Mongolia. Un ospite imbarazzante

 

Vladimir Putin, presidente russo e criminale di guerra, è arrivato a Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, il 3 settembre, formalmente per una commemorazione storica. Accolto nella grande piazza Sükhbaatar da un picchetto di guardie in eleganti uniformi rosse e blu (a somiglianza di quelle indossate ai tempi di Genghis Khan, il fondatore dell’impero mongolo), il leader russo è apparso impettito e tirato a lucido come la propaganda richiede.

Si è trattato del suo primo viaggio in un paese aderente alla Corte penale internazionale. In quanto tale, la Mongolia avrebbe dovuto procedere all’arresto dell’ospite, considerato che, da marzo 2023, sul capo di Putin pende un mandato di cattura per crimini di guerra emesso dalla Corte. Circostanza che, come ampiamente prevedibile (e, a onor del vero, comprensibile), non si è verificata.

Comunista per quasi settant’anni, dal 1990 la Mongolia è uno stato democratico con regolari elezioni (le ultime si sono tenute a fine giugno) e un’economia di mercato. Tuttavia, dal punto di vista economico, Ulaanbaatar dipende per larga parte dai due regimi autoritari che lo schiacciano come un sandwich: a Nord la Russia, a Sud ed Est la Cina.

Mappa della Mongolia, paese asiatico senza sbocco al mare e schiacciato tra due regimi autoritari, a Nord la Russia, a Sud e ad Est la Cina.

Stando all’agenzia mongola Montsame, Putin ha incontrato nell’ordine il presidente Khurelsukh Ukhnaa, il primo ministro Oyun-Erdene Luvsannamsrai e Amarbayasgalan Dashzegve, responsabile del Parlamento (il cosiddetto Grande Khural). Gli incontri – si legge – sono serviti per rafforzare i rapporti di cooperazione economica tra i due stati. Occorre ricordare che Mosca fornisce al Paese (ricco di risorse minerarie, ma privo di uno sbocco al mare) la maggior parte del suo carburante e una notevole quantità di elettricità. Esiste, inoltre, un altro elemento che favorisce le relazioni tra i due stati: dal 1940, la Mongolia ha adottato l’alfabeto cirillico russo.

Due sono le indicazioni generali che la visita di Putin nel Paese asiatico ha posto in evidenzia: la prima è la conferma della volontà russa di insistere senza soluzione di continuità sulla polarizzazione della politica mondiale, la seconda è l’intrinseca debolezza di un’istituzione quale la Corte penale internazionale la cui efficacia è, al momento, praticamente pari a zero.

Paolo Moiola




Corea del Sud. Voglia di armi nucleari

 

«Gli Stati Uniti sarebbero disposti a favorire un programma in grado di dotare la Corea del Sud di sottomarini a propulsione nucleare come fatto con l’Australia?». Primi giorni di giugno, Shangri-La dialogue di Singapore, il massimo vertice sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico. Un delegato di Seul pone questa domanda a Lloyd Austin, il capo del Pentagono, che risponde in maniera evasiva. È il segnale di qualcosa di molto piu ampio: la Corea del Sud sta accarezzando l’idea di dotarsi di armi nucleari.

Un tema tabù, anche per la volontà dichiarata da sempre di Washington di perseguire la denuclearizzazione della penisola. Eppure, dopo anni di continuo innalzamento delle tensioni con la Corea del Nord, l’opinione pubblica e la posizione del governo in materia sta rapidamente mutando. Soprattutto dopo il recente accordo di mutua difesa siglato a Pyongyang tra Kim Jong-un e Vladimir Putin, che preoccupa non poco Seul.
Un recente sondaggio condotto dal potente think-tank Korea Institute for National Unification, un’entità statale, ha rilevato che il 66% degli intervistati ha espresso «sostegno» o «forte sostegno» per un deterrente nucleare indipendente, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Alla richiesta di scegliere, il numero di intervistati che ha espresso una preferenza per il possesso di armi nucleari proprie da parte di Seul rispetto al ricorso alle truppe statunitensi è aumentato di quasi 11 punti percentuali rispetto al 2023, superando per la prima volta il sostegno alla presenza militare di Washington.

Storicamente, la Corea del Sud si affida all’alleato statunitense per la «deterrenza estesa», con la consapevolezza che Washington è disposta a dispiegare i propri mezzi militari, comprese se necessario le armi nucleari, in difesa di Seul. E gli Stati Uniti si sono sempre opposti fermamente allo sviluppo di un proprio arsenale nucleare da parte della Corea del Sud, per il timore che questo possa far naufragare gli sforzi di non proliferazione globale e dare una scusa alla Corea del Nord (ma anche alla Cina) per giustificare l’accelerazione del rafforzamento del proprio arsenale. Ma molti sudcoreani sono convinti che i tempi siano cambiati e l’approccio classico non basti più a garantire la sicurezza.
Dopo gli incontri di Singapore e Hanoi tra Kim e Donald Trump, dal 2019 il dialogo è naufragato. Nella primavera del 2020 la Corea del Nord ha fatto saltare in aria il centro di collegamento intercoreano di Kaesong e dal 2022 ha aumentato esponenzialmente il ritmo dei test missilistici. Sempre nella primavera del 2022, le tensioni sono aumentate dopo la vittoria alle elezioni presidenziali sudcoreane del conservatore Yoon Suk-yeol, che ha abbandonato la linea dialogante del predecessore Moon Jae-in per adottare una retorica della risposta «colpo su colpo».
Anche a causa della guerra in Ucraina e del timore di un crescente allineamento tra Cina e Russia, Seul ha rafforzato drasticamente la propria alleanza militare con gli Usa e ha avviato una partnership con la Nato.

Da qualche mese, è stato anche cancellato l’accordo intercoreano del 2018 che aveva ridotto le manovre militari lungo la frontiera. Il tutto in seguito al lancio del primo satellite spia nordcoreano, che secondo la Corea del Sud sarebbe avvenuto con il sostegno di Mosca. Pyongyang ha ricominciato a muoversi nei pressi della zona demilitarizzata, con brevi sconfinamenti di truppe e la costruzione di nuove strutture. Seul ha risposto con una serie di esercitazioni estese con gli Usa. Le due Coree hanno anche dato una svolta a livello politico-retorico. Kim ha fatto emendare la Costituzione per etichettare il Sud come «nemico principale e immutabile». Yoon ha presentato un piano di unificazione che non prevede alcun ruolo per Kim e il sistema politico nordcoreano. Insomma, Nord e Sud iniziano a pensare che la riunificazione possa avvenire solo cancellando l’altra metà.

Rispetto al passato, le capacità sempre più avanzate della Corea del Nord e la revisione della dottrina nucleare del regime per consentire attacchi preventivi in un’ampia gamma di scenari stanno spingendo diversi deputati sudcoreani a chiedere una rivalutazione della politica in materia di armi. Le voci in tal senso potrebbero aumentare di tono qualora Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. In Corea del Sud ricordano bene cosa è successo durante il suo primo mandato, con la richiesta di aumenti monstre delle spese militari per mantenere i circa 29mila militari statunitensi sul territorio del Paese asiatico. Pretese talmente esose da provocare una sospensione delle trattative. Con l’arrivo di Joe Biden, si è invece trovato rapidamente l’accordo per un aumento ridotto al 4% delle spese. Non solo. L’amministrazione democratica ha rafforzato la rete di alleanze in Asia-Pacifico, favorendo il disgelo tra Corea del Sud e Giappone e fornendo nuove e ampliate garanzie sull’ombrello nucleare americano in caso di crisi.
Non a caso, Seul sta provando, sottotraccia, a trattare con la Casa Bianca il rinnovo dell’accordo prima delle elezioni o comunque del cambio della guardia tra Biden e il suo successore, nonostante la scadenza sia nel 2025. La mossa è pensata per evitare di dover trattare nuovamente con Trump, il cui ritorno, al di là degli effetti concreti, potrebbe causare conseguenze psicologiche, con i sudcoreani che presumibilmente si convincerebbero ancora di più che è necessario fare da soli. E che forse è meglio avere un proprio «ombrello», piuttosto che fare affidamento su quello altrui.

Lorenzo Lamperti




Tempo del creato. Sperare e agire

 

Domenica 1 settembre 2024, i cristiani di tutto il mondo si uniranno in preghiera e riflessione in occasione della diciannovesima Giornata mondiale per la custodia del creato, un momento importante per riconoscere il dono della nostra «casa comune» e impegnarsi nella sua salvaguardia.

Questa giornata rappresenta, come ogni anno, l’inizio del «Tempo del Creato», un periodo di cinque settimane, dal 1 settembre al 4 ottobre, dedicato alla preghiera, alla riflessione e sensibilizzazione sull’importanza di prendersi cura dell’ambiente e delle risorse naturali e all’azione concreta.

Ecumenismo per la «casa comune»

Il Tempo del Creato, che quest’anno ha come motto «Sperare e agire con la Creazione», è un’iniziativa ecumenica che coinvolge i cristiani di tutte le denominazioni. È promosso da un vasto gruppo di organizzazioni cristiane a livello globale, inclusa la Chiesa cattolica, la Chiesa ortodossa, le Chiese protestanti e molte altre comunità cristiane.

Nata nel 1989 per volontà del Patriarca ecumenico Dimitrios I di Costantinopoli, è cresciuta negli anni grazie al Consiglio mondiale delle Chiese e alla sua assunzione ufficiale nella Chiesa cattolica da parte di papa Francesco nel 2015, oggi è un vero e proprio movimento ecumenico globale. La collaborazione tra diverse confessioni rappresenta un segno tangibile dell’impegno comune verso la cura del creato, superando le differenze dottrinali per concentrarsi sull’urgenza di proteggere il pianeta.

Contro i combustibili fossili

Quest’anno una delle iniziative centrali sarà la campagna per la firma del Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, un trattato, sostenuto da numerose organizzazioni religiose e movimenti ambientalisti, che mira a fermare l’espansione dell’industria dei combustibili fossili e a promuovere una transizione giusta verso energie rinnovabili.

La Chiesa cattolica, attraverso le sue organizzazioni sociali e pastorali, ha espresso il suo sostegno a questa iniziativa, vedendola come un passo necessario per affrontare la crisi climatica e proteggere il creato.

Eventi in tutto il mondo

I quattro eventi ufficiali organizzati dal Tempo del creato saranno un incontro di preghiera il 1 settembre; un webinar di alto livello sul Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili il 10 settembre; la Giornata globale di azione per il Trattato sui combustibili fossili il 21 settembre; e la preghiera di chiusura del Tempo del creato il 4 ottobre, festa di San Francesco di Assisi, patrono dell’ecologia.

Le firme raccolte in appoggio al Trattato sui combustibili fossili, saranno
utilizzate per influenzare i decisori alla prossima conferenza delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici, la Cop29, prevista per il novembre 2024 in Azerbaigian.

A queste iniziative del Tempo del creato, si aggiungono poi quelle ufficiali delle diverse conferenze episcopali e delle singole diocesi, e le iniziative spontanee di singole parrocchie, gruppi, movimenti.

In molte città si terranno momenti di preghiera, celebrazioni liturgiche, incontri di riflessione, e iniziative di sensibilizzazione. In Italia, ad esempio, diverse diocesi hanno programmato camminate ecologiche e celebrazioni all’aperto. Negli Stati Uniti, alcune chiese organizzano veglie di preghiera all’alba per sottolineare l’importanza della luce e dell’energia come doni di Dio. In Kenya, la Chiesa anglicana sta promuovendo la piantumazione di alberi nelle comunità locali come atto simbolico di rinnovamento e speranza. In Brasile si terranno marce per la giustizia climatica.

Il messaggio di Francesco

In occasione della giornata del 1 settembre, papa Francesco ha diffuso il messaggio «Spera e agisci con il creato» nel quale ribadisce l’urgenza di un cambiamento radicale nel nostro stile di vita per proteggere il pianeta dal degrado ambientale. «Nell’attesa speranzosa e perseverante del ritorno glorioso di Gesù – afferma tra le altre cose il Papa -, lo Spirito Santo tiene vigile la comunità credente e la istruisce continuamente, la chiama a conversione negli stili di vita, per resistere al degrado umano dell’ambiente e manifestare quella critica sociale che è anzitutto testimonianza della possibilità di cambiare. Questa conversione consiste nel passare dall’arroganza di chi vuole dominare sugli altri e sulla natura – ridotta a oggetto da manipolare -, all’umiltà di chi si prende cura degli altri e del creato». E prosegue: «Sperare e agire con il creato significa anzitutto unire le forze e, camminando insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, contribuire a “ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti […]” (Laudate Deum, 28)».

Un invito all’azione

La Giornata mondiale di preghiera per il creato e il Tempo del creato rappresentano un appello alla coscienza di ogni cristiano. È un invito a riconoscere la gravità della crisi ambientale e ad agire con urgenza. Che si tratti di pregare, di partecipare a eventi locali o di sostenere iniziative globali come il Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, ognuno è invitato a fare la differenza.

Luca Lorusso

Infografica sul messaggio del papa

Guida alla celebrazione del Tempo del creato

Altre risorse




Giappone. Addio «Costituzione pacifista»?

 

Si chiama, o meglio si chiamava, Douglas MacArthur. Il suo nome non era solamente quello del più celebre generale dell’esercito degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma viene usato ancora oggi per etichettare la costituzione del Giappone, il grande ex rivale di Washington, ora invece suo più stretto alleato sul fronte orientale. Il motivo è semplice. La costituzione introdotta nel secondo dopoguerra da Tokyo fu appunto imposta dagli Usa e ora il governo nipponico vuole provare a riformarla dopo decenni di dibattito.

Prima ancora della resa dopo il lancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, proprio MacArthur aveva ricevuto l’incarico di comandante supremo delle forze alleate in Giappone. Non solo. Il generale fu anche dotato di potere di controllo assoluto sulle istituzioni, imperatore Hirohito compreso. Evitò l’abdicazione del sovrano non toccando le antiche tradizioni, in cambio però di profonde garanzie sul fatto che il Paese asiatico non sarebbe mai più stato una minaccia militare per gli Stati Uniti e i suoi vicini asiatici. Ed ecco allora l’entrata in vigore di una Costituzione che viene definita «pacifista».

L’articolo chiave è il numero 9, che stabilisce che «Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». A tal fine, l’articolo prevede che «le forze terrestri, marittime e aeree, così come un altro potenziale bellico, non saranno mai mantenute». Formalmente, il Giappone non ha un vero e proprio esercito, bensì delle Forze di autodifesa. Si tratta sostanzialmente di una forza militare de facto che dal 1954 sostituisce le forze armate prebelliche. Nel corso degli anni, alcuni tribunali nipponici hanno persino ritenuto incostituzionali le Forze di autodifesa, anche se la Corte Suprema non si è mai pronunciata sulla questione.
Ora, però, il Giappone si sta muovendo per rivedere o abolire del tutto le restrizioni dell’articolo 9. Un tema quasi tabù, menzionato diverse volte nel corso degli anni ma mai affrontato in modo profondo. L’esigenza è divenuta più impellente contestualmente all’ascesa militare della Cina. Dopo le tensioni sulle isole contese Senkaku/Diaoyu, nel 2014 il governo dell’allora premier Shinzo Abe ha approvato una reinterpretazione dell’articolo 9 per consentire al Giappone di impegnarsi in una «autodifesa collettiva».
Ma anche questo non è più abbastanza. Nelle scorse settimane, il premier Fumio Kishida ha rotto gli indugi chiedendo al Partito liberaldemocratico (al potere quasi ininterrottamente da decenni) di accelerare il dibattito sulla revisione costituzionale. «L’era in cui ci si limitava a parlare della Costituzione è finita. Ora è il momento di camminare e iniziare a pensare a come realizzarla», ha dichiarato Kishida, che ha sottolineato la necessità di menzionare esplicitamente le Forze di autodifesa nella Carta e di stabilire una clausola che consenta di estendere i mandati dei deputati in caso di emergenza nazionale.

La linea non cambia nemmeno dopo l’annuncio delle dimissioni di Kishida, anzi in vista delle elezioni per la presidenza del partito, che il 27 settembre decreteranno anche chi sarà il prossimo premier, il dibattito pare destinato a rafforzarsi. Diversi aspiranti alla carica di primo ministro, dalla donna di riferimento dell’ala ultraconservatrice Sanae Takaichi alle l’ex ministro della Difesa Shigeru Ishiba fino all’ex ministro della Sicurezza economica Takayuki Kobayashi, praticamente tutti i candidati hanno dichiarato che la riforma costituzionale è una delle loro priorità.
Secondo un recente sondaggio di Kyodo News, il 65% dell’opinione pubblica giapponese ritiene in realtà che non sia necessario affrettare il dibattito sulla revisione costituzionale, ma il governo la pensa diversamente. La guerra in Ucraina ha accelerato una serie di processi già in atto e il Giappone è il Paese che più di tutti teme un potenziale coordinamento tra Cina, Russia e Corea del Nord. Di più. Il Giappone è il Paese più direttamente coinvolto dalle tensioni su Taiwan. Basti pensare che durante le vaste esercitazioni militari cinesi dell’agosto 2022, condotte in risposta alla visita di Nancy Pelosi a Taipei, quattro degli 11 missili lanciati dalle forze armate di Pechino sono finiti nelle acque della zona economica speciale giapponese.
Kishida è stato il primo (e più convinto) leader a connettere il fronte occidentale con quello orientale, sostenendo già dal maggio 2022 che l’Asia orientale rischia di diventare la «prossima Ucraina». Tokyo ha rafforzato in modo drastico l’alleanza militare con gli Stati Uniti e ha partecipato per la prima storica volta al summit Nato di due anni fa. Ancora: Kishida ha riavviato i rapporti con la Corea del Sud dopo anni di tensioni commerciali e diplomatiche, disgelo suggellato dal summit di Camp David di agosto 2023 con Joe Biden e il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol. Kishida è poi tornato a Washington la scorsa primavera, firmando accordi trilaterali che hanno coinvolto per la prima volta anche le Filippine. Per non parlare del rafforzamento dei rapporti di difesa con India e Australia. Insomma, il Giappone è diventato l’epicentro di una rete di sicurezza asiatica che in qualche modo potrebbe anche attutire un eventuale parziale disimpegno statunitense, da non escludere nel caso di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre.
Ecco perché il Giappone sente di dover rivedere la sua costituzione. Pechino si lamenta e mette in guardia il vicino dal non rievocare il suo «passato militarista». Ma a Tokyo sono convinti che i tempi siano cambiati e che avere meno vincoli sul fronte militare sia necessario per sostenere la propria sicurezza. Lecito attendersi nuovi sviluppi, e altrettante tensioni, nel futuro prossimo.

Lorenzo Lamperti




Africa australe. Mancano acqua, cibo ed energia

 

I campi sono gialli. Secchi. Da febbraio non piove. Neanche una goccia sull’Africa australe. La siccità si è diffusa lentamente. I raccolti sono stati bruciati. I bacini idrici si sono svuotati e anche le centrali idroelettriche sono ferme o viaggiano a ritmo ridotto. La siccità in Zambia, Zimbabwe e Malawi, i Paesi più colpiti, è un problema ricorrente, ma quest’anno le tre nazioni si sono trovate a far fronte a condizioni particolarmente dure, le più dure da 40 anni.

Le cause principali della siccità sono legate a fenomeni climatici globali come El Niño, che altera i modelli di pioggia, e al cambiamento climatico, che sta aumentando la frequenza e la gravità delle siccità. L’insicurezza alimentare è una delle conseguenze più gravi, con milioni di persone che si trovano a fronteggiare la fame e la malnutrizione. Inoltre, l’impatto economico è significativo, con perdite agricole, aumento dei prezzi degli alimenti e pressioni sulle risorse idriche che aggravano le già fragili economie.

In Zambia, la siccità, secondo i dati forniti dall’autorità governativa, ha colpito più di 6 milioni di persone, di cui la metà bambini. La carenza di piogge ha avuto un impatto significativo sulla produzione agricola, soprattutto nelle regioni meridionali, in particolare sulla coltivazione del mais, che è un alimento base per gran parte della popolazione. La mancanza di acqua ha anche influito sulla produzione di energia, poiché il Paese dipende fortemente dall’energia idroelettrica. La diga di Kariba, una delle principali fonti energetiche del Paese, ha visto un drastico calo dei livelli d’acqua, portando a interruzioni di corrente e razionamenti. L’azienda elettrica nazionale ha chiesto all’autorità dell’energia di poter aumentare le bollette del 156%.

Anche lo Zimbabwe è stato duramente colpito, con conseguenze devastanti sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare. Il Paese, già afflitto da una decennale crisi economica, ha visto un ulteriore peggioramento della situazione a causa della scarsità di acqua. La siccità ha colpito duramente la produzione agricola, in particolare le coltivazioni di mais, portando a carenze alimentari diffuse. Ciò ha causato un forte aumento dei prezzi alimentari che ha spinto l’inflazione alimentare sopra al 60%. Circa 2,7 milioni di persone nelle aree rurali sono minacciate dalla fame. Anche in Zimbabwe la scarsità d’acqua ha anche compromesso la produzione di energia idroelettrica rendendo più cara la bolletta.

Pure in Malawi, la siccità ha compromesso la produzione di mais, che è la principale fonte di cibo e reddito per la maggior parte della popolazione. Ciò ha portato a un aumento della fame e della malnutrizione, soprattutto nelle aree rurali. Inoltre, la siccità ha colpito la disponibilità di acqua potabile e la capacità del Paese di generare energia elettrica, poiché gran parte della sua elettricità proviene da impianti idroelettrici. Circa 9 milioni di persone necessitano ora di assistenza, la metà sono bambini.

I governi di Zambia, Zimbabwe e Malawi, insieme alle organizzazioni internazionali, stanno cercando di affrontare la crisi con varie strategie. Il Programma alimentare mondiale e l’Unicef stanno intervenendo con aiuti alimentari e supporto nutrizionale, soprattutto per i bambini più vulnerabili. Tuttavia, la frequenza crescente di questi eventi climatici estremi suggerisce che la siccità diventerà una sfida sempre più ricorrente, richiedendo soluzioni a lungo termine e un supporto internazionale più consistente per rafforzare la resilienza delle comunità locali.

Enrico Casale




Sudan. Oltre 16 milioni a rischio fame

 

Da aprile 2023, il Sudan è dilaniato da una sanguinosa guerra civile. A scontrarsi sono l’esercito governativo guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan – leader ufficiale del Paese – e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, rivale di al-Burhan.

Mentre i due si contendono il controllo del Sudan – il più delle volte ignorando i tentativi di dialogo portati avanti dalla comunità internazionale – i civili sudanesi pagano le conseguenze di un conflitto sempre più violento. Gli sfollati interni sono oltre dieci milioni, mentre più di due milioni di persone si sono rifugiate negli Stati vicini. Gli aiuti umanitari faticano a entrare nel Paese: entrambe le fazioni in conflitto ostacolano l’accesso di operatori e organizzazioni internazionali. Tant’è che, negli ultimi mesi, tra coloro che non avevano cibo a sufficienza, solo una persona su dieci ha ricevuto l’assistenza necessaria. Secondo le Nazioni Unite, quindi, il Sudan sta vivendo la peggiore crisi alimentare della sua storia.
Per valutare le condizioni alimentari di un Paese, a livello internazionale è stato introdotto un sistema condiviso di monitoraggio, l’Integrated food security phase classification (Ipc). Un meccanismo che si articola su cinque livelli, dove il primo descrive una condizione di sufficiente disponibilità di cibo mentre l’ultimo corrisponde alla carestia. Passando per situazioni di «stress alimentare» (livello 2), «crisi» (livello 3) ed «emergenza» (livello 4).

Nel caso del Sudan, le ultime rilevazioni (pubblicate a luglio) mostrano che, tra giugno e settembre 2024, oltre 25 milioni di persone (su una popolazione di quasi 50 milioni) si sono trovate, o saranno, in una condizione di «crisi», se non peggio. E la situazione è in rapido deterioramento. Infatti, rispetto alle precedenti stime di dicembre 2023, il numero di sudanesi in situazione di «crisi» è cresciuto del 45%, raggiungendo i 16,3 milioni. Mentre il livello successivo, quello emergenziale, riguarda ormai 8,5 milioni di persone (con un incremento del 74%).
A preoccupare, però, sono soprattutto i dati relativi all’ultima fase, la carestia. Se a dicembre 2023 nessun sudanese era a rischio, ora 755mila persone – sparse in dieci località del Paese – soffrono di insicurezza alimentare estrema. Cioè un’insufficienza severa, prolungata e diffusa di cibo, tale da causare malnutrizione, fame ed elevata mortalità tra la popolazione. Già a febbraio, le Nazioni Unite avevano avvertito che nei mesi successivi sarebbero potuti morire fino a 220mila bambini per la mancanza di generi alimentari. Più recentemente, il Clingendael institute, un ente di ricerca olandese, ha stimato che entro ottobre 2,5 milioni di sudanesi potrebbero perdere la vita a causa dell’insicurezza alimentare.
Attualmente, le aree del Paese più a rischio di carestia sono 14 tra province (Greater Darfur, Greater Kordofan e Al Jazirah) e località che accolgono sfollati e rifugiati (soprattutto a Khartoum, la capitale). Ufficialmente, le Nazioni Unite non hanno ancora dichiarato uno stato di carestia ma, allo stato attuale, l’intersecarsi di diversi fattori – conflitto, ciclici disastri naturali e devastazione economica – rende la prospettiva sempre più possibile e vicina.

Secondo l’Ipc infatti, se gli scontri non cesseranno – o quantomeno non allenteranno la propria presa sui civili -, l’insicurezza alimentare si diffonderà sempre di più nel Paese. La violenza ha costretto molti sudanesi a lasciare abitazioni e attività economiche per rifugiarsi nei campi di sfollati. Dove però gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a causa dei blocchi e dei saccheggi degli attori armati.
Diverse reti stradali e vie commerciali sono diventate impercorribili. La produzione agricola è crollata: campi, mezzi di produzione e catene di approvvigionamento sono andati distrutti. Quindi i prezzi dei generi alimentari – sia di produzione interna sia d’importazione (diventata sempre più difficile) – sono schizzati alle stelle. L’Unocha (l’agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) ad esempio stima che i prezzi delle commodities siano aumentati dell’83% rispetto all’inizio del conflitto.
I disastri naturali – come le recenti inondazioni – si vanno a sommare a un contesto socioeconomico già estremamente fragile e non fanno altro che acuire la vulnerabilità della popolazione. Soprattutto nel caso di sfollati e rifugiati che spesso vivono in campi di fortuna.
Il Sudan – dilaniato da una guerra di potere – è sempre più vicino al baratro.

Aurora Guainazzi




Traumi migratori. Rimettere insieme i frammenti

 

«Gli eventi traumatici estremi come la tortura e la violenza intenzionale portano a una drammatica frammentazione delle funzioni psichiche di coloro che le subiscono. Allo stesso modo, il percorso di cura può essere visto – metaforicamente e nei fatti – come un processo di ricomposizione dei “frammenti” della mente e del corpo dei sopravvissuti».

Inizia con queste parole il rapporto «Frammenti» di Medici per i diritti umani (Medu), un’organizzazione che lavora per fornire una risposta al bisogno di salute mentale proveniente da migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Italia. Le sue iniziative si rivolgono soprattutto a coloro che sono sopravvissuti a tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

Un’esigenza di intervento evidenziata anche dai dati: dei 1.500 migranti che Medu ha assistito nei suoi progetti dal 2014, l’80% ha riferito di aver subito tali trattamenti nei Paesi di origine e/o di transito. In particolare in Libia, che Medu denuncia essere ormai una vera e propria «fabbrica della tortura».

In Italia, il sistema di accoglienza e quello sanitario sono decisamente lontani dall’essere in grado di individuare precocemente e prendere in carico efficacemente richiedenti asilo e rifugiati che hanno subito torture, stupri e altre forme gravi di violenza fisica, psicologica o sessuale.

Già si è dovuto attendere ben trent’anni dalla ratifica della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti affinché l’Italia introducesse nel proprio Codice penale il reato di tortura.

In più, le Linee guida per l’assistenza, la riabilitazione e il trattamento dei disturbi psichici dei rifugiati e delle vittime di tortura – emanate nel 2017 dal ministero della Salute – sono ancora ampiamente disattese dalla maggior parte delle regioni italiane. Mancano i fondi per riorganizzare i servizi sanitari, introdurre figure per la mediazione linguistico-culturale e formare il personale medico e psicologico.

È in questo contesto di carenza di adeguati servizi medici e psicosociali che Medu ha fondato i centri Psyché.

A Firenze, Ragusa e Roma, queste strutture si occupano della salute mentale transculturale di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. La loro nascita è stata resa ancor più necessaria dalla riduzione dei servizi legali e psicologici nei Centri di accoglienza straordinaria a seguito dell’introduzione della legge 50 del 2023 (il cosiddetto «Decreto Cutro», l’ennesima stretta al sistema di accoglienza italiano).

I centri Psyché dunque cercano di riempire questo vuoto. Nascono per fornire assistenza psicologica, psichiatrica e psicosociale ai sopravvissuti a tortura, trattamenti inumani e degradanti, violenza sessuale e di genere. Ma sono aperti anche a tutti coloro che presentano disagi psichici di natura post-traumatica, indipendentemente da condizione giuridica, economica e sociale.

In questi centri, una figura essenziale è il mediatore linguistico-culturale. In un video contenuto nel rapporto «Frammenti», Najla Hassen, mediatrice di Medu, racconta: «Ci occupiamo di ferite, quindi è essenziale dialogare nella lingua dei pazienti per avvicinarci il più possibile a loro. La mediazione linguistica non è soltanto una traduzione letterale, è un’interpretazione e un costruire un dizionario per ogni persona che incontriamo».

Mentre il suo collega Abdoulaye Toure aggiunge: «Il mediatore non è una presenza basata solo sulla trasmissione, sulla traduzione della lingua, ma sul fatto di stare lì. Il paziente ha vicina una persona che potrebbe essere uno zio o un fratello più grande e ha fiducia. Così, riesce a raccontare molto di più di quello che il terapeuta si aspettava».

Infatti, nonostante il background sociale e anagrafico delle persone assistite nei tre centri sia diversificato, tutti coloro che vi accedono sono stati esposti a traumi complessi (intesi come eventi ripetuti, prolungati nel tempo e di natura interpersonale).

Analizzando un campione di 120 persone, ad esempio, Medu ha rilevato che, mediamente, ciascun individuo è sopravvissuto a sette eventi traumatici pre-migratori, migratori e post-migratori. Nei primi due casi si trattava di tortura, detenzione e gravi abusi fisici. Nell’ultimo invece rientrano le carenti condizioni dei centri di accoglienza, la precarietà dello status legale, lo scarso supporto psicosociale e le barriere linguistiche.

Ricomporre i «frammenti» della mente e del corpo dei sopravvissuti è quindi necessario per curare le ferite fisiche, ma soprattutto quelle psicologiche di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Farlo, parlando la loro lingua e interpretando le loro parole e i loro gesti, è fondamentale per garantire a tutti la possibilità di ricostruire il proprio futuro.

Aurora Guainazzi




Myanmar. La solidarietà tra le violenze

 

Nel Myanmar tormentato dalla guerra civile, la popolazione cerca di resistere al calvario senza fine che sta attraversando, tra sfollamento, povertà, violenza.

Dopo il golpe militare del febbraio 2021 e l’organizzazione delle «Forze di difesa popolare» – milizie della resistenza composte soprattutto da giovani birmani -, la nazione del Sudest asiatico, secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che raccoglie dati sui conflitti, è attualmente «il posto più violento del mondo», segnato da almeno 50.000 moti in un triennio e con oltre 2,5 milioni di sfollati interni.

Che nel Paese non vi sia alcuno spiraglio di pacificazione né di ritorno alla normalità lo testimonia il fatto che la giunta militare ha prorogato lo stato di emergenza per altri sei mesi, rinviando eventuali elezioni al 2025.

Intanto gli scontri tra le forze popolari e il potente esercito birmano infuriano e il fronte della resistenza ha ora creato un’alleanza militare con gli eserciti delle minoranze etniche, da decenni in rotta con il governo centrale, in cerca di autonomia e federalismo. Tale saldatura ha generato diversi successi e conquiste dei resistenti sul terreno, soprattutto nelle aree di confine, mentre la giunta continua a controllare le principali città, nel centro del Paese.

In questo scenario di violenza diffusa, i civili continuano a fuggire da città e villaggi per scampare agli scontri e per anziani, donne e bambini si presenta ogni giorno la sfida del sostentamento.

Un recente rapporto del programma Onu per lo Sviluppo (Undp) rileva che il 75% dei 55 milioni di birmani vive oggi in condizioni di estremo disagio, e il 32% della popolazione – nota la Banca Mondiale – è in grave stato di indigenza, con ben 13,3 milioni di individui prossimi alla fame, anche perché il governo militare continua a impedire l’ingresso di organizzazioni umanitarie internazionali nel Paese.

A queste necessità interne vanno incontro parrocchie e realtà cattoliche birmane, in un Paese dove la Chiesa conta 700mila fedeli e mostra di apprezzare i ripetuti appelli che papa Francesco ha rivolto alla comunità internazionale di «non dimenticare il Myanmar».

Le diocesi cattoliche organizzano centri di accoglienza in strutture come parrocchie e scuole, procurano e distribuiscono aiuti, provvedono al sostentamento dei rifugiati. Ma lo sforzo delle comunità cristiane non è solo di carattere umanitario e caritativo, è anche morale e spirituale: fatto di vicinanza, consolazione, condivisione della vita di quanti, per salvarsi, fuggono nelle foreste o in aree isolate e montuose, luoghi nei quali, però, trovare cibo è molto difficile.

Un’esperienza esemplare è quella del «vescovo-profugo» Celso Ba Shwe, pastore di Loikaw, la capitale dello stato Kayah, nel Nord del Paese, costretto dal novembre del 2023 a lasciare la sua cattedrale e l’annesso centro pastorale perché occupati dall’esercito birmano per farne una base militare.

Il vescovo ha trascorso mesi lontano dalla sua Chiesa, dedicandosi a visitare i profughi e celebrando con loro le festività religiose come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste. Una condizione di precarietà che ha colto come «un’opportunità per essere più vicino al mio popolo, più vicino alla gente, che ha tanto bisogno di consolazione e di solidarietà», mentre oltre la metà delle chiese della diocesi sono chiuse e svuotate a causa della fuga dei fedeli.

Nella situazione di sfollamento e di tribolazione, il vescovo e i preti della diocesi hanno potuto farsi «pastori con l’odore delle pecore» – espressone di papa Francesco – condividendo la vita degli sfollati e continuando e cercare sostegno e speranza nella vita di fede, nella preghiera, nella celebrazione comunitaria dei sacramenti anche in mezzo ai boschi. La fede per loro resta un baluardo per resistere alle avversità del tempo presente.

Paolo Affatato




I rifiuti dell’Europa nel mondo

 

Ogni anno, l’Unione europea esporta milioni di tonnellate di rifiuti in tutto il mondo, in particolare nel Sud globale. Si va dalla semplice spazzatura, ai dispositivi elettronici, passando per il fast fashion (l’industria della moda di massa).

Il business, che ruota attorno alla loro gestione e smaltimento, è enorme ed estremamente redditizio. Soprattutto per le organizzazioni criminali che guadagnano miliardi dall’esportazione illegale di rifiuti in tutto il mondo.

Secondo la Commissione europea, infatti, circa un terzo del totale dei rifiuti inviati fuori dai confini dell’Unione è gestito dalla criminalità organizzata, cioè dalle cosiddette «ecomafie».

Quanti, dove e come

I dati dell’Eurostat (l’Istituto di statistica europeo) mostrano che la maggior parte dei rifiuti prodotti nell’Ue (61 milioni di tonnellate nel 2022) si sposta tra gli Stati membri. Una quota consistente (nel 2022, circa 32 milioni di tonnellate), però, viene esportata oltre confine. Il 60% di questi rifiuti giunge in soli tre Paesi: Turchia (38%), India (17%) ed Egitto (5%).

In più, c’è l’economia sommersa controllata dalle ecomafie. Le disposizioni – che stabiliscono quali materiali possono essere o meno esportati e dove – sono facilmente aggirabili, mentre le sanzioni decisamente scarse.

Così, lo sviluppo di business illegali è semplice, e in diversi Paesi europei sono sorte reti criminali per l’esportazione di rifiuti (sia pericolosi che non) in altre aree del mondo.

L’Europol (l’agenzia dell’Unione europea per il contrasto alla criminalità), infatti, stima che il traffico illegale di rifiuti sia il più redditizio dopo quello di droga, la contraffazione e la tratta di esseri umani.

Nella sola Italia, nel 2021, l’Agenzia delle Dogane ha sequestrato oltre 7mila tonnellate di rifiuti in partenza per l’estero.

Spesso, i prodotti la cui esportazione è illegale sono mescolati ad altri legali, così da renderne difficile l’identificazione. Le norme vengono aggirate con degli escamotage. Ad esempio, la Convenzione di Basilea del 1989 sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione permette l’esportazione solo di quei dispositivi elettronici che sono riparati subito dopo l’arrivo. Dunque, è sufficiente denunciare il trasporto di «prodotti di seconda mano» per eludere i controlli.

Lo smaltimento nel Sud globale

Ogni anno, dai porti europei partono tonnellate di rifiuti inviati illegalmente in tutto il mondo. In particolare, verso il Sud Est asiatico e l’Africa subsahariana, i quali ricevono – tra gli altri – dispositivi elettronici non più funzionanti, vestiti non più utilizzabili e materiali plastici.

In questi Paesi, uno smaltimento adeguato è difficile: mancano strutture efficaci ed efficienti. La plastica è bruciata all’aria aperta e rilascia fumi tossici e materiali inquinanti con effetti estremamente dannosi su ambiente e salute. I dispositivi elettronici si accumulano in enormi discariche a cielo aperto dove gli abitanti dell’area – senza adeguate protezioni – si recano ogni giorno alla ricerca di pezzi rivendibili o componenti minerarie riutilizzabili.

In generale, l’accumularsi di questi prodotti nel Sud globale e le modalità con cui vengono gestiti e smaltiti causano l’inquinamento di aria, acqua e suolo. Oltre a frequenti malattie – soprattutto respiratorie – tra la popolazione locale.

Il regolamento europeo

A fine 2021, la Commissione europea ha avanzato una proposta per l’introduzione di un regolamento (poi approvato l’11 aprile 2024) per combattere il traffico illegale di rifiuti e ridurre l’inquinamento e le emissioni di gas serra correlate.

Per quanto riguarda il commercio legale, la normativa vieta l’invio in Paesi terzi di tutti i rifiuti da smaltire. Così come proibisce l’esportazione di quelli destinati al recupero ma considerati pericolosi in Paesi non appartenenti all’Ocse (cioè tutti quelli africani e quasi tutti quelli asiatici e sudamericani). Verso questi Stati non è più possibile nemmeno esportare materiali plastici «non pericolosi». Quest’ultima disposizione completa il divieto (in vigore dal 2021) di inviare al di fuori dei Paesi dell’Ocse i rifiuti plastici considerati «difficili da riciclare» e «pericolosi».

Il regolamento si pone anche l’obiettivo di contrastare le esportazioni illegali. Ma in realtà su questo fronte non cambia molto rispetto alle normative già vigenti. Sebbene siano state introdotte regole ancora più stringenti su ciò che può essere esportato o meno, eluderle continua a essere molto semplice. Mentre le sanzioni restano limitate e non incentivano l’abbandono di attività criminali.

Il regolamento si limita a invitare gli Stati europei a collaborare maggiormente tra loro nel contrasto ai traffici illegali, aumentando gli sforzi di indagine e la comminazione di sanzioni. Ma nei fatti non è niente di nuovo rispetto a quanto già in vigore.

Aurora Guainazzi




Cina. Cent’anni dal concilio cattolico di Shanghai

 

Ripensare alla storia del cattolicesimo in Cina guardando alla figura del cardinale Celso Costantini (1876-1958), l’uomo che nel 1924, da Delegato apostolico in Cina, su incarico di Papa Pio XI, riunì nella città di Shanghai tutti i vicari e i leader cattolici allora presenti nel Paese, presiedendo il primo «Concilio plenario della Cina», o Primum concilium sinense, come amano citarlo gli studiosi, è un esercizio utile per riflettere sulle sfide e sulle prospettive odierne della Chiesa cattolica nel Celeste impero, in una cornice internazionale profondamente mutata.

Nelle scorse settimane si sono coinvolti in questo impegno numerosi accademici di atenei di Europa e d’Oriente, studiosi, vescovi ed esperti, in tre convegni di carattere internazionale: uno a Milano (il 20 maggio, all’Università Cattolica del Sacro Cuore); uno in Vaticano (il 21 maggio, all’Università Urbaniana); un terzo a Macao tra il 26 e il 29 giugno.

Punto di partenza della riflessione è stato il centenario di quel Concilio di Shanghai che aprì la via dell’indigenizzazione della Chiesa cattolica cinese (si iniziò cioè ad affidare la guida della comunità al clero locale) e dell’inculturazione (esprimendo la fede attraverso forme culturali tipiche delle tradizioni cinesi).

Una convinzione ha accomunato tutti gli studiosi e i leader cattolici intervenuti – della Cina continentale, come l’arcivescovo di Shanghai, Joseph Shen bin, e della Santa Sede, come i cardinali Pietro Parolin e Louis Antonio Tagle -: il Concilio di Shanghai fu un momento cruciale nella storia della Chiesa in Cina, in primis perché i cattolici avrebbero potuto, da allora in poi, godere di maggiori responsabilità ecclesiali.

Quell’assemblea avviò il processo di «decolonizzazione» ecclesiastica della Chiesa locale, come si sarebbe visto con la consacrazione di sei vescovi cinesi a Roma nel 1926, i primi vescovi nativi consacrati per la Cina in quasi 250 anni di storia missionaria.

Dopo il Concilio, Costantini continuò a opporsi alle forze che cercavano di imporre tratti europei alla presenza cattolica in Estremo Oriente: ad esempio, rientrato in Italia nel 1933, da segretario della Congregazione di Propaganda Fide (oggi Dicastero per l’evangelizzazione), sostenne la traduzione del messale in cinese per aiutare i fedeli a comprendere la messa, che allora si celebrava solo in latino (il placet definitivo sarebbe arrivato nel 1949).

«Di fronte specialmente ai cinesi, ho creduto opportuno di non dover accreditare in alcun modo il sospetto che la religione cattolica apparisca come messa sotto tutela e, peggio ancora, come strumento politico al servizio delle nazioni europee», scriveva nei suoi memoriali il cardinale friulano, la cui personalità è possibile oggi conoscere tramite il volume Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un ‘ponte’ tra Oriente e Occidente, curato per i tipi di Marcianum Press da Fabio Pighin, ordinario di Diritto canonico a Venezia e delegato episcopale per la causa di canonizzazione dello stesso Costantini.

Bruno Fabio Pighin, «Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un “ponte” tra Oriente e Occidente», Marcianum Press, 2024, 50 €.

Il punto di caduta di quella che è stata un’illuminante riflessione storica è stato l’evoluzione dei rapporti sino-vaticani e l’Accordo stipulato nel 2018 tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese. Infatti, come ha ricordato il cardinale Parolin nel convegno organizzato in Vaticano dall’Agenzia Fides, «l’azione missionaria e diplomatica di Costantini si fondava sulla necessità che la Santa Sede e le autorità cinesi instaurassero un dialogo diretto tra loro».

A quella necessità si ricollega, allora, l’Accordo attualmente in vigore, rinnovato per due volte nel 2020 e nel 2022, e che si attende possa essere convalidato per un ulteriore biennio. Accanto a quel patto, che garantisce il reciproco riconoscimento dei Presuli eletti – sanando ferite di un passato in cui potevano esserci vescovi nominati in modo unilaterale da Pechino -, Parolin ha ricordato che, sul piano dei rapporti diplomatici (tuttora inesistenti), la Santa Sede auspica di poter avere una presenza stabile in Cina, in un processo che parte dall’aumentare i contatti, per individuare in seguito la forma adatta, anche diversa da una nunziatura stabile.

di Paolo Affatato

Per approfondire la figura del cardinale Celso Costantini visita: https://www.associazionecardinalecostantini.it/