Congo Rd. Il Rwanda alla conquista di Goma

 

La città di Goma, capitale provinciale del Nord Kivu, è da ieri pomeriggio, domenica 26 gennaio, sotto assedio da parte dei cosiddetti ribelli antigoverantivi M23 e dalle truppe regolari del Rwanda (3-4mila uomini). Militari ruandesi e ribelli hanno occupato diversi quartieri della città, compreso l’aeroporto che è stato saccheggiato e, al momento, risulta inagibile anche ai voli umanitari. Tutte le strade di accesso a Goma sono bloccate.

In città sono sempre presenti anche truppe congolesi delle Fardc (Forze armate della Rdc). Nel momento in cui scriviamo la città non è ancora caduta completamente ma alcuni centri di controllo sono in mano ai ribelli e si spara in diversi quartieri. Intanto alcuni reparti della Monusco, missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (riconfermata il 20 dicembre scorso), sono stati attaccati dall’M23 nei giorni scorsi, e hanno subito perdite di alcuni caschi blu.

Goma conta circa un milione di abitanti, più un milione di sfollati dal resto del Kivu, causati della guerra in corso da almeno tre anni (nella sua ultima fase), che vivono in campi profughi intorno alla città. Dopo i primi attacchi, molti sfollati sono fuggiti verso la città, dove la popolazione è senza acqua ed elettricità.
«Siamo sotto le bombe» ci scrive da Goma un abitante. «Sono chiuso in casa con la mia famiglia». Intanto giungono video girati con il cellulare di sparatorie e gente che fugge.
La frontiera con il Rwanda (Gisenyi) è chiusa o, meglio, non ci sono funzionari di frontiera. Da parte ruandese autobus aspettano per evacuare il personale umanitario delle Nazioni Unite. Abitanti della città, fin da ieri, hanno tentato ugualmente il passaggio per fuggire da bombe e sparatorie. Il centro urbano arriva praticamente in prossimità della frontiera. Il passaggio pare sia stato bloccato a partire da domenica sera.

La prigione di Munzenze ha preso fuoco, e migliaia di detenuti sono fuggiti.
Si rischia una ulteriore crisi umanitaria con centinaia di migliaia di profughi che cercheranno rifugio nei paesi della regione.
Il presidente del Kenya, Wlliam Ruto, ha convocato un incontro straordinario della Comunità degli stati dell’Africa dell’Est per mercoledì 29 gennaio, al quale dovranno partecipare il presidente del Rwanda, Paul Kagame, e quello del Congo Rd, Félix Tshisekedi.

Domenica 26 si è tenuta una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cs), dedicato al precipitare della situazione nel Nord Kivu.
La ministra degli esteri del Congo Rd, Thérèse Kayikwamba Wagner, ha chiesto al Cs di emettere delle sanzioni nel confronto del Rwanda, che sta a tutti gli effetti, invadendo il territorio del paese sovrano confinante. La ministra ha anche chiesto un embargo totale sui minerali esportati dal Rwanda, come oro e coltan, che sono estratti illegalmente nell’Est del Congo.
Per la prima volta il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha nominato il Rwanda nel chiedere che vengano ritirate le sue truppe dal territorio congolese: «[…] profondamente preoccupato per l’escalation della violenza […] chiedo che le Forze ruandesi di difesa di interrompere il loro sostengo all’M23 e ritirarsi dal territorio congolese».
Per parte sua, Kigali continua a negare al presenza dei propri militari oltre confine.
A Goma, la situazione rimane estremamente volatile, e gli scontri sono tuttora in corso.

Per un approfondimento sul Congo Rd si veda qui.

Marco Bello




Niger. La detenzione arbitraria di Moussa Tchangari

 

Resta in carcere, con accuse pesantissime, l’attivista e difensore dei diritti umani Moussa Tchangari, segretario generale dell’Ong nigerina Alternative espaces citoyens (Aec).

Tchagari è stato prelevato la sera del 3 dicembre, a casa sua, da uomini in abiti civili ma armati, probabilmente elementi dei servizi segreti, senza mandato d’arresto. Il suo computer e il telefono sono stati sequestrati.
Tchangari è poi ricomparso, due giorni dopo, in detenzione presso locali dei servizi di lotta antiterrorismo e la criminalità organizzata.
Non è l’unico che ha subito questo trattamento da quando, dopo il golpe del 26 luglio 2023, sono al potere i militari del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), diretto dal generale Abderramane Tiani, attuale capo di stato. Le libertà sono state drasticamente ridotte e la società civile, ma anche ogni voce dissonante con la giunta al potere, è presa di mira.

Dopo un mese senza avere contatti con i famigliari, il 3 gennaio Tchangari è stato condotto davanti al giudice d’istruzione che lo ha incolpato di pesanti capi d’accusa, tra i quali: attentato alla sicurezza dello stato, associazione terroristica, attentato alla difesa nazionale e combutta con potenze nemiche. L’attivista è stato, dunque, traferito alla prigione di Filigué, città a 180 km a Nord Est della capitale Niamey.
Qui, il giorno 5 gennaio ha finalmente potuto incontrare la moglie e alcuni stretti collaboratori, tra i quali il giurista Mamane Kaka Touda .
Organizzazioni della società civile nigerine e internazionali si sono mobilitate in suo favore. Amnesty International, Humans Rights Watch e la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo (Fidh) hanno chiesto la sua liberazione immediata.
Hassatou Ba Minté, resposabile Africa delle Fidh, ha sottolineato come la repressione dei difensori dei diritti umani e dei militanti pro democrazia è in forte aumento in tutti i paesi dell’area. Ha voluto ricordare come sia contro produttivo, per i governi, considerare la società civile come un nemico interno.

Missioni Consolata ha incontrato a più riprese Moussa Tchangari nel suo ufficio di Niamey e ha pubblicato diverse sue interviste e testimonianze.
Tchangari, fondatore nel 1994 di Alternative espaces citoyens, è un uomo integro, un militante senza compromessi. È rimasta una delle poche voci critiche del regime di Niamey e degli altri stati golpisti del Sahel, Mali e Burkina Faso che, nel settembre 2023, si sono uniti in un blocco di cooperazione militare, politica ed economica, l’Associazione degli stati del Sahel (Aes, sigla in francese).

Abbiamo contattato Mamane Kaka Touda, che ci ha confermato: «Sono andato a visitare Moussa ancora sabato scorso (18 gennaio, ndr). Sta bene e il suo morale è alto, ma non abbiamo nessuna idea di quando potrà essere liberato».
Moussa Tchangari è forte della consapevolezza che nessuna minima prova potrà essere trovata per confermare i capi d’accusa che gli sono stati addebitati.

Marco Bello

 




Africa dell’Ovest. Via le basi della Francia

 

«No, non ci stiamo ritirando dall’Africa, la Francia è semplicemente lucida e si riorganizza. Abbiamo scelto noi di andare via dall’Africa perché era necessario farlo». A pronunciare queste parole è Emmanuel Macron, presidente francese, durante la tradizionale conferenza con gli ambasciatori il 6 e 7 gennaio.

L’inquilino dell’Eliseo poi prosegue: «Credo che abbiano dimenticato di dirci grazie». E chiude, accusando di «ingratitudine» tutti «quei governanti africani che non hanno avuto il coraggio di riconoscere che non sarebbero al potere oggi se l’esercito francese non fosse intervenuto».

A dettare le parole di Macron è stata una rapida catena di eventi: tra novembre e dicembre 2024, Ciad, Senegal e Costa d’Avorio – tre ex colonie, storiche alleate di Parigi – hanno chiesto il ritiro dei militari francesi dai loro territori. Causando la risposta – frustrata e fuori contesto storico – del presidente francese.

Dal canto loro, i governi africani hanno reagito in modo veemente. A riassumerne il pensiero è stato il presidente del Ciad, il militare Mahamat Déby Itno: «Queste parole rasentano il disprezzo per l’Africa e gli africani». Il Primo ministro senegalese, Ousmane Sonko, invece ha puntualizzato che «la decisione [di chiedere il ritiro] è frutto della volontà del Senegal, in quanto Paese libero, indipendente e sovrano».

Ma questa è solo l’ultima tappa di una lunga storia. Quella dell’erosione graduale e inevitabile della Françafrique, l’insieme dei legami che la Francia ha a lungo mantenuto con le sue ex colonie. Negli ultimi anni, i sentimenti antifrancesi in Africa sono crescenti. Parte del malcontento deriva dalle ferite lasciate aperte dalla colonizzazione: ad esempio, Parigi si è assunta solo di recente la responsabilità della violenta repressione dei Tirailleurs sénégalais, avvenuta esattamente 80 anni fa. Si tratta di soldati africani che furono obbligati a combattere per la Francia nella Seconda guerra mondiale e che protestavano per i ritardi nel pagamento dei salari.

Molto altro risentimento invece è frutto delle politiche predatorie delle aziende francesi. Nel continente sono più di 200, tra cui TotalEnergies, colosso degli idrocarburi, e Orano, leader mondiale nell’estrazione di uranio. Ma più che lavorare insieme ai Paesi africani per la loro crescita economica, queste compagnie difendono gli interessi di Parigi, privando l’Africa di risorse e mezzi utili allo sviluppo.

Anche i militari che, negli anni, la Francia ha inviato per assistere e formare i soldati locali spesso sono accusati di debolezza e scarsa determinazione, soprattutto contro i jihadisti nel Sahel. Così, tra il 2022 e il 2023, dopo colpi di stato, Mali, Burkina Faso e Niger hanno chiesto il ritiro di 4.300 soldati francesi, accogliendo al loro posto i mercenari della russa Wagner. Poi hanno interrotto i rapporti diplomatici con Parigi, espellendo gli ambasciatori e sospendendo, tra le altre, «Radio France International» e «France 24».

Il 28 novembre 2024, poche ore dopo la visita del ministro degli Esteri francese, Jean-Noel Barrot, anche il Ciad ha chiesto il ritiro dei francesi. A dettare la decisione diversi fattori (tra cui la volontà di rivendicare la propria sovranità), ma soprattutto la consapevolezza che la Francia aveva nascosto informazioni vitali, che avrebbero evitato la morte di 40 soldati ciadiani per mano di Boko Haram (gruppo terroristico nato del Nord della Nigeria).

La perdita dell’ultimo avamposto nel Sahel è stata un duro colpo per Parigi. Ma neanche il tempo di rendersene conto che il presidente senegalese, Bassirou Diomaye Faye, ha avanzato la stessa richiesta, dicendo: «La sovranità non ammette la presenza di basi militari straniere sul nostro territorio». Niente di inaspettato: già in campagna elettorale, Faye e Sonko avevano fatto leva sulla difesa della sovranità senegalese e sulla riduzione della presenza straniera.

Infine, la Costa d’Avorio. Nel discorso di fine anno, il presidente Alassane Ouattara ha dichiarato che i militari francesi dovranno andarsene entro fine gennaio. Tra tutti, il suo annuncio, forse, è stato il più inaspettato per Parigi: il presidente ivoriano era considerato molto vicino a Macron, tanto da ipotizzare che parte delle truppe in Ciad e Senegal venisse riallocata proprio in Costa d’Avorio. Ma anche lì i sentimenti antifrancesi crescono, mentre si avvicinano le elezioni di ottobre: Ouattara non ha ancora annunciato se cercherà un quarto mandato, ma la possibilità è concreta.

Ad oggi, alla Francia in Africa resta ben poco. Sul piano militare, al di là di qualche contingente qua e là, Parigi ha un’ultima base con 1.500 soldati a Gibuti. A livello politico, invece, la rottura con molte ex colonie sta spingendo la Francia a cercare nuovi alleati, al di fuori della sfera storica della Françafrique. È proprio per questo che, negli ultimi mesi, Parigi ha iniziato a intessere relazioni sempre più forti con una delle maggiori economie del continente, la Nigeria.

Aurora Guainazzi




Mondo. Un grado e mezzo

 

È già accaduto: la soglia di 1,5 gradi centigradi è stata superata. Nei giorni scorsi, più organizzazioni scientifiche hanno annunciato che la temperatura media della Terra è salita oltre quel valore limite che, nel 2015, quasi 200 paesi avevano accettato firmando l’accordo di Parigi sul clima.

Lo scorso 10 gennaio, Copernicus, il programma di osservazione della Terra dell’Unione europea, ha divulgato un report drammatico sul clima del 2024: «Sono stati battuti – si legge – molteplici record globali, per i livelli di gas serra e per la temperatura dell’aria e della superficie del mare, contribuendo a eventi estremi, tra cui inondazioni, ondate di calore e incendi boschivi. Questi dati evidenziano gli impatti accelerati del cambiamento climatico causato dall’uomo».

Secondo gli scienziati, anche i recenti devastanti incendi di Los Angeles sono stati favoriti dai cambiamenti climatici. La rivista «Nature», una delle più prestigiose riviste scientifiche del mondo, ha commentato (10 gennaio) che «il mondo si sta muovendo in territorio pericoloso, forse più rapidamente di quanto si pensasse in precedenza». Tuttavia, ha osservato che la media decennale rimane ancora sotto il limite di 1,5 gradi. Ma per non indulgere in ottimismo precisa che, quando anche la media decennale sarà superata, «il pianeta avrà accumulato ancora più calore, amplificando ulteriormente violente tempeste e incendi, danni all’ecosistema e innalzamento del livello del mare».

Sulla stessa linea l’ultimo rapporto di «The Lancet» su salute e cambiamento climatico (datato 9 novembre 2024) secondo il quale «in tutto il mondo le persone stanno affrontando minacce da record per il loro benessere, la loro salute e la loro sopravvivenza a causa del rapido cambiamento climatico. Dei 15 indicatori che monitorano i rischi per la salute, le esposizioni e gli impatti correlati al cambiamento climatico, dieci hanno raggiunto nuovi record preoccupanti nell’ultimo anno di dati». Per esempio, la mortalità correlata al calore per le persone di età superiore ai 65 anni è aumentata del 167% rispetto agli anni Novanta. Allo stesso modo, è aumentato il rischio di stress da calore per le persone che praticano attività fisica all’aperto e le ore di sonno perse.

Inoltre, si legge ancora nel rapporto di The Lancet, le condizioni meteorologiche più calde e secche hanno contribuito ad aumentare il numero di persone esposte a concentrazioni di particolato pericolosamente elevate. Nel frattempo, i cambiamenti delle temperature e delle precipitazioni stanno favorendo la trasmissione di malattie infettive come la dengue, la malaria, la malattia correlata al virus del Nilo occidentale e la vibriosi, «esponendo le persone al rischio di trasmissione in luoghi precedentemente non colpiti».

Insomma, la comunità degli scienziati e dei ricercatori sta facendo quanto di sua competenza per mettere in guardia e affrontare il cambiamento climatico. Anche papa Francesco lo ripete praticamente in ogni occasione pubblica. «Abbiamo il dovere – ha detto nel discorso al corpo diplomatico (9 gennaio) – di esercitare il massimo sforzo per la cura della nostra Casa comune e di coloro che la abitano e la abiteranno». Molto meno attenta e reattiva è, invece, la parte politica.

Donald Trump, il nuovo presidente Usa, è da sempre un negazionista climatico. Dal canto suo, anche l’Europa, il continente con le normative ambientali più stringenti, pare avere un ripensamento sulla spinta dei partiti sovranisti. Per tutto questo, per la questione climatica le prospettive presenti e future non appaiono per nulla incoraggianti.

Paolo Moiola




Mondo. Bambini senza nome

Due bambini su dieci non vengono registrati all’anagrafe. Sono 150 milioni: privi di uno dei loro diritti fondamentali.

Ogni dieci bambini nati negli ultimi cinque anni nel mondo, due non sono stati registrati.
Sono 150 milioni in tutto, secondo un recente rapporto Unicef, distribuiti in molti Paesi del Sud globale. Novanta milioni solo nell’Africa subsahariana.
Sono bambini «senza nome», privi di identità legale. Giuridicamente invisibili. Inesistenti per i Paesi nei quali sono nati.

Non a caso la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che il 20 novembre scorso ha compiuto 35 anni, pone il diritto al nome e all’identità personale dei bambini tra quelli fondamentali, subito dopo il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo.

«La società – si legge nel rapporto dell’Unicef – riconosce per la prima volta l’esistenza e l’identità di un bambino attraverso la registrazione della nascita. Un certificato di nascita è la prova di questa identità legale ed è la base su cui i bambini possono stabilire una nazionalità, evitare il rischio di apolidia e cercare protezione dalla violenza e dallo sfruttamento. Ad esempio, il possesso di un certificato di nascita può aiutare a prevenire il lavoro minorile, il matrimonio infantile e il reclutamento di minorenni nelle forze armate, poiché consente di verificare l’età del bambino. Il certificato di nascita può essere richiesto anche per accedere ai servizi in settori quali la sanità, l’istruzione e la giustizia».

Dietro la cifra anonima, ci sono volti e vite reali: bambini yemeniti nati in un paese in guerra da anni, rohingya discriminati e non riconosciuti in Myanmar, neonati della striscia di Gaza, ma anche semplicemente un bambino del Ciad o della Papua Nuova Guinea nato in un villaggio sperduto da una madre sola e priva di mezzi.

I motivi della mancata registrazione possono essere molti: i costi inaccessibili per le famiglie, le distanze invalicabili degli uffici dai luoghi di nascita, le discriminazioni etniche o religiose, l’assenza di consapevolezza nei genitori.

«Ho sette figli – dice Rehema, mamma tanzaniana, in un virgolettato riportato nel report di Unicef -. La mia primogenita ha avuto la fortuna di ottenere il suo certificato di nascita con l’aiuto di un’amica, poiché ne aveva bisogno per entrare all’università. Io non ho potuto aiutarla. […] Non potevo permettermi il costo e la procedura per ottenere i certificati di nascita dei miei figli. Abbiamo problemi finanziari e, anche se so che è importante, semplicemente non era una priorità».

Centocinquanta milioni di bambini sotto i 5 anni non registrati alla nascita corrispondono all’intera popolazione di Francia e Germania messe insieme. È una cifra che dobbiamo aumentare di altri 50 milioni se aggiungiamo quei bambini che, pur essendo stati registrati, non hanno un certificato tra le loro mani.

Gli estensori del rapporto Unicef indicano un trend mondiale positivo (nel 2024, la percentuale di piccoli registrati nel mondo è stata del 77%, mentre nel 2019 era del 75%) ma il miglioramento è inferiore alle attese. Di certo non si raggiungerà l’obiettivo dell’Agenda 2030 su questo tema.

 

 

Basti dare uno sguardo al planisfero qui sopra (tratto dal report di Unicef) per capire la portata del problema per molti paesi: in Etiopia, Zambia e Papua Nuova Guinea le registrazioni di bambini sotto i 5 anni sono state inferiori al 25%: meno di 3 bambini ogni 10.

I paesi che registrano una percentuale tra il 25 e il 50% sono dieci in Africa subsahariana (Congo Rd, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Mauritania, Guinea Bissau, Ciad, Uganda, Angola, Zimbabwe, Lesotho) e tre in Asia (Yemen, Afghanistan e Pakistan). Seguono poi i dodici Paesi africani che, assieme a cinque asiatici e al Paraguay in America Latina hanno registrato tra il 51 e il 75% dei bambini negli ultimi 5 anni, e i diciotto che, nel mondo, hanno avuto percentuali tra il 76 e il 90%.

In occasione della pubblicazione del report, la direttrice generale dell’Unicef, Catherine Russell, ha concluso, dopo aver descritto la sintesi dei dati: «Nonostante i progressi, troppi bambini rimangono non contati e non censiti, di fatto invisibili agli occhi del governo o della legge. Ogni bambino ha il diritto di essere registrato e di ricevere un certificato di nascita, in modo da essere riconosciuto, protetto e sostenuto».

Luca Lorusso




Libano. La felicità dei cristiani maroniti

 

Beirut, giovedì, 9 gennaio 2025. È festa nel quartiere cristiano maronita della capitale. Dopo due anni di vuoto, il Libano ha un nuovo presidente: il sessantunenne Joseph K. Aoun. Non in tutti i quartieri però, questa elezione è stata presa con lo stesso entusiasmo.

In uno dei caffè della zona centro-sud di Beirut, dove molti intellettuali si riuniscono per discutere e lavorare, incontriamo alcuni ragazzi che, animatamente, commentano la nuova presidenza. Uno di loro ci dice: «Si parla di “elezione” del presidente, ma sarebbe meglio dire “selezione”. Aoun è un candidato voluto da Stati Uniti, Israele, Francia, e supportato direttamente dall’Arabia Saudita. Teoricamente, la sua elezione è anticostituzionale. Aoun era capo delle forze armate e, secondo la nostra Costituzione, un militare non può diventare presidente. A meno che non sia già in pensione e da almeno due anni. Ma, in realtà, la nostra Costituzione viene violata di continuo. Aoun è il quarto ex militare di fila che diventa presidente».

Un altro ragazzo continua: «È stato fondamentalmente un ricatto. Le nazioni straniere che lo supportano hanno mandato una comunicazione agli schieramenti politici: o si sceglieva Aoun, oppure non sarebbero arrivati i fondi per ricostruire il Libano. C’era poca scelta. Per questo, anche il candidato di Hezbollah si è ritirato. La mia rabbia sta nel fatto che chi usa la storia degli aiuti come merce di scambio, sono gli stessi che ci hanno bombardato: Israele con le armi degli Stati Uniti».

Una ragazza appartenente al gruppo ci spiega: «In questo momento, sappiamo benissimo di avere poche risorse e dover essere dipendenti dagli Stati stranieri. Avere un presidente ex militare, e supportato da chi vuole solo consolidare la sua presenza qui, non è per me la situazione ideale. Ma adesso, dopo la crisi economica, dopo la guerra, forse lui è il male minore. A suo vantaggio, posso dire che è più giovane dei suoi predecessori e, almeno, non è mai stato coinvolto in scandali o corruzione. Anche se l’idea non va a genio a molti libanesi, il fatto che lui abbia l’appoggio dell’Occidente e buone relazioni internazionali, è qualcosa che serve per risollevare economicamente le sorti del Paese».

La politica in Libano è molto complessa e vige un sistema settario. Il parlamento è formato in modo da dare a tutte le confessioni religiose (ben 18) una rappresentanza. Così, i seggi sono divisi proporzionalmente tra cristiani (suddivisi in 13 gruppi) e musulmani (5). Il presidente deve essere sempre un cristiano maronita, il primo ministro deve essere sunnita, il presidente del parlamento, sciita.

Subito dopo le elezioni, Aoun ha ricevuto auguri e congratulazioni da ogni parte del mondo, soprattutto da quegli Stati che, in una riunione tenutasi in Qatar nel 2022, lo avevano già appuntato come candidato ideale per il Libano. In particolare, quegli stati erano Francia, Egitto, Arabia Saudita e Israele.

Chi esce sicuramente sconfitto dagli ultimi eventi è Hezbollah, il «partito di Dio». L’organizzazione sciita deve fare i conti con le gravi perdite subite durante la guerra, il vuoto lasciato dalla perdita di Nasrallah, ucciso in un attacco israeliano il 27 settembre 2024, e il ritiro del proprio candidato dalle elezioni. Sempre più incerto pare essere il suo futuro, anche per le accuse di offrire rifugio ai gerarchi del deposto Bashar al-Assad, fuggiti dalla Siria e ricercati dal nuovo governo.

Nel suo primo discorso da presidente, Aoun ha detto che perseguirà una politica positiva e neutrale, volta soprattutto a migliorare le relazioni con gli altri Stati arabi.

Angelo Calianno da Beirut




Ucraina. Ritorno a Kharkiv

Padre Luca Bovio, missionario della Consolata italiano in Polonia, da tre anni compie viaggi di solidarietà in Ucraina.
Ci è tornato tra il 3 e il 7 gennaio 2025 per raggiungere Kharkiv, città a pochi cilometri dal confine russo, e portare medicinali e altri aiuti alla popolazione provata dalla guerra.

3 gennaio – Sloviansk

Oggi partiamo e ci dirigiamo a Sudest nella regione del Donbass precisamente nella città di Sloviansk. Qui ad attenderci c’è don Giulio che abita presso l’unica parrocchia latino cattolica dedicata ai SS. Cirillo e Metodio.
Don Giulio ha creato attorno alla parrocchia un centro di accoglienza per i soldati e i volontari. I militari che tornano dal vicino fronte qui possono trovare riposo e alcuni servizi come la lavanderia. Possono anche rilassarsi facendo una sauna e gustando buone cene preparate per loro. Anche i volontari trovano un luogo per fermarsi e organizzare meglio gli aiuti sul territorio.
Don Giulio ci porta in macchina per le città e i villaggi intorno: è, infatti, un cappellano militare e ha tutti i permessi per muoversi in queste zone.
Visitiamo Krematorsk e altri villaggi. Ci racconta che l’uso di tecnologie e di droni è aumentato considerevolmente dall’inizio della guerra. Nella cappella della parrocchia, ai piedi della statua di San Michele Arcangelo, vediamo un drone russo lasciato dai soldati ucraini come ringraziamento al Signore per le loro vite salvate. Quel piccolo drone, infatti, trasportava sino a due chilogrammi di esplosivo che, miracolosamente, non è esploso sopra di loro.

Questo slideshow richiede JavaScript.

4 gennaio – Nowy Korotycz

Visitiamo la comunità delle suore di Don Orione a Nowy Korotycz vicino a Kharkiv. Qui le suore missionarie accolgono bambini orfani o accompagnati dalle loro mamme.
Nelle tre case della comunità sono distribuite quasi 50 persone. I bambini hanno diverse età: dai neonati di pochi mesi sino all’età scolare. In questo luogo trovano rifugio e le condizioni necessarie per vivere.
Le loro storie sono varie e spesso molto tristi, anche se non per questo alcuni di loro perdono il sorriso.
I loro papà possono essere a combattere. Di alcuni di loro si sono perse le tracce.
Le storie di alcune famiglie sono segnate dal problema dell’alcolismo, molto diffuso qui.
Le suore con l’aiuto di personale e di volontari, non solo garantiscono loro i servizi, ma riescono a trasmettere quel calore e quell’amore umano così importante per la crescita di ognuno.
A loro consegniamo dei lavori di lana fatti a maglia a mano dalla signora Laura, una pensionata di Milano che, avendo molto tempo libero, si impegna a realizzare e poi a donare.
Lasciamo anche un’offerta raccolta da alcune giovani famiglie che vivono in Polonia e in Svizzera. Questa serve alle suore per organizzare una vacanza per tutti gli ospiti della loro comunità.

Questo slideshow richiede JavaScript.

4 gennaio – Siruako

Nei pressi di Kharkiv, a Siruako, visitiamo il convento delle suore Carmelitane di clausura. Qui incontriamo le tre sorelle che vi vivono. Sono la madre Suor Mariola, di origine polacca, e le suore Pia e Ludmila, di origine ucraina. Le altre suore che qui abitavano, oggi si trovano per motivi di sicurezza in Polonia, pronte a ritornare quando la guerra sarà finita.
L’incontro con le monache, pur essendo breve, è molto gioioso, una gioia che nasce dalla loro totale e incondizionata appartenenza a Cristo, una gioia che è di grande aiuto per coloro che sono gravati dalla sofferenza della guerra.
Le ringraziamo per il prezioso aiuto che offrono attraverso la preghiera e il loro essere sempre disponibili all’incontro e all’ascolto per chiunque bussa alla loro porta.
Il loro è uno dei pochi i conventi contemplativi esistenti in Ucraina, e per questo è ancora più prezioso.

4 gennaio – Tsupiwka

Il villaggio di Tsupiwka dista da Kharkiv 40 km circa, e pochi chilometri dal confine con la Russia. Questo villaggio occupato dai russi e poi liberato, prima della guerra contava circa mille abitanti. Oggi ne sono rimasti circa sessanta.
Le condizioni di vita sono difficili. Il coprifuoco inizia alle 17.00 e termina alle 9.00 del mattino. Solo per poche ore si può uscire dalle proprie case.
Molte abitazioni sono visibilmente danneggiate,così come la scuola e la chiesa, e spesso si sentono i vicini bombardamenti.
Portiamo in questo luogo un carico di aiuti arrivato dall’Italia. Ci accolgono alcune persone nella casa parrocchiale riscaldata da una stufa. Qui il riscaldamento è prevalentemente a legna, e utilizzato soltanto nelle ore notturne. Durante il giorno il fumo che esce dal camino può diventare un segno della presenza di persone, quindi indicare ai russi un possibile bersaglio.
Un solo piccolo negozio di alimentari è aperto. Il maggiore aiuto viene portato con le macchine dalla cattedrale. Gli abitanti, molto cordiali, ci raccontano che uno dei disagi maggiori è quello della mancanza di trasporti verso la città. Lungo la strada non asfaltata e piena di buche, viaggiano le auto militari e le macchine che portano gli aiuti umanitari.

Questo slideshow richiede JavaScript.

5 gennaio – Kharkiv

La città di Kharkiv, prima dell’inizio della guerra, contava più di 2 milioni di abitanti. Oggi la popolazione si è dimezzata. Di questa, circa mezzo milione di persone sono abitanti locali. L’altro mezzo milionè è composto da persone giunte dalle zone del fronte, costrette a lasciare i propri villaggi.
Le tre linee della metropolitana sono attive e completamente gratuite, come tutti i mezzi di trasporto pubblici della città. Le stazioni della metropolitana diventano spesso anche luoghi di rifugio durante gli allarmi e i bombardamenti. In alcune stazioni sono allestite delle scuole per bambini.
A pochi giorni dal Natale ortodosso, che si celebra il 7 di gennaio, e dalla festa del battesimo di Gesù, è tradizione immergersi in vasche di acqua gelida, oppure scavate nel ghiaccio dei laghi. Questa immersione vuole simbolicamente ricordare la purificazione che si attua nel battesimo.

5 gennaio – Consegna delle medicine

Siamo ospiti della curia della diocesi di Kharkiv. Qui vive un gruppo di sacerdoti, tra cui padre Michele che è cappellano militare e svolge il suo servizio presso il grande ospedale militare della città che serve tutta la regione orientale del Paese.
Padre Michele ci racconta che vengono ricoverati mediamente 30 soldati al giorno provenienti dal fronte, per un totale di circa 1.000 ricoveri mensili.
Questi numeri non tengono presente il servizio che i tanti ospedali da campo svolgono presso il fronte.
Con il suo aiuto riusciamo a consegnare un buon numero di scatoloni di preparati rigenerativi da usare dopo le operazioni. Parte di essi sono distribuiti ai soldati, altri consegnati all’ospedale oncologico della città. Altri scatoloni di medicinali specifici li spediamo per posta ad altri ospedali del Paese.

6 gennaio – Concerto dei canti di Natale nella Cattedrale di Kharkiv.

Per la festa dell’Epifania è stato organizzato per la prima volta un concerto dei canti natalizi nella cattedrale di Kharkiv, con la partecipazione di diversi gruppi delle Chiese latino cattolica, greco cattolica e ortodossa.

6 gennaio – Sumy

Visitiamo don Andrea, il parroco di Sumy. Questa è una città di circa trecentomila abitanti posta a poche decine di chilometri dal confine con la Russia. Da questo confine, l’esercito ucraino la scorsa estate è riuscito a occupare una parte del territorio Russo. Tutta questa zona è fortemente militarizzata.
Al parroco lasciamo degli aiuti umanitari per alcune famiglie locali.
Incontriamo anche padre Romualdo, un francescano che vive a Konotop. Questa comunità è stata aiutata in passato dalla nostra fondazione. L’incontro di oggi non previsto è stata una piacevole occasione per conoscersi e continuare in futuro la collaborazione.

Luca Bovio

Questo slideshow richiede JavaScript.


Per rileggere tutti i racconti dei viaggi di padre Luca Bovio in Ucraina:




Venezuela. Maduro succede a Maduro

 

Il presidente del Venezuela è Nicolás Maduro. Di nuovo, per la terza volta e da quasi 12 anni, senza soluzione di continuità, è alla guida del Paese a partire dal 9 aprile del 2013. Venerdì 10 gennaio a Caracas, c’è stata la cerimonia di investitura del vecchio-nuovo presidente in un clima di grande isolamento da parte della comunità internazionale, che in buona parte non ha riconosciuto il risultato elettorale del 28 luglio scorso a causa delle denunce di brogli mosse contro il leader chavista, o più correttamente «madurista».

Nonostante Maduro abbia pronunciato le seguenti parole: «Delegati di 125 paesi, giuro, di fronte al popolo del Venezuela, che adempirò a tutti gli obblighi dello Stato», alla cerimonia erano presenti pochi diplomatici e ancora meno capi di Stato. Ad accompagnarlo nel suo terzo giuramento, c’erano solamente il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega e Miguel Díaz-Canel presidente di Cuba, oltre ai delegati di pochi altri Paesi, tra cui Cina, Russia e India alleanze chiave per il Venezuela.
Nessun altro capo di Stato è arrivato dall’America Latina, né da Paesi con leader di destra, come l’Argentina o Costa Rica – le cui delegazioni diplomatiche erano già state espulse lo scorso anno da Maduro – né di sinistra. Queste assenze, a cui si aggiungono quelle ovvie e politicamente significative di Stati Uniti, Canada e dell’Unione europea, dimostrano l’isolamento internazionale a cui Maduro sta costringendo il Venezuela e la crisi di legittimità che circonda la sua figura.

Secondo il suo avversario alla presidenza, Edmundo González Urrutia, e la leader della coalizione di opposizione Mesa de la Unidad Democratica, Marina Corina Machado, in Venezuela si sarebbe consumato un colpo di Stato. «Maduro si è autoproclamato dittatore», ha dichiarato González, per il quale il leader del madurismo non avrebbe affatto vinto le elezioni.
Secondo un conteggio realizzato partito di opposizione e avvallato da vari analisti indipendenti, il voto del 28 luglio scorso avrebbe dato come risultato la vittoria di González con il 67% contro il 30% di Maduro. Tuttavia, il Consiglio nazionale elettorale, istituzione teoricamente indipendente ma controllata dal potere in carica, avrebbe dichiarato una vittoria piuttosto netta del leader madurista con il 51,20% contro il 44,2% di González. Anche l’osservatorio internazionale e indipendente Carter Center ha dichiarato che le elezioni elettorali non si sono adeguate a standard di integralità e non possono essere considerate democratiche. Maduro, nonostante le richieste internazionali, non ha mai presentato gli atti elettorali che avrebbero potuto confermare la regolarità del voto. Di fronte a questo rifiuto, L’Unione europea ha comunicato di non riconoscere il risultato elettorale.

I due presidenti
Negli ultimi mesi, Edmundo González Urrutia, in esilio politico in Spagna, sotto mandato di arresto in Venezuela per falsificazione e altri presunti reati da parte del governo, è stato riconosciuto come legittimo presidente da numerosi stati, tra cui Canada, Panama, Argentina, Stati Uniti ed Ecuador. González non era presente nel paese al momento dell’investitura di Maduro, nonostante avesse dichiarato non solo sarebbe ritornato in Venezuela ma avrebbe assunto il ruolo di presidente in quella stessa giornata, secondo la volontà popolare dimostrata dagli unici atti elettorali pubblici e disponibili. Tuttavia, il mandato di arresto nei suoi confronti e il massiccio dispiegamento militare di Caracas non ha reso possibile un suo ritorno in sicurezza.

L’arresto di Machado
Il giorno precedente al giuramento di Maduro, Marina Corina Machado ha fatto la sua prima apparizione pubblica dopo mesi di assenza, partecipando alla manifestazione di piazza a Caracas contro il chavismo. Proprio al termine di un comizio, la leader dell’opposizione sarebbe stata detenuta dalle autorità e liberata nelle ore successive. Sebbene le dinamiche siano ancora da verificare il Governo neghi la detenzione, Machado ha assicurato di essere stata assalita alle spalle, strattonata e fatta scendere dalla moto su cui si stava spostando verso un altro punto della città. Il giorno successivo ha dichiarato alla Cnn di essere stata trasportata a un centro de detenzione di Caracas, dove avrebbe registrato un video per confermare la sua identità e assicurare di essere viva.
«Mi sarebbe successa la stessa cosa di Machando se fossi tornato», ha dichiarato González sul Clarín, quotidiano argentino, tuttavia ha confermato che, sebbene non nell’immediato, si sta preparando a un ritorno per mettere fine a quella che chiama «tragedia» del Venezuela, riferendosi al governo di Maduro.

Intanto, gli Stati Uniti hanno aumentato le sanzioni contro il Paese e portano a 25 milioni di dollari la taglia, sul leader del Venezuela – inizialmente di 15 milioni – per crimini legati al narcotraffico, accuse che il Governo di Maduro ha sempre respinto.
In Venezuela in queste ore la situazione è sempre più tesa. Secondo la Ong Foro Penal, come riportato anche dal quotidiano spagnolo El Pais, dal primo all’11 gennaio, sono 75 le persone incarcerate per opposizione politica al regime di Maduro. Il numero totale dei prigionieri politici al 9 gennaio ammonterebbe a 1.697. Tra di loro ci sarebbe anche il genero di Edmundo González.

Simona Carnino




Botswana. Alternanza dopo 58 anni

 

Le elezioni dello scorso 30 ottobre in Botswana sono state un terremoto politico. Per la prima volta nella sua storia, il Partito democratico del Botswana (Bdp) – al governo dall’indipendenza ottenuta nel 1966 dai britannici – ha dovuto cedere il potere. A vincere è stato l’Ombrello per il cambiamento democratico (Udc), il principale movimento di opposizione presente nel Paese.

Si è trattato di una svolta storica, soprattutto se letta attraverso i numeri: il Bdp, che mai aveva perso la maggioranza in Parlamento, ora è addirittura la quarta forza dell’Assemblea nazionale. Il partito è crollato dai 38 seggi del 2019 a soli quattro, perdendo anche la presidenza del Paese. E così si è aperto uno scenario inedito, nel quale si è verificata una transizione di potere pacifica, a conferma della reputazione di good governance di cui gode il Botswana. A prendere il posto del presidente uscente, Mokgweetsi Masisi, è stato il leader dell’Udc, Duma Boko.

Ma perché il Bdp è crollato in modo così netto? Le ragioni sono molte e profondamente interconnesse. C’entrano, ad esempio, il sistema elettorale, le difficoltà economiche, la disoccupazione e la disuguaglianza crescenti.

Anche se l’ex partito di governo ha ottenuto il 30% del consenso popolare (secondo solo al 37% dell’Udc), è appena il quarto raggruppamento parlamentare. Il motivo è da ricercare nel sistema elettorale, il first-past-the-post di tradizione anglosassone che privilegia la governabilità a scapito della rappresentanza. Infatti, nei collegi uninominali, in cui è suddiviso il territorio nazionale, l’unico seggio in palio è assegnato al candidato che ha ottenuto la maggioranza dei consensi, anche solo di un punto percentuale. Dunque, in tanti casi, i voti che il Bdp ha ricevuto non si sono tradotti in vittorie individuali e in seggi parlamentari.

In realtà, il sistema elettorale botswano non ha fatto altro che certificare un declino che era già iniziato da tempo. D’altronde, negli ultimi anni, il Bdp trasmetteva sempre di più la sensazione di tenere più al potere che alla crescita del Paese. Infatti, mentre tra i cittadini cresceva la percezione di essere governati da un sistema corrotto e poco trasparente, molti indicatori economici e sociali avevano imboccato una traiettoria discendente.

L’economia, ad esempio, è ancorata alla produzione di una sola commodity, i diamanti che rappresentano oltre l’80% delle esportazioni del Paese e contribuiscono a più del 50% del Pil. Finora, i tentativi di diversificazione economica sono stati molto limitati. Così, quando lo scorso anno il prezzo dei diamanti sul mercato internazionale è crollato, il Botswana ha risentito del colpo: nel 2024, secondo il Fondo monetario internazionale, il Pil è cresciuto solo dell’1% (a differenza del 2,3% registrato nel 2023 e soprattutto del 5,5% del 2022).

Con il rallentamento dell’economia, sono sempre più forti le preoccupazioni per disuguaglianza e disoccupazione, due problematiche che storicamente attanagliano il Botswana. Anche se il Paese non raggiunge i tassi del Sudafrica (primo al mondo in entrambe le classifiche), si colloca comunque tra gli Stati con le percentuali più elevate nella regione.

Oltre il 27% della popolazione è senza lavoro. Ma è se ci si concentra sulla disoccupazione giovanile che il dato diventa ancora più preoccupante: il 34% dei giovani tra 15 e 34 anni è disoccupato. Al contempo, cresce anche la disuguaglianza: con un indice di Gini pari allo 0,53, il Botswana è tra i Paesi più iniqui dell’Africa australe, non lontano dallo 0,63 del Sudafrica (l’indici Gini misura la disuguaglianza della distribuzione di reddito, il volore 0 indica equidistribuzione, quello 1 che tutto il reddito è percepito da una sola persona, ndr).

A fare da contraltare ai pochi che possiedono molto, c’è infatti un’ampia fetta della popolazione (più del 60%) che vive con meno di 6,85 dollari al giorno, la soglia della povertà individuata per i Paesi a medio alto reddito (gruppo in cui le Nazioni Unite annoverano anche il Botswana). Cifre considerevoli e frutto anche degli scarsi investimenti sul piano sociale, dall’istruzione alla salute. Nel Paese, ad esempio, si registra uno dei tassi di mortalità materna più alti al mondo tra gli Stati a medio alto reddito: 175 decessi ogni 100mila nati vivi.

L’opposizione ha risposto a tutto ciò con la promessa di ricostruire l’economia, creare posti di lavoro, e combattere la corruzione (di cui il Bpd stesso è stato più volte accusato). Oltre a puntare sulla diversificazione della produzione, Boko e i suoi alleati hanno promesso di aumentare il salario minimo mensile da 3.400 pula (la moneta nazionale) a 4mila (circa 300 dollari). Ma anche di creare 450-500mila nuovi posti di lavoro (una quantità abbastanza significativa per una popolazione di 2,5 milioni di persone) in diversi settori.

Promesse che, stando al risultato delle elezioni, hanno fatto presa tra la popolazione. Ora sta ai nuovi leader del Paese cercare di sviluppare delle politiche sociali ed economiche realmente alternative a quelle del vecchio regime.

Aurora Guainazzi




Europa. Se la guerra bussa alla porta / 2

Nessuna tregua. Anche a Natale sull’Ucraina sono piovute bombe russe, mentre a Betlemme, in Cisgiordania, per il secondo anno consecutivo, le celebrazioni pubbliche sono state cancellate a causa del conflitto con Israele. Ucraina, Palestina, Libano, Siria, Israele: da quasi tre anni la guerra è alle porte dell’Europa. Per questo non c’è da stupirsi se alcuni stati si stanno attrezzando per un’eventuale estensione delle ostilità ai loro territori. Così, seguendo l’esempio di Svezia e Germania, altri tre paesi nordici hanno deciso di preparare i propri cittadini a uno scenario di guerra.

In Danimarca, l’agenzia per le emergenze (Danish emergency management agency, Dema) ha scritto una sintetica guida dal titolo «Siate preparati per una crisi». «Le autorità – vi si legge – raccomandano che tu e la tua famiglia dovreste essere in grado di sopravvivere per tre giorni in caso di crisi. Se sei preparato e in grado di prenderti cura di te stesso e dei tuoi cari, le autorità possono concentrare i loro sforzi dove il bisogno è maggiore e lavorare per stabilizzare la situazione. Più persone sono in grado di prendersi cura di se stesse e di aiutare gli altri intorno a loro durante e subito dopo una crisi, più forti siamo come società».

In Norvegia, la brochure illustrata diffusa dalla Direzione per la protezione civile (Norwegian directorate for civil protection, Dsb) ha un incipit molto pratico: «Come fareste tu e la tua famiglia più prossima se l’elettricità venisse a mancare per un periodo più lungo? Cosa faresti se l’approvvigionamento idrico venisse a mancare? E se non potessi fare la spesa per una settimana? Prepararsi alle emergenze significa essere pronti a gestire questo tipo di situazioni. Le autorità norvegesi raccomandano che il maggior numero possibile di persone sia pronto a essere autosufficiente per una settimana. Questo perché, in una situazione di crisi, i comuni e le agenzie di emergenza dovranno dare la priorità a coloro che non possono fare a meno di aiuto. Se un maggior numero di noi può prendersi cura di se stesso e della propria famiglia, le difese generali della Norvegia saranno rafforzate».

Nelle pagine interne si parla di acqua, riscaldamento ed elettricità, cibo, igiene, medicinali, pagamenti, informazioni e comunicazioni, collaborazione e cooperazione. «In caso di un atto di guerra – si legge nelle ultime pagine -, potresti essere avvisato di cercare un rifugio. Se non ci sono rifugi di emergenza nelle immediate vicinanze, dovresti cercare riparo in un seminterrato o in una stanza al centro dell’edificio. Le esplosioni potrebbero causare la rottura delle finestre e i vetri potrebbero ferire le persone vicine. Pertanto, dovresti stare lontano dalle finestre».

Da ultimo, la Finlandia, il paese più esposto visto che condivide con la Russia un confine lungo quasi 1.400 chilometri. Già dall’autunno 2023 gli otto valichi con l’ingombrante vicino sono chiusi per motivi di «sicurezza nazionale».

Nella pubblicazione curata dal ministero dell’Interno finlandese – Prepared people cope better («Le persone preparate affrontano meglio le situazioni»)si legge: «Quando accade qualcosa di eccezionale, le autorità e le altre parti responsabili si prendono cura della situazione. Tuttavia, le autorità non possono fare tutto da sole. Il modo in cui tutti si preparano e ciò che fanno è importante».

Ormai da alcuni anni papa Francesco parla di una «guerra mondiale a pezzi» che si sta trasformando in una vera guerra globale. A lungo è sembrata un’esagerazione del pontefice.

Paolo Moiola