsignor Diamantino Antunes) si è svolta domenica 13 agosto a Zóbuè, nella diocesi di Tete, Mozambico, in occasione del pellegrinaggio diocesano al santuario dell’Immacolata Concezione. […]
Perché partire, perché restare
Stimatissimo Marco Bello, ho letto il suo editoriale su Missioni Consolata di Agosto 2023, «perché partire, perché restare». È proprio il nocciolo della questione. […]
Perplessità
Caro Marco, forse ricorderà lo scambio di battute quando cercammo – vanamente – di aiutare Haiti: anche se a volte le nostre ideologie non coincidono, le cose da fare ci trovavano in pieno accordo. […]
Nel 1987, il «giorno del sorpasso» (overshoot day) arrivò il 19 dicembre. Nel 2023 è stato lo scorso 2 agosto. Da tempo sappiamo che, con gli attuali livelli di consumo, una Terra non basta. Oggi la scelta non è soltanto tra sviluppo «sostenibile» e «insostenibile», ma anche tra sviluppo «egoistico» e «altruistico».
Se non bastassero la siccità in pieno inverno e le alluvioni, gli allagamenti e le bombe d’acqua dell’estate, ci sono i calcoli matematici a confermarci la gravità degli squilibri ambientali che l’uomo ha creato.
Un metodo di calcolo utilizzato è l’overshoot day, alla lettera il «giorno del sorpasso», che ci indica il giorno dell’anno in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. È la data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva della terra e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto. […]
Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici. […]
Il Paese, al voto per l’elezione del presidente della Repubblica il 22 di questo mese, conta diverse realtà di missione fra le più vivaci dell’America Latina. I progetti, in corso o in via di formulazione, dei Missionari della Consolata hanno tutti un tratto in comune: la lotta alle diseguaglianze.
l 22 ottobre gli argentini andranno a votare per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. È probabile che ci sarà un secondo turno, il 19 novembre, se nessuno dei candidati avrà ottenuto il 45% dei voti oppure almeno il 40% e dieci punti di scarto rispetto alla forza politica che arriverà seconda. […]
Da qualche mese sta girando in tutta Italia una bella mostra, presentata per la prima volta al Meeting di Rimini nell’estate del 2022, con il titolo «Sub tutela Dei. Il giudice Rosario Livatino».
Chi è questo giovane giudice, morto il 21 settembre 1990 sotto i colpi della mafia siciliana? E perché è stato beatificato – primo giudice nella storia della Chiesa – il 9 maggio 2021?
Ecco qualche breve cenno sulla vita e sul pensiero di una figura che merita di essere conosciuta sempre di più, non solo come beato, ma anche come professionista. […]
Sono qui di fronte a te. Dopo una notte di lavoro lunga e infruttuosa. Ora è l’alba, e tu ti sei presentato alla mia fame per offrirmi un buon cibo preparato da te (Gv 21). Ricordo di noi due. Ti avevo cercato per molto tempo senza trovarti, e, quando tu mi hai trovato, ho scoperto che anche tu mi cercavi. Da sempre.
Ricordo di avere più volte rischiato di perderti, e che tu mi perdessi. Di avere sentito che, perdendo te, avrei perso anche me. Paura di rimanere senza un nome da pronunciare, senza un volto che chiamasse il mio nome.
Non ti ho mai perso fino a quella sera, quando mi hai detto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi» (Gv 13,36). Quando ti ho chiesto di tenermi con te e di poter morire per te, e di perdermi per te, e tu non hai voluto.
Dentro un conflitto cruento o contro un regime oppressivo, cosa funziona di più? La resistenza armata o quella civile? Al di là delle valutazioni morali, studiare quali azioni sono più efficaci e catalogarle e raccontarle, come ha fatto l’autrice del libro di questo mese, può offrire una risposta semplice e logica.
«La nonviolenza è una bella idea, però funziona solo in alcuni casi. Se tutti fossimo nonviolenti, il mondo sarebbe più giusto e pacifico, ma non è così, e sin tanto che esisteranno aggressori, prepotenti, tiranni, dovremo attrezzarci per combatterli con le loro stesse armi».
«In una democrazia, la resistenza civile è da preferire, ma nelle autocrazie, dove il popolo viene represso da un governo dispotico, non raggiunge risultati». […]
Il Sinodo: da evento a processo
Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che si svolge a Roma dal 4 al 29 ottobre e che ha per tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione».
Papa Francesco, nel suo discorso per il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo (17 ottobre 2015), ha rilanciato l’immagine della Chiesa come «sinodale e missionaria». In America Latina lui stesso ha vissuto il sinodo non solo e non tanto come evento speciale, ma come processo che interessa la Chiesa tutta, come popolo di Dio in ascolto del sensus fidei di tutti i battezzati nei loro diversi ministeri.
Una vera sinodalità, intesa come «cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio», spalanca la Chiesa sul mondo, accresce la sua credibilità, rinvigorisce il suo entusiasmo missionario e si fa portavoce dei poveri e voce critica di fronte a quelle strutture di peccato che tuttora impediscono che persone e popoli vedano riconosciuti, rispettati e promossi i propri diritti a vivere con dignità. Riprendendo in ciò le parole con cui Francesco ha concluso il suo discorso: «Una Chiesa sinodale è come un vessillo innalzato tra le nazioni (cfr. Is 11,12) in un mondo che – pur invocando partecipazione, solidarietà e trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica – consegna spesso il destino di intere popolazioni nelle mani avide di ristretti gruppi di potere».
Come Chiesa che «cammina insieme» ai popoli, partecipe dei travagli della storia, coltiviamo tuttora il sogno che le società si edifichino nella giustizia e nella fraternità, generando un mondo più degno di viverci per le generazioni che verranno.
Papa Francesco considera la sinodalità come costitutiva della vita e dell’agire della Chiesa. In tale visione il Sinodo sulla sinodalità diventa un’occasione privilegiata per riscoprire il discepolato di ogni credente, creando dialogo con tutti e scoprendo che tutte le Chiese
devono dare e ricevere, superando l’esperienza storica di chi manda missionari e aiuti e chi riceve soltanto.
Una delle esperienze più vere della vita missionaria da noi vissuta è la formazione di
collaboratori per far crescere le comunità locali. Camminando insieme nella vita, nella
preghiera, nella catechesi, i catechisti e gli animatori locali formano e trasformano
i missionari, insegnando ad amare la gente nel concreto, a usare un linguaggio più
essenziale per arrivare al cuore delle persone.
Guardando al mondo missionario, il Sinodo diventa inoltre una sfida a declericalizzare la Chiesa, soprattutto nelle comunità cristiane di antica origine, permettendo a ciascun battezzato di riscoprire i doni che lo Spirito elargisce per la comune condivisione, superando la tendenza tuttora presente dei «preti tuttofare».
Quanto alle giovani Chiese, pure tentate dal clericalismo insito nel processo formativo in troppi seminari, il Sinodo può ovviare al rischio che si consolidi un modello tradizionale di sacerdozio che ignora la bellezza, la novità, la creatività di una evangelizzazione povera e partecipativa, dove laici e ministri non ordinati svolgano servizi che arricchiscono l’intera comunità.
Un’autentica sinodalità aiuterà inoltre le Chiese del Sud del mondo, specie le più ricche di fedeli, laddove abbondano vocazioni sacerdotali e religiose, a resistere alla tentazione della grandeur, del benessere, del dare priorità alle opere e ai soldi.
Sinodalità, dunque, come tempo opportuno per convertirsi a un metodo nuovo ma antico di vivere la Chiesa e di evangelizzare. In uno stile meno preoccupato di redigere documenti e orientato invece a promuovere una vita cristiana autentica e pienamente vissuta. In quest’ottica, la sinodalità non si esaurisce nella celebrazione di saltuarie assemblee, per quanto speciali, ma da «fatto saltuario» diventa un percorso vissuto: da evento a processo.
Fesmi (Federazione delle riviste missionarie italiane)
All’alba del 3 ottobre del 2013 un’imbarcazione carica di migranti somali ed eritrei, già in vista dell’isola di Lampedusa, prende fuoco. Sul ponte ci sono centinaia di persone. Alcune si buttano in acqua, altre resistono. Saranno 155 i sopravvissuti, e 368 i morti. Si parla subito della «più grande tragedia dell’immigrazione», ma sarà presto superata da altre.
Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, un altro barcone proveniente dalla Turchia, si incaglia non lontano da Steccato di Cutro (Calabria). L’impatto è violento e il mare forza 5 completa l’opera distruggendo il battello. Su di esso viaggiano 180 migranti di diversi paesi (Afghanistan, Pakistan, Siria, Tunisia, Palestina). Ottanta saranno i sopravvissuti. Tra le vittime, sono in aumento le donne e i minori.
È il 13 giugno 2023. Al largo di Pylos, Grecia, un peschereccio stipato di persone si ribalta. Sono circa 700. Ne vengono salvate 104. Nella parte interna dello scafo ci sono donne e bambini. In generale, chi paga di meno occupa i posti peggiori.
Tra questi eventi, dieci anni di naufragi e migliaia di morti in mare.
All’indomani di quello del 2013 mi trovavo in Burkina Faso. Il fatto era sulla bocca di tutti. C’era un generale stato di shock per quel numero di morti così alto. Molti – forse con il senno di poi – mi dicevano che loro «non avrebbero mai tentato una simile avventura, perché la probabilità di fallimento, e il rischio di morire, erano troppo elevati».
Facendo un balzo indietro nel tempo, mi torna in mente il molo di Port-au-Prince, ad Haiti, nel 1997. Gli haitiani partivano con delle barche di legno dalla costa nord dell’isola, nel tentativo di raggiungere le Bahamas. Pochi ci riuscivano, molti morivano naufraghi o, come si diceva, «divorati dagli squali». Molti altri, intercettati dalla guardia costiera Usa, venivano riportati sull’isola. Ricordo le file di giovani appena sbarcati dalle motovedette a stelle e strisce: tra le mani un sacchetto bianco con un «kit di rimpatrio» (un po’ di cibo, una maglietta), in faccia la delusione di chi ha fallito. Molti haitiani mi dicevano che era da pazzi tentare la traversata. Ma il flusso continuava.
Quale sarà stato l’impatto del naufragio di Pylos sulla gente di Afghanistan, Pakistan, Siria? Dall’Europa, noi abbiamo sempre solo la nostra prospettiva, e facciamo fatica ad ascoltare cosa hanno da dire i popoli dei paesi di provenienza.
Dovremmo metterci in ascolto, invece di classificare i migranti in categorie (economici, climatici, politici), e chiedere loro: Perché partire? Perché restare? Perché pagare cifre da capogiro e rischiare la vita?
I migranti che ho incontrato in Niger negli ultimi anni, provenivano da tutta l’Africa occidentale e avevano tentato di attraversare il Sahara. Tutti con forti motivazioni.
Mi ha colpito una famiglia del Ciad: genitori e quattro figli. Lui nel suo paese aveva tentato più volte di studiare giurisprudenza, ma non era riuscito a causa della situazione: «Sappiamo che è un rischio lanciarsi con una famiglia in una migrazione. Siamo stati spinti dal fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in conflitti armati, o intercomunitari, c’è la repressione del governo, la cattiva gestione. Inoltre, le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne possano beneficiare per vivere in pace». L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese».
Liberi di scegliere se migrare o restare è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 109a «giornata del migrante e del rifugiato» (24 settembre): «Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è. Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire […]. Per fare della migrazione una scelta davvero libera, bisogna sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale».
Marco Bello, direttore editoriale
Sommario MC agosto-settembre 2033
Tutti gli articoli e rubriche sono online dal mattino del 14 agosto. Buona lettura.
All’alba del 3 ottobre del 2013 un’imbarcazione carica di migranti somali ed eritrei, già in vista dell’isola di Lampedusa, prende fuoco. Sul ponte ci sono centinaia di persone. Alcune si buttano in acqua, altre resistono. Saranno 155 i sopravvissuti, e 368 i morti. Si parla subito della «più grande tragedia dell’immigrazione», ma sarà presto superata da altre.
Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, un altro barcone proveniente dalla Turchia, si incaglia non lontano da Steccato di Cutro (Calabria). L’impatto è violento e il mare forza 5 completa l’opera distruggendo il battello. Su di esso viaggiano 180 migranti di diversi paesi (Afghanistan, Pakistan, Siria, Tunisia, Palestina). Ottanta saranno i sopravvissuti. Tra le vittime, sono in aumento le donne e i minori.
È il 13 giugno 2023. Al largo di Pylos, Grecia, un peschereccio stipato di persone si ribalta. Sono circa 700. Ne vengono salvate 104. Nella parte interna dello scafo ci sono donne e bambini. In generale, chi paga di meno occupa i posti peggiori.
Viaggio nell’isola del nord Europa. Ma non è il paradiso
Piccola, sperduta, spopolata. I boschi sono scomparsi da secoli. I ghiacciai stanno sparendo rapidamente a causa dei cambiamenti climatici. L’energia a disposizione è tanta, ma i turisti sono forse troppi. E anche i casi di
depressione tra i suoi abitanti. L’Islanda è bella, ma non idilliaca come retorica racconta.
L’aria «si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra».
L’Islanda sarebbe stata la terra che il filosofo di Mileto, Anassimene (586-528 a.C.), da cui sono tratti questi versi, avrebbe probabilmente amato. I quattro elementi costituenti la materia da lui per primo teorizzati e che poi Empedocle (V secolo a.C.) avrebbe fissato in una concezione scientifica che avrebbe resistito fino al Medioevo, si scatenano da millenni nelle viscere di quest’isola per poi liberarsi sulla sua superficie plasmandone il territorio.
La multinazionale mineraria Rio Tinto ha una lunga storia di conflitti ambientali e sociali. Uno degli ultimi riguarda la valle del Jadar in Serbia, dove, insieme al governo, ma senza consultare le popolazioni locali, vuole estrarre litio per la «transizione energetica».
Qual è il filo che unisce un villaggio spagnolo dell’Andalusia latifondista di fine Ottocento, una caverna nello Juukan Gorge dell’Australia occidentale e il fiume Jadar in Serbia?
La multinazionale mineraria anglo australiana Rio Tinto. Una delle più grandi al mondo, con 150 anni di storia, tutti tristemente macchiati da conflitti e ripetute violazioni di diritti umani e ambientali.
Il paese è andato al voto senza troppe speranze di cambiamento. Le possibili candidature innovative sono state bloccate da cavilli. La stampa è sempre più imbavagliata e il sistema di lotta alla corruzione è stato smantellato. I guatemaltechi sono in fuga da miseria e violenza verso gli Stati Uniti. Eppure, dal primo turno elettorale, è arrivata una sorpresa.
Le tensioni tra Washington e Pechino spingono i paesi asiatici a schierarsi. In Vietnam i segni della guerra con gli Usa, conclusa nel 1975, sono talvolta ancora visibili, ma i rapporti con la Cina non sono mai stati distesi. E anche il principale fornitore di armi, la Russia, sta dando forfait. Così Hanoi guarda sempre più oltre il Pacifico.
Lo scorso maggio si sono chiuse le elezioni presidenziali. Da vent’anni al potere, Recep Tayyip Erdoğan ha vinto ancora. Le speranze di molti, soprattutto giovani e intellettuali, di vedere il tramonto del sultano si sono infrante. Tra crisi economica, politica estera ondivaga, islamizzazione e restrizioni delle libertà individuali, il futuro del paese rimane molto incerto.
Un po’ per caso, un’insegnante scrittrice s’imbatte in una storia su una malattia rara. Con grande sensibilità ne scrive un romanzo. Un’associazione di genitori di piccoli malati lo legge e lo fa suo. Invita l’autrice a un incontro nazionale, cambiando per sempre la sua vita.
A fine dicembre 2022 ho pubblicato un libro dal titolo «La farfalla nella bolla di sapone». L’idea di questo romanzo breve è nata quasi per caso meno di un anno fa, pensando a tanti bambini e bambine che soffrono di qualche malattia, e alle loro famiglie che ogni giorno con costanza e amore combattono affinché possano vivere una vita normale e soprattutto possano guarire.
Quella che ho raccontato è la storia di Matilde, una bimba dalla pelle fragile come le ali di una farfalla. Matilde rappresenta simbolicamente tutti i bimbi colpiti dall’epidermolisi bollosa (Eb), che vengono appunto chiamati «Bambini farfalla».
Nata in Colombia venti anni fa, in un contesto di guerra civile, la scuola di perdono e riconciliazione «Espere» oggi è diffusa in 20 paesi nel mondo. Anche in Portogallo, grazie a padre Albino Brás che l’ha sperimentata nei suoi anni di favela a Rio de Janeiro.
In un tempo di conflitti a ogni livello, il perdono e la riconciliazione sono una strada di evangelizzazione.
I conflitti e la violenza sono all’ordine del giorno nella favela della parrocchia Nossa Senhora da Consolata a Rio de Janeiro. Per questo nel 2003, dopo sei anni di presenza sul territorio, padre Albino Brás decide di partecipare a un corso di «Espere» (Escuelas de perdón y reconciliación), la scuola di perdono e riconciliazione fondata in Colombia e poi diffusa in diversi paesi nel mondo dal confratello padre Leonel Narváez Gómez.
Esiste un luogo, nei Caraibi, dove il tempo sembra essersi fermato. Nelle piantagioni di canna da zucchero lavorano gli haitiani, quasi in schiavitù. In questa società le donne hanno un ruolo centrale. Ma spesso non è tenuto in conto, perché non lavorano nel campo. Un giovane antropologo ci porta a incontrarle.
«Non so cosa sia l’amore – afferma Nora -. Non mi sono mai innamorata in vita mia. Ogni volta che poteva capitare mi fermavo a pensare e mi dicevo: non posso innamorarmi, perché chi mi aiuterà? Chi si farà carico di me? Nella mia vita ho sempre avuto paura di fallire e ho sempre pensato ai miei figli».
«Il futuro? – si domanda Anabel – Non saprei… Penso solo a come vivere oggi, a come crescere i miei figli, perché è già molto duro il presente e non ho tempo per pensare al futuro. E poi quello che vogliamo noi non conta: puoi desiderare una bella vita, una casa grande con un giardino e tante belle cose, ma sono solo sogni e i sogni ci rovinano la vita, te la rendono amara, perché non si avverano mai». Nora e Anabel sono due delle donne che hanno «scritto» insieme a Raúl Zecca Castel, il libro «Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi».
Il 13 maggio 1903, arrivando al porto di Mombasa, Kenya, la terza spedizione dei Missionari della Consolata e la prima delle Vincenzine del Cottolengo ricevono un dono speciale: Selmi, Angior e Marzuk, tre piccoli schiavi
appena liberati. Qui la storia del più piccolo.
La foto del bimbo in mezzo ai cavoli (a destra), non si sa bene se scattata per evidenziare quanto sia piccolo lui o quanto siano grandi i cavoli, pur apparsa più volte su questa rivista, mantiene sempre la sua innegabile simpatia. E come ogni foto di oltre cento anni fa, porta in sé una storia.
Il bambino dei cavoli, presto battezzato Giacomino in onore del canonico Giacomo Camisassa, aiutante e amico del beato Giuseppe Allamano, si chiama Marzuk (che significa il beniamino) e ha più o meno quattro anni quando schiavisti somali provenienti dal Benadir (zona della Somalia vicino a Mogadiscio, allora colonia italiana) lo rapiscono dal suo villaggio nel sud dell’Etiopia per venderlo nella penisola arabica. Con lui sul dhow (la grande barca a vela tipica di quei mari) ci sono altri due bambini un po’ più grandicelli, Selmi e Angior, e diverse ragazze.
In qualsiasi percorso vocazionale e in tutte le proposte pastorali e catechetiche per ragazzi e giovani prima o poi si deve per forza incontrare la storia del ragazzo Samuele, esempio di disponibilità ad ascoltare la chiamata di Dio anche senza comprenderla appieno.
L’episodio della chiamata divina nel cuore della notte, rivolta a un ragazzo che non la capisce, e tuttavia dice sì sulla fiducia, è senz’altro impressionante, ed è giustamente apprezzato e utilizzato. Tuttavia è l’intera vita di Samuele che si muove sulla linea della fiducia, dell’ascolto, della disponibilità serena a rimettersi in discussione per continuare a essere un tramite autentico e trasparente dell’intenzione divina.
Impantanato nel guado
Carissimi, vorrei condividere con voi una piccola parte delle memorie di missionari che ho incontrato ad Alpignano, nella loro casa di riposo.
Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione. Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.
Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.
Raccogliamo in questo articolo le chiacchierate con padre Sisto Elias, superiore della regione Mozambico, e padre Fredy Gomez, responsabile del gruppo di missionari in Angola, che restituiscono un’immagine di un modo di fare missione basato soprattutto sulla collaborazione con le comunità locali.
Siamo nel 1891, dieci anni precisi prima della fondazione dell’Istituto missioni Consolata, Giuseppe Allamano, sebbene impegnato in Torino come rettore del Santuario della Consolata e nel Convitto ecclesiastico, pensa, prega e si consulta per capire se la fondazione di un istituto esclusivamente missionario in Piemonte sia nella volontà di Dio e nei disegni della Chiesa. Scrive a questo riguardo al padre Carlo Mancini, religioso lazzarista residente a Roma, perché esplori presso la congregazione di Propaganda fide la possibilità e l’opportunità di questa nuova avventura missionaria. Nella lettera così si esprime: «Anche oggi ho un certo numero di sacerdoti (i laici poi non mancheranno) che mi stanno ora giornalmente attorno sollecitandomi di metter mano a quest’opera».
È il filosofo che ha portato la teoria e la prassi della nonviolenza gandhiana in Italia. È stato, tra le altre cose, fondatore del Movimento nonviolento e ideatore della marcia Perugia-Assisi. Una serie di volumi ne
ripropongono il pensiero.
Aldo Capitini (Perugia 1899 – 1968) è il grande maestro della nonviolenza del Novecento italiano. È suo il contributo determinante per l’introduzione nel nostro paese del pensiero e della prassi nonviolenta secondo la lezione gandhiana.
La sua figura, rimasta marginale per decenni nella cultura italiana, nell’ultimo trentennio ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di un certo numero di studiosi.
Tra questi, Mario Martini occupa un posto di indiscussa centralità. Egli, infatti, allo studio del pensiero di Capitini ha affiancato una vasta attività divulgativa tesa, da un lato, a farlo conoscere tramite incontri pubblici e, dall’altro, a promuovere nuove edizioni dei suoi scritti.
La missione sfida i missionari
Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.
Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.
Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.
Ad esempio, il mondo occidentale non è più cristiano, la famiglia tradizionale è in crisi e in alcuni paesi come il nostro si registra un declino demografico.
Esiste poi, nell’Occidente, un’ostilità neanche troppo nascosta contro la Chiesa e la religione cristiana, con attacchi che vanno dalla denigrazione alle notizie inventate o enfatizzate, dalle battute apparentemente spiritose agli insulti, strumentalizzando proverbi stantii come: «Quando nasci alimenti il prete, quando vai a nozze inviti il prete, quando muori il prete gode», o luoghi comuni di stampo anticlericale ottocentesco.
Il futuro della Chiesa e dell’evangelizzazione è una sfida a tutto campo per la quale non servono risposte preconfezionate e che obbliga a guardare avanti con creatività, lungimiranza, tanta fede e umiltà. È un tempo che richiede un profondo discernimento per andare al cuore dei problemi e capire quello che davvero Dio vuole. Non è l’ora del fare, ma dell’ascolto, per una vera conversione.
Sono quattro le aree dell’ascolto: la Parola di Dio, per andare alle radici della vocazione missionaria e del suo stile; il carisma trasmessoci dal nostro fondatore, il beato Allamano; la realtà viva, sofferta e sfidante del mondo di oggi; l’Istituto stesso, fatto di persone concrete con le loro potenzialità ma anche le loro fragilità.
Oggi i Missionari della Consolata sono ben coscienti di non essere più un corpo monolitico come erano fino agli anni Settanta. Gli italiani sono ormai una minoranza, più anziani che giovani. Il cuore della forza missionaria oggi viene dall’Africa: uno scenario bellissimo che vede protagoniste delle Chiese giovani, aperte e generose, pur nella loro povertà, però anche pieno di incognite e nuovi problemi.
Il capitolo si è, quindi, messo in ascolto del nostro mondo con un’attenzione speciale ai poveri, ai popoli indigeni, agli sfruttati, ai marginali della storia, alle periferie e a quelle aree, soprattutto in Asia, mai raggiunte dal Vangelo. I capitolari hanno anche fatte proprie le sfide della comunicazione, della cura del creato, della promozione della pace, delle migrazioni. C’è poi una situazione nuova, che richiede risposte nuove: quella dell’Europa che tradizionalmente mandava missionari, ma oggi li richiede con urgenza.
Dall’ascolto viene poi la conversione per vivere le dimensioni più autentiche dell’identità dei Missionari della Consolata: «Prima santi, e poi missionari», diceva il beato Allamano, affinché ogni missionario diventi testimone e costruttore di gioia, libertà, fraternità, pace e giustizia là dove la Madonna Consolata ha voluto mandarlo.
Una delle caratteristiche dei Missionari della Consolata, fin dalle origini, è stata proprio quella di ascoltare le realtà che man mano andavano a incontrare, mettendo al centro del loro interesse la persona, ogni persona, con una predilezione per i poveri, i lontani, gli emarginati, quelli che la società considera di meno. Come ha fatto Gesù, il primo vero missionario del Padre.
Non abbiamo ancora in mano i documenti finali del capitolo. Non ci aspettiamo proposte spettacolari. La missione più vera si realizza di solito nel silenzio e nell’umiltà, in un dono di vita concretizzato in piccole cose fatte con amore in un quotidiano lontano dal clamore.
Che davvero ogni missionario possa essere strumento di consolazione nelle mani di Dio.
Gigi Anataloni
XIV Capitolo generale dei Missionari della Consolata
MESSAGGIO FINALE
Gratitudine, passione e speranza
Trentatre giorni vissuti insieme, un corpo solo! Missionari giunti dai diversi luoghi della Missione, impegnati a conoscersi, attraverso il racconto personale proprio e dei tanti che hanno rappresentato, attraverso la condivisione dei cammini belli e dei percorsi che ancora sfidano a camminare per andare “oltre”. La diversità delle provenienze ha, però, lasciato presto spazio a quella capacità di riconoscersi, tutti, Missionari della Consolata.
Sì, è stato facile riconoscersi e dirsi che siamo fratelli oltre ogni differenza: fratelli nell’ispiratrice, la nostra madre Consolata; fratelli nell’ispirato, il nostro padre e fondatore, Beato Giuseppe Allamano; fratelli nell’ispirazione, quel carisma ad gentes, novità che non tramonta.
Il Capitolo, infatti, ha voluto confermare ancora una volta la scelta della missione ad gentes, nella sua specificità e nella molteplice fantasia dell’amore che si dona.
Ad gentes che in questi giorni abbiamo accolto con commozione dalle parole e testimonianza di chi, tra le lacrime, ci raccontava della sua gente in Venezuela che non ha di che mangiare o di chi nel Congo, in Mozambico e in Ucraina continua a morire e a subire violenza a causa di guerre di cui non si vede mai la fine. Di chi, come profugo, arriva in Marocco stanco, ferito e sfinito dopo un lungo cammino. E, come queste, tante altre sofferenze tra le quali siamo presenti essendo chiamati a fermarci per ascoltare, per sederci accanto, per servire con semplicità ed essere presenza che annuncia Gesù con gesti di vita, con l’ascolto e la parola.
Più volte ci siamo detti che dobbiamo anche “prenderci cura” di ogni missionario in tutto l’arco della sua vita con un progetto di formazione continua. Occorre aiutare ognuno a camminare verso la sua pienezza di vita e di donazione, partendo da una relazione viva con Cristo, per “essere” prima che “per fare”, dove santità e missione si fondono ed esprimono la nostra identità e carisma.
Con gratitudine abbiamo volto lo sguardo al passato della nostra vita e della nostra storia scritta con la dedicazione ed il sacrificio di tanti nostri confratelli e di quelli che oggi continuano ed essere per noi di stimolo ed esempio “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
Con voi, guardiamo al presente con passione e con quella gioia nella quale il Papa ci ha chiesto di camminare, in comunità chiamate ad essere in uscita e in mezzo alla gente con la forza del nostro carisma e la ricchezza delle nostre culture e in comunione con le Missionarie della Consolata ed i Laici.
Guardiamo, inoltre, al futuro con speranza al vedere ancora tanti giovani che vogliono dare la loro vita per l’annuncio del vangelo e tanti altri dei quali vogliamo prenderci cura nel servizio pastorale e di animazione missionaria e vocazionale.
La Solennità della nascita di S. Giovanni Battista, il precursore, è occasione propizia a conclusione di questo nostro XIV Capitolo Generale. Con lui e come lui sappiamo accogliere il Vangelo perché desiderosi di giustizia e di libertà. Con lui e come lui non ci poniamo come l’esempio perfetto da seguire, ma rimaniamo aperti al futuro, indicandolo, Gesù Cristo.
Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.
Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.
Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.
Menzogne, attori e comparse delle «nostre» guerre tutto sarà dimenticato?
Sono passati vent’anni dall’invasione degli alleati in Iraq. Una guerra giustificata con una menzogna, e alla quale si opposero milioni di pacifisti in tutto il mondo. Ma a nulla valse. Meccanismi che si sono ripetuti in molte guerre volute dall’Occidente. Mentre i paesi che cercavano una soluzione negoziale (spesso possibile), venivano messi all’angolo.
Venti anni fa, nel mese della guerra, l’offensiva anglo-statunitense «Iraqi Freedom» contro l’Iraq iniziava con una campagna di bombardamenti aerei. Malgrado tutto. Malgrado l’inedito rifiuto popolare espresso nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo (il New York Times parlò di «seconda superpotenza mondiale», a indicare la prima manifestazione planetaria contro un conflitto). Malgrado l’opposizione di importanti paesi anche in Occidente e nel mondo arabo. Malgrado, infine, l’evidente falsità del pretesto bellico: il possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime iracheno. Eppure, il Paese fu bombardato, invaso, occupato. E nessun capo politico militare fu in seguito punito per questo. Meccanismi molto simili (senza però la presenza di milioni di pacifisti nelle strade) si sono verificati nelle altre guerre mosse dall’Occidente e alleati a partire dal 1991. Per un totale (vedi scheda a pag. 41) di 6 milioni di morti. Più la distruzione dei paesi nel mirino, gli spostamenti di popolazioni, il dilagare del terrorismo.
Juan Carlos Greco, missionario argentino, ha lavorato lungamente tra i Warao, popolo indigeno del Delta Amacuro, in Venezuela. Da qualche mese opera a Boa Vista, Roraima, dove molti indigeni sono immigrati, spinti dalla necessità e per iniziare (o provare a iniziare) una nuova esistenza. In queste pagine, padre Juan Carlos Greco ricorda gli anni trascorsi nelle loro terre.
Da quest’anno sono a Boa Vista, nello stato brasiliano di Roraima. Nei precedenti nove anni ho vissuto tra i Warao del Venezuela, quasi sempre nel loro habitat tradizionale: i canali del rio Orinoco, nello stato del Delta Amacuro. Oggi, i Warao si possono incontrare in paesi inaspettati – da Cuba a Trinidad e Tobago -, luoghi spesso raggiunti dopo viaggi avventurosi.
Gli anni trascorsi in mezzo a loro mi hanno lasciato un piacevole ricordo e molteplici insegnamenti che sarebbero sufficienti per scrivere un libro. In queste pagine, però, mi limiterò a evidenziare alcuni pensieri e sentimenti legati a quelle che io chiamo «le tre “o”» dei Warao: oralidad, oyentes y orgullo, che, in italiano, diventano «oralità, ascoltatori e orgoglio».
Direttore del «Progetto Manhattan», fu uno dei padri della bomba atomica. Mente geniale e controversa, cercò nei testi sanscriti della «Bhagavad Gita» risposte ai suoi interrogativi etici. Tuttavia, il fisico statunitense tenne sempre separato il ruolo dello scienziato da quello del politico che della bomba decide l’utilizzo.
G ià prima della sua uscita (21 luglio 2023), il film Oppenheimer del regista inglese Christopher Nolan ha incuriosito non soltanto il mondo dello spettacolo ma anche quello della scienza. Descrivere una figura così problematica e discussa come il fisico statunitense di origini ebree non è facile, specialmente quando si deve condensare la sua vita in poco più di due ore.
La sua posizione geografica e un territorio in gran parte desertico ne fanno un paese tra i più poveri del mondo. I gruppi armati e l’instabilità politica degli ultimi anni hanno aggravato la situazione. La crisi climatica fa aumentare la fame e i conflitti intercomunitari. Se la capitale resiste, l’interno del paese è abbandonato a se stesso.
La stagione delle piogge è alle porte. O almeno dovrebbe. In Ciad, come in gran parte dell’Africa, non ci sono più le stagioni di una volta. E non è una banale frase fatta. I cambiamenti climatici, in regioni fragili come quella del Sahel e in paesi aridi come il Ciad, dove ogni goccia d’acqua è preziosissima, hanno stravolto tutto: piove molto meno o piove troppo violentemente; non piove quando dovrebbe o si scatenano diluvi che devastano campi e allagano villaggi.
La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.
Il presidente Lukashenko militarizza il paese sotto la pressione di Putin. E anche i bambini vengono addestrati alla guerra. L’esercito promuove giornate e settimane residenziali per insegnare a obbedire, marciare, sparare. Con l’esca di offrire ai minori in condizioni di povertà cibo, luoghi caldi, una prospettiva di futuro.
Il 24 febbraio 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina anche dal territorio bielorusso.
Minsk non è entrata formalmente in guerra, ma il suo presidente Alexander Lukashenko, al comando del Paese dal 1994, ha sostenuto pubblicamente l’aggressione del suo alleato.
Rumuruti, Kenya. La stanza è piccola. Ci sta una branda e poco altro: tanti libri, letti e riletti. È il regno di padre Mino Francesco Vaccari, testimone dell’essenzialità della vita e dello spirito di servizio ai poveri. Accanto, c’è il piccolo studio: una scrivania, altri libri e alcune foto di scene di vita africana.
Padre Vaccari è missionario della Consolata, novanta e più anni portati bene, oltre sessanta dei quali trascorsi ininterrottamente in Kenya. I suoi racconti, attraverso un linguaggio fluido con un simpatico intervallare emiliano di tanti «capissi», lasciano un segno di memorie profonde. Umanissime.
Rubriche
Noi e voi
«Grande cuore» è andata in Cielo, omaggio a «Ltau sapuk», la mamma dal cuore grande. Mirella Menin.
Creazione da reinterpretare? Domanda per capire meglio la Bibbia.
Assalto all’occidente? Una lettera rivelatrice di una mentalità che pensavamo scomparsa, ma invece ancora troppo presente.
E la chiamano economia
Le banche e la lezione dimenticata
Non si è verificato un crollo come quello del 2008, ma la paura c’è stata. Oggi come allora, il terremoto è partito dal fallimento di alcune banche Usa, arrivando fino al cuore della «mitica» Svizzera. Ed è facile prevedere che non sarà l’ultima volta, a meno che…
Nel marzo 2023, il sistema bancario è tornato a fare parlare di sé mettendo tutti in fibrillazione. Il pensiero è andato immediatamente alla crisi che, nel 2008, fu causata dallo stesso comparto e che rapidamente si propagò al mondo intero. Come allora, anche questa volta lo scossone è partito dagli Stati Uniti e, di nuovo, è stato generato da errori bancari amplificati dalle logiche di mercato e dalle speculazioni finanziarie.
Nel turbinio di dibattiti mondani di questo anno, c’è chi ha fatto notare che il legame tra Camilla Parker Bowles e Carl Windsor (anche noto come Carlo III re del Regno Unito) avrebbe avuto tutte le caratteristiche per piacere all’industria cinematografica e alla nostra cultura romantica, eccetto una: i due innamorati, infatti, che sono legati da affinità sportive e intellettuali, ma osteggiati dalle famiglie perché lui nobile e lei no, e che, costretti a matrimoni «convenienti», non si perdono mai di vista finché un giorno finalmente coronano il loro sogno d’amore, diventando addirittura sovrani, non sono belli.
Impermeabili, resistenti, antiaderenti. È un dato di fatto che siamo circondati da prodotti d’uso quotidiano contenenti Pfas. Si tratta di sostanze chimiche che apportano ai materiali caratteristiche uniche: impermeabilità, resistenza, antiaderenza. Con una sola controindicazione: sono pericolose.
Ovunque e per sempre. Questi avverbi descrivono due delle caratteristiche principali di un nutrito gruppo di inquinanti chimici, i Pfas (acronimo per PerFluoroAlkyl substances), o sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, che sono ormai ovunque nell’ambiente, nonché nel nostro sangue e nei nostri tessuti, oltre che in quelli degli altri esseri viventi.
In meno di un secolo i Pfas ci sono sfuggiti di mano e oggi sono diffusi dappertutto.
Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.
Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.
Come mai quegli uomini non bruciano? Gettati nella fornace ardente, le fiamme non li consumano. E cantano.
Cerco di comprendere le parole che pronunciano: benedicono il loro Dio. E domandano a ogni cosa, ogni essere, ogni uomo, di fare altrettanto: «Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dn 3, 57).
Come possono esaltare un qualsiasi dio le acque, i cieli, le stelle, il sole, i venti, il freddo e il caldo, la luce e le tenebre, i monti e le colline? E le creature che germinano sulla terra, i mostri marini, gli uccelli dell’aria, gli animali tutti, selvaggi e domestici?
Certo, i figli dell’uomo sì, potrebbero lodare il loro Dio.
Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.
C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.
Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.
Fare bene il bene (facendo informazione)
È per me un grande onore, ma anche una grande responsabilità, assumere il ruolo di direttore editoriale della rivista Missioni Consolata. Una pubblicazione che ha 125 anni di vita e ha avuto 12 direttori a cominciare dal canonico Giacomo Camisassa. Se, da un lato, il beato Allamano diceva ai suoi missionari «Fate bene il bene, senza fare rumore», ovvero fatelo, ma senza vantarvi o farvi pubblicità, dall’altro, fin da subito, aveva intuito l’importanza della comunicazione e dell’informazione, fondando la rivista «La Consolata», già nel 1899. Questa, da periodico che raccontava le attività del santuario di Torino, è diventata il mezzo per far conoscere le missioni, non appena i primi quattro missionari sono partiti nel maggio del 1902.
Mondi lontani, culture diverse, avventure e incontri molto particolari, sono diventati il principale contenuto che la rivista portava nelle case delle famiglie italiane di oltre cento anni fa. E iniziava così a fare, con il linguaggio e lo stile del tempo, informazione missionaria. Nel 1928 la testata ha dato vita a «Missioni Consolata» che ha affiancato «La Consolata».
Oggi, in un mondo che non sta andando bene, dove la guerra, la contrapposizione e il commercio delle armi sembrano dominare rispetto al dialogo, ai diritti e al benessere di tutti; dove la sopravvivenza stessa del pianeta è messa a rischio dalla peggiore crisi climatica mai vista, sotto lo sguardo disinteressato e cieco di chi governa; Missioni Consolata continua a raccogliere e raccontare in modo approfondito le storie che non hanno spazio su quotidiani, radio, web e Tv. Storie di persone, comunità, popoli, luoghi che hanno una grande importanza, anche se trascurate, e che solo una pubblicazione «alternativa» come la nostra, riesce a diffondere. Vicende talvolta positive e di speranza che, comunque, esistono.
Personalmente, mi prefiggo di continuare nel solco dei 12 direttori che mi hanno preceduto e, allo stesso tempo, di aprire lo sguardo a mezzi di comunicazione diversificati, per assicurare che le storie e il messaggio di MC viaggino sempre più lontano e raggiungano più persone possibile. In un cambiamento di epoca, anche una pubblicazione come la nostra deve attrezzarsi.
Il che significa portare MC a essere più presente nel mondo digitale, con un linguaggio adeguato, per riempire spazi di informazione con i nostri temi e i nostri valori. Senza abbandonare il supporto di carta.
Missioni Consolata è una rivista missionaria, e crediamo che continui ad avere un ruolo importante nella nostra società, forse ancora di più che 100 anni fa.
Pure essendo nato a Torino, ho conosciuto i missionari della Consolata in Brasile, nel 1992, durante un lungo viaggio «on the road» in Sudamerica. Esperienza che mi ha stimolato nella scrittura del mio primo articolo, pubblicato su MC nel febbraio dell’anno successivo. È stato l’inizio di un percorso. Sono così diventato collaboratore esterno di questa rivista.
Dal 1997 ho lavorato come volontario e cooperante prima ad Haiti, poi in Burundi e in Burkina Faso. Ad Haiti, in particolare, ero il responsabile della sezione fotografica del giornale in lingua creola «Libète», occupandomi di cronaca, ma anche della camera oscura, dell’archiviazione e della formazione di un giovane fotografo haitiano. Nel maggio 2006, rientrato dall’Africa, ho avuto la possibilità di integrare l’équipe di redazione di MC.
Nel cominciare questa nuova avventura, il mio pensiero va con gratitudine ai missionari che mi hanno preceduto. Francesco Bernardi, che ha pubblicato il mio primo articolo; Benedetto Bellesi, il mio primo direttore in MC; Ugo Pozzoli, sempre aperto e accogliente, e Gigi Anataloni, che ci ha guidati negli ultimi 12 anni e che continua come direttore responsabile della pubblicazione oltre che ad assumere l’incarico di direttore dell’archivio fotografico e video dell’istituto. Da ognuno ho imparato qualcosa. Sono riconoscente, inoltre, a padre Gottardo Pasqualetti, che mi chiamò, sotto indicazioni di Bernardi, a lavorare in redazione nel 2006.
Come équipe di redazione, rinnoviamo il nostro impegno di servizio alle lettrici e ai lettori di MC, per fornire loro un’informazione corretta, precisa, ricercata e approfondita. È verso di loro la nostra responsabilità più grande.