Siria. Futuro dei cristiani ancora incerto

 

Dopo due mesi dalla caduta del regime di Assad, la nuova Siria sta prendendo forma. Il superiore dei francescani di Aleppo, padre Bahjat Karakash: «Permangono segni contraddittori, serve la solidarietà di tutti, non dimenticateci».

Il futuro dei cristiani in Siria è ancora incerto. I segnali sono contrastanti. Da una parte ci sono le rassicurazioni della nuova guida Al-Jolani che, in una intervista all’Osservatore Romano, ha espresso il suo apprezzamento per Papa Francesco e ha assicurato che i cristiani saranno considerati una componente essenziale della nuova Siria; dall’altra ci sono ancora le discriminazioni che si registrano nei piccoli villaggi, lontano dalla Damasco sulla quale sono puntati i riflettori della comunità internazionale e dei media.

“Non è ancora il momento di dimenticarsi della Siria”, dice padre Bahjat Karakash, parroco latino e il superiore dei francescani di Aleppo. Nei giorni dell’avanzata dei ‘ribelli’ è stato in prima linea per aiutare le persone che erano rimaste senza cibo, acqua, elettricità. Poi la caduta di Bashar Al-Assad, vissuta come una liberazione, anche dai cristiani che pure avevano goduto di una certa protezione da parte del tiranno. Ora questa fase segnata ancora da incertezza. “La Siria continua a vivere momenti di grande instabilità e le tensioni geopolitiche rischiano di compromettere ulteriormente il futuro della nostra terra”, riferisce il francescano parlando di “un Paese ancora diviso, dove la regione nord est è ancora sotto controllo delle milizie curde, sostenute dagli Usa, mentre al sud assistiamo all’espansione della presenza militare israeliana, vicino alle alture del Golan, una mossa che continua a suscitare nuove preoccupazioni per un possibile aumento delle tensioni nella regione”.

C’è poi la difficile situazione economica per un Paese vessato da anni di guerra e distruzioni: “l’instabilità della lira siriana rende quasi impossibile le operazioni economiche, tutte le attività sono quasi ferme e il tasso di disoccupazione continua a crescere… E anche la sicurezza continua ad essere una reale preoccupazione: furti, omicidi, vendette, rapimenti, sono all’ordine del giorno”.

Ma “nonostante queste difficoltà, c’è un segnale di speranza che nasce dal cuore della nostra società. Sempre più i siriani, compresi i nostri giovani cristiani, stanno cominciando a interessarsi attivamente alla politica, spinti dalla volontà di contribuire alla rinascita del loro Paese”. Per questo, pure in una fase così precaria, la Chiesa cattolica di Aleppo ha avviato un’importante iniziativa: serate pubbliche settimanali dedicate alla formazione sulla dottrina sociale della Chiesa. Al centro dell’iniziativa anche “i valori di giustizia, solidarietà e pace, fondamentali per costruire un futuro migliore”.

Padre Bahjat cerca di veicolare questi valori anche attraverso il suo canale youtube, Add Alsama, che più meno suona come un invito a guardare al Cielo, ed è la voce dei cristiani in Siria. «Dopo la caduta del regime e l’inserimento di materiale sulla dottrina sociale, abbiamo visto un aumento esponenziale dei nostri followers, segno dell’interesse che i siriani hanno per queste tematiche e della loro sete per una dottrina che li aiuti a essere parte attiva nel processo politico che è in atto».

Infatti, nonostante le incertezze e le difficoltà, le persone possono ora confrontarsi abbastanza apertamente, mentre prima era finanche proibito avere proprie idee sulla politica e la società, come spiegano dalla Chiesa di Aleppo.

Ma per i cristiani restano le paure di fronte ad «alcuni segni di islamizzazione che cominciano a palesarsi»: dalla richiesta ad alcune donne cristiane di indossare il velo a quella agli autisti di togliere simboli religiosi cristiani. Ci sono però anche «giovani musulmani che distribuiscono fiori davanti allee chiese invitando a ricostruire insieme il Paese».

Nelle scorse settimane è arrivato in visita ad Aleppo il cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero delle Chiese orientali, inviato da papa Francesco come segno di vicinanza alle comunità locali. «Ha sottolineato il ruolo cruciale che i cristiani possono e devono avere nella ricostruzione della Siria, esortando tutti a lavorare insieme per un domani di riconciliazione e speranza. Le sue parole hanno infuso nuova fiducia in una comunità che, nonostante le sfide, continua a sognare un futuro di pace e unità».

Tra i segnali di speranza c’è il coinvolgimento di Hind Aboud Kabawat, donna e cristiana, nel Comitato di sette persone (cinque uomini e due donne) incaricato di preparare l’annunciata Conferenza nazionale della Siria, l’assemblea che dovrebbe avviare il processo per la formulazione di una nuova Costituzione e la definizione del nuovo assetto istituzionale del Paese mediorientale.

Nel frattempo, però, «è ancora troppo presto perché il mondo si dimentichi della Siria: abbiamo una lunga strada da percorrere prima di raggiungere uno stato stabile e di diritto. Senza la solidarietà di tutti non potremo affrontare le immense sfide che ci aspettano”, conclude padre Karakash.

Manuela Tulli




Stati Uniti. Volare senza biglietto

 

Da più parti si sostiene che i democratici statunitensi abbiano perso le elezioni presidenziali del 5 novembre 2024 anche perché Joe Biden non ha saputo affrontare in modo adeguato il problema migratorio. Un dato da poco reso pubblico sembrerebbe confutare questa affermazione: durante i quattro anni di presidenza di Biden ci sono state quattro milioni di persone deportate contro meno di due milioni del primo mandato di Donald Trump.

Il dato è sorprendente, ma ha una serie di spiegazioni. La prima è la legislazione d’emergenza introdotta durante la pandemia di Covid. In particolare, è stato ampiamente utilizzato il Title 42 che consentiva espulsioni facili. Introdotto da Trump nel marzo 2020, la misura è stata mantenuta da Biden fino a maggio 2023. Ci sono poi due ulteriori motivazioni: l’incremento degli arrivi alla frontiera Sud e il fatto che molti migranti espulsi ritentavano più volte l’entrata.

Oggi, pur senza il Title 42, il neoeletto Trump vorrebbe battere ogni record: «Milioni e milioni: sarà la più grande deportazione nella storia dell’America», ha promesso. Il tycoon ha iniziato fin dal primo giorno (20 gennaio) firmando un ordine esecutivo con un titolo molto esplicito: «Proteggere il popolo americano dall’invasione» (Protecting the american people against invasion).

Attualmente, gli immigrati clandestini possono essere espulsi dagli Stati Uniti e rispediti nei loro paesi di origine essenzialmente in due modalità: dopo essere stati individuati e catturati dalle autorità competenti, e a seguito di un ordine da parte di un giudice dell’immigrazione; oppure dopo essere stati fermati a un valico di frontiera o in un aeroporto: in questo caso si parla di «ritorno», non c’è bisogno di un ordine formale e non ci sono sanzioni.

I voli per i migranti illegali catturati dagli agenti dell’Ice (Immigration and customs enforcement) sono iniziati subito dopo l’insediamento di Trump. Venerdì 24 gennaio sono partiti per Città del Guatemala tre aerei militari della U.S. Air Force (dunque, non voli civili come di norma) con 265 guatemaltechi a bordo. Lo stesso giorno 88 brasiliani illegali sono stati imbarcati con destinazione Manaus. Martedì 28, due aerei hanno riportato a Bogotà più di 200 colombiani, comprese molte donne e bambini. Mercoledì 5 febbraio un aereo militare è atterrato ad Amritsar, in Punjab, con un centinaio di migranti indiani. Lunedì 10 febbraio due aerei commerciali hanno riportato a Caracas decine di migrati venezuelani.

Per motivi di visibilità e di pubblicità, il 28 gennaio 2025 Kristi Noem, segretario della Sicurezza interna (Dhs), ha partecipato a una retata di immigrati illegali a New York. Foto Ice-Immigration and customs enforcement.

L’ultima novità introdotta da Trump è la deportazione alla base navale Usa di Guantanamo Bay, sull’isola di Cuba, di migranti illegali e detenuti in carcere per reati diversi. Lì sono già iniziati i lavori di ampliamento delle strutture per ospitare fino a 30mila persone. Il primo aereo militare per quella destinazione è partito martedì 4 febbraio.

La questione delle deportazioni di Trump è tanto impattante che papa Francesco si è sentito in dovere di scrivere una lettera – cordiale nella forma, ma forte nei contenuti – ai vescovi degli Stati Uniti (10 febbraio). «Sto seguendo da vicino – ha scritto il pontefice al punto 4 – la grande crisi che si sta verificando negli Stati Uniti con l’avvio di un programma di deportazioni di massa. La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità. Al tempo stesso, bisogna riconoscere il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi durante la permanenza nel Paese o prima del loro arrivo. Detto ciò, l’atto di deportare persone che in molti casi hanno abbandonato la propria terra per ragioni di povertà estrema, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità e incapacità di difendersi».

Il problema migratorio è però simile in vari paesi del mondo come simili sono le misure per contrastarlo. In Gran Bretagna, il partito laburista al governo, superato nei sondaggi dal partito anti immigrati di estrema destra Reform Uk di Nigel Farage, sta cercando di recuperare consensi proprio con le deportazioni di migranti illegali, ora anche mostrate in televisione per convincere gli scettici. Tra luglio (mese di entrata in carica del primo ministro laburista Keir Starmer) e dicembre 2024, ci sono stati 13.460 rimpatri, segnando un più 25 per cento. Il ministero degli interni inglese (Home Office) ha organizzato voli di deportazione in almeno sette paesi, tra cui Brasile, Pakistan, Nigeria e Albania.

In Germania, il governo (oggi dimissionario) ha aumentato del 20 per cento le deportazioni (18.384 tra gennaio e novembre 2024) per contrastare l’avanzata di Alternative für Deutschland (Afd), il partito di estrema destra anti immigrazione.

Paolo Moiola




Mondo. Rimesse dei migranti, un ponte tra Paesi

 

Nel 2023 il denaro mandato dai migranti ai loro paesi di origine nel mondo ha raggiunto la cifra record di 822 miliardi di dollari. Un aiuto importante per le famiglie. Un ponte economico e sociale tra i paesi.

 

Ogni anno Carmen manda tra i due e i tremila euro a sua madre a Lima. Da poco ha superato il concorso all’Asl città di Torino e ha iniziato a lavorare come Oss in ospedale, lasciando il precedente lavoro in una casa di riposo privata. Ha potuto anche fare un mutuo per acquistare il suo piccolo alloggio nella periferia Nord della città.

I suoi soldi aiutano la madre e due nipoti, figli di una sorella rimasta vedova a causa di un incidente sul lavoro del marito. Durante la pandemia ha mandato qualche centinaio di euro anche a suo fratello, in difficoltà a San Francisco, negli Usa.

Le rimesse, ovvero il denaro inviato dai migranti ai loro paesi di origine, sono un fenomeno economico e sociale cruciale, un flusso di risorse che collega il lavoro di milioni di persone migrate con lo sviluppo e il sostentamento delle loro famiglie rimaste in patria. Hanno un impatto significativo sia nei paesi di destinazione che in quelli di origine.

L’Italia, con la sua storica tradizione migratoria e un crescente numero di lavoratori stranieri, è uno dei principali paesi europei per volume di rimesse.

I dati: 822 miliardi di $

Carmen è una dei circa 200 milioni di migranti che nel mondo mandano denaro ai territori di provenienza. La Banca mondiale stima che nel 2023 le rimesse a livello globale siano ammontate a 822 miliardi di dollari (circa un terzo del Pil italiano).

Il paese che ha ricevuto la cifra più alta è stata l’India, con una cifra di 119,5 miliardi di dollari. A seguire, il Messico (66 miliardi), le Filippine (39), la Francia (36), la Cina (29). L’Italia è al 17° posto con 12,1 miliardi di rimesse ricevute da italiani all’estero.

Non stupisce che anche paesi ad alto reddito come Francia, Italia, o Germania (all’ottavo posto con 21 miliardi) ricevano grandi volumi di rimesse. La mobilità dei lavoratori europei che espatriano è molto alta e sotto gli occhi di tutti.

Tra i paesi dai quali escono i volumi maggiori di rimesse, troviamo al primo posto gli Usa, con 93 miliardi. A seguire, Arabia saudita (38), Svizzera (37), Germania (22), Cina (20). La Francia è al sesto posto con 19 miliardi di dollari, l’Italia all’undicesimo con 12,2 miliardi.

Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Osservatorio nazionale sull’inclusione finanziaria dei migranti (Onifm), l’Asia si conferma nel 2024 il principale continente destinatario delle rimesse dal nostro Paese: il 40% dei flussi sono diretti verso Bangladesh, Filippine, India, Pakistan e Sri Lanka.

Interessanti variazioni sono state registrate rispetto al 2023, con incrementi significativi per paesi come Bangladesh (+17,4%) e Perù (+11%), mentre si osservano cali per altre nazioni come Pakistan (-9,6%) e Romania (-13,3%). Queste dinamiche riflettono non solo i cambiamenti demografici e migratori, ma anche l’evoluzione dei sistemi finanziari e delle politiche dei paesi di destinazione.

I costi delle rimesse per i migranti

Le rimesse rappresentano spesso una parte considerevole del reddito guadagnato dai migranti. Sono il frutto di sacrifici personali, rinunce a consumi o investimenti.

Su questa situazione già difficile, pesa anche il costo per l’invio del denaro. Nonostante gli sforzi globali per ridurlo, infatti, in Italia, secondo l’Onifm, per l’invio di 150 euro a dicembre 2024 una persona doveva pagare in media il 4,7%, con differenze significative a seconda dei paesi destinatari. Per mandare la stessa cifra in Senegal, ad esempio, il costo era del 2,6%, in Romania 3,89%, in Cina 4,89%, in Ghana 8,33%, in Brasile 9,40%.

Le piattaforme digitali sarebbero più economiche rispetto ai canali tradizionali, ma richiedono una maggiore alfabetizzazione finanziaria e digitale, e sono quindi meno usate.

L’osservatorio per l’inclusione finanziaria dei migranti, nel suo report, sottolinea che ridurre i costi di invio è una priorità sancita anche dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mira a portarli sotto il 3%.

L’Italia ha già intrapreso iniziative, come il portale «mandasoldiacasa», per aumentare la trasparenza e promuovere la concorrenza tra gli operatori. Tuttavia, il vero potenziale risiede nello sviluppo e nella diffusione di canali digitali accessibili e nell’educazione finanziaria sia nei paesi di origine che di destinazione.

Effetti nei paesi di origine

Per i paesi destinatari, le rimesse sono una fonte essenziale di sostentamento e sviluppo. Questi fondi contribuiscono a migliorare le condizioni di vita, finanziare l’educazione, l’accesso alla salute e promuovere iniziative imprenditoriali.

Tuttavia, vi sono anche aspetti negativi: ad esempio il rischio di creare una dipendenza eccessiva dalle rimesse, cosa che può limitare lo sviluppo di economie autosufficienti. Inoltre, le variazioni dei flussi che da un anno a un altro possono verificarsi, rischiano di portare conseguenze profonde su comunità già vulnerabili.

Ponti tra comunità

Le rimesse non sono semplicemente trasferimenti di denaro, ma ponti economici e sociali che uniscono famiglie e comunità. Supportare i migranti per il loro invio sicuro ed economico significa non solo migliorare la loro qualità di vita, ma anche contribuire allo sviluppo sostenibile globale.

Luca Lorusso




Angola, Rdc, Zambia. Il Corridoio di Lobito

 

Mai come oggi, il mondo è interessato all’approvvigionamento di considerevoli quantità di minerali critici. L’avanzare del cambiamento climatico, le sue conseguenze sempre più devastanti in ogni angolo del pianeta e la consapevolezza che in molti casi i danni sono irreversibili hanno posto la transizione ecologica al centro delle agende di molti Paesi. Per realizzarla, però, sono necessarie ingenti quantità di minerali critici, come litio, tantalio, rame e cobalto.

Molte di queste risorse si concentrano in Africa subsahariana. Ragion per cui, il continente, negli ultimi anni, si è trovato sempre più al centro della competizione tra potenze internazionali – dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Unione europea all’Australia – interessate ad assicurarsi vaste concessioni per l’estrazione di minerali critici. Una logica competitiva che, di fatto, è anche alla base della crescente attenzione che queste stesse potenze hanno destinato al corridoio di Lobito.

Una ferrovia, lunga 1.600 chilometri, che collega i giacimenti minerari di Zambia e Repubblica democratica del Congo (Rdc) al porto angolano di Lobito e che ha una storia tutt’altro che recente. Il primo collegamento infatti fu creato all’inizio del Novecento dai coloni europei che già avevano intuito quanto l’area (nel cuore del continente) – con la sua ricchezza di risorse naturali – fosse strategica per i commerci internazionali. Lo scoppio della guerra civile angolana (1975-2002), però, interruppe gli scambi e causò la distruzione di ampie porzioni della ferrovia.

Tuttavia, terminato il conflitto, la rete non fu abbandonata. In un mondo che iniziava a spingere sempre di più verso la transizione ecologica, l’infrastruttura si trovava in una posizione strategica. Inizialmente, il compito di rilanciarla fu affidato alla China railways construction corporation che, tra il 2004 e il 2014, realizzò una ristrutturazione da due miliardi di dollari. La nuova ferrovia (inaugurata nel 2015), però, non ha mai soddisfatto le aspettative, soprattutto a causa di carenze infrastrutturali che hanno impedito di raggiungere l’obiettivo prefissato di trasportare 20 milioni di tonnellate annue di merci e quattro milioni di passeggeri.

A quel punto, l’Occidente ha colto l’occasione per controbilanciare la presenza cinese nell’area e inserirsi in un contesto ricco di risorse. D’altronde, lo Zambia è tra i maggiori esportatori mondiali di rame, mentre dalle province meridionali della Rdc proviene il 70% del cobalto commerciato in tutto il mondo. E questi sono solo due dei tanti minerali presenti nella regione ed essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica.

Nel 2022, quindi, la Lobito atlantic railway company – un consorzio formato da tre aziende europee: la svizzera Trafigura, la portoghese Mota-Engil e la belga Vecturis – si è aggiudicata una concessione trentennale, a patto di investire 455 milioni di dollari in Angola e altri 100 milioni nella Rdc. Da parte loro, Unione europea e Stati Uniti hanno promesso importanti finanziamenti. Secondo le stime della Banca africana per lo sviluppo, il costo complessivo – tra quanto già speso e ancora da sborsare per la ristrutturazione – è di circa due miliardi di dollari.

Ma, Angola, Rdc e Zambia non hanno solo intenzione di riabilitare la vecchia ferrovia. Puntano anche alla costruzione di nuovi binari, così da garantire connessioni più rapide con altre aree strategiche dei loro territori. Ed è per questo che, ad esempio, la concessione alla Lobito atlantic railway company è estendibile di altri vent’anni (per un totale di cinquanta) se il consorzio costruirà anche un’altra linea – di 259 chilometri e dal costo stimato di un miliardo di dollari – tra Luacano (in Angola) e Jimbe (nello Zambia).

Ma non è tutto oro quello che luccica. C’è un timore diffuso, soprattutto tra le comunità minerarie congolesi, che il rilancio della ferrovia non farà altro che facilitare e accelerare lo sfruttamento delle risorse naturali della Rdc. Con il fatto che i giacimenti saranno più facilmente raggiungibili e meglio connessi al mercato internazionale, crescerà anche il numero di aziende interessate a sfruttarli e aumenterà la quantità di minerali estratti.

Per i minatori locali, però, non cambierà nulla: continueranno a ricevere salari molto bassi (circa due dollari al giorno) e a essere vittime di sfruttamento. Soprattutto i bambini, il cui impiego già estremamente diffuso rischia di aumentare ulteriormente, e le donne, spesso vittime di abusi e discriminazioni. Mentre la mancanza – per il momento – di industrie in grado di lavorare i minerali già nei luoghi di estrazione limita la possibilità per i Paesi africani e le comunità locali di trarre un maggior vantaggio economico (sia in termini di guadagni sia di opportunità lavorative) dall’incremento delle attività estrattive.

Aurora Guainazzi




Panama. Trump rivuole il Canale

Tra le mire espansionistiche di Donald Trump – che includono l’annessione del Canada e della Groenlandia agli Stati Uniti e la trasformazione del Golfo del Messico in un più nazionalista «Golfo d’America» – ce n’è una in particolare che potrebbe innescare uno scontro politico con la Cina, con ripercussioni in America Latina e sul commercio globale.

Il 20 ottobre 2024, il 47esimo presidente degli Stati Uniti (alllora candidato alla presidenza) ha minacciato di voler riprendere il controllo del Canale di Panama, che, a suo dire, sarebbe controllato dalla Cina attraverso l’impresa di Hong Kong Hutchison Port, attuale responsabile di due porti del Canale, da cui transitano principalmente cargo commerciali degli Stati Uniti.
Il timore di vedere compromessi i propri interessi economici, avrebbe mosso Trump a tale affermazione a cui è seguito il viaggio a Panama di Marco Rubio, attuale Segretario di Stato statunitense, nel tentativo d convincere le autorità panamensi a fermare la supposta influenza cinese sulla compagnia di Hong Kong.
«In caso contrario, dovremo prendere le misure necessarie per proteggere i nostri diritti», ha dichiarato Rubio, alludendo al fatto che Panama avrebbe violato il trattato del 1999 con cui otteneva, da parte degli Stati Uniti, la sovranità totale sul Canale.
Alle parole di Rubio ha fatto eco Trump dalla casa Bianca: «Il canale di Panama non è stato dato ai cinesi, ma ai panamensi, stupidamente», affermazione che ha alimentato i sospetti su un possibile tentativo degli Stati Uniti di contestare il trattato del 1999.
Dal canto suo, il presidente del Paese centroamericano José Raúl Mulino ha dichiarato, visibilmente piccato, che la proprietà del canale non è in discussione e che è e rimarrà di Panama. Tuttavia, per evitare un’escalation di tensione, le autorità panamensi hanno autorizzato un audit (analisi dei conti finanziari, nda) su Hutchison Port, a cui l’azienda ha dichiarato di sottoporsi senza timore, manifestando la sicurezza di chi non ha nulla da nascondere.

Gli Usa possono riprendere Panama?
Facciamo un passo indietro, a quando il canale ancora non esisteva. Nel 1903 Panama e gli Stati Uniti siglarono un accordo per creare una via navigabile attraverso l’istmo, una idea che risaliva già a Carlo V di Spagna, tre secoli prima. Alla fine, dell’800, la Francia aveva tentato un primo sforzo di costruzione, poi abbandonato. A inizio Novecento, quindi gli Stati Uniti acquistarono i diritti dalla Compagnia francese del Canale di Panama e, dopo undici anni di lavori, nel 1914, la prima nave attraversò il Canale.
Nel 1977, Washington e Panama firmarono un accordo per una gestione condivisa e nel 1999 la sovranità passò definitivamente allo Stato panamense.
Oggi Panama è l’unico paese che può decidere le sorti de canale, da cui transita il 5% del commercio mondiale di cui il 75% è statunitense. Secondo il trattato del 1999, gli Stati Uniti potrebbero intervenire militarmente solamente in caso di conflitto da potenza straniera, che causarebbe l’interruzione del traffico. Al momento, però, la Cina non sta limitando il passaggio delle navi, né ci sono prove che stia manovrando l’Hutchison Port, di proprietà di Li Ka-shing, l’uomo più ricco dell’Asia, con una fortuna economica che garantisce a lui e alle sue aziende di mantenere un certo grado di indipendenza da Pechino. Inoltre, pur gestendo due dei porti che orbitano nei pressi del Canale, l’impresa deve sottostare alle regole dell’Autorità del Canale di Panama, il cui board è eletto dal Governo panamense e all’interno del quale non c’è nessun rappresentante della Repubblica popolare cinese o di Hong Kong.

Trump teme il controllo cinese
A parte le evidenze commerciali, l’ipotesi di controllo cinese sul canale di Panama pare un pretesto per un casus belli, dietro il quale si nasconde Trump, deciso ad attaccare, piuttosto che restare a guardare, la crescente, e in questo caso reale, influenza di Pechino su tutta l’America Latina. La Cina è il primo mercato di esportazione per Brasile, Panama e Chile ed è il primo paese per importazioni di Argentina, Colombia e Brasile stesso. Inoltre, Pechino ha finanziato infrastrutture nella regione con investimenti superiori a quelli della Banca mondiale e della Banca interamericana di sviluppo. In particolare, per l’investimento nel settore minerario che vede la Cina dominare soprattutto in Messico, Argentina, Bolivia e Cile nell’estrazione del litio.
Se il Canale di Panama non è nelle mani della Cina, l’influenza di Pechino sull’America Latina è invece più concreta che mai e probabilmente anche avvantaggiata dai discorsi di odio verso i migranti latinoamericani e le ostilità dimostrate nei confronti di numerosi governi locali da parte del nuovo uomo forte della Casa Bianca.

Simona Carnino




Argentina. Contro Milei, presidente incendiario

 

Al forum economico di Davos dello scorso del 23 gennaio, Javier Milei, il presidente ultraliberista dell’Argentina, si era superato, forse anche per non essere da meno del suo mentore Donald Trump che, tre giorni prima, aveva inaugurato la presidenza Usa a suon di proclami e di ordini esecutivi.

Inebriato da alcuni successi economici del suo governo (pagati con un aumento vertiginoso del tasso di povertà) e dalla presunzione di lottare per la libertà, il presidente argentino aveva attaccato a testa bassa e – come sua abitudine – senza usare termini edulcorati. Contro i suoi avversari di sempre (lo Stato leviatano e la sinistra), ma anche contro il femminismo, il mondo Lgbtq+, l’immigrazione e l’ambientalismo.

Sulle donne, Milei ha detto tra l’altro: «Se si uccide una donna, si parla di femminicidio, e ciò comporta una pena più severa rispetto all’omicidio di un uomo, solo a causa del sesso della vittima. Legalizzando, nei fatti, che la vita di una donna vale più di quella di un uomo». Sugli appartenenti alla comunità Lgbtq+, il presidente ha affermato: «L’ideologia di genere costituisce un abuso sui minori, chiaro e semplice. [Costoro] sono pedofili». Toccando poi il tema migratorio, ha sostenuto che in Occidente sta avvenendo una «colonizzazione inversa» ad opera di «orde di immigrati che abusano, violentano o uccidono».

Il discorso incendiario di Milei aveva provocato reazioni immediate, soprattutto in Argentina. Nel paese latinoamericano, l’evento principale è stato la «Marcia dell’orgoglio antifascista e antirazzista» organizzata dai collettivi Lgbtq+ e tenutasi sabato 1° febbraio a Buenos Aires e in varie altre città dell’interno. La manifestazione è stata un successo, ma soprattutto ha raccolto adesioni non scontate, come quella di una parte importante della Chiesa cattolica argentina.

Mons. Marcelo Colombo, arcivescovo di Mendoza e da novembre 2024 nuovo presidente della Conferenza episcopale argentina. Ha sostenuto l’adesione alla marcia di sabato 1 febbraio 2025 organizzata dai collettivi Lgbtq+ contro le dichiarazioni di Milei a Davos. (Foto Cea-Conferencia episcopal argentina)

L’adesione è stata annunciata il 30 gennaio da un comunicato dalla Pastorale della diversità sessuale dell’arcidiocesi di Mendoza: «Esprimiamo – si legge nel documento – la nostra profonda preoccupazione per i discorsi che considerano l’antirazzismo, il femminismo e la lotta per i diritti della comunità Lgbtq+ come un “cancro che deve essere rimosso” in nome di “libertà” o “buon senso”. Queste espressioni, che promuovono la discriminazione e la violenza contro le minoranze, ci sembrano allarmanti e contrarie ai valori del Vangelo. Non possiamo e non dobbiamo restare indifferenti di fronte a queste manifestazioni di odio».

L’adesione è stata ribadita da mons. Marcelo Colombo, arcivescovo di Mendoza e nuovo presidente della Conferenza episcopale argentina (dal 12 novembre 2024). In un’intervista al quotidiano Mendoza Post, l’arcivescovo ha sottolineato che la società argentina non deve fare marcia indietro in tema di tolleranza e diritti.

Su questa presa di posizione della Chiesa cattolica abbiamo sentito padre José Auletta, missionario della Consolata in Argentina che conosce bene mons. Colombo avendoci lavorato insieme per molti anni. «Premesso – ci ha detto padre Auletta – che la pastorale sociale di Mendoza è molto attiva da anni, la scelta di campo dell’arcivescovo è stata forte e chiara. La marcia è stata importante perché non si poteva rimanere silenti davanti a Milei che, a Davos, ha detto cose semplicemente vergognose. Quanto alle sue posizioni contro l’aborto e contro la cosiddetta ideologia gender sono affermazioni fatte da una persona che non ha alcuna autorità morale. In ogni caso, per noi cattolici dovrebbe prevalere un atteggiamento misericordioso verso le realtà diverse. Sempre e in tutti gli ambiti».

Paolo Moiola




Libano. Quaderno di guerra

 

Sabato, 25 gennaio 2025, Libano meridionale. Domani, stando agli accordi per il cessate il fuoco stipulati a novembre tra Israele e governo libanese, i soldati dell’Idf (Israel defense forces) dovrebbero ritirarsi dal Sud del Libano. Dopo 16 mesi, passati da rifugiati interni nel proprio Paese, migliaia di persone si preparano a tornare nelle proprie città.

Alì Ghaleb Kouteich è una di queste. Nato e cresciuto ad Houla, uno dei villaggi più a ridosso del confine con Israele, era proprietario di un supermercato, fino a che, a causa dei bombardamenti di Tel Aviv cominciati ad ottobre 2023, non ha dovuto evacuare come la totalità degli abitanti. Anche nel paese dove ha trovato rifugio, Alì ha aperto un supermercato ma, ora, alla vigilia del ritiro delle truppe israeliane, il suo unico pensiero è quello di tornare a casa. Ad Houla sono rimaste in piedi appena il 10 percento delle abitazioni, tutto il resto è stato distrutto dai bombardamenti. Nonostante questo, tutti sono pronti a tornare e a lavorare per una ricostruzione. Negli ultimi giorni, Alì ha deciso di raccogliere tutto quello che poteva dal suo negozio, aiuti di ogni genere da portare nella sua città natale per contribuire a questo nuovo inizio.

Una delle strade bombardate di Tiro. Con la sua splendida posizione sul mare, questa città del Sud del Libano era molto frequentata da turisti provenienti soprattutto dal mondo arabo. (Foto Angelo Calianno)

Domenica, 26 gennaio. Per impedire il ritorno degli abitanti di Houla, gli israeliani hanno fatto saltare in aria le strade creando crateri che rendano impossibile l’entrata delle auto. I libanesi non si danno per vinti, arrivando tutti a piedi. Alì è il primo ad entrare. Al suo arrivo però, trova i soldati dell’Idf ad attenderlo: hanno deciso di non rispettare gli accordi e continuare a presidiare il villaggio. Aprono il fuoco, Alì si accascia al suolo. Subito dopo, viene colpito anche un suo amico e, successivamente, anche due soccorritori. Nonostante il pericolo, uno dei fratelli di Alì decide di provare a salvarlo. Insieme ad un amico, riesce ad introdursi ad Houla con un piccolo motorino. I due afferrano il corpo di Alì, lo trascinano per un tratto di strada per poi caricarlo in mezzo a loro. Fuggono tra gli spari dei soldati israeliani. Purtroppo, però, per Alì non c’è più nulla da fare.

Ghassan è un giovane ingegnere, anche lui è di Houla, caro amico e vicino di casa di Alì. Ci racconta: «Con Alì siamo praticamente cresciuti insieme. Per lavoro o per studio, molti giovani lasciano il Sud, lui invece aveva deciso di rimanere. Era il più piccolo di dieci fratelli, suo padre era un’insegnante, e sua madre ha sempre lavorato la terra nella produzione del tabacco. Tutti, nel Paese, lo conoscevano come una persona pacifica, dal grande cuore. Nella sua vita non si era mai interessato di politica. Quando hanno evacuato Houla, lui è stato uno di quelli che ha cercato di rimanere fino alla fine, fin quando non è diventato troppo pericoloso. In seguito alla partenza forzata, anche fuori dal suo Paese, Alì continuava a frequentare i suoi concittadini: non vedeva l’ora di tornare. L’amore per la sua terra era così grande che, su Houla, ha scritto poesie meravigliose. Ora, dopo la sua morte e grazie ai social media, le sue parole stanno diventando sempre più conosciute. Una delle cose che più mi ha fatto male, è stato vedere come suo fratello ha dovuto provare a soccorrerlo, caricandolo su un motorino. Il video di quella scena mi ha fatto piangere».

La storia di Alì è solo uno dei numerosi esempi di quello che sta accadendo in questi giorni, nel Sud del Libano. Imboscate, attacchi e bombardamenti stanno colpendo tutti i villaggi da cui Israele avrebbe dovuto ritirare le sue truppe. Famoso è già diventato un video che mostra delle donne, nella cittadina di Maroun El Rais, mettersi di fronte ai carrarmati israeliani per impedirne l’entrata nel loro paese.

Nabatiye, un campo di calcio distrutto. Questo spazio è usato anche durante le funzioni religiose dell’Ashura. Il 28 gennaio, anche Nabatiye ha ripreso ad essere attaccata dall’Idf. Non essendoci più un posto davvero sicuro, molti dei rifugiati del Sud si sposteranno nei centri di accoglienza di Beirut. (Foto Angelo Calianno)

Martedì, 28 gennaio. Oggi si tengono molti dei funerali di chi ha provato a tornare a casa, rimanendo ucciso nel tentativo di farlo. Per molte famiglie è stato impossibile recuperare i corpi, così, molti genitori ora piangono su dei vestiti, l’unica cosa rimasta dei propri figli. Contemporaneamente ai funerali, alcuni razzi israeliani sono tornati anche a colpire Nabatiye, città che era stata già devastata prima del cessate il fuoco. Con il nuovo presidente al potere, sostenuto dall’Occidente, e con il forte indebolimento di Hezbollah, da due mesi totalmente sparito dal campo, le popolazioni del Sud del Libano si sentono abbandonate e senza una voce che possa difenderli.

Quando chiediamo ancora a Ghassan il perché di tutto questo e perché Israele, nonostante gli accordi, continui a occupare il Libano, lui ci risponde: «Storicamente, Israele ha sempre usato la forza contro di noi, anche quando non era necessario. Essendo molto avanzati tecnologicamente, potrebbero raggiungere i loro obiettivi senza il bisogno di uccidere. Invece, usano la violenza per farci del male e intimidirci. Secondo me, questo è il motivo di tutta questa distruzione nel Sud, in nessuna di quelle case bombardate c’era Hezbollah. Gli attacchi sono stati perpetrati per ricordarci la loro presenza, e di che cosa sarebbero capaci se osassimo ribellarci. Noi però non siamo solo numeri, non può esserci tutta questa ingiustizia. Ciò che sta accadendo deve essere raccontato e conosciuto in tutto il mondo».

Angelo Calianno




Filippine. Un villaggio per il dialogo islamo cristiano

 

Nell’isola di Mindanao, in una zona a maggioranza islamica, un missionario cattolico e un intellettuale musulmano hanno fondato un villaggio (e un movimento chiamato Silsilah) del dialogo, nel quale cristiani e musulmani condividono vita quotidiana e fedi.

Quando si entra nel «Villaggio dell’armonia», alla periferia di Zamboanga del Sur, città sull’isola filippina di Mindanao, si ha la sensazione di entrare in un’oasi.
Affacciata sul mare delle Sulu, una corona di piccole isole, Zamboanga si trova all’estremità di una sottile lingua di terra, propaggine occidentale dell’isola di Mindanao, ed è un porto frequentato da commercianti, pescatori, nomadi del mare, genti e viaggiatori di ogni lingua, etnia e cultura che solcano i mari del Sud.

In quest’area, vi sono le province che compongono la Regione autonoma di Bangsamoro in Mindanao musulmana (Barmm), ovvero il territorio che accoglie una consistente popolazione musulmana di circa sei milioni di anime. La regione rappresenta un tratto peculiare delle Filippine meridionali: i seguaci di Maometto in essa sono la maggioranza, mentre nella totalità dell’arcipelago – che conta oltre 100 milioni di abitanti, ed è al 90% cattolico – sono una minoranza di circa il 6%.

Una tenuta di 14 ettari (un villaggio, un bosco, campi coltivati), situata su una collina a 7 chilometri dalla città, ospita un villaggio speciale, ricco di luoghi silenziosi per la meditazione, una casa di preghiera cristiana, una casa di preghiera musulmana, un asilo nido, una biblioteca e una sala conferenze.
La scritta «Villaggio dell’armonia» che accoglie il visitatore, promette bene. Appena si giunge, infatti, si viene accolti da persone sorridenti che guidano quanti voglio addentrarsi in quell’oasi verdeggiante. Lungo il viale d’ingresso, si viene accompagnati da cartelli che propongono la «preghiera dell’armonia», un’invocazione interreligiosa, recitata da cristiani e musulmani, che chiede a Dio di aiutare ogni credente a costruire la pace in quattro fondamentali dimensioni: prima di tutto dentro se stessi; poi nel rapporto con Dio; nella relazione con il prossimo; infine nella cura del creato.
Sono le quattro dimensioni che caratterizzano e raccontano l’essenza di «Silsilah» (temine della mistica che significa «catena»), il movimento per il dialogo islamo-cristiano nato a Zamboanga dall’intuizione di un missionario cattolico italiano, padre Sebastiano D’Ambra, del Pontificio Istituto per le missioni estere (Pime), accanto a un intellettuale e studioso musulmano, con cui condivideva la medesima visione, Dinggi Mc Cormick, cofondatore del movimento.
Toccati dall’esperienza del conflitto tra musulmani e cristiani a Mindanao – una guerriglia nata già dagli anni 70 del Novecento – e desiderando percorrere e approfondire le vie del dialogo con persone di tutte le culture e religioni, i due diedero inizio al movimento Silsilah, insieme a un gruppo di amici musulmani e cristiani, il 9 maggio 1984.

«Il dialogo parte da Dio e riporta le persone a Dio», va ripentendo D’Ambra. Il movimento, promotore di una profonda esperienza di dialogo spirituale e di condivisione di vita tra persone di fedi diverse, ha compiuto 40 anni: un cammino che è stato a tratti accidentato e doloroso, ma anche punteggiato da gioie e frutti insperati.
Una sofferenza indelebile è stata la perdita di Salvatore Carzedda, un altro missionario Pime che aveva condiviso parte del cammino, ucciso da gruppi violenti che avversavano ogni tentativo di dialogo. Grazie alla forza spirituale; grazie al motto «Padayon!», cioè «andiamo avanti», anche nelle avversità; grazie alla sua valenza profetica; Silsilah può dire oggi di aver contribuito a diffondere la cultura del dialogo e lo spirito della riconciliazione nelle Filippine e in tutto il mondo.

«Nel corso di 40 anni – ricorda padre D’Ambra -, Silsilah ha incontrato migliaia di amici musulmani e cristiani. È un’esperienza che ha generato frutti e ha assunto gradualmente un valore universale», spiega il missionario italiano che, fin dall’inizio, volle promuovere la condivisione di vita tra famiglie cristiane e musulmane nell’ottica di considerarsi reciprocamente l’amico, non il nemico, della porta accanto.

Così quel movimento ha unito fin dal principio spiritualità e vita, fede e azione, in una quotidianità comune che ha reso il villaggio un punto di luce per molti: studenti, religiosi, giovani e adulti hanno seguito seminari, corsi residenziali, esperienza di «immersione» che hanno lasciato un segno e generato altrove i Forum Silsilah.
La «spiritualità della vita in dialogo» è contagiosa, e si è diffusa in tutto il mondo.

Paolo Affatato




Stati Uniti. Una voce critica, imprevista e sgradita

 

Applausi e inchini hanno caratterizzato il rientro alla Casa Bianca di Donald Trump. Il 20 gennaio non tutto, però, è filato liscio come il tycoon sperava. L’inconveniente è capitato nella Washington National Cathedral, la chiesa che, dal 1933, nel giorno inaugurale ospita la preghiera ufficiale per i presidenti eletti. È accaduto che una donna abbia rotto l’incantesimo della celebrazione.

Il suo nome è Mariann Edgar Budde, vescovo della Chiesa episcopale di Washington. Sposata e madre di due figli, 65 anni, Budde è la prima donna a guidare la diocesi episcopale della capitale statunitense, una posizione che ricopre dal 2011. Sovrintende a 88 comunità tra il Distretto di Colombia e il Maryland, per un totale di 38mila membri.

Mariann Edgar Budde, vescovo della Chiesa episcopale di Washington, ha tenuto un sermone critico verso Donald Trump il primo giorno del suo mandato (20 gennaio 2025). Il tycoon non l’ha presa bene. (Photo Paul E. Alers – Nasa)

«Mi consenta di fare un ultimo appello, signor Presidente – ha detto il vescovo dal pulpito della cattedrale -. Vi chiedo di avere pietà delle persone nel nostro Paese che ora sono spaventate». Tra queste, ha citato le famiglie composte da persone gay, lesbiche e transgender e poi ha fatto riferimento agli immigranti: «La stragrande maggioranza di loro – ha aggiunto Mariann Budde – non sono criminali, ma buoni vicini e membri fedeli delle comunità religiose».

Visibilmente contrariato, Trump non ha gradito la predica, affermando: «Non penso che abbia fatto un buon servizio». Il sermone critico del vescovo è stato soltanto un piccolo intoppo, ma non è stato dimenticato. Tanto che due giorni dopo il presidente è intervenuto su Truth, la piattaforma social di cui è proprietario, definendo Budde, «il cosiddetto vescovo», una persona di «estrema sinistra che odia Trump» e chiedendo pubbliche scuse per «le sue dichiarazioni inappropriate».

L’interessata non è indietreggiata. In un’intervista con la Associated Press, il vescovo ha detto che avrebbe continuato a pregare per il presidente, com’è sua consuetudine. «Non condivido molti dei suoi valori e presupposti sulla società americana e su come rispondere alle sfide del nostro tempo – ha spiegato -. In realtà, sono fortemente in disaccordo, ma credo che possiamo essere in disaccordo con rispetto mettendo in campo le nostre idee e continuando a sostenere le nostre convinzioni senza ricorrere alla violenza della parola».

Nel suo primo giorno da presidente, Donald Trump ha firmato 26 ordini esecutivi (contro i 9 che firmò Joe Biden), uno dei quali per cancellare 78 ordini esecutivi del suo predecessore.

Nei giorni successivi all’insediamento, il tycoon ha dato il via a quanto ampiamente propagandato: retate e deportazioni dei migranti irregolari presenti sul territorio statunitense. Martedì 28 gennaio la neo segretaria del Dipartimento della sicurezza interna (Homeland security), Kristi Noem, ha annunciato che gli agenti federali dell’immigrazione avevano avviato un’azione di contrasto a New York. La ministra ha, quindi, postato su X il video di un arresto con una frase di commento: «Rifiuti come questo continueranno a essere rimossi dalle nostre strade».

Paolo Moiola




Congo Rd. Il Rwanda alla conquista di Goma

 

La città di Goma, capitale provinciale del Nord Kivu, è da ieri pomeriggio, domenica 26 gennaio, sotto assedio da parte dei cosiddetti ribelli antigoverantivi M23 e dalle truppe regolari del Rwanda (3-4mila uomini). Militari ruandesi e ribelli hanno occupato diversi quartieri della città, compreso l’aeroporto che è stato saccheggiato e, al momento, risulta inagibile anche ai voli umanitari. Tutte le strade di accesso a Goma sono bloccate.

In città sono sempre presenti anche truppe congolesi delle Fardc (Forze armate della Rdc). Nel momento in cui scriviamo la città non è ancora caduta completamente ma alcuni centri di controllo sono in mano ai ribelli e si spara in diversi quartieri. Intanto alcuni reparti della Monusco, missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (riconfermata il 20 dicembre scorso), sono stati attaccati dall’M23 nei giorni scorsi, e hanno subito perdite di alcuni caschi blu.

Goma conta circa un milione di abitanti, più un milione di sfollati dal resto del Kivu, causati della guerra in corso da almeno tre anni (nella sua ultima fase), che vivono in campi profughi intorno alla città. Dopo i primi attacchi, molti sfollati sono fuggiti verso la città, dove la popolazione è senza acqua ed elettricità.
«Siamo sotto le bombe» ci scrive da Goma un abitante. «Sono chiuso in casa con la mia famiglia». Intanto giungono video girati con il cellulare di sparatorie e gente che fugge.
La frontiera con il Rwanda (Gisenyi) è chiusa o, meglio, non ci sono funzionari di frontiera. Da parte ruandese autobus aspettano per evacuare il personale umanitario delle Nazioni Unite. Abitanti della città, fin da ieri, hanno tentato ugualmente il passaggio per fuggire da bombe e sparatorie. Il centro urbano arriva praticamente in prossimità della frontiera. Il passaggio pare sia stato bloccato a partire da domenica sera.

La prigione di Munzenze ha preso fuoco, e migliaia di detenuti sono fuggiti.
Si rischia una ulteriore crisi umanitaria con centinaia di migliaia di profughi che cercheranno rifugio nei paesi della regione.
Il presidente del Kenya, Wlliam Ruto, ha convocato un incontro straordinario della Comunità degli stati dell’Africa dell’Est per mercoledì 29 gennaio, al quale dovranno partecipare il presidente del Rwanda, Paul Kagame, e quello del Congo Rd, Félix Tshisekedi.

Domenica 26 si è tenuta una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cs), dedicato al precipitare della situazione nel Nord Kivu.
La ministra degli esteri del Congo Rd, Thérèse Kayikwamba Wagner, ha chiesto al Cs di emettere delle sanzioni nel confronto del Rwanda, che sta a tutti gli effetti, invadendo il territorio del paese sovrano confinante. La ministra ha anche chiesto un embargo totale sui minerali esportati dal Rwanda, come oro e coltan, che sono estratti illegalmente nell’Est del Congo.
Per la prima volta il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha nominato il Rwanda nel chiedere che vengano ritirate le sue truppe dal territorio congolese: «[…] profondamente preoccupato per l’escalation della violenza […] chiedo che le Forze ruandesi di difesa di interrompere il loro sostengo all’M23 e ritirarsi dal territorio congolese».
Per parte sua, Kigali continua a negare al presenza dei propri militari oltre confine.
A Goma, la situazione rimane estremamente volatile, e gli scontri sono tuttora in corso.

Per un approfondimento sul Congo Rd si veda qui.

Marco Bello