Sfida alla dittatura del dollaro


Da gennaio 2025, il gruppo dei Brics, nato nel 2009, si è allargato all’undicesimo paese. Il gruppo si pone come alternativa economica ai paesi occidentali riuniti nel G7. Uno degli obiettivi dichiarati è porre fine alla supremazia del dollaro Usa.

Un nuovo soggetto si aggira per il mondo e innervosisce i paesi occidentali. Si chiama Brics, una sigla che sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. L’acronimo venne usato la prima volta in una nota sullo stato dell’economia mondiale pubblicata nel 2001 da Jim O’Neill, responsabile dell’ufficio ricerche di Goldman Sachs, potente banca d’affari. La nota voleva avvertire i governi occidentali che altri paesi stavano emergendo sulla scena economica mondiale e che nessuna nuova decisione poteva essere presa senza di loro.

Sfida al forum dei «G7»

Consiglio pertinente, se si considera che, a partire dal 1976, i paesi occidentali più potenti – Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America – avevano preso a incontrarsi annualmente per concordare risposte comuni alle principali problematiche mondiali. Il forum era stato battezzato G7 – Gruppo dei sette – e si è consolidato come l’assise internazionale, esterna al sistema delle Nazioni Unite, nella quale i potenti decidono le politiche da imporre al mondo intero.

Nel 1997, il G7 divenne G8 per l’inclusione della Russia, che però ci sarebbe rimasta solo fino al 2014, anno in cui ne sarebbe stata esclusa per essersi impossessata della Crimea (Ucraina). Intanto, al G8 del 2003, presieduto dalla Francia, furono invitati come osservatori anche Brasile, India e Sudafrica. I tre ne uscirono contrariati rendendosi conto che erano lì per pura formalità.

Lula, presidente del Brasile, chiese: «A che serve essere invitati al banchetto dei potenti per mangiare solo il dessert?». E aggiunse: «Oltre al dessert vogliamo assaporare tutte le altre vivande».

foto Willfried Wende – Unsplash

Fatto sta che, solo tre giorni dopo, i ministri degli esteri dei tre paesi si ritrovarono a Brasilia e formalizzarono la nascita del «Forum di dialogo dell’Ibsa» con l’obiettivo principale di trovare una linea di condotta comune sui tanti temi che si stavano definendo all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio. In particolare, quello sui brevetti, tenuto conto che tutti e tre i paesi ospitavano industrie che producevano grandi quantità di farmaci generici al servizio di tutto il Sud del mondo.

Intanto, in Asia, andava prendendo forma l’Irc, un tavolo composto da India, Russia e Cina per confrontarsi con regolarità su temi di interesse comune, come sicurezza, migrazioni, terrorismo.

I due forum, l’Ibsa e l’Irc, si fusero nel settembre 2006, allorché Russia e Brasile, in occasione di una riunione all’Onu, promossero un incontro allargato a Cina e India, per discutere le problematiche connesse all’assetto finanziario internazionale. Tema più che mai azzeccato considerato che di lì a poco si sarebbe scatenata una delle peggiori crisi finanziarie a livello mondiale.

Fu proprio la crisi del 2008 a dare carattere di stabilità al gruppo dei Brics che formalizzò la propria alleanza durante un nuovo incontro organizzato nella cittadina russa di Yekaterinburg, il 16 giugno 2009, data del primo summit ufficiale.

Da allora i cinque paesi (il Sudafrica si unì nel 2011), s’incontrano ogni anno e progettano iniziative comuni. Una delle più importanti fu la creazione, nel 2015, di una banca internazionale denominata Nuova banca di sviluppo (Ndb, secondo l’acronimo inglese).

Il Pil dei Brics

Nel 2001, quando O’Neill alzò per la prima volta il sipario sui futuri Brics, il loro peso sulla scena mondiale corrispondeva all’8% del Pil e al 43% della popolazione. Nel tempo sono passati al 25% del Pil, mentre la popolazione si è ridotta al 41% del totale mondiale.

Dal gennaio 2024 sono però stati ammessi altri cinque membri (Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti). A gennaio 2025 è entrata l’Indonesia, mentre altre nazioni hanno mostrato interesse ad aderire. Fra esse Thailandia, Malaysia e la Turchia che pure fa parte della Nato.

In conclusione, ben presto il blocco dei Brics potrebbe rappresentare un terzo del Pil e dell’interscambio mondiale. Basti dire che all’ultimo vertice che si è tenuto in Russia, a Kazan, dal 22 al 24 ottobre 2024, erano presenti 37 paesi. Tutti molto diversi fra loro per collocazione geografica, regime politico, posizione economica, ma tutti interessati a rafforzare la propria economia senza subire condizionamenti da parte dei potentati economici, in particolare quello statunitense.

Non a caso il grande tema al vertice di Kazan è stato quello dei pagamenti internazionali.

Negli ultimi secoli, il commercio internazionale si è espanso a dismisura, ma la scelta della moneta con cui pagare è sempre stata un problema.

In maniera molto empirica, il vecchio Mao Zedong sosteneva che a deciderlo è la dimensione dei cannoni. Come dire che si è sempre imposta la moneta del paese più forte sia da un punto di vista economico che militare. La sterlina dominava quando gli inglesi possedevano un impero su cui non tramontava mai il sole, come il denarius aureus dominava quando a comandare era Roma.

L’egemonia del dollaro e la variabile Trump

Oggi, di paesi coloniali vecchia maniera non ce ne sono più. Ma il prodotto interno lordo e la spesa militare contano ancora. Tant’è che la moneta universalmente accettata è il dollaro, espressione degli Stati Uniti, che sono i primi sia per Pil (27mila miliardi di dollari), che per spesa militare (817 miliardi di dollari). Il risultato è che il dollaro è la moneta più richiesta al mondo ed è la più usata sia per gli scambi commerciali che per le operazioni finanziarie di livello internazionale.

I paesi Brics, e in particolare la Russia, stanno progettando di sfidare questa egemonia creando un sistema di pagamento alternativo, almeno nel loro circuito. Ma la battaglia si presenta ardua dal momento che Trump ha lanciato parole di fuoco quando ha saputo che qualcuno osava mettere in discussione la supremazia della moneta Usa.

Non ancora investito delle funzioni di presidente, il 1° dicembre 2024 ha rilasciato un comunicato stampa che suonava come una vera e propria dichiarazione di guerra: «Non credano i paesi Brics che noi ce ne staremo semplicemente a guardare se provano a sganciarsi dal dollaro». E proseguendo, ha aggiunto: «Noi li avvertiamo: se proveranno a creare un nuovo mezzo di scambio interno ai Brics o a sostenere la nascita di qualsiasi altro mezzo di pagamento che sfida la potenza del dollaro, saranno colpiti con dazi doganali fino al 100% affinché perdano ogni possibilità di vendere le loro merci nella meravigliosa economia americana».

Invettive confermate dopo l’insediamento (in un discorso del 22 febbraio 2025) e dettate non solo da spirito suprematista, ma anche dalla consapevolezza che essere titolari di una moneta a valenza internazionale offre vantaggi. Ad esempio, permette di vivere al di sopra delle proprie possibilità, ossia di poter godere della ricchezza altrui, oltre che di quella prodotta internamente. Il caso americano né un classico esempio.

Il debito degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti vivono cronicamente in uno stato di debito commerciale, nel senso che importano più di quanto esportano. Nel 2023 la differenza in negativo è stata di 773 miliardi di dollari, ma nessuno ha protestato. Se qualsiasi altro paese avesse un deficit commerciale di questo livello verrebbe subito messo sotto sorveglianza del Fondo monetario internazionale e costretto a ogni forma di sacrificio finché non avesse portato la propria bilancia commerciale in pareggio.

Gli Stati Uniti, invece, continuano indisturbati nella loro navigazione in rosso, perché possono compensare il loro debito commerciale con le grandi masse di dollari che ricevono da tutto il mondo sotto forma di capitali. Tenendo a mente che, in caso di cattiva parata, i dollari possono essere ottenuti con la stampa di nuove banconote.

La rivoluzione di Nixon 

Per la verità fino al 1971 questa possibilità era limitata dal fatto che ogni aumento di denaro esigeva un aumento di riserve di oro perché c’era l’impegno, da parte della Banca centrale statunitense, di convertire i dollari in oro qualora le istituzioni estere ne avessero fatto richiesta (era il sistema aureo o Gold standard). In quel 1971, constatando che ormai di dollari in circolazione ce n’erano troppi, il presidente americano Richard Nixon decretò la fine della convertibilità in oro lasciando molta più libertà all’emissione di nuova moneta (cioè alla stampa di nuovi biglietti). Come dire che il dominio del dollaro, oggi più che mai dipende dalla forza economica e militare degli Stati Uniti.

Eppure, già nel 1944, quando a Bretton Woods (negli Usa) si discuteva quale assetto finanziario dare al mondo che usciva dalla seconda guerra mondiale, l’economista inglese John Maynard Keynes aveva proposto un sistema di pagamenti internazionali che escludesse l’uso diretto di qualsiasi moneta nazionale.

Due i capisaldi della sua proposta. La prima: la creazione di una moneta interbancaria, il bancor, che avrebbe avuto una parità fissa con ogni moneta, da utilizzare esclusivamente come unità di conto, ossia per permettere a ogni paese di registrare il valore delle proprie importazioni ed esportazioni. La seconda: la creazione di una camera di compensazione con il duplice compito di verificare i saldi periodici di ogni nazione e concordare volta per volta le misure da adottare per permettere a debitori e creditori di ritrovare una situazione di pareggio. Un sistema ben diverso da quello in vigore oggi che costringe tutti i paesi del mondo a dotarsi di riserve in valuta forte (prevalentemente dollari o addirittura oro), per saldare le eventuali posizioni debitorie che possono venire a crearsi.

«R5», la valuta dei Brics

foto Davie Bicker-Bluebudgie-Pixabay

L’alternativa attorno alla quale stanno lavorando i Brics, per le loro relazioni commerciali, è simile a quella prospettata da Keynes. La proposta prevede la creazione di un’unità di conto, denominata «R5», il cui valore è determinato per il 40% dal prezzo dell’oro e per il rimanente 60% da un paniere di valute nazionali utilizzate all’interno dei Brics, che – di qui il termine – cominciano tutte per «R»: reais, rublo, renmimbi, rupia e rand, rispettivamente valute ufficiali di Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica.

La proposta è integrata dalla creazione di un circuito di comunicazione interbancario attraverso il quale le banche di tutti i paesi Brics possono comunicarsi in tempo reale i pagamenti che si fanno reciprocamente per le più svariate esigenze dei propri clienti.

Va detto che già oggi esistono vari circuiti di comunicazione fra banche a livello internazionale, ma quello predominante è lo Swift, con sede legale in Belgio e controllato dalle banche centrali di dieci paesi occidentali. Complessivamente, il circuito Swift comprende più di 11mila organizzazioni finanziarie e bancarie appartenenti a oltre 200 paesi e territori fra i quali fino al 2021 figurava anche la Russia, poi estromessa come ritorsione per avere aggredito l’Ucraina.

Considerata la sua posizione di paese sotto sanzioni, si capisce perché la Russia spinga più degli altri per la creazione di un sistema di pagamenti alternativo. Comunque la si metta, l’egemonia del dollaro rimane un problema perché getta sul mondo intero e, in particolare, sui paesi più deboli, le conseguenze di scelte operate per ragioni a esclusivo servizio degli Stati Uniti. Valga, come esempio, la decisione assunta negli ultimi anni dalla Banca centrale statunitense di aumentare il tasso di interesse per aggiustare la propria economia. L’effetto è stato la crescita del costo del debito a livello globale che ha obbligato molti governi del Sud a ridurre le spese sanitarie e sociali per pagare gli interessi più alti maturati sui prestiti esteri.

È troppo presto per dire se i Brics possono rappresentare una speranza di gestione alternativa dell’economia a livello mondiale, ma è salutare che qualcuno sfidi lo status quo.

Francesco Gesualdi

 




Vietnam cinquant’anni dopo


Sommario

Archivio storico Museo dei residuati bellici – Città di Ho Chi Minh

Dalla guerra al boom economico

Storia di cinquant’anni di riunificazione

Il 30 aprile 1975 cadeva Saigon. Finiva una delle guerre più iconiche del Novecento. Il Vietnam fu riunificato, ma non tutte le aspirazioni rivoluzionarie furono soddisfatte. L’obiettivo dello sviluppo, però, pare centrato.

Camminando lungo la Dong Khoi, un tempo rue Catinat, che dalla cattedrale porta alla sponda destra del fiume, siamo nel centro chic di Città Ho Chi Minh. Ci sono boutique di prestigiose marche di moda estere, grattacieli in acciao e vetro, alberghi esclusivi. Ma siamo anche nel cuore della vecchia Saigon. All’incrocio con la Ly Tu Trong c’è ancora l’edificio, che fu sede della Cia, da cui decollò uno degli ultimi elicotteri statunitensi quando la città, all’epoca capitale della Repubblica del Vietnam, stava per cadere (29 aprile). Sul tetto c’è ancora la piattaforma, con la scritta «landing» (atterraggio). Di fronte lo sovrasta un moderno palazzo, sede di un centro commerciale, con la scritta di un noto marchio estero di vestiti.

Il Vietnam di oggi ci appare moderno, sui palazzi fanno bella mostra mega schermi luminosi che trasmettono pubblicità di marchi occidentali, in città circolano fiumi di motorini, ma anche auto di lusso.

Si è lontanissimi dall’immaginario collettivo (occidentale) della «guerra del Vietnam», ma anche da quello che ci sia aspetta da un paese socialista.

Anniversario

La mattina del 30 aprile 1975 un carro armato dell’esercito della Repubblica democratica del Vietnam (Nord) abbatte il cancello del Palazzo presidenziale di Saigon. È questa l’immagine della caduta della Repubblica del Vietnam (il Vietnam del Sud) e della fine della guerra.

Quindici anni di una guerra civile devastante, condotta anche da un esercito di occupazione straniera, gli Stati Uniti, in un paese a basso reddito prevalemtemente rurale. Furono scaricate 14,3 milioni di tonnellate di bombe, più che in tutta la Seconda guerra mondiale (5 milioni), distrutte foreste con il napalm, contaminati centinaia di migliaia di ettari di terreno con agenti chimici.

Nella «guerra del Vietnam», chiamata dai vietnamiti «guerra americana», morirono tra i 2 e i 3,8 milioni di civili (a seconda delle stime).

L’esercito del Nord, e il suo alleato del Sud, il Fronte nazionale di liberazione (Fnl), persero circa 600mila unità. Mentre l’esercito del Sud, l’Arvn ebbe perdite per 230mila uomini. Gli Stati Uniti, che nel momento di maggiore intervento ebbero nel paese fino a 540mila soldati, persero 58.193 uomini.

Molte infrastrutture, le poche che c’erano, furno distrutte o danneggiate, al Nord come al Sud.

Questo conflitto (1960-1975), chiamato dagli storici Seconda guerra d’Indocina, fu preceduta dalla Prima guerra d’Indocina, la guerra d’indipendenza dalla colonizzazione francese (1945-1954).

Due sistemi

Il 2 luglio 1976 nasceva la Repubblica socialista del Vietnam (Rsvn), che univa due territori, Nord e Sud, sui quali, durante vent’anni, erano stati sperimentati sistemi politici ed economici completamente diversi (si veda la Cronologia). La divisione era stata sancita dagli accordi di Ginevra del 1954.

Oggi il Vietnam è una delle maggiori economie dell’Asia, ha cento milioni di abitanti, ha rapporti diplomatici e commerciali con molti paesi, anche di schieramenti opposti, fa parte di importanti organizzazioni internazionali e associazioni economiche di stati (come l’Asean, Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico). Un successo importante ottenuto in pochi decenni. Vediamo come.

 I «due» paesi che si riunificano

Il Nord Vietnam, la Repubblica democratica del Vietnam, è stato governato con il sistema comunista, dal partito unico, con assenza totale di voci di dissenso rispetto alla linea politica centrale. L’unità di comando è stata, tra gli altri, uno dei fattori di vantaggio del Nord.

Nel Sud, la Repubblica del Vietnam, al contrario, pur essendo governata da un regime dittatoriale e oppressivo, aveva visto un’opposizione politica, a livello di partiti, numerosa, come pure gli intellettuali e la società civile attiva, sempre molto presente.

Era a Sud che era nato il Fronte nazionale di liberazione del Sud Vietnam, fondato nel 1960 come organizzazione formale della rivoluzione sudvietnamita. Il suo braccio militare erano le Forze armate di liberazione del popolo. Si opponevano al regime di Saigon e al suo alleato statunitense. Facevano parte del Fronte le sensibilità politiche più diverse, non solo i comunisti, ma i suoi membri furono genericamente chiamati «Vietcong» (da cong san, comunista).

Sul piano economico, alla fine della guerra, il Nord si ritrovava con un’industria in ritardo a livello tecnologico e produttivo rispetto al Sud e aveva subito forti danni a causa dei bombardamenti a tappeto degli americani.

Il Sud, invece, aveva beneficiato dell’apporto statunitense, in termini di fondi e investimenti nello sviluppo infrastrutturale (strade, porti, piste di aviazione, distribuzione elettrica e di telecomunicazione). Inoltre, fabbriche tessili, chimiche ed elettroniche erano state create con capitali taiwanesi, della diaspora cinese e sudcoreani.

Il Sud aveva visto una riforma agraria (1971) che aveva portato all’eliminazione del latifondo e della mezzadria, mentre si era fortemente rafforzato il piccolo imprenditore agricolo. Anche grazie all’appoggio tecnico americano la produzione e la produttività del riso era aumentata notevolmente nel bacino del delta del Mekong, già granaio risicolo del Paese.

La guerra aveva però creato molti danni. Gli sfollati erano stati circa due milioni tra il 1965 e il ‘75. Molte foreste erano andate distrutte, mentre ettari di territorio erano inquinati dagli agenti chimici (come l’agente arancio) che avrebbe creato danni alle generazioni successive per decenni (fino ad oggi). Sarebbe stata necessaria una bonifica su ampia scala.

La partenza improvvisa degli americani aveva, inoltre, creato disoccupazione che aveva toccato tra 1,3 e 1,5 milioni di persone.

Turisti nella città di Ho Chi Minh (foto Marco Bello)

Riunificazione come?

Parte dei rivoluzionari del Sud, riuniti nel Governo rivoluzionario provvisorio (Grp), organizzazione politica clandestina dei rivoluzionari del Sud istituita nel 1969, spingevano per un approccio di «riconciliazione nazionale».

I loro alleati, i dirigenti comunisti di Hanoi, forti della presenza militare, impostarono invece un trasferimento del sistema del Nord al Sud, in modo brusco e senza adattamenti. Tutta l’organizzazione venne centralizzata sul potere del partito comunista ad Hanoi. Il regime economico sociale e politico diventò di modello stalinista sovietico.

In agricoltura, le grandi proprietà furono confiscate e quelle piccole collettivizzate nelle cooperative. Operazione che non funzionerà, perché gli imprenditori contadini rifiuteranno di entrarvi.

I funzionari civili e militari sotto il regime del Sud vennero licenziati e mandati in campi di rieducazione politica. Alcuni vi restarono pochi mesi, altri fino a dieci anni. Si stima che 165mila persone morirono in questi campi e nelle prigioni, mentre centinaia di migliaia di altre intrapresero la pericolosa via dell’esilio, fuggendo con ogni mezzo, in particolare via mare (il fenomeno dei boat people durò, in questa fase, dal ‘76 al ‘79). A esse si aggiungono quelle fuggite prima del 1975, con l’avvicinarsi della caduta di Saigon.

Il bilancio fu una notevole perdita di capitale umano e professionale per il Vietnam riunificato.

Il partito, inoltre, impostò un sistema di controllo territoriale capillare: quartiere, domicilio, permessi per viaggiare, razionamento alimentare.

A livello internazionale, la Rsvn aderì al Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica), il blocco commerciale dei paesi socialisti.

Nel 1979 il Vietnam occupò militarmente la Cambogia e rovesciò il regime dei Khmer rossi di Pol Pot. Si ritirerà solo dieci anni più tardi. Pol Pot aveva cercato di riprendere alcuni territori cambogiani acquisiti da Hanoi. A Nord la Cina, alleata dei Khmer rossi, sconfinò occupando alcune città per un mese. Migliaia vietnamiti di etnia cinese (han) fuggirono dal paese. Entrambi i conflitti ebbero costi notevoli per la neonata Rsvn.

I limiti del modello stalinista

Nei primi anni Ottanta, il sistema imposto portò a una crisi della produzione alimentare, che generò una penuria di cibo, difficoltà di approvvigionamento delle città, e una diffusa malnutrizione nelle campagne. Nel 1986 l’inflazione si attestava al 1.000%. Era il fallimento del modello socialista sovietico.

Già nel 1982, al quinto Congresso del Partito comunista vietnamita, il segretario generale Le Duan (successore di Ho Chi Minh alla sua morte il 3 settembre 1969) ammetteva le difficoltà economiche e sociali del Paese.

Sul piano internazionale il 1986 è l’anno nel quale Michail Gorbatchev lanciava la Perestroika e la Glasnost in Unione Sovietica. Iniziava la crisi del socialismo reale. Nello stesso periodo, in Cina, Deng Xiaoping iniziava le riforme economiche. Riforme osservate attentamente dai dirigenti vietnamiti. Anche il sistema del Comecon iniziava a scricchiolare.

(foto Marco Bello)

L’era del «Doi moi»

È al sesto congresso del Pcv, a fine 1986, che il nuovo segretario Nguyen Van Linh lanciava un’era di riforme fondamentali. Chiamato «Doi moi» (rinnovare) prevedeva il riconoscimento del libero mercato e di un settore privato dell’economia.

«La riforma globale conosciuta come Doi moi è stato la realizzazione progressiva di microriforme locali o settoriali, distribuite tra il 1979 e il 1986», scrive lo storico franco-vietnamita Pierre Brocheux. «Dal 1979 inizia a essere riconosciuta l’importanza del nucleo famigliare, insieme a quello dello Stato e della collettività. È un cambiamento di prospettiva, fondamentale per le riforme del Doi moi che seguiranno», riporta ancora lo storico.

Negli anni successivi (1987-1988) il governo varò una serie di decreti per la liberalizzazione dell’economia nei diversi settori: investimenti stranieri, terra, commercio estero, agricoltura e gestione delle industrie di Stato.

Nel settore agricolo, nel 1988 iniziava la decollettivizzazione e la ridistribuzione della terra ai produttori agricoli in funzione della dimensione famigliare. Di fatto si trattava di una nuova riforma agraria, il passaggio da sfruttamento collettivo (che non aveva funzionato) a sfruttamento famigliare.

L’anno successivo il Vietnam passava da un’economia dirigista, centralizzata e interna a un’economia regolata dal mercato e orientata all’estero.

L’agricoltura come propulsore

Nell’era del Doi moi, l’agricoltura diventa la principale spinta economica del paese riunificato. Liberando i contadini dalle regole socialiste, le costrizioni della produzione collettivista si assiste a un’esplosione di produttività e produzione.

Importante è anche l’investimento in sviluppo delle infrastrutture (come l’idraulica agricola).

In pochi anni il Vietnam diventa secondo produttore mondiale di riso. Aumenta anche la produzione di mais e le coltivazioni commerciali da export. Tra queste, il Paese diventa il secondo produttore mondiale di caffè, posizione che mantiene a tutt’oggi.

La produzione di generi alimentari passa da una media di 265 chili per abitante nel 1980 (insufficiente in quanto il minimo necessario è valutato a 300 kg) a 470 kg nel 2003.

L’industria di manifattura

I dirigenti vietnamiti abbandonano l’idea di sviluppare l’industria pesante, occorrono grossi investimenti e molto tempo. Come in diversi altri Paesi della regione, viene, invece, spinta la manifattura per l’export. È concorrenziale in diversi settori (agroalimentare, tessile, confezioni e cuoio), grazie al basso costo della manodopera. Si assiste negli anni Ottanta a un aumento del commercio estero. In parallelo, per rispondere alle esigenze industriali, viene sviluppata la produzione di energia da diverse fonti: idroelettrica, idrocarburi e gas.

A livello di commercio estero, la crisi del Comecon porta il Vietnam a entrare nell’Asean (Associazioni delle nazioni del Sud Est asiatico), nell’Apec (Asia Pacific economic cooperation) e poi ad aderire al Wto. Nel 1995 riprende i rapporti con gli Stati Uniti.

Il Doi moi ha portato la crescita del Pil vietnamita oltre il 7% già nel 1990, fino al picco dell’8,5% nel 2007.

La «diplomazia del bambù»

Nel settembre 2023, Joe Biden, in visita ad Hanoi invitato dal segretario generale Nguyen Phu Trong (2011-2024), firma il «partenariato strategico integrale», elevando gli Usa al massimo grado di partenariato commerciale (insieme a Cina, Russia, India e Corea del Sud). Gli Stati Uniti sono oggi il primo mercato di export per i prodotti vietnamiti.

Il Vietnam è integrato nella comunità internazionale, è membro di decine di organizzazioni sovranazionali e partecipa a 15 accordi commerciali.

Molto si deve alla strategia diplomatica formulata proprio da Trong nel 2016 e formalizzata nel 2021, nota come «diplomazia del bambù», ovvero con «radici forti, tronco robusto e rami flessibili».

Strategia che gli permette di avere relazioni con Cina, Russia e, appunto, Stati Uniti. Dopo la visita di Biden, Trong ha accolto Xi Jinping e, un mese prima di morire (19 luglio 2024), anche Vladimir Putin (la Russia rimane il principale fornitore di armi). La sfida di un posizionamento sempre più da equilibrista in un’era oramai post Doi moi, è stata ereditata dal successore di Trong, il nuovo segretario To Lam.

Marco Bello

(foto Marco Bello)


Dalla Costituzione alle «braci ardenti»

Il «Doi moi» e la politica

Il Doi moi, varato ufficialmente a fine 1986, si innesta nel periodo storico del fallimento degli stati socialisti europei fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Lo stesso anno in Cina ci fu la repressione di
piazza Tienanmen.

In Vietnam, i primi anni delle riforme economiche sono accompagnati da un rinnovato desiderio comune di libertà e democrazia, aiutato anche dal contesto mondiale. Viene pubblicato il testo integrale del testamento di Ho Chi Minh, il pensiero del padre della nazione tende a sostituire l’ideologia marxista. Giovani, scienziati e scrittori guidano un’opinione pubblica attiva e fanno nascere club e associazioni.

Tra il 1987 e il 1991, diversi scrittori e giornalisti si esprimono chiedendo maggiori libertà, diritti e multipartitismo. Le critiche, talvolta, arrivano dall’interno del partito stesso. Diversi sono i movimenti di contestazione e rivendicazione.

La nuova Costituzione

Mentre alla fine degli anni Ottanta il partito sembra permissivo, nel 1991 cambia strategia, e inizia a reprimere le opinioni e le azioni che promuovono un’evoluzione democratica. Intanto continua a mandare avanti le riforme economiche. Da quel momento, chi si espone in favore di maggiori libertà, viene incarcerato o deve scegliere l’esilio.

Nel 1992 è varata la nuova Costituzione. In essa è sancito il rispetto di tutti i diritti umani fondamentali. Vi è, inoltre, definito che, a livello strutturale, il partito comunista è presente a monte e a valle del processo di legislazione, esecuzione e controllo.  Nella pratica, la politica resta di tipo leninista, per cui, anche se la Costituzione riconosce i diritti fondamentali dei cittadini, il partito-stato non tollera alcuna contestazione del suo potere e dell’esercizio dello stesso. Chi si espone viene arrestato, o costretto in residenza sorvegliata, per impedirgli di nuocere.

(foto Marco Bello)

L’opposizione

L’opposizione politica, fino dal 1976, è in esilio, in particolare negli Usa e in Australia. Dopo qualche tentativo di tornare nel Paese con incursioni armate, nei primi anni Novanta preferisce un metodo di lotta chiamato «sovversione pacifica».

Tra il 2006 e 2007 si forma una coalizione di gruppi dissidenti, il Bloc8406, che rivendica riforme democratiche e rispetto degli impegni internazionali su diritti e libertà. Ne fanno parte attivisti come giuristi, ex membri del partito ed ex militari e altri intellettuali. Il regime li fa incarcerare quasi tutti tra il 2007 e il 2008.

Dal 2009 imprigiona pure blogger e giornalisti, anche per pubblicazioni sui social media. Situazione che continua ancora oggi. I dissidenti iniziano a contestare la corruzione diffusa a tutti i livelli e legata alle concessioni di terreni a imprese minerarie, che nuocciono all’ambiente e aprono, sostengono, le porte alla Cina.

Con l’avanzare del Doi moi, intanto, aumenta la crescita economica, gli investimenti stranieri, la speculazione immobiliare, e quindi le occasioni di un arricchimento facile.

Le contestazioni fondiarie si moltiplicano, i terreni sono espropriati per impiantare fabbriche, strutture turistiche e altre opere di interesse pubblico. La popolazione protesta contro gli indennizzi giudicati dai contadini troppo bassi.

A partire dal 2013 il partito inizia una vasta campagna anticorruzione, voluta dal segretario generale Nguyen Phu Trong (2011-2024), chiamata «braci ardenti», tutt’ora in atto. Diversi alti funzionari vengono rimossi, anche ai massimi livelli.

Ma.B.

(foto Marco Bello)

Cinquemila anni di storia

Cronologia di base

Dal 2.900 a.C. Presenza di regni nel Nord dell’attuale Vietnam, con a capo la dinastia Hong Bang (o dinastia Lac).

Dal 111 a.C. al 938 d.C. Dominazione cinese, con interruzione nel 40-43 d.C. (rivolta delle sorelle Trung), nel 222-248 (rivolta della guerriera Ba Trieu) e nel 544-602 (prima dinastia Ly).

Inizio secolo XVI. Arrivo di commercianti portoghesi e dei primi missionari che si fermano.

1858 – La flotta dell’ammiraglio Rigault de Genouilly sbarca nel golfo di Da Nang (centro dell’attuale Vietnam). Inizia la colonizzazione francese.

1940 – A causa della Seconda guerra mondiale, i Giapponesi invadono il Vietnam e inizia un periodo di coabitazione tra i due occupanti. Iniziano anche le insurrezioni armate, decise dal partito comunista (fondato nel 1930 da Ho Chi Minh), anche se gli indipendentisti sono di diverse tendenze politiche.

1941 – Ho Chi Minh, nato nel 1890 e andato all’estero nel 1911, torna in Vietnam e crea i Vietminh, per combattere giapponesi e francesi e ottenere l’indipendenza.

1945, agosto. Il Giappone è sconfitto nella Seconda guerra mondiale e si ritira. Il 2 settembre Ho Chi Minh proclama la Repubblica democratica del Vietnam (Rdvn) ma, di fatto controlla solo il Nord. L’esercito britannico arriva a Sud, e presto restituisce l’autorità ai francesi.

1946 – Attacco delle forze vietminh contro i francesi, inizia la Prima guerra d’Indocina che vede opporsi i rivoluzionari nazionalisti, di varie tendenze, insieme per scacciare i colonialisti francesi e raggiungere l’indipendenza.

1954 maggio. Vittoria decisiva dei Vietminh contro i francesi a Dien Bien Phu, nel Nord. A luglio, con firma degli accordi di Ginevra, il paese viene diviso «provvisoriamente» in due all’altezza del 17° parallelo. A Nord si concentrano le forze comuniste nella Rdvn, a Sud quelle fedeli ai francesi nella Repubblica del Vietnam (Rvn). Sono previste elezioni per la riunificazione entro due anni, ma non verranno mai fatte. Inizia un esodo di nord vietnamiti da Nord a Sud, circa un milione, prevalentemente cattolici. Una minoranza di ex combattenti Vietminh, originari del Sud, resta in quella parte del paese.

1955 – Gli statunitensi rimpiazzano i francesi come consiglieri militari del Sud Vietnam. Prende il potere Ngo Dinh Diem, già primo ministro, destituendo l’imperatore Bao Dai. Unione Sovietica e Cina iniziano l’assistenza al Vietnam del Nord. Una grave carestia colpisce il Nord, un milione di persone patisce la fame.

1960 – Nasce ad Hanoi il Fronte nazionale di liberazione del Sud Vietnam. I suoi membri sono chiamati Vietcong (comunisti) dal governo del Sud, in senso dispregiativo. È composto da forze del Sud di diversa tendenza, nazionalisti che vogliono l’indipendenza e la riunificazione. Intanto, continuano ad arrivare militari americani come consiglieri. Nel 1962 sono già 12mila. Toccheranno il massimo di 543mila soldati nel 1969.

1965 – Cominciano massicci bombardamenti americani nel Nord, che si ripeteranno negli anni.

1969 – Iniziano i colloqui di Parigi sul Vietnam. Saranno interrotti e ripresi nel ‘72 e poi nel ‘73. Il 2 settembre ‘69 Ho Chi Minh muore ad Hanoi.

1973 – Riprendono i colloqui che portano alla firma del cessate il fuoco il 27 gennaio. Sono firmati dai rappresentanti di Rdvn (Nord), Rvn (Sud), Governo provvisorio rivoluzionario (Gpr, vietcong) e Stati Uniti. Mettono fine all’intervento Usa che terminerà il ritiro delle truppe a fine marzo. Il Gpr e il governo del Sud dovrebbero formare un governo di coalizione a tre, oltre a Vietcong e regime del Sud, dovrebbe partecipare la «Terza forza», l’opposizione non comunista del Sud. Non ci riusciranno per le resistenze di Saigon.

1974 – Riprende la guerra tra vietnamiti, senza l’intervento americano.

1975, 30 aprile. Le forze comuniste, composte dall’esercito nordvietnamita e da quello di liberazione del Sud, conquistano Saigon. Il giorno prima, erano stati evacuati gli ultimi americani. Con loro l’ambasciatore Graham Martin.

1976, 2 luglio. Proclamazione della Repubblica socialista del Vietnam unificato.

1976-’79. Prima ondata di boat people: partono con barche di fortuna in centinaia di migliaia. Tra loro chi ha collaborato con gli americani e il regime del Sud e chi teme i comunisti.

1978, 25 dicembre. L’esercito vietnamita entra in Cambogia e rovescia il regime di Pol Pot. Si ritirerà solo nel 1990.

1979, febbraio-marzo. Conflitto con la Cina che invade alcuni territori a Nord.

1986, dicembre. Varo ufficiale del Doi moi, le riforme del «rinnovamento».

1992 – Varo della nuova Costituzione.

1995 – Ripresa dei rapporti diplomatici con gli Usa, dopo la revoca delle sanzioni l’anno precedente (amministrazione di Bill Clinton).

2023, 10 settembre. Gli Usa firmano con la Rsvn il «partenariato strategico integrale», il massimo livello, fino a quel giorno ottenuto solo da Cina, Russia, India e Corea del Sud. In seguito, sarà firmato anche con Australia e Giappone.

Ma.B.

(foto Marco Bello)

Anno di grandi ambizioni

Verso il futuro: Politica, economia e infrastrutture

Il 2024 è stato un anno di  turbolenze politiche. Ma oggi la direzione de Paese è stabile. Una riforma dell’apparato governativo è in programma. Così come imponenti opere infrastrutturali. E il partito punta a una decisa crescita del Pil.

La prima metà del 2024 ha visto turbolenze politiche senza precedenti nel Vietnam. Il presidente Vo Van Thuong e il presidente dell’Assemblea nazionale, Vuong Dinh Hue, si sono entrambi dimessi nell’ambito della campagna anticorruzione in corso.

Thuong era in carica da poco più di un anno ed è stato il secondo presidente a essere costretto a dimettersi in altrettanti anni.

Poi, a luglio, il segretario generale di lunga data del partito comunista vietnamita (Pcv), Nguyen Phu Trong è morto all’età di 80 anni, dopo un periodo di malattia, interrompendo il suo terzo mandato come leader del Paese.

Da allora gli è succeduto To Lam, l’ex ministro della Pubblica sicurezza, mentre Luong Cuong è stato eletto presidente della Repubblica dall’Assemblea nazionale (ottobre).

Questa configurazione della leadership, insieme al primo ministro Pham Minh Chinh e al nuovo presidente dell’Assemblea nazionale Tran Thanh Man, è rimasta stabile, fornendo la calma necessaria dopo un periodo turbolento.

Ripresa economica

La stabilità ha contribuito a far sì che il Vietnam raggiungesse una crescita annua del Pil migliore del previsto, pari al 7,09% nel 2024, superando l’obiettivo del Governo che era del 6,5%.

La crescita trimestrale del Pil è aumentata in ogni trimestre dell’anno, raggiungendo il 7,55% nel quarto e guidando la quarta espansione annuale più alta degli ultimi 15 anni.

Il fatturato delle esportazioni e delle importazioni ha raggiunto un nuovo record, con il primo che ha raggiunto quasi 385 miliardi di dollari di valore, ovvero un aumento del 14,4% su base annua. Gli investimenti esteri diretti registrati, nel frattempo, sono stati di 31,4 miliardi di dollari, con il Governo che si è concentrato in particolare sui semiconduttori e l’intelligenza artificiale.

La concorrenza in questi settori è agguerrita a livello globale e soprattutto nel Sudest asiatico, con Malaysia, Indonesia e Thailandia che si sono assicurate importanti accordi di investimento da aziende del calibro di Google e Apple. Il Vietnam rimane un forte contendente, come evidenziato dal tanto celebrato annuncio di dicembre di Nvidia che investirà in ricerca e sviluppo nel Paese.

I funzionari puntano ora a una crescita del Pil dell’8% nel 2025 e, sebbene la performance dello scorso anno abbia gettato solide basi per un’ulteriore espansione, la dipendenza del Vietnam dal commercio estero rappresenta un rischio nel contesto dell’approccio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla questione.

Gli Stati Uniti sono il più grande mercato di esportazione del Vietnam, con un valore di 136 miliardi di dollari nel 2024 e, sebbene Trump non abbia preso di mira specificamente il Vietnam con la sua recente retorica, il Paese del Sudest asiatico ha il terzo più grande surplus commerciale con gli Stati Uniti dopo Cina e Messico.

Questa cifra ha raggiunto i 123 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente.

Allo stesso tempo, gli investimenti manifatturieri cinesi in Vietnam sono aumentati e hanno rappresentato il maggior numero di nuovi progetti di investimenti esteri diretti lo scorso anno. Ciò ha sollevato preoccupazioni sulla possibilità che le aziende cinesi utilizzino il Vietnam come canale di trasbordo per evitare le tariffe americane, anche se sono state trovate poche prove che ciò avvenga.

«Questo cambiamento manifatturiero è guidato da una combinazione di forze», ha dichiarato Dan Martin, international business advisor di Dezan Shira & Associates. «Da un lato, la geopolitica è al centro dell’attenzione, in particolare lo sono i dazi. Già durante la sua prima presidenza Trump ha utilizzato politiche commerciali aggressive che hanno provocato onde d’urto nelle catene di approvvigionamento globali, costringendo le aziende a ripensare le loro operazioni quasi da un giorno all’altro. Ora, con Trump 2.0 in pieno svolgimento e l’imprevedibilità delle sue tattiche commerciali intransigenti in aumento, le imprese si stanno preparando per quella che molti credono sarà un’ondata ancora più dura di misure protezionistiche. L’urgenza di proteggersi da questi rischi non è mai stata così grande».

Il primo ministro Pham Minh Chinh ha esortato le agenzie governative a prepararsi all’eventualità di una guerra commerciale globale, avvertendo che un tale evento «interromperebbe le catene di approvvigionamento e ridurrebbe i mercati di esportazione del Vietnam», riportano i media statali.

Analizzando altri settori dell’economia, si nota che il turismo ha registrato una forte crescita nel 2024. Gli arrivi internazionali hanno raggiunto i 17,6 milioni, con un balzo di quasi il 40% rispetto al 2023. La Corea del Sud e la Cina, a lungo i mercati chiave per il turismo in entrata, hanno guidato questa crescita e sono stati responsabili rispettivamente di 4,6 milioni e 3,7 milioni di arrivi.

Questo settore sembra destinato a crescere nel 2025. Gli arrivi internazionali a gennaio hanno infatti già raggiunto i 2,1 milioni, ovvero un’espansione del 36,9% su base annua. I funzionari hanno fissato l’obiettivo di raggiungere i 23 milioni di arrivi all’anno, spingendo per aumentare le entrate del turismo.

Ristrutturazione del governo

Mentre l’amministrazione Trump rappresenta un fattore esterno imprevedibile, il segretario generale To Lam sta perseguendo le riforme governative più ambiziose degli ultimi decenni. Numerosi ministeri si uniranno per modernizzare la governance e migliorare l’efficienza per affrontare i problemi di lunga data che riguardano la burocrazia, mentre le agenzie statali a tutti i livelli saranno semplificate.

Si prevede che circa il 20% dei dipendenti statali, ovvero circa 100mila persone, saranno tagliati con un risparmio di 5 miliardi di dollari, uno sforzo immenso che, se eseguito correttamente, andrà a beneficio di tanti, dai normali cittadini agli investitori stranieri (i costi sociali restano da valutare).

Molti dettagli di questa riforma rimangono poco chiari, mentre tutti i governi provinciali e le organizzazioni ufficiali dovrebbero avere presentato piani di ristrutturazione entro la fine del primo trimestre 2025. Questa razionalizzazione porterà al prossimo Congresso nazionale, previsto per gennaio 2026, quando sarà selezionata la leadership politica per i prossimi cinque anni.

(foto Marco Bello)

Grandi ambizioni

Allo stesso tempo, la leadership del Vietnam sta procedendo con scadenze aggressive sui principali progetti infrastrutturali ed energetici.

Alla fine dello scorso anno, l’Assemblea nazionale ha approvato la tanto discussa ferrovia ad alta velocità Nord-Sud, che dovrebbe costare 67 miliardi di dollari e collegare Hanoi a Città Ho Chi Minh con 1.500 chilometri di binari. Con un tempo di percorrenza stimato di cinque ore, questo rimodellerebbe drasticamente i viaggi nazionali, collegando un totale di 20 province e città. La tempistica di costruzione è molto ambiziosa, con l’inizio dei lavori previsto per il 2027 e i primi treni per il 2035.

Il Parlamento ha anche approvato la ripresa dello sviluppo dell’energia nucleare nella provincia di Ninh Thuan dopo che questo piano era stato accantonato per preoccupazioni sui costi nel 2016. All’epoca, due centrali dovevano essere costruite con il sostegno rispettivamente di Russia e Giappone.

Al momento non è chiaro chi fornirà supporto per il nuovo piano o quale tipo di reattori potrebbe essere utilizzato, ma la domanda di energia del Vietnam sta crescendo del 13% all’anno mentre il Governo si sforza di rispettare il suo impegno di emissioni nette zero entro il 2050.

Questo impegno ha creato tensioni riguardo alle politiche ambientali. Mentre la capacità di energia rinnovabile del Vietnam è cresciuta rapidamente nel 2018 e nel 2019, questa espansione è poi rallentata a causa di ritardi normativi, e le centrali elettriche a carbone rimangono la principale fonte di elettricità.

Hanoi e Città Ho Chi Minh devono entrambe affrontare un inquinamento atmosferico sempre più grave a causa delle centrali elettriche, dell’attività manifatturiera, delle emissioni dei veicoli e di altri fattori. Sebbene la consapevolezza di questo problema stia crescendo, l’azione di risposta ad alto livello è stata limitata.

Per quanto riguarda l’energia nucleare, il primo ministro Chinh ha incaricato Electricity Vietnam (Evn) e Petrovietnam, due imprese statali, di guidare gli investimenti nelle due centrali nucleari, coordinandosi con i partner internazionali sulla tecnologia richiesta. La russa Rosatom è un forte contendente per il coinvolgimento, mentre altri potenziali partner includono Cina, Giappone, Corea del Sud e Francia.

Chinh ha anche chiesto che entrambi gli impianti siano completati al più tardi entro la fine del 2031, una tempistica che sarà difficile da rispettare date le complessità dello sviluppo dell’energia nucleare.

I dazi di Trump, la ristrutturazione politica e grandi infrastrutture, sono le ambiziose sfide del Vietnam per il 2025.

Michael Tatarski
da Città Ho Chi Minh

(foto Marco Bello)

Senso di coesione e gioia di vivere

Le sfide della chiesa vietnamita

Dai primi missionari, giunti 500 anni fa, alla vitalità della Chiesa vietnamita di oggi. Le sfide sono tante, come l’inurbamento e l’avanzata della modernità. Ma la gente ha un innato senso del sacro. E le vocazioni, pure missionarie, sono tante.

Nel 2033 la Chiesa in Vietnam celebrerà il cinquecentesimo anniversario di presenza. L’evangelizzazione della regione iniziò nella seconda metà del XVI secolo con l’arrivo di mercanti e missionari portoghesi. I primi religiosi inviati in missione in questo bellissimo Paese dell’Estremo Oriente furono i francescani, seguiti dagli agostiniani, dai domenicani e, più tardi, dai gesuiti. Il più famoso di questi missionari fu padre Alexandre de Rhodes (1591-1660), missionario gesuita francese, che, mentre svolgeva la sua attività missionaria, trasformò profondamente la scrittura vietnamita. Trascrisse in alfabeto latino la lingua vietnamita, fino ad allora scritta in caratteri cinesi, includendo, sotto forma di «accenti diacritici», i cinque toni della lingua vietnamita (quốc ngữ).

Il cristianesimo si diffuse inizialmente nel Nord del Paese, tra le popolazioni locali, soprattutto nelle zone rurali. Nel XVIII e XIX secolo, diverse ondate di persecuzione colpirono i cattolici, accusati di essere alleati delle potenze coloniali europee, e fecero più di centomila martiri. A metà del XIX secolo, il Vietnam divenne colonia francese. La dominazione straniera permise l’espansione del cristianesimo, la creazione di nuove diocesi, e quella di scuole e ospedali. Nel 1946 iniziò la prima guerra d’Indocina, seguita dalla seconda. Con la vittoria dei comunisti iniziò un nuovo periodo di persecuzione. Intorno agli anni 2000, gradualmente, lo Stato è diventato più tollerante nei confronti della Chiesa cattolica vietnamita.

Libertà di culto

Attualmente, la Chiesa gode di una relativa libertà che le permette di organizzare le sue attività interne senza troppe restrizioni. I seminari e le congregazioni religiose possono accogliere e formare seminaristi, religiosi e religiose in completa autonomia, molte chiese, centri pastorali e luoghi di pellegrinaggio sono costruiti ai quattro angoli del Paese. Solo l’istruzione e la maggior parte delle istituzioni ospedaliere rimangono appannaggio dello Stato (ad eccezione degli asili nido e di alcune scuole tecniche).

In certe zone più remote, dove le comunità cristiane sono minoritarie, il numero dei sacerdoti e dei campanili è ancora limitato dal governo locale. Paradossalmente, in questo contesto di crescente libertà, la progressione del cristianesimo nella società vietnamita non c’è stata. La fede cristiana si trova piuttosto di fronte a un certo declino.

Dalle campagne alle città

Diversi fattori spiegano questa tendenza, mentre altri restano sfide per l’attività missionaria della Chiesa. Come è successo in Europa negli ultimi cinquant’anni, ma in maniera più accelerata, oggi il Vietnam è nella morsa di una drammatica migrazione dalle campagne alle città, unita a un calo significativo del tasso di natalità (anche se la crescita demografica è ancora positiva). I villaggi e il mondo agricolo sono abbandonati dai giovani, che lasciano un contesto familiare e tradizionale per entrare in un ambiente urbano molto più anonimo e stressante, dove l’accesso ai beni materiali è la principale preoccupazione delle persone. Certo, quando arrivano dalla campagna, questi nuovi abitanti portano anche la loro parte di freschezza, dinamismo e cultura, ma la città è un mondo frenetico dove non tutti trovano l’Eldorado. La Chiesa è consapevole dell’importanza di accogliere e accompagnare questi migranti, ma non sempre trova i mezzi per raggiungerli nelle loro preoccupazioni quotidiane, per formarli e per difendere i loro diritti sociali.

I diritti dei lavoratori non sono la preoccupazione principale dello Stato e la protesta sociale è disapprovata in un Paese in cui il governo centrale è forte. La vita nelle parrocchie è ancora molto incentrata sull’aspetto religioso (celebrazione delle messe, sacramenti, processioni), con impegni caritativi che compensano in parte i problemi sociali.

Innato senso del sacro

Tuttavia, due elementi lavorano a favore della Chiesa in Vietnam. Il primo è il senso tradizionale del sacro dei vietnamiti (e degli asiatici in generale). I vietnamiti dichiarano senza complessi la loro religione e, sebbene la maggior parte della popolazione non ne pratichi una quotidianamente, ne riconosce il lato positivo. La religione promuove la coesione sociale (un valore molto apprezzato in questa società influenzata dal confucianesimo), e i credenti sono generalmente impegnati in attività caritatevoli (che rafforzano la benevolenza del popolo nei loro confronti). La religione è anche sinonimo di pietà verso gli antenati, che è uno dei doveri fondamentali di tutti i vietnamiti. È l’antitesi della modernità occidentale che è stata forgiata nell’età dell’Illuminismo.

Il secondo elemento che gioca a favore della vitalità della Chiesa vietnamita è il ruolo decisivo che giocano le persone consacrate: sacerdoti diocesani, religiosi e religiose. Ce ne sono più di venticinquemila nel Paese e le loro generosità, autenticità e gioia di vivere sono riconosciute da tutti, sia nella Chiesa che fuori da essa. Tutti sono direttamente coinvolti nel lavoro parrocchiale. Inoltre, le suore sono attive al servizio dei più poveri, dei disabili, degli orfani e dei bambini piccoli.

Missionari vietnamiti

Il dinamismo della vita religiosa si riflette anche sull’attività missionaria verso l’estero. Mentre la Chiesa diocesana vietnamita (lo diciamo con grande rammarico) è poco consapevole e attenta alle necessità della Chiesa universale, per quanto riguarda i religiosi, la situazione è più diversificata e quindi positiva. Certo, molte congregazioni e membri di congregazioni non si sentono missionari ad extra, ma in molti altri casi, soprattutto per quanto riguarda le congregazioni internazionali, l’invio in missione è relativamente numeroso. La fiamma missionaria non è certo paragonabile a quella che l’Europa ha conosciuto per circa un secolo, ma bisogna riconoscere che molti religiosi vanno lontano, in tutti i continenti, spesso nelle Chiese locali in crisi e nelle società in gran parte scristianizzate.

Come i missionari di una volta, hanno dovuto abituarsi alla lingua locale, al clima, al cibo e alla mentalità degli indigeni, con vari gradi di successo. Ma la loro generosità è bella da vedere. Inoltre, in molti casi, come in quello delle generazioni missionarie del passato che si sono prese cura anche dei loro connazionali, i religiosi vietnamiti sono attenti anche alle comunità cristiane vietnamite espatriate, che hanno bisogno di fede e di sostegno fraterno per affrontare le sfide dell’adattamento in terra straniera. Certo, il mondo è complesso, le generazioni cambiano, la pluralità e la scristianizzazione sono fatti innegabili del mondo moderno, e il Vietnam non fa eccezione, ma due cose rimangono essenziali. Da una parte, il messaggio del Vangelo continua ad essere rilevante per gli uomini del nostro tempo, e molti cristiani ne sono consapevoli e si nutrono della Parola, dei sacramenti, della vita fraterna, pur impegnandosi al servizio dei fratelli. D’altra parte, come ci ricorda papa Francesco, dobbiamo sempre uscire dalla nostra zona di comfort, essere critici e avere il coraggio di correre il rischio dell’avventura missionaria. I cristiani vietnamiti sono persone straordinarie. Hanno un bel senso di coesione, una bella liturgia, una gioia di vivere, convinzioni e generosità che sono un tesoro per la Chiesa universale e per la società nel suo insieme.

Frédéric Rossignol


Il Vietnam in cifre

  • Superficie: 331.210 km2 (Italia 302.073)
  • Popolazione: 100,3 milioni (2023)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 107/191 (2024)
  • Pil: 429,72 miliardi di dollari (2023)
  • Pil procapite annuo: 4.282 (2023)
  • Crescita annua del Pil: +7,09% (2024)
  • Aspettativa di vita: 75 (2022)
  • Popolazione al di sotto della soglia di povertà
    (2,15 dollari US al giorno): 1%
  • Tasso di alfabetizzazione: 96%
  • Accesso alla rete elettrica: 100%.
  • Accesso a internet: 70%.

(foto Marco Bello)


Il Vaticano e la Repubblica socialista

Colloquio con monsignor Marek Zalewski

Abbiamo contattato monsignor Marek Zalewski, primo Rappresentante pontificio residente in Vietnam, per fare il punto sui rapporti tra il paese asiatico e il Vaticano.

Monsignor Zalewski, potrebbe riepilogarci il processo di riavvicinamento tra la Santa Sede e la Repubblica socialista del Vietnam?

«L’apertura dei rapporti con le autorità vietnamite, fino a quel momento molto timidi, risale al 1989, il tempo dei cambiamenti politici e sociali in Polonia e Ungheria, quando il cardinale Roger Etchegaray, allora presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, poté compiere una visita ufficiale in Vietnam. Infatti, il pensiero di Giovanni Paolo II era quello di aprire sentieri di dialogo attraverso i temi della giustizia e della pace, spesso negata in quel periodo in vari Paesi, caratteristici dell’insegnamento e della testimonianza quotidiana della Chiesa.

Si avviò, pertanto, la prassi della visita annuale di una delegazione della Santa Sede, dedicata in parte ai contatti con il Governo di Hanoi e in parte all’incontro con le comunità diocesane. Nel 1996 iniziarono i colloqui per definire un modus operandi relativo alla nomina dei vescovi in Vietnam. Le prime visite furono condotte dall’attuale segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, in qualità, allora, di sottosegretario per i rapporti con gli Stati, e poi continuati da altri monsignori sottosegretari.

Nel 2009 venne in Vaticano il Presidente vietnamita Nguyen Minh Triet per incontrare Papa Benedetto XVI. Si è quindi formato un Gruppo di lavoro congiunto Vietnam-Santa Sede, che ha aperto la strada alla nomina di un Rappresentante pontificio non residente in Vietnam, con base a Singapore, nella persona di monsignor Leopoldo Girelli, il 13 gennaio 2011.

Il miei primi contatti con il Vietnam risalgono proprio a quel tempo quando, all’inizio del 2011, sono stato trasferito dalla nunziatura apostolica in Thailandia a Singapore, come collaboratore di ruolo di monsignor Girelli, il primo nunzio apostolico residente a Singapore. Vi sono rimasto quasi due anni. Nel 2018 sono stato nominato suo successore, mantenendo lo stesso titolo.

Nel 2019 il Gruppo di lavoro congiunto, di cui ormai facevo parte, cominciò i negoziati sul testo dell’accordo, approvato solo nel 2023, che ha permesso di nominare la mia persona come Rappresentante pontificio residente in Vietnam. Il primo febbraio 2024 ho aperto l’Ufficio permanente della Santa Sede ad Hanoi, riconosciuto ufficialmente dal Governo della Repubblica socialista del Vietnam».

I cambiamenti al vertice del Partito comunista e alla presidenza della Repubblica, pensa possano cambiare qualcosa?

«I recenti cambiamenti ai vertici del Governo e del Pcv non devono sorprenderci, direi che siano la normalità nella politica. Sono convinto che le cordiali relazioni tra la Santa Sede e il Vietnam continueranno a portare buoni frutti, sempre nel segno del reciproco rispetto e della fiducia.

Il futuro, come si è espresso qualche tempo fa il cardinale Parolin, “ci chiama a un cammino da continuare a percorrere insieme, senza la pretesa o la fretta di raggiungere qualche altra meta, ma con la disponibilità di chi vuole confrontarsi per trovare il meglio. Il presente Accordo, quindi, non rappresenta solo un traguardo positivo, bensì un nuovo inizio, nel segno del reciproco rispetto e della reciproca fiducia”».

Il precedente presidente Vo Van Thuong, durante la sua visita nel 2023, ha invitato il Papa in Vietnam. Un viaggio sarà realizzabile a breve?

«La visita del Santo padre in Vietnam è una questione attuale e aperta. Il presente Governo afferma che tale invito è sempre valido e attende una visita apostolica in questo Paese, dove vivono più di sette milioni di cattolici. Tale tema fu brevemente discusso l’anno scorso, durante la visita ufficiale in Vietnam di monsignor Paul Gallagher, Segretario per le relazioni con gli Stati e organizzazioni internazionali. Esso verrà ripreso durante la prossima riunione del Gruppo di lavoro congiunto, prevista nell’arco di quest’anno in Vaticano.

La diplomazia pontificia non cerca di ottenere subito il risultato finale, ma favorendo una graduale armonizzazione del principio della libertà religiosa e giustizia con le leggi e le consuetudini locali, vuole favorire una maggiore comprensione reciproca e dialogo, i quali potrebbero permettere di adoperare alcune scelte concrete.

Per quanto riguarda un futuro viaggio apostolico, va rilevato che la Conferenza episcopale vietnamita (Cev) è sempre stata coinvolta in tale processo e ha offerto le proprie riflessioni e valutazioni.

La Chiesa in Vietnam è ricca di vocazioni e dobbiamo ringraziare Dio per questo dono. Vorrei sottolineare l’importanza di vivere il Vangelo con coraggio e fedeltà da parte dei cattolici vietnamiti, cioè essere “buoni cattolici e buoni cittadini”. Tale principio è stato richiamato da papa Francesco nella sua lettera ai cattolici in Vietnam del 2023».

a cura di Ma.B.

(foto Marco Bello)

Le religioni in Vietnam

Con il «Doi moi» le relazioni tra Stato e religioni entrano in una nuova fase. La Costituzione del 1992 sancisce la libertà di fede e culto, e un’ordinanza del 2004 ne precisa le modalità di applicazione. Lo Stato, però, proibisce e reprime ogni interazione tra la religione e la politica. Ad esempio, si giustifica l’arresto di un prete se questo è accusato di fare politica oppure di avere relazioni con gruppi di oppositori in esilio. Non sarebbe una politica antireligiosa, ma è lo Stato che si riserva l’esclusività della politica. Tuttavia, si sa, i confini tra politico, sociale e religioso non sono mai netti. Da notare che la cultura cristiana è stata riconosciuta come parte della cultura nazionale.

Le maggiori religioni praticate oggi

  • Buddhismo (scuola cinese o zen): oltre 10 milioni.
  • Cattolicesimo: 7 milioni.
  • Protestantesimo: 1,5 milioni.
  • Caodaismo (religione sincretica locale del Sud): 2,5 milioni.
  • Buddhismo Hao Hoa (setta basata sul buddhismo): 1,5 milioni.
  • Islam: 70mila (per lo più di etnia Cham, nel Sud)
  • Esistono poi decine di culti locali, seguiti da oltre un milione e mezzo di persone.

Letture consigliate

  •  Pierre Brocheux, Histoire du Vietnam contemporaire, ed Fayard 2011. Compendio di storia moderna.
  •  Tiziano Terzani, Pelle di leopardo, Tea 2024. Reportage di guerra di Terzani.
  •  Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Bur supersaggi 1989. La guerra vista da un giornalista americano con approfondimenti di politica Usa.
  •  Troung Nhu Tang, Memorie di un Vietcong, Piemme 2008. La guerra vista da un vietcong, tra i fondatori del Fnl, membro del Grp.
  •  Sandra Scagliotti e Fausto Cò, Vietnam, cent’anni di resistenza (1885-1975), Epics 2020. Raccolta di testi.
  •  Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, Neri Pozza 2016 (vincitore premio Pulitzer). Romanzo esemplare sulla guerra e sul dopo.
  •  Phong Nguyen, L’eco dei tamburi di bronzo, Piemme 2023. Romanzo storico sulla rivolta delle sorelle Trung.

Siti italiani sul Vietnam:


Hanno firmato il dossier

Michael Tatarski
Giornalista freelance statunitense, è basato a Città Ho Chi Minh da diversi anni.  Tra le altre cose cura il blog «Vietnam weekly». Ha scritto per The Washington Post, The Atlantic, The Telegraph e altri. È stato caporedattore del Saigoneer.

Frédéric Rossignol
Religioso della Congregazione dello Spirito Santo di origine belga. È stato missionario in Vietnam dal 2007 al 2023. Lavora a Roma come padre spirituale del Collegio San Paolo, che ospita sacerdoti studenti da Africa, Asia e America.

Marco Bello
Giornalista, direttore editoriale di MC.

(foto Marco Bello)




Contro l’inverno dell’incredulità (Gv 10,22-42)


Il Vangelo di Giovanni è diviso sostanzialmente in due parti: la prima è zeppa di discorsi, polemiche e «segni». «Segni» è la parola che l’evangelista usa per indicare i miracoli, e non a caso, in quanto, per la sua teologia, non sono semplicemente «prodigi», ma fatti che rimandano ad altro, a qualcosa di più importante. La seconda parte del Vangelo si concentrerà invece sulla croce.  Il capitolo 11, con l’episodio della rianimazione di Lazzaro, sembra quasi mettersi a metà, come punto di passaggio.  Con gli ultimi versetti del decimo capitolo, insomma, Giovanni ci conduce alla fine della prima parte del suo Vangelo. E siccome sa scrivere, dissemina il suo testo di indizi che per aiutarci a concentrarci sul nucleo del discorso: il ruolo di Gesù e il volto del Padre.

Dal tempio al Giordano (Gv 10,22-42)

Questo viene suggerito in modo discreto, nella seconda parte di questo decimo capitolo, dal trucco tutto letterario, che ci può colpire per diverse ragioni: il brano comincia con Gesù nel tempio di Gerusalemme circondato da tanta gente accorsa per la festa della dedicazione, e finisce con Gesù in un luogo solitario, deserto, in riva al Giordano. Tempio e fiume, due elementi a prima vista poco legati tra di loro.

Per il primo elemento, Giovanni parla della «festa della dedicazione», una festa generalmente poco sentita, anche se per alcuni aveva un valore simbolico rilevante: faceva memoria della nuova dedicazione del tempio ad opera dei Maccabei (1 Mac 4,56-59). Questi erano dei fratelli che avevano consacrato la loro vita alla rivolta religiosa contro i sovrani greci (eredi di Alessandro Magno) che avevano voluto imporre i loro dei. La loro era stata un’interpretazione rigida e integralista della scelta religiosa, un deciso rifiuto dei poteri mondani per dare spazio totalmente a Dio. Quella dei Maccabei era stata una lotta spirituale che si era imposta con la forza sul mondano e sul politico, anche se, purtroppo, la loro rivolta, dopo di loro, era finita in una piena commistione tra potere religioso e potere politico con i sovrani asmonei di cui l’ultimo rappresentante importante sarebbe stato Erode.

Il secondo elemento, il fiume, viene introdotto alla fine del capitolo, quando Giovanni racconta che Gesù torna al Giordano, là dove aveva ricevuto il battesimo dal Battista, un profeta che, in qualche modo, segnava l’alternativa più lontana dallo stile dei Maccabei: un profeta solo, che operava in zone disabitate, che rimandava a una concezione antica di Dio, e lo faceva fuori dalle strutture organizzate, lontano dal tempio. Il testimone di una religiosità da cui Gesù si era lasciato affascinare. Ma dov’è il Dio più autentico: nell’apparente irrilevanza del Battista, o in una religione che si impone, come quella dei Maccabei?

Gesù vero uomo (v. 22-23)

Il Vangelo di Giovanni si presta a una lettura molto disincarnata. Nella storia del cristianesimo è spesso stato considerato il «Vangelo spirituale». Eppure, già dal prologo (Gv 1,1-18) insiste sulla «carnalità» del Verbo. Anche in questo brano, quasi senza farsene accorgere, Giovanni sottolinea la concretezza della vita di Gesù.

Dice infatti che era la festa della Dedicazione (v. 22). E che era inverno (o «faceva brutto tempo», come forse sarebbe più opportuno tradurre, dato che per i primi lettori di Giovanni era ovvio che la festa della dedicazione fosse d’inverno, dal momento che arrivava intorno alla metà di dicembre). E Gesù camminava nel portico di Salomone. Sembrano tre osservazioni superflue, scollegate e inutili. Ma chi il tempio lo aveva visto (quando Giovanni scrive, è già stato distrutto), sapeva che il suo cortile interno era cinto da quattro porticati, oltre i quali un muro separava dal resto del santuario. E chi a Gerusalemme c’era stato, sapeva che d’inverno spesso sulla città tirava un vento freddo da oriente. Stando sotto quel portico, con un muro a chiudere il lato Est, quel vento si sentiva meno. Pare, insomma, la descrizione di chi quegli ambienti li conosceva, li aveva frequentati. Perché Gesù è stato una persona vera. Esposto anche a patire il freddo in una ventosa giornata d’inverno. Colui che, tra un attimo, pretenderà di essere come Dio, è pienamente inserito nella nostra umanità anche nei suoi aspetti più superficiali e secondari.

Gesù il Cristo (vv. 24-28)

È in questo momento, durante la festa meno affollata, che gli interlocutori di Gesù pretendono una risposta definitiva, chiara, incontrovertibile: «Se sei il Cristo, sii chiaro» (v. 24).

La risposta di Gesù è netta ed esplicita: «Ve l’ho già detto, e i segni che compio lo confermano. Ma voi non capite la mia voce». Gesù aveva appena parlato del gregge e del pastore, affermando che le pecore non seguono un ladro, uno che non è di quell’ovile. Le pecore seguono il pastore perché ne riconoscono la voce, pur senza saper descrivere come sia fatta. Semplicemente, lo sentono e lo riconoscono come loro. Se quindi delle pecore non riconoscono il pastore, significa che quest’ultimo è un ladro o che le pecore non sono del suo gregge. Gesù e i suoi contestatori non si appartengono, non si riconoscono.

Questi giudei che muovono obiezioni a Gesù vorrebbero una prova incontrovertibile, definitiva del suo essere il Messia. Ma nelle relazioni più profonde e vere questa prova non esiste, c’è solo la percezione di una sintonia, di una vicinanza, di un’appartenenza reciproca. È curioso che la formula utilizzata dai giudei per chiedere che Gesù sia chiaro («Fino a quando ci terrai nell’incertezza?», v. 24), alla lettera dica «fino a quando prenderai la nostra vita, la nostra anima?».

Per questo motivo, nella risposta, Gesù precisa che è lui a donare la propria vita per le sue pecore (v. 28), una vita senza fine. È la sorpresa di chi incontra Gesù, di chi crede di andare in cerca di un Dio da onorare, servire, riverire, e si scopre, invece, coinvolto in una relazione personale, sfuggente e arricchente come tutte le relazioni, e, in più, in una relazione in cui riceve più di quello che dà.

Gesù Dio (vv. 29-38)

Nei versetti che seguono, sembra che Gesù cambi argomento. Dice che nessuno potrà togliergli le pecore cui dona la vita eterna. Perché è il Padre ad avergliele date. Quel Padre che è più grande di tutti. Gesù dona la sua vita alle pecore e le custodisce e «non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano».

Siamo già lanciati verso l’affermazione che segue: «Io e il Padre siamo una cosa sola». Anche se l’evangelista è spesso ambiguo e questa affermazione ha suscitato molte discussioni nella Chiesa antica, è nel suo genere chiarissima. I due restano due, non sono amalgamati in un essere solo; eppure, i due sono una cosa sola. Come in una coppia di innamorati, i due restano distinti e distinguibili, eppure sono una nuova realtà fatta dei due insieme.

L’ascolto è incontro

Gli interlocutori di Gesù stavolta capiscono subito, e prendono le pietre per lapidarlo, perché, a parere loro, facendosi uguale a Dio, ha bestemmiato. Ma è proprio qui che si coglie la differenza tra ciò che loro si aspettano e ciò che, invece, Gesù è venuto a rivelare. Quella che Gesù spera da noi, non è una fede fondata su una dimostrazione, su una prova inconfutabile, ma, come nelle relazioni, sull’accoglienza, la custodia, la capacità di interiorizzare. Occorre fidarsi di ciò che ascoltiamo, mettersi in gioco o rifiutarlo. Occorre ascoltare e intuire, mettersi in cammino o andarsene.

È a questo livello che possiamo cogliere che Gesù e il Padre sono una cosa sola, che vedere Gesù, con tutte le sue scelte, a volte difficili da comprendere, e le sue attenzioni delicate, significa vedere il cuore del Padre all’opera.

E infatti la «prova» che Gesù offre non è teologia, non è filosofia sui massimi sistemi, ma qualcosa di molto concreto e tangibile: «Mostratemi le mie opere cattive; oppure ammettete che sono opere che vengono dal Padre» (v. 38).

In un ragionamento filosofico, il centro sono argomentazioni logiche. La verifica che Gesù offre ha, invece, al centro le azioni, la vita concreta. Ma questa concretezza va interpretata, bisogna coglierne il senso. Come quando le pecore riconoscono la voce del pastore, non perché saprebbero descriverla razionalmente, ma perché parla alla loro intuizione, al loro cuore. Si tratta di un processo di interpretazione, ma che fa appello più ai sentimenti (non le emozioni superficiali, ma il sentire profondo) che alla ragione: è questo il modo in cui Maria Maddalena al sepolcro, sentendo pronunciare il suo nome, riconosce il Signore risorto (Gv 20,16).

Risposta da innamorati

Quello che Gesù ci chiede è di intuire nelle sue azioni lo stile di Dio: si tratta di interpretare, di scommettere, sulla base di qualcosa di concreto. Quello che, invece, gli avversari di Gesù cercano è una dimostrazione incontrovertibile, che parli alla ragione e non consenta interpretazioni diverse. Loro cercano una prova scientifica, lui offre le ragioni del cuore. Quando si tratta del senso della nostra vita, sono queste ultime a contare davvero.

Così, Gesù attesta qual è il modo di fare di Dio, il vero volto del Padre: non mostra un Dio che gestisce un potere, che offre la sicurezza di risposte chiare e obbligatorie, ma un Dio innamorato che sogna una relazione. A un innamorato che ci provoca alla relazione risponderemmo, come fanno i giudei con Gesù, «Allora, adesso dimostrami in modo univoco che tu mi ami»?

Segni e parole (vv. 39-42)

La scena seguente nella quale i giudei cercano di afferrare Gesù (v. 39) senza riuscirci, è molto significativa: secondo gli argomenti della loro teologia, Gesù ha bestemmiato, perché ha azzerato la distanza tra Dio e l’uomo. Cercano di incasellarlo nei loro schemi sicuri. Il Signore però sfugge dagli schemi. Per questo Giovanni non si preoccupa di descrivere come fa concretamente a sfuggire dalle mani dei Giudei. La cosa importante è sapere che Gesù è libero, tanto libero che, più avanti, al Getsemani, sarà chiaro che verrà arrestato solo perché sarà lui a lasciarsi prendere.

Dopo la disputa nel Tempio, Gesù torna al Giordano, dove tutto era iniziato. Il volto del Padre lo si vede qui, in una relazione fatta di fiducia, sfuggente e promettente, autentica, ma senza garanzie, come tutte le nostre relazioni più profonde e vere.

Al Giordano, molti credono in Gesù (v. 42), perché è qui che si vede Dio, dove sono chiamati a mettersi in gioco, a decidere. È qui che Gesù ha scoperto il volto del Padre, come raccontato dagli altri evangelisti che i lettori di Giovanni certamente già conoscono.

Non è allora per polemica o per caso, che l’autore del Vangelo aggiunge un’ultima annotazione (v. 41): la folla nota che il Battista non aveva fatto segni, anche se aveva parlato di Gesù dicendo cose vere (in Gv 1,36: «Ecco l’agnello di Dio»). Si rende merito al precursore, che ha saputo vedere la realtà, benché questa non si imponesse, perché Gesù è apparentemente uno come gli altri, e nello stesso tempo si ammette che quella realtà Giovanni non sapeva cambiarla, e che, comunque, anche il cambiamento portato da Gesù è solo un «segno», rimanda ad altro di più profondo e ulteriore.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 13 – continua)




Guatemala. Gli scienziati dell’acqua


Lo sfruttamento minerario comporta sempre delle conseguenze. Un gruppo di giovani Xinka lo contrasta dimostrando con prove scientifiche l’inquinamento prodotto.

Regione di Santa Rosa. È un sabato mattino di novembre e Diana Carillas Pacheco, 18 anni, cammina insieme a sua zia Ruth Isabel Pacheco Ramírez, appena 24enne, su una collina arida e spoglia di vegetazione. La superficie è ricoperta di rocce e pietre irregolari, resti di una miniera d’argento artigianale attiva nei primi anni del XX secolo a Morales, un villaggio di Mataquescuintla, nella regione di Santa Rosa, ultimo baluardo sud-orientale del Guatemala.

Il sole accecante si riflette sulle pietre, amplificando il calore e rendendo la passeggiata delle due ragazze ancora più faticosa del normale. Su quel terreno desolato non cresce nemmeno un filo d’erba. Anche se l’attività estrattiva è cessata circa 90 anni fa, il suolo è rimasto sterile e pietroso, senza ombra di vita.

La miniera della Escobal de Pan American Silver, a San Rafael las Flores (Santa Rosa), continua con lavori di manutenzione, anche se le operazioni minerarie sono bloccate dal 2017. Foto Simona Carnino.

L’eredità della miniera

Dopo circa dieci minuti di camminata e sudore, Diana e Ruth arrivano a una piccola pozza di acqua torbida che proviene da una stretta galleria dall’entrata irregolare, residuo della vecchia miniera sotterranea.

Diana apre una valigetta nera e tira fuori fiale e boccette, un cucchiaino dosatore, reagenti e alcune strisce di carta contenute in una busta d’argento. L’etichetta è chiara: «Kit per il test rapido dell’arsenico».

Con calma, prende in mano una fiala, si sporge dal parapetto della pozza, preleva un campione d’acqua, lo mescola con i reagenti e aspetta 15 minuti. Non un secondo di più, non un secondo di meno. Alla fine, il risultato è inequivocabile: l’acqua contiene più del doppio dei 10 ppb (parti per miliardo) di arsenico consentiti secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, per cui non è adatta al consumo umano.

«In questa zona – spiega Diana Carillas -, i livelli di arsenico sono arrivati addirittura a 100 ppb. Ora è meno concentrato perché qualche contadino deve aver aperto la diga per bagnare gli orti di questa zona, per cui ora l’arsenico è più diluito».

A pochi metri di distanza, anche Ruth si è messa all’opera. Sta misurando il pH, la conducibilità elettrica e il livello di solidi disciolti nell’acqua. «In queste acque abbiamo trovato livelli molto elevati di cadmio, rame, piombo e altri metalli pesanti», spiega la ragazza.

Il drenaggio acido, risultato della lisciviazione utilizzata per separare i metalli dal materiale roccioso con solventi, è uno degli impatti ambientali a lungo periodo dell’attività estrattiva. Nonostante la miniera di Morales sia inattiva da molti decenni, il drenaggio acido è ancora lì, a causa di mancanza riqualificazione al termine dell’attività estrattiva. L’acqua contaminata continua a entrare in contatto con le fonti usate dai contadini per bere e irrigare, esponendo la popolazione al rischio di un’assunzione prolungata di metalli tossici.

«Se questo accade in una miniera abbandonata da decenni, cosa possiamo aspettarci dal drenaggio di una miniera sospesa solo dal 2017?», dice sconsolata Ruth prima di tornare alle sue misurazioni.

Melissa Rodríguez indica i parametri chimici utilizzati per il monitoraggio dell’acqua nel laboratorio di Codidena, Cuilapa, nel dipartimento di Santa Rosa. Foto Simona Carnino.

Codidena e i Tekuanes

Diana e Ruth parlano con il rigore di scienziate riconosciute, anche se non sono né biologhe né ingegnere, né hanno avuto l’opportunità di sedersi tra i banchi di una università. Fanno parte di un gruppo di circa dodici ragazzi della generazione Z, con un’età media di 25 anni, che si fanno chiamare Tekuanes, «guardiani dell’acqua», in lingua xinka. Questo popolo indigeno, insieme ai Garifuna, non appartiene ai 22 gruppi maya del Guatemala.

Dal 2017, i Tekuanes monitorano ogni mese la qualità e la quantità dell’acqua del bacino idrogeologico del fiume Los Esclavos, dove si trovano le installazioni della miniera El Escobal, uno dei maggiori progetti di estrazione d’argento al mondo.

Avviata nel 2013 dalla Tahoe Resources Inc. e ora gestita da Pan American Silver, le attività della miniera sono sospese dal 2017 per mancata consultazione del popolo Xinka, come vorrebbe la Convenzione 169 sui diritti dei popoli indigeni e tribali dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

Grazie alla formazione ricevuta dalla Commissione diocesana per la difesa della natura (Codidena) e dall’Osservatorio delle industrie estrattive del Guatemala, i Tekuanes sono diventati un punto di riferimento scientifico per le comunità locali, cui presentano ogni mese, in assemblee pubbliche, i risultati delle analisi sull’acqua. Un lavoro cruciale in un Paese dove i dati ambientali sono scarsi e dove non è mai stata approvata una legge che garantisca la conservazione delle risorse idriche come bene comune.

A quattro chilometri dalla miniera El Escobal, il ventenne Alex Donanzón e cinque compagni siedono sulla riva del lago Ayarza. Stanno eseguondo gli stessi test di Ruth e Diana. «Oggi l’arsenico è superiore a 40 ppb – dice Alex – si può ancora mangiare il pesce, ma non è consigliabile nuotare o bere quest’acqua. È un peccato perché si tratta una zona turistica».

Dall’inizio dei lavori di monitoraggio nella laguna, i livelli di arsenico hanno costantemente superato il limite consentito, così come nella maggior parte del bacino del fiume Los Esclavos.

«I tre impianti di trattamento dell’arsenico purtroppo non servono tutte le comunità – spiega Melissa Rodriguez, 18 anni, seduta accanto ad Alex -. Molte persone bevono l’acqua del rubinetto perché non hanno soldi per l’acqua potabile o per i filtri e quindi rischiano grosso».

Infatti, secondo uno studio svolto da Codidena qualche anno fa, un buon numero di persone di San Rafael Las Flores e Casillas, due comuni vicini alla miniera, che si sono sottoposti alle analisi, avevano arsenico nel sangue. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’esposizione prolungata a questo elemento può causare intossicazione cronica, oltre a lesioni e cancro alla pelle.

«Il Guatemala è un Paese vulcanico e per questo non è adatto all’estrazione mineraria – afferma Amalia Lemus di Codidena guardando la laguna di Ayarza -. I metalli pesanti sono naturalmente presenti nel terreno e le esplosioni sotterranee li rilasciano con una conseguente contaminazione delle acque».

Yordin ripone nella cassa i campioni raccolti nella laguna Ayarza, Santa Rosa. Foto Simona Carnino.

La consultazione

La miniera El Escobal è uno dei megaprogetti minerari più grandi del Guatemala e dell’America centrale. Copre più di 19 chilometri quadrati e ha una licenza mineraria fino al 2038. A causa della mancata consultazione del popolo indigeno che dovrebbe avvenire nel 2025, le sue operazioni sono sospese dal 2017 per decisione della Corte costituzionale,

«Io sono Xinka», dice José Valvino Quinteros, mentre passa ad Alex un’ampolla d’acqua della laguna di Ayarza.

«I proprietari della miniera sostenevano che il popolo Xinka non esistesse, approfittando del fatto che, prima degli Accordi di pace del 1996, era proibito usare la lingua indigena che – spiega Alex – di conseguenza si è persa. Tuttavia, il nostro popolo vive qui da prima della colonizzazione spagnola».

E, in effetti, nel comune di  sono stati distrutti completamente alcuni siti archeologici e cerimoniali propri della cultura Xinka per far posto alle installazioni della miniera, come è stato documentato in un recente studio sull’impatto culturale e spirituale del progetto minerario El Escobal.

Diana Carillas Pachecose prepara il kit per il monitoraggio dei livelli di arsenico. Foto Simona Carnino.

Quale ricchezza?

Mentre la consultazione del popolo indigeno Xinka è in corso, PanAmerican silver si dedica ai lavori di manutenzione delle installazioni con la speranza di riprendere l’estrazione al più presto. «L’azienda continua a pompare le acque in eccesso dalle gallerie per evitare che vengano danneggiate dalle fonti sotterranee – spiega Amalia Lemus -. Questa attività è comunque pericolosa per l’ambiente perché ha già portato al prosciugamento di tredici sorgenti per noi vitali».

Le esplosioni sotterranee con dinamite, usate per estrarre il materiale roccioso ricco di argento, hanno avuto gravi ripercussioni sulle case e sugli edifici delle comunità vicine. «La gente ha dovuto trasferirsi dal villaggio di La Cuchilla, che si trova esattamente sopra la miniera, perché le case erano crepate e la zona è stata dichiarata inabitabile», continua Alex, mentre ripone le fiale in una valigetta blu.

La miniera di El Escobal ha riaperto il grande dilemma tipico di tutte le comunità coinvolte, volenti o nolenti, in grandi progetti di impatto ambientale: ma la miniera porta o non porta ricchezza?

Nel dipartimento di Santa Rosa, più del 67% della popolazione vive in povertà, così come il 100% degli sfollati di La Cuchilla. La maggior parte della popolazione si dedica a un’agricoltura familiare, non intensiva, di cipolle, pomodori e caffè. «Anni fa, i mercati nazionali rifiutavano i nostri prodotti perché pensavano che fossero contaminati dalle acque acide e piene di cianuro che uscivano dalla miniera – ricorda Lemus -. In realtà, non c’erano prove, ma la percezione generale ha influito negativamente sulla nostra economia».

Inoltre, le royalties, sia obbligatorie che volontarie, pagate dalla miniera sono state spese principalmente per i costi amministrativi, invece che per l’istruzione, la cultura e la salute, fattori chiave per ridurre la povertà.

In questo contesto, di fatto le condizioni di precarietà e di impoverimento educativo si sono aggravate, lasciando in un futuro incerto la comunità indigena.

Diana Carillas Pacheco mira Ruth Isabel Pacheco Ramírez medir el nivel de ORP- Potencial de Oxido Reducción en el agua en el drenaje de la mina artesanal, cerrada hace 90 años, en Morales, Mataquescuintla, 29.10.2024

Lotta, criminalizzazione, emigrazione

Oltre ai costi economici, il progetto minerario ha causato un conflitto che ha portato alla disgregazione sociale della comunità. «Più volte la popolazione è scesa in piazza contro la miniera e si sono verificati numerosi scontri violenti con la polizia – racconta Ruth dalla sua postazione di monitoraggio presso la vecchia miniera -. Nel 2014 qualcuno ha ucciso Topacio Reynoso Pacheca, un attivista ambientale di 16 anni, e il crimine a oggi è ancora impunito».

In un contesto segnato da un lungo conflitto sociale, le intimidazioni e le violenze contro i difensori dell’ambiente sono diventate una realtà quotidiana.

A volte, Ruth e Diana non sono sole quando monitorano l’acqua del fiume Escobal, proprio accanto alla miniera. «Ci fanno volare i droni a pochi metri sopra la testa – dice Diana, con un mezzo sorriso -. Ma ormai ci siamo abituate. Non abbiamo più paura».

Anche la madre di Diana era una scienziata comunitaria come lei. Un giorno però ha deciso di migrare negli Stati Uniti per motivi economici e, a quel punto, la lotta ambientale è passata nelle mani della figlia. «A volte penso che me ne andrei anch’io se potessi… Non so. Poi, però, mi rendo conto di quanto sia importante ciò che stiamo facendo e alla fine mi convinco a stare qui…», dice Diana, guardando avanti, combattuta tra pensieri contrastanti.

«Questi ragazzi sono straordinari. Se non fosse per loro, non sapremmo nemmeno che acqua stiamo bevendo – conclude Amelia Lemus -. Tuttavia, i conflitti causati dalla miniera spingono molte persone a migrare e, a volte, anche alcuni dei nostri scienziati decidano di andarsene».

Le gemelle Melissa e Cecilia Rodríguez, con José Valvino Quinteros, al lavoro nel laboratorio di analisi di Codidena, a Cuilapa, Santa Rosa. Foto Simona Carnino.

Scienziati per necessità

Alla fine della giornata, Alex, Ruth, Diana e tutti gli altri scienziati comunitari chiudono le loro valigette e salgono sul pick up che li riporta alle loro case nelle comunità vicine alla miniera. La scienza è una vocazione più che un lavoro. Per tirare avanti, la maggior parte di loro coltiva e vende caffè biologico, senza l’uso di fertilizzanti chimici, in armonia con l’ambiente.

«A volte penso: che ne sarà di noi? L’acqua è inquinata e mi chiedo che speranza possiamo avere con i nostri 20 anni… D’altra parte, so che questo territorio un giorno sarà nostro, quindi dobbiamo prendercene cura al meglio», conclude Alex prima di tornare a casa.

Simona Carnino

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Senza senso di umanità


Sette ex detenuti su dieci tornano a delinquere. Il numero di suicidi in cella ha raggiunto un nuovo record. Questi dati mostrano che la funzione rieducativa del sistema penale non funziona. La storia di un ex detenuto fa riflettere sul carcere, e su quello che avviene dopo.

L’articolo 27 della Costituzione italiana recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Nel 2021, però, solo il 38% dei detenuti presenti nelle carceri italiane stava scontando la prima detenzione, il 62% era già stato ristretto, il 18% era addirittura alla quinta carcerazione.

Questo significa che, nella maggioranza dei casi, la funzione rieducativa della pena ha fallito.

Il sistema penale dovrebbe occuparsi delle persone che hanno commesso reati per evitare che ne commettano altri, e con il fine di reimmettere in libertà individui capaci di vivere nella legalità.

Secondo i dati del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), però, circa il 70% dei detenuti, una volta usciti dal carcere, torna a delinquere.

Non si può, né deve, parlare di persone irrecuperabili, piuttosto di inefficacia della pena.

Stando al Cnel, quando i detenuti intraprendono un percorso lavorativo durante la carcerazione, la probabilità di recidiva cala drasticamente, fino al 4%.

Ci sono, quindi, delle strategie che il sistema penale può e deve mettere in atto se vuole raggiungere il suo scopo di rendere più sicura la società.

Per capire da vicino quali sono le condizioni nelle quali i detenuti vengono liberati al termine della loro pena, incontriamo Franco (nome di fantasia), che è stato in carcere nella Casa circondariale di Ivrea e condivide con noi la sua esperienza.

di Associazione Antigone

La storia di Franco

«Mi hanno aperto la porta e ciao, devi uscire», così racconta Franco. Il filo conduttore che emerge dalle sue parole è la vivida sensazione di impotenza che provava mentre era in carcere e che prova ancora oggi, fuori da quelle mura.

Nessuno si è preoccupato o occupato di dove sarebbe andato, di cosa avrebbe fatto una volta tornato in libertà.

Il suo racconto è indicativo di un sistema che punta a parcheggiare le persone nelle celle e a gestirle con il minimo sforzo possibile per liberarsene poi, velocemente, al termine della pena. Una situazione che va ad aggravare le già precarie condizioni di salute mentale di cui soffrono sovente i detenuti, condizioni che in carcere vengono troppo spesso affrontate tramite psicofarmaci.

A proposito di questo, Franco racconta: «Mi avevano riempito di medicine quando ero lì, ma quando sono uscito non avevo niente. Per quattro giorni non ho dormito, sono andato fuori di testa, fino a quando mi hanno ricoverato in ospedale».

Infatti, dopo diversi anni sotto l’effetto di farmaci, Franco è stato lasciato in libertà senza un piano terapeutico, senza il riferimento di un medico che lo seguisse in maniera adeguata.

Questo lo ha portato in breve a una grave crisi di astinenza.

Per fortuna è riuscito a farsi portare in pronto soccorso dove lo hanno stabilizzato. Ha poi incontrato uno psichiatra con il quale ha iniziato un trattamento di antidepressivi ad hoc per la sua situazione.

© Cooperativa pausa caffé

Un tempo inutile

La vita dentro il carcere descritta da Franco corrisponde a quella raccontata da chi si occupa dei diritti dei detenuti: dieci metri quadrati per due persone, un letto a castello, due scrivanie, due armadietti e un televisore. In particolare, Franco lamenta le difficoltà che aveva a mantenere le relazioni con familiari e amici, dai quali si è sentito strappato via. Questo strappo nelle relazioni oggi gli sembra che abbia compromesso le sue possibilità di ricostruirsi una vita.

Racconta che la cosa più destabilizzante in carcere è «il tempo inutile», il non fare niente per ore e ore, tutti i giorni, con relazioni umane ridotte all’osso. E poi la dipendenza: essere costretti a chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa, dal lavarsi al prenotare una visita medica, magari dovendo aspettare giorni, settimane, o mesi prima di ottenere una risposta.

«Non è un carcere di riabilitazione – sostiene Franco -. Sai che quando esci non hai niente in mano. È tempo veramente inutile, non è costruttivo. E poi si lamentano che ci sono un sacco di recidive».

Record di suicidi

Quando Franco tocca il tema delle persone che in carcere muoiono per suicidio, la sua voce si fa più flebile.

Nel 2024 il numero di suicidi nelle case di reclusione italiane ha raggiunto il record di novanta. Persone morte mentre erano nelle mani dello Stato.

Franco ci racconta di aver sentito diverse storie, e di aver conosciuto persone che si sono suicidate anche a pochi mesi dalla fine della pena.

Pure lui ci ha pensato più volte. Racconta che aveva anche preparato una corda, ma è riuscito sempre a fermarsi in tempo.

Secondo la sua esperienza, anche l’uscita dal carcere, che normalmente ci si immagina come un momento felice, è in realtà un colpo durissimo. Franco, ad esempio, si è ritrovato solo, privo di legami familiari e disconnesso dalla realtà esterna al carcere, che durante la sua detenzione aveva avuto la sua evoluzione: non possiede lo Spid, non sa cosa sia, e fatica persino a ottenere una carta prepagata, o a prenotare una visita medica.

Trovare un lavoro, considerata la sua età e il suo passato, appare un’impresa quasi impossibile.

La prospettiva di potersi garantire una casa e il cibo per sopravvivere sembra un traguardo irraggiungibile.

© Cooperativa pausa caffé

I volontari in carcere

Franco, però, come tanti altri, ha avuto la fortuna di incontrare una rete di volontariato radicata sul territorio che gli ha permesso di attutire il colpo, di trovare un tetto provvisorio, e di ricevere un aiuto nella ricerca di un lavoro.

Abbiamo contattato Silvio Salussolia che, da decenni, è impegnato nel volontariato con i detenuti nel canavese, cercando di supportare le necessità di chi vive in carcere, e portando nelle scuole riflessioni sul tema.

Di carcere si parla molto poco nei media e nelle scuole, ma Silvio sostiene che farlo permetterebbe di guardare il mondo da un nuovo punto di vista: non dal centro, ma dalle periferie.

Il suo scopo non è solo quello di aiutare i ragazzi e la cittadinanza a empatizzare con i detenuti, ma di far riflettere sui modi con i quali i cittadini e la politica potrebbero e dovrebbero costruire una società più giusta e più sicura per tutti.

Quale rieducazione

Silvio Salussolia ci fornisce altri dati: nel carcere di Ivrea ci sono 195 posti regolamentari (di cui sei non disponibili), ma accoglie 273 detenuti: ottantaquattro in più rispetto alla capienza.  Il personale si compone di 175 membri della polizia penitenziaria e quattro educatori.

Ci si chiede come possa un numero così piccolo di educatori, costruire progetti personali, concreti e di lungo periodo per 273 detenuti, la maggioranza dei quali vive situazioni individuali e sociali critiche.

La risposta è semplice: è impossibile garantire la funzione rieducativa della pena stabilita dalla nostra Costituzione.

Esempi virtuosi

Allora il sistema penale è destinato a non funzionare?

Silvio nomina alcuni esempi virtuosi che anche in Italia danno un nuovo significato alla pena.

Il primo è quello della Comunità La Collina, in provincia di Cagliari: un luogo nato oltre vent’anni fa da un’idea di don Ettore Cannavera dove i condannati per alcuni reati possono scontare una pena alternativa.

Chi trascorre il periodo di detenzione in questo luogo ha prospettive nettamente migliori rispetto alla media dei carcerati, e i dati dimostrano che avrà meno del 4% di probabilità di tornare a delinquere in futuro.

Un tasso di recidiva così basso è spiegato da Salussolia con due fattori chiave: innanzitutto il rapporto numerico tra agenti ed educatori è invertito rispetto a quello visto sopra. Gli educatori professionisti che si occupano dei percorsi rieducativi sono in numero maggiore e, inoltre, danno grande importanza al lavoro. Tutti i detenuti de La Collina lavorano dentro o fuori la comunità.

© Cooperativa pausa caffé

Una questione politica

Oltre questo caso particolarmente illuminato, esistono altre realtà che propongono dei paradigmi diversi di carcere e di pena. Ad esempio, le case di reclusione di Bollate e di Opera (Milano).

Bollate è considerato l’istituto penitenziario più all’avanguardia in Italia. La struttura è una delle migliori, e offre numerose opportunità di studio, lavoro e cultura ai suoi detenuti. Vi sono, ad esempio, un ristorante di alta qualità dove i detenuti lavorano insieme a chef professionisti, un teatro, spazi per la socialità, e un asilo che accoglie figli di detenuti, dipendenti e non solo.

Per favorire la partecipazione alle attività è stato poi adottato un modello di carcere nel quale le celle vengono tenute aperte circa dieci ore al giorno favorendo il movimento all’interno dei reparti.

Opera è un altro esempio di come, nonostante le difficoltà e i limiti, si possano costruire spazi per la socialità e aree verdi, si possa investire nel lavoro e nella formazione, sia all’esterno dell’istituto che all’interno, grazie a laboratori di diverso tipo.

Questi esempi mostrano che un percorso più dignitoso è possibile, e che è anche più efficace e più utile per i singoli detenuti e per l’intera collettività.

Al di là di queste eccezioni, però, la normalità delle carceri in Italia è un’altra: è fatta di sovraffollamento, progettualità quasi nulle, tassi di recidiva altissimi e suicidi sempre più numerosi.

Studiare il carcere dovrebbe quindi farci capire che la sua fallibilità ha delle cause ben precise, su cui si può intervenire e che si possono modificare.

Investire sui fattori giusti permetterebbe di ridurre le recidive, rendendo più sicure le nostre città, di ridurre la pressione sulle carceri oggi sovraffollate e, da ultimo, anche far risparmiare soldi allo Stato.

Mattia Gisola

 Archivio MC

 




Equapp: un acquisto alla volta

 


Come lottare per i diritti umani e la sostenibilità ambientale nella vita quotidiana? Come indurre le aziende che violano la dignità delle persone e della Terra a cambiare? Come orientare i nostri consumi in una direzione più etica? Domande che non hanno una risposta chiara e semplice. Ma un’app può aiutare.

Una volta c’era la Guida al consumo critico curata dal Centro nuovo modello di sviluppo di Francesco Gesualdi: un’opera che ha informato e formato molti cittadini con le sue diverse edizioni uscite tra il 1998 e il 2012.

Quello sforzo di ricerca e divulgazione ha contribuito a consolidare una consapevolezza: gli acquisti quotidiani di prodotti o servizi influiscono sui diritti umani, le guerre, l’ambiente, gli animali, la democrazia, nel proprio Paese e nel mondo.

Anche grazie a molte altre pubblicazioni e iniziative, la consapevolezza è cresciuta, e oggi sappiamo tutti, bene o male, che rischiamo di avere tra le mani uno smartphone prodotto con materie prime prelevate violando diritti e territori nel Sud globale. Sappiamo che la bevanda offerta ai figli dei nostri ospiti potrebbe essere prodotta da un’azienda che evade le tasse, inquina, sfrutta i bambini, ha politiche antisindacali, ecc.

Sappiamo che le nostre scelte individuali possono avere impatti positivi o negativi, ma come fare oggi a decidere tra un prodotto e un altro? Come fare a raccogliere tutte le informazioni aggiornate di cui avremmo bisogno? E come averle a portata di mano nelle corse quotidiane da cui tutti siamo più o meno travolti?

Abbiamo sentito Marco Ratti, direttore responsabile della testata online osservatoriodiritti.it e presidente dell’associazione non profit Osservatorio sui diritti umani Ets che ha lanciato «Equa», un’applicazione che prova a dare risposte pratiche.

Consumo responsabile

«Comprare un prodotto o un servizio guardando solo al prezzo – esordisce Marco Ratti – significa accettare il rischio che quell’acquisto possa favorire il caporalato, la distruzione della natura, il maltrattamento degli animali e chissà cos’altro. Ma, fino a poco tempo fa, ottenere queste informazioni velocemente, e comportarsi di conseguenza, era pressoché impossibile.

Proprio per questo motivo è nata Equa, la prima app in Italia sul consumo responsabile. Un’applicazione per cellulari, ideata e creata dall’associazione Osservatorio sui diritti umani Ets, per far conoscere l’impatto dei propri acquisti. Uno strumento concreto per “cambiare il mondo un acquisto alla volta”, come recita lo slogan del progetto».

Manifestazione degli abitanti di Piquia de Baixo, Açâilandia (Maranhão, Brasile). Foto di © Marcelo Cruz.

Come funziona Equa

Chi utilizza Equa può ottenere informazioni per compilare una lista della spesa più etica, e può approfondire come si comportano le aziende che provano a venderci beni o servizi.

«Finora – prosegue Ratti -, grazie a un grande lavoro di ricerca, sono stati analizzati quattro prodotti di tre settori: cellulari e tablet per il settore dell’elettronica, la pasta per il settore alimentare e le bibite gassate per il settore bevande. L’obiettivo è di valutare il maggior numero possibile di beni e servizi disponibili in Italia».

In estrema sintesi, le azioni possibili attraverso Equa sono cinque: «In primo luogo, l’utente può cercare un’azienda o marchio e scoprire quanto rispetta i diritti umani, l’ambiente e gli animali, tramite un punteggio da 0 a 100. Più alto è, meglio è.

C’è la possibilità di avere informazioni di base relative all’azienda, come la sede legale, il fatturato, il numero di dipendenti, e una sintesi di quanto emerso dalla ricerca. Si può vedere l’elenco di tutti i brand collegati e l’assetto proprietario.

In aggiunta, chi sceglie di abbonarsi può fare ricerche anche per categorie e per prodotti, così da vedere in un unico colpo d’occhio tutte le aziende che producono ciò a cui si è interessati.

In secondo luogo, Equa permette anche di fare una semplice, ma potente, azione di attivismo: in un click, è possibile inviare all’azienda una email precompilata in cui sono sottolineati i punti critici, per chiedere di cambiare.

Terzo, chi sceglie di registrarsi gratuitamente all’applicazione ha la possibilità di salvare tutte le proprie ricerche, costruire una lista dei preferiti e ricevere notifiche dedicate.

Gli abbonati, inoltre, possono compiere altre due attività. Innanzitutto hanno accesso all’elenco delle alternative più sostenibili. Infine, hanno la possibilità di consultare i punteggi suddivisi secondo le tre categorie: diritti umani, ambiente e animali, e leggere le schede di analisi relative all’impresa, comprese le fonti utilizzate».

I criteri di valutazione

Il fulcro dell’app, spiega ancora Marco Ratti, è costituito dunque dalle analisi delle aziende. Queste sono realizzate da un nutrito gruppo di lavoro tramite griglie di valutazione costruite anche grazie al supporto della realtà più significativa in questo ambito a livello mondiale, l’organizzazione britannica Ethical consumer, e all’appoggio del Centro nuovo modello di sviluppo.

«In estrema sintesi, come accennato, Equa indaga sul comportamento aziendale negli ambiti dei

diritti umani, dell’ambiente e degli animali. A loro volta, queste tre macro aree sono suddivise complessivamente in sedici sezioni e più di cento voci.

L’analisi assegna all’azienda un punteggio compreso tra 0 e 100.

Sarebbe lungo elencare i criteri di valutazione, per cui invito ad andare a leggerli sul sito web www.equapp.it. È utile però chiarire che l’analisi delle singole aziende si basa su due tipi di fonti: innanzitutto, i dati raccolti in maniera indipendente, accedendo ad esempio a database pubblici (per sapere se l’azienda è presente in paradisi fiscali, o collabora con regimi oppressivi e così via); in secondo luogo, le dichiarazioni politiche delle aziende stesse, e gli impegni presi pubblicamente, per esempio nei rapporti di sostenibilità e nei codici di condotta applicati nella catena del valore. In questi casi, all’analisi minuziosa dei documenti aziendali, segue la ricerca di eventuali critiche da parte di fonti autorevoli in merito alle tematiche su cui l’azienda si dichiara virtuosa.

Questo sistema è stato costruito per evitare che un’autodichiarazione dell’impresa sia sufficiente a ottenere un buon punteggio.

Infine, per controllare la qualità delle griglie di valutazione c’è un Comitato scientifico formato da cinque persone: Francesco Gesualdi (fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo), Deborah Lucchetti (coordinatrice per l’Italia della Campagna abiti puliti), Ugo Biggeri (già presidente di Banca etica e attuale coordinatore per l’Europa di Global alliance for banking on values), Gabriella D’Amico (vicepresidente di Assobotteghe), Jason Nardi (presidente della Rete italiana economia solidale)».

Un progetto indipendente

Il progetto di Equa è realizzato da un’associazione non profit. Domandiamo a Marco Ratti come si sostiene da un punto di vista economico. «Oltre che dagli abbonamenti, Equa è sostenuta dalle donazioni di singoli e gruppi, come associazioni, botteghe del commercio equo, gruppi d’acquisto solidale e distretti di economia solidale, ed è potuta decollare grazie al Gruppo Banca etica, che ha sostenuto quasi tutti i costi del primo anno di attività con una grossa donazione.

I soldi non arrivano dunque dalle aziende – prosegue Ratti -, che non possono in alcun modo influenzare le valutazioni.

Inoltre, all’interno di Equa non si incontra alcuna pubblicità, a ulteriore garanzia dell’indipendenza del lavoro.

Per avere più possibilità di raggiungere la piena sostenibilità economica, l’applicazione è stata sviluppata in modalità “Freemium”: può essere scaricata e utilizzata gratuitamente, ma alcuni contenuti sono accessibili solo agli abbonati.

A differenza di un abbonamento qualunque, però, l’associazione ha cercato di dare la possibilità a tutte e tutti di accedere ai servizi Premium: invece di indicare un prezzo fisso, chiediamo all’utente di scegliere tra quattro diversi tagli, 20, 35, 50 o 70 euro all’anno. Qualsiasi taglio darà accesso al 100% dei contenuti.

In altre parole, dunque, chi sceglierà i tagli più alti lo farà per sostenere il progetto».

Luca Lorusso


Un sogno nato in Brasile

L’idea di sviluppare l’app Equa viene da lontano. Dal periodo 2012-2015, quando il suo ideatore e coordinatore, Marco Ratti, ha vissuto con la sua famiglia ad Açâilandia (Maranhão, Brasile), inserendosi in alcuni progetti della comunità locale e dei missionari comboniani.

«In quel periodo ho dovuto cambiare il mio punto di osservazione – racconta il direttore responsabile di Osservatorio diritti -, e questo mi ha portato a modificare il modo di leggere la realtà che mi circonda e mi ha spinto verso progetti a cui non avrei mai pensato prima».

L’esperienza brasiliana di Marco Ratti e della sua famiglia, è stata segnata dalla condivisione con un piccolo gruppo di persone che, nella sua semplicità, stava conducendo una battaglia per il diritto delle comunità locali a una vita dignitosa. «Alcune aziende tra le più ricche e potenti al mondo, con la loro attività mineraria e siderurgica, avevano devastato le loro terre, trasformandole in coltivazioni intensive, carbonaie, altoforni, e rendendole zone con tassi di inquinamento tra i più alti al mondo.

Quella lotta, lenta ma implacabile, condivisa nella quotidianità – spiega Ratti -, mi ha cambiato dentro un giorno alla volta, tanto che, al ritorno in Italia, ho fondato con alcuni colleghi Osservatorio diritti, una testata online indipendente che ancora oggi si occupa di denunciare le violazioni dei diritti umani».

Quello è stato il primo passo, a cui ne sono seguiti altri: «Far conoscere le violazioni era fondamentale, ma per incidere davvero era necessario offrire uno strumento concreto affinché chiunque potesse unirsi alla lotta per la giustizia sociale e ambientale».

Da queste riflessioni è nata la newsletter settimanale «Imprese e diritti umani», e poi, circa quattro anni fa, il lavoro dell’associazione Osservatorio sui diritti umani Ets per creare Equa, uno strumento per il consumo responsabile.

L.L.


Giornalismo indipendente per i diritti umani

«Equa» è l’ultimo progetto di Osservatorio sui diritti umani Ets, un’associazione non profit di Milano nata sei anni fa con due obiettivi: promuovere la cultura dei
diritti umani e praticare il giornalismo indipendente e di qualità. Alla base di tutto c’è una scommessa controcorrente: l’informazione legata ai diritti umani, se fatta in maniera libera e professionale, è capace di interessare tanta gente.

Ogni attività realizzata mira ad avvicinare la vita delle vittime di violazioni alla nostra. Più in generale, l’obiettivo è contribuire a una società più inclusiva.

La testata online

L’associazione è stata fondata nel 2019 da un gruppo di giornalisti che due anni prima aveva avviato la testata online Osservatorio diritti, un giornale italiano specializzato in inchieste, analisi e approfondimenti sul tema dei diritti umani.

Nel corso degli anni, l’informazione prodotta ha avuto impatti importanti, dall’apertura di interrogazioni parlamentari sui diritti dei bambini con disabilità fino alla liberazione di difensori dei diritti umani in Africa.

La testata ha collaborato o collabora a vario titolo con diversi soggetti, tra i quali il master in Diritti umani e gestione dei conflitti della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, la Commissione europea, il Festival dei diritti umani di Milano.

Le altre attività

Il giornale online è stato la prima di molte attività. Nel 2019 l’associazione ha pubblicato il libro Immigrazione oltre i luoghi comuni. Venti bufale smontate un pezzo alla volta, per cominciare a parlarne sul serio, a cui sono seguiti Coronavirus. Viaggio nelle periferie del mondo e Tracce indelebili. Storie di dieci attivisti che hanno cambiato il mondo.

I giornalisti hanno prodotto anche due podcast: Diritti e Rovesci, un approfondimento quotidiano sui diritti umani; Diritti al Cuore, una serie dedicata a racconti di lotta per la difesa dei diritti.

Attualmente cura tre newsletter: quella del mercoledì sui diritti umani, una mensile sui consumi responsabili e quella del sabato su imprese e diritti umani (quest’ultima in abbonamento).

L’associazione fa anche interventi nelle scuole ed eventi di promozione culturale sui diritti umani.

Marco Ratti
direttore responsabile di www.osservatoriodiritti.it




Il buon sonno migliora la vita


Dormire è una necessità primaria, ma avere un sonno di qualità non è affatto facile. A disturbarlo ci sono i ritmi della società, vari inquinamenti, gli stili di vita personali e, infine, i veri e propri disturbi del sonno.

Trascorriamo a dormire un terzo della nostra esistenza. Eppure, in una società sempre più frenetica, tendiamo a considerare il sonno come un lusso, mentre, invece, è una necessità primaria tanto quanto il cibo e l’acqua. Il sonno, infatti, non è un semplice «spegnimento del cervello», utile a ricaricarci, ma uno stato di coscienza diverso dalla veglia durante il quale vengono svolte funzioni essenziali per la nostra esistenza.

Oggi sappiamo che, nel sonno, il sistema nervoso centrale svol-ge processi indispensabili al buon funzionamento cerebrale durante lo stato di veglia. Ne è conferma il fatto che, nel corso del sonno Rem (Rapid eye movement, fase del sonno distinta da quella non Rem), l’attività del cervello, misurata con l’elettroencefalogramma (Eeg), è simile a quella presente quando siamo svegli.

Pulizia, riordino, memoria

Da recenti studi di neuroscienze è emerso che, durante il sonno, il cervello compie un’importante operazione di pulizia e riordino, eliminando buona parte delle sinapsi (la giunzione tra due cellule nervose) neoformate durante la veglia.

Si tratta di «tagli» indispensabili al cervello per evitare che esso raggiunga la saturazione e per permettergli di imparare nuove cose. Questo meccanismo, conosciuto come ipotesi dell’omeostasi sinaptica, è molto selettivo e risparmia sempre più o meno il 20% delle sinapsi che racchiudono memorie importanti, le quali non devono essere eliminate. Un’altra fondamentale funzione, che si attua nel sonno, è quella dello smaltimento dei radicali liberi e di altre molecole potenzialmente tossiche formatesi durante la veglia. Tutto questo avviene grazie alla produzione di molecole come il glutatione in grado di contrastare lo stress ossidativo.

Il sonno Rem pare, inoltre, avere un ruolo determinante nella maturazione del sistema nervoso centrale poiché, durante questa fase del sonno, si svolgerebbe il processo di fissazione nella memoria a lungo termine dei dati appresi durante la veglia. Questo fatto è stato dimostrato in due modi: dall’osservazione di soggetti sottoposti a sessioni intensive di apprendimento, i quali hanno dimostrato un aumento significativo del sonno Rem, e dall’osservazione dei neonati, che presentano una percentuale maggiore di sonno Rem rispetto agli adulti e una maggiore capacità di apprendimento.

Infine, il sonno, soprattutto quello non Rem (NRem, in sigla), avrebbe una funzione di recupero e di ristoro dell’organismo, effettuando una riprogrammazione genetica dei comportamenti innati. Durante questa fase, inoltre, si modificano le funzioni di organi e di apparati diversi dal sistema nervoso centrale e tali modificazioni servono a mantenere l’omeostasi dei singoli sistemi.

Fasi e stadi del sonno

Si possono distinguere due «porte» del sonno: una porta principale, cioè un picco di minima vigilanza nelle ore notturne, in cui si tende ad addormentarsi con maggiore facilità, e una porta del sonno secondaria, presente nel primo pomeriggio, tra le 14 e le 16. Un ruolo importante nel bilanciamento sonno-veglia è dato da alcuni neurotrasmettitori secreti dai nuclei sopracitati, in particolare l’orexina attiva durante la veglia e l’adenosina durante il sonno.

Grazie all’uso dell’Eeg è stato osservato che il sonno è costituito da diversi stadi, che compaiono in una caratteristica sequenza. L’Eeg permette di registrare l’attività elettrica del cervello durante gli stati di veglia e di sonno, distinguendo tra onde beta (tipiche della veglia), theta, alfa e delta (tipiche dei diversi stadi del sonno), che si differenziano tra loro per l’ampiezza e la frequenza.

Dobbiamo distinguere tra il son-no NRem a onde lente e quello Rem (a onde veloci e rapidi movimenti oculari).

Come durante la veglia, nel son-no Rem prevalgono le onde beta a bassa ampiezza e frequenza elevata (15-30 Hz), mentre durante il sonno NRem prevalgono le onde alfa di media ampiezza e media frequenza (8-12 Hz). Il primo episodio di sonno Rem dura 20-30 minuti ed è seguito da circa un’ora di sonno NRem a onde lente. Nel corso della notte, gli episodi di sonno Rem tendono ad allungarsi, ma un ciclo di sonno Rem e di sonno NRem è sempre di 90 minuti. Un tipico sonno notturno di durata regolare, cioè di circa 7-8 ore, consta di 4 o 5 cicli di 90 minuti. Va detto che la durata del sonno varia solitamente con l’età, passando dalle 20 ore al giorno del neonato per arrivare a circa 6 ore dopo i 50 anni. Inoltre, la lunghezza del sonno Rem diminuisce gradualmente con l’età. Per quanto sia stato provato che la mancanza di sonno sporadica non comporta danni a lungo termine, tuttavia bisogna considerare che essa può alterare il nostro umore rendendoci nervosi, rallentare i nostri tempi di reazione e diminuire sia le nostre capacità mentali che fisiche. In particolare, poiché nel sonno si consolidano i ricordi delle esperienze fatte durante il giorno, la sua mancanza porta a una riduzione delle funzioni mnemoniche e cognitive.

Se dormire è un problema

Nel mondo occidentale, circa il 40% della popolazione presenta prima o poi qualche tipo di disturbo del sonno.

Le anomalie del sonno si fanno più frequenti con l’avanzare dell’età e colpiscono più le donne degli uomini. Le persone con disturbi del sonno presentano l’Eds (Episodi di sonnolenza diurna), che può essere la conseguenza della frammentazione del sonno notturno, dello sfasamento del ritmo circadiano (ovvero del cosiddetto «orologio biologico») o di problematiche a carico del sistema nervoso centrale come alcune patologie cerebrali o l’assunzione di farmaci, che ne influenzano l’attività. Poiché esiste un bilancio omeostatico nella funzione sonno-veglia, cioè un’influenza della qualità del sonno sulla qualità della veglia, e viceversa. Inoltre, sicuramente una riduzione o un’alterazione del sonno (per qualsiasi motivo) inducono sonnolenza durante la veglia, che si traduce in disattenzione, difficoltà mnestiche (cioè di formare, immagazzinare e rievocare informazioni) ed errori di prestazione. Tutto questo avviene per l’insorgenza, durante la veglia, di brevissimi episodi di sonno, detti microsonni, che durano da pochi secondi a qualche minuto, si presentano soprattutto di notte o nel primo pomeriggio e hanno una frequenza sempre maggiore in uno stato di pregressa privazione di sonno.

Si stima che la prevalenza della sonnolenza diurna (Eds) colpisca il 4-20% della popolazione generale e che sia in continuo aumento, a causa di stili di vita inappropriati per doveri familiari o questioni lavorative (prolungamento orario, cambi turno, stress correlato).

I primi sintomi della deprivazione di sonno sono il tremolio alle mani, l’abbassamento delle palpebre, la mancanza di attenzione, l’irritabilità, lo sguardo fisso o deviato, l’aumentata sensibilità al dolore e uno stato di malessere generale. Nei casi gravi si può arrivare a una psicosi con perdita di contatto con la realtà, confusione, disorientamento, delirio e allucinazioni (questi ultimi compaiono dopo una deprivazione ininterrotta di circa 60 ore).

I ritmi del sonno possono essere ridotti o allungati, ma questo non dipende totalmente dai desideri dell’individuo, bensì dal ritmo circadiano regolato dal nostro orologio biologico interno sincronizzato sull’alternanza luce-buio grazie a recettori sensibili alle variazioni di luce posizionati sullo strato esterno della retina, i quali inviano le informazioni all’ipotalamo che, in condizioni di riduzione della luce, stimola l’epifisi a produrre melatonina, l’ormone del sonno.

Colpi di sonno e incidenti

La comparsa di sonnolenza diurna o nel turno di lavoro notturno è una causa rilevante sia degli incidenti sul lavoro che di quelli stradali. Diversi studi hanno dimostrato che gli errori umani in operazioni tecniche e industriali o alla guida di veicoli sono prevalenti tra le ore 2 e le 7 e, in misura minore tra le 14 e le 17. Una ricerca ha dimostrato che la maggior parte dei disastri causati da errori umani si sono verificati in tarda notte.

Per quanto riguarda gli incidenti stradali, secondo un recente studio, il 7% di quelli che si verificano annualmente in Italia (pari a circa 175mila sinistri) sono causati da colpi di sonno e comportano circa 250 decessi e più di 12mila feriti, con conseguenti ricadute economiche sul Servizio sanitario nazionale.

Negli Stati Uniti, la National transportation safety board ha rilevato che il 58% degli incidenti nei quali è coinvolto un camion sono correlati ad affaticamento e stanchezza, e che il 17% dei camionisti sopravvissuti all’incidente ha ammesso di essersi addormentato al volante. Inoltre, il 47-60% dei camionisti ha riferito sonnolenza alla guida in almeno il 20% dei viaggi e il 50% di loro riduce il tempo di sonno nelle 24 ore precedenti il viaggio, rispetto al solito. Si è osservato che due ore di sonno in meno raddoppiano il rischio di incidenti e che i soggetti affetti da apnee del sonno hanno un rischio di incidenti stradali aumentato del 2-7% rispetto alla popolazione normale. Basta pensare che in un microsonno del guidatore di 3 secondi, un veicolo che viaggia a 100 km/h percorre circa 90-100 metri senza alcuna guida.

È evidente che sarebbe necessario mettere in atto adeguate strategie, tanto da parte dei singoli soggetti (come riposo adeguato, visite mediche, soste ristoratrici con un sonnellino di circa 20 minuti e l’assunzione di 150-200 ml di caffè, in caso di sentore di sonno alla guida), quanto da parte di coloro che gestiscono autostrade e strade (con la predisposizione di bande rumorose marginali) e da parte delle aziende costruttrici di veicoli (con sistemi di rilevamento del sonno anche sui veicoli di fascia inferiore e non solo su quelli di lusso). Inoltre, dovrebbero essere previste per legge delle pause durante l’orario di lavoro e sarebbe opportuno che la sede di lavoro sia il più possibile vicina al luogo di abitazione, per evitare viaggi in auto in condizione di stanchezza.

Inquinamento ambientale

È altresì necessario migliorare la qualità dell’ambiente, perché varie forme d’inquinamento possono ridurre la qualità e la durata del sonno. Tra queste sono responsabili di un suo peggioramento, l’inquinamento luminoso, quello da rumore e quello atmosferico. Quest’ultimo, in particolare, può causare l’irritazione respiratoria, l’infiammazione e lo stress ossidativo. Le polveri sottili, soprat-

tutto le PM2,5 e il biossido d’azoto (NO2), sono capaci di scatenare reazioni allergiche e fare peggiorare situazioni come l’asma e la broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), causando tosse e difficoltà di respirazione durante il sonno. Inoltre, l’inquinamento atmosferico può portare ad alterazioni nelle fasi del sonno, soprattutto diminuzione della fase Rem.

Rosanna Novara Topino

 

 




Allamano. Sapeva guardare oltre


Un prete umile e senza apparenza, Giuseppe Allamano, il 20 ottobre scorso è stato proclamato santo: per la fedeltà eroica con cui cesellò la sua vocazione cristiana e sacerdotale e, soprattutto, per avere spinto il suo sguardo attento non solo alla città in cui trascorse la vita, ma molto più in là, in Africa. E con la fondazione di due istituti missionari riuscì a raggiungere altri popoli e continenti.

Ancora ragazzo, guardava alle missioni con passione e curiosità. Superando le idee ristrette del suo ambiente e i confini limitati della sua terra piemontese, Allamano allargò i suoi orizzonti e sentì l’urgenza del mandato di Cristo di portare a tutti il Vangelo.

Trovava innaturale che nella sua Chiesa torinese, feconda di tante istituzioni di carità, ne mancasse una dedicata alle missioni. Decise di rimediarvi e, con l’approvazione del suo arcivescovo, monsignor Agostino Richelmy, e della Conferenza episcopale subalpina, il 29 gennaio 1901, fondò l’Istituto dei Missionari della Consolata.

Nel 1902 partì il primo gruppetto di pionieri per il Kenya. Vedendo, poi, la necessità della presenza di donne, consacrate a tempo pieno per l’evangelizzazione, dieci anni dopo, il 29 gennaio 1910, fondò le Suore Missionarie della Consolata.

I due Istituti adattano oggi il passo ai nuovi tempi, camminando nel solco tracciato dal fondatore e portando con loro il ricordo di una persona cara e santa, con l’impronta di una pedagogia adatta a ogni forma di evangelizzazione.

La concezione missionaria di Allamano è aderente, nella forma e nei contenuti, alle persone e alle loro culture, e si adatta ai ritmi di vita che incontra nel suo cammino. Egli insegnò ai suoi missionari e missionarie a entrare in casa altrui in punta di piedi e a sedersi alla mensa comune, senza pretese o condizionamenti, contenti di condividere con gli altri il pasto comune. Soleva dire che «il bene non fa rumore», che va compiuto con discrezione e nel miglior modo possibile.

Presenti, oggi, in 35 paesi d’Africa, America e Asia, i missionari e le missionarie della Consolata continuano a percorrere le strade del mondo, chiedendo ogni giorno al Signore di mantenere acceso nel cuore quel fuoco di carità che infiammò Giuseppe Allamano, per portare al mondo, con Maria Consolata, Gesù la vera consolazione e annunciare la sua gloria alle genti.

padre Giacomo Mazzotti


Rendiamo grazie a Dio

«Grazie a Dio per il suo dono indescrivibile» (2 Corinzi 9,15). «Rallegratevi sempre nel Signore. Lo ripeto ancora una volta: Rallegratevi! Che la vostra dolcezza sia evidente a tutti. Il Signore è vicino. Non siate in ansia per nulla, ma in ogni situazione, con preghiere e suppliche, con ringraziamenti, presentate a Dio le vostre richieste. E la pace di Dio, che trascende ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù» (Filippesi 4,4-7)

L’espressione «Rendiamo grazie a Dio» è la risposta alla proclamazione delle letture nelle celebrazioni eucaristiche, in segno di riconoscenza per il dono della Parola di Dio che è «luce che illumina i nostri passi» (Salmo 118).

Faccio mia questa espressione per ringraziare Dio, con tutto il cuore, per il dono specialissimo che ha fatto alla nostra famiglia missionaria, della canonizzazione del nostro fondatore, Giuseppe Allamano. Ripetiamo, singolarmente, in comunità, nelle parrocchie, con san Paolo: «Grazie a Dio per questo suo dono ineffabile».

Grazie a quanti hanno collaborato

Il processo di canonizzazione di Giuseppe Allamano, iniziato nel 1944, è stato lungo e faticoso, ma comunque sempre sostenuto e incoraggiato, soprattutto agli inizi, da tanti missionari e laici che l’avevano conosciuto e ne attestavano la santità. Facendo memoria del cammino fatto, è doveroso ringraziare tutti i confratelli che hanno lavorato in questi ultimi anni per portare a termine il processo di canonizzazione.

Un ricordo speciale anche per i missionari che sono in Paradiso e che si sono avvicendati nell’ufficio della postulazione, i quali, con la loro costanza e determinazione nel raccogliere materiale, produrre studi e pubblicazioni su Allamano, hanno mantenuto vivo l’interesse e favorito l’avanzamento del processo fino alle fasi conclusive.

Un grazie ai Superiori generali, nostri predecessori, che hanno sostenuto la postulazione insieme a tutti coloro che ci hanno creduto e le tante persone di buona volontà che hanno sostenuto il servizio della postulazione con la loro generosità. Questa ammirevole collaborazione ha reso possibile che Allamano diventasse un santo della Chiesa universale e per il mondo intero.

Un grazie davvero speciale va a tutti coloro che hanno lavorato instancabilmente per programmare e organizzare le celebrazioni della canonizzazione sia a Roma che a Torino, con il momento culminante nella messa solenne in Piazza san Pietro, domenica 20 ottobre, un giorno meraviglioso, indimenticabile, di gioia e di festa per tutti.

Una grande organizzazione

In una visione di insieme, è bello constatare come la proclamazione della data della canonizzazione, avvenuta il 1° luglio 2024, abbia suscitato un’ondata di interesse per il Fondatore in tutto l’Istituto con tanta voglia di celebrarlo e farlo conoscere.

Con entusiasmo e spontaneità si è messa in moto la nostra organizzazione, nelle sue diverse componenti: dalle circoscrizioni alle comunità locali, dalle diocesi alle parrocchie, dalle scuole ai collegi, dai missionari laici ai gruppi giovanili, tutti hanno organizzato eventi, partecipato ad incontri, preparato sussidi per celebrare e far conoscere la figura di san Giuseppe Allamano.

Attraverso pubblicazioni, interviste, articoli sulla stampa, video, omelie, incontri di preghiera, veglie missionarie, tantissime persone si sono rese disponibili per dare lode al Signore e annunciare il Vangelo attraverso il profumo di santità di Giuseppe Allamano.

I testimoni dell’evento

Straordinaria e sorprendente è stata anche la partecipazione di migliaia di pellegrini venuti in Italia per vivere in presenza la settimana di celebrazioni in onore del santo. Parrocchie e associazioni, famiglie e individui, giovani e adulti, gruppi e scolaresche da tutti i continenti, insieme ai vescovi Imc e di altre diocesi, hanno partecipato alle celebrazioni della canonizzazione sia a Roma che a Torino, testimoniando in modo mirabile che siamo un’unica grande famiglia riunita per celebrare la santità del proprio padre fondatore.

Al rientro nei loro Paesi, i superiori di circoscrizione, i parroci, i dirigenti scolastici e i gruppi di laici, si sono fatti promotori di celebrazioni di ringraziamento e di incontri per trasmettere la gioia e l’entusiasmo vissuti in Italia, in spirito di famiglia e con profonda spiritualità. Un unico argomento catalizzava l’interesse di tutti: la santità di Giuseppe Allamano, il significato per ciascuno di noi e per la Missione dell’Istituto. Lo si percepiva vivente nelle nostre celebrazioni, nei momenti di preghiera, nei discorsi spontanei fatti nei corridoi, negli incontri comunitari e nelle conversazioni spirituali. Non si parlava d’altro, con tanta soddisfazione per il traguardo raggiunto.

Una santità da imitare

Il mio augurio, per l’Istituto e per ciascuno di noi, è che l’onda lunga di questo interesse per Allamano e dell’entusiasmo per la canonizzazione possa continuare e trasformarsi in un seme di vita nuova per le comunità, il lavoro di evangelizzazione e la nostra santificazione. La santità di Allamano è prima di tutto da imitare, renderla significativa per la nostra vita personale e per la missione dell’Istituto.

Abbiamo un’altra grande opportunità per mettere al centro della vita il santo fondatore: l’anno del centenario della sua morte, iniziato il 16 febbraio 2025 e che terminerà il 16 febbraio 2026. Sì, un altro kairos per tenere alto l’interesse, l’amore e l’affetto verso Allamano e coinvolgere la grande famiglia della Consolata.

Continuiamo a rendere grazie a Dio per questo suo figlio, Giuseppe Allamano, amato in modo speciale e nostro intercessore, mentre ci impegniamo a essere fedeli alla missione a noi affidata.

padre James Lengarin,
Superiore generale IMC

Padre James Lengarin sullo sfondo della vetrata dedicata a San Giuseppe Allamano


La santità celebrata

Riportiamo la cronaca delle celebrazioni realizzate, in azione di grazie, in vari paesi del mondo per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano. Ecco il racconto di suor Dinalva Moratelli, missionaria della Consolata che opera in una baraccopoli di San Paolo in Brasile.

Non appena è stata annunciata la notizia della canonizzazione di Giuseppe Allamano, una luce ha cominciato a brillare negli occhi di tutti coloro che lo conoscevano o ne avevano sentito parlare. Un entusiasmo contagioso ha cominciato a permeare i continenti, e tutti gli angoli della terra dove c’erano missionari, missionarie, laici e amici della famiglia Consolata.

Così è stato nella piccola comunità ecclesiale, il cui patrono è san Giuseppe Allamano, situata tra le case e gli edifici di São Miguel Paulista, San Paolo, in Brasile. La piccola cappella può passare inosservata per i passanti, ma non per i devoti di Giuseppe Allamano.

Quando sono entrata per la prima volta, sono stata colpita innanzitutto dalla luce del tabernacolo al centro e dalle immagini della Consolata e di Giuseppe Allamano in alto. Come non commuovermi? Come non vibrare? Come non ricordare le parole del fondatore? Piccola chiesa, umile, semplice, ma molto curata, non manca dell’essenziale per celebrare degnamente i misteri della salvezza; rispecchia lo stile di san Giuseppe Allamano, che dava grande valore alla liturgia e alla cura dell’altare, «al bene fatto senza rumore».

Fin dagli inizi, questa comunità ha contato sulla presenza delle missionarie della Consolata che hanno piantato radici di fede e di amore per la Consolata e Allamano, alcune di loro già nell’eternità, altre molto fragili, ma molto amate da chi le ha conosciute.

Venuti a conoscenza del grande evento della canonizzazione, i leader della comunità hanno iniziato a riflettere e a pianificare la preparazione della giornata. Tutto è stato molto semplice, ma fatto con impegno, immensa gioia ed entusiasmo.

I preparativi più stretti riguardavano la liturgia del giorno: prove di canti appropriati, scelta di simboli per la celebrazione e dinamiche per pubblicizzare il grande evento, coinvolgendo così la gente nella preparazione. Sono state confezionate magliette per l’occasione con le parole del nuovo santo: «Coraggio, ti benedico», con la certezza che lui era e sarà sempre presente.

Finalmente è arrivato il grande giorno e la cappella, già piccola di per sé, si è rivelata insufficiente per ospitare le suore, i laici missionari della Consolata e tante persone provenienti da altre comunità.

Era impossibile non commuoversi quando è stata intronizzata l’immagine di san Giuseppe Allamano nella processione d’ingresso e collocata nel luogo preparato con grande cura, così come la sua reliquia, accompagnata dal canto: «Allamano le tue benedizioni si riversano…».

Il vescovo, monsignor Algacir Munhak, ha contagiato il popolo con il suo messaggio pieno di ardore missionario e di gioia per la canonizzazione.

Dopo la messa, è stata benedetta la targa al cancello d’ingresso, tra gli applausi della comunità. Quindi, è stata servita la colazione, condividendo ciò che la gente aveva portato con generosità. Non è mancata neanche la torta con l’immagine del nuovo santo. Varie persone, poi, hanno raccontato le grazie e i favori che, nel corso degli anni, avevano ricevuto per intercessione di Giuseppe Allamano.

Il 20 ottobre 2024 è stato un giorno speciale e resterà per sempre nella memoria della nostra piccola comunità.

suor Dinalva Moratelli MC, São Miguel Paulista

Memoria di San Giuseppe Allamano a Raposa Sierar do Sol (Roraima) il 16 febbario 2025

 




Africa, come va la lotta all’Hiv/Aids


Venticinque anni fa una storica conferenza sull’Aids di Durban, in Sudafrica, fece emergere le proporzioni dell’epidemia da Hiv in Africa. Oggi preoccupa la scelta dell’amministrazione Trump di congelare i fondi Usa destinati agli aiuti, inclusa la lotta all’Hiv/Aids.

Secondo il più recente rapporto di Unaids, l’agenzia Onu per la lotta all’Hiv/Aids, il 2023 è stato il primo anno in cui ci sono state più nuove infezioni fuori dall’Africa che al suo interno. Su 1,3 milioni di contagi, infatti, 640mila sono avvenuti in Africa e 660mila nel resto del mondo. La riduzione dei contagi nel continente è un traguardo notevole per l’area del mondo che è stata di gran lunga la più colpita dalla diffusione del virus: in Africa subsahariana sono avvenuti, infatti, circa il 70% degli oltre 42 milioni di decessi dall’inizio della pandemia da Hiv, cioè dagli anni Ottanta del secolo scorso a oggi.

L’anno con il numero più alto di morti è stato il 2004: due milioni di vittime nel mondo, di cui un milione e mezzo nella sola Africa. «Arrivai a Ikonda nel 2002, in piena crisi dell’Hiv/Aids», ricorda padre Sandro Nava, missionario della Consolata responsabile fino al 2019 del Consolata Ikonda Hospital e oggi dell’Allamano Makiungu Hospital, entrambi in Tanzania. «Trovai interi villaggi decimati: mi ricordo benissimo di un villaggio tra Ikonda e Makete dove tutti i giorni c’erano dei funerali. La tradizione prevede che si faccia il kiliyo, cioè la cerimonia funebre con i pianti rituali, e si condivida poi il cibo fra tutti i convenuti. La comunità fu costretta sospendere tutto: la gente che moriva era talmente tanta che era impossibile mantenere il rito».

 

La conferenza di Durban

Nel 2000 c’era stata a Durban, sulla costa orientale del Sudafrica, la XIII conferenza internazionale sull’Aids (spesso abbreviata in Aids 2000): si trattò di un evento storico, racconta@ in un Ted Talk del 2016 Stefano Vella, ex direttore del Dipartimento del farmaco e poi del Centro per la salute globale dell’Istituto superiore di Sanità e, all’epoca, presidente della International Aids society@, l’associazione con sede a Ginevra che organizza le conferenze. Fino a quell’anno, l’evento si era sempre svolto nei paesi del Nord globale, ma l’area del mondo in cui l’Aids stava facendo più vittime era di gran lunga l’Africa.

Anni Duemila, l’Africa travolta

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Alla conferenza, ricorda Vella, si incontrarono migliaia di scienziati, medici, ricercatori, ma anche attivisti, pazienti, politici e un migliaio di giornalisti: il merito dell’evento fu quello di rompere il silenzio – come suggeriva il suo titolo, Breaking the silence – sulle enormi diseguaglian- ze fra il Nord e il Sud globale nell’accesso alla prevenzione, alla diagnosi e alle terapie.

La scelta del Sudafrica come nazione ospitante fu significativa: si trattava, infatti, del Paese più colpito al mondo con 3,6 milioni che avevano l’Hiv su 44 milioni di abitanti. Ci fu un accorato discorso conclusivo di Nelson Mandela, ex presidente del Sudafrica e figura chiave della lotta all’apartheid, che esortò tutti ad agire subito. I politici si mossero, spiega ancora Vella: un anno e mezzo dopo, nacque il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, che ad oggi ha speso 68 miliardi di dollari nella lotta alle tre malattie, 35 miliardi solo per l’Hiv@.

Inoltre, Aids 2000 diede un impulso fondamentale alla salute globale, grazie a un approccio che si fondava non solo del miglioramento della salute ma anche sulla riduzione delle diseguaglianze nell’accesso all’assistenza sanitaria.

Il Pepfar, acronimo per Piano d’emergenza del Presidente degli Stati Uniti per la lotta all’Aids (President’s emergency plan for Aids relief), fu lanciato dal presidente George Bush e dalla moglie Laura nel 2003. Sotto il suo coordinamento, diversi dipartimenti e agenzie governative Usa hanno investito finora oltre 110 miliardi di dollari grazie ai quali – si legge in una scheda@ dello scorso dicembre – 26 milioni di vite sono state salvate e 7,8 milioni di bambini hanno potuto nascere senza contrarre l’Hiv dalla madre. A settembre 2024, i pazienti che, grazie al Pepfar, ricevevano farmaci antiretrovirali – capaci di bloccare l’ingresso nella cellula e la replicazione del virus@ – erano 20,6 milioni, mentre i medici, infermieri e altro personale sanitario, i cui salari erano coperti dal programma presidenziale, erano 342mila.

I primi, difficili passi

«A Ikonda», dice ancora padre Nava, «grazie all’aiuto di alcuni donatori, nel 2004, aprimmo la clinica Hiv che, all’inizio, era tutta sulle nostre spalle. Ricordo che nel 2006 andai Monaco, in Germania, a visitare un’azienda che produceva le prime macchine per la conta dei Cd4», una proteina presente nel tipo di linfociti (globuli bianchi) che innescano la reazione del sistema immunitario alle sostanze estranee, come virus e batteri, e che vengono distrutti dall’Hiv. Contare i Cd4, dunque, dà una misura di quanto il sistema immunitario di un paziente sia «in difficoltà». «Il tecnico venne dalla Germania a Ikonda a installare la macchina e cominciammo così le prime conte dei Cd4.

Solo molto tempo dopo, il Governo sostenne l’installazione di attrezzature diagnostiche, come le macchine per misurare la carica virale, e iniziò anche a fornire farmaci. Nel frattempo, la clinica era giunta da avere quasi seimila persone registrate: ci aiutò molto il dottor Gerold Jäger, un dermatologo esperto di lebbra che aveva per questo una vasta conoscenza della sanità in Africa e che, una volta in pensione, venne con la moglie Elizabeth a lavorare per tre anni a Ikonda. Infine, arrivarono organizzazioni come Usaid», l’agenzia del Governo statunitense per lo sviluppo internazionale, uno degli enti che realizza il Pepfar, «a coprire i costi di una parte del personale della clinica Hiv che, per la quantità di pazienti, era di fatto un ospedale a sé».

«Quando alla prevenzione – racconta ancora padre Sandro -, cominciammo subito con la clinica mobile: andavamo nei villaggi con un generatore che alimentava un televisore, e mostravamo filmati per informare le persone su come evitare di contagiarsi». La provincia dove si trovava Ikonda, montana e senza attività produttive, era la più colpita del Paese: molti uomini migravano in altre regioni per cercare lavoro stagionale nelle piantagioni di tè, caffè o agave, e lì si infettavano; poi rientravano dalle loro mogli e le contagiavano. Le mogli, a loro volta, passavano l’infezione ad altri partner occasionali».

La situazione oggi e i tagli di Trump

Oggi, si legge nel rapporto 2024 di Unaids, dal titolo The urgency of now (L’urgenza di adesso), e nella scheda che mostra le statistiche globali@, le persone affette dall’Hiv sono 39,9 milioni. di cui 30,7 milioni hanno accesso alle terapie, mentre 9 milioni ne restano escluse. I decessi continuano a diminuire: da 2,1 milioni all’anno del 2004 sono scesi stabilmente sotto il milione nel 2014 e oggi sono circa 630mila, mentre le nuove infezioni – che negli anni peggiori, il 1995 e il 1996, erano state 3,3 milioni – sono ora due milioni in meno, una cifra che è comunque ancora tre volte sopra l’obiettivo di 370mila previsto per il 2025 dalla Stategia globale 2021 – 2026@ che mira a porre fine all’Aids entro il 2030.

Dal punto di vista dei farmaci, poi, ci sono stati diversi progressi: ad esempio, a settembre 2024 l’Organizzazione mondiale della sanità definiva «promettenti»@ i risultati nella prevenzione dell’Hiv di un farmaco antiretrovirale, il lenacapavir, che con due iniezioni l’anno impedirebbe al virus di replicarsi. Promettenti erano anche i risultati del lavoro dell’Unità di ricerca sulla terapia genica antivirale dell’Università del Witwatersrand, in Sudafrica, che applicava le tecnologie a mRna – su cui si basano alcuni dei vaccini contro il Covid – alla ricerca di un vaccino per l’Hiv. Lo studio, finanziato da Usaid con 45 milioni di dollari (più o meno il costo di 15 missili Patriot, ndr), è ora bloccato a causa della decisione@ del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di sospendere il lavoro dell’agenzia per valutare un suo eventuale smantellamento e l’attribuzione delle sue funzioni al dipartimento di Stato, l’omologo del nostro ministero degli Affari esteri@.

La ricerca non è il solo ambito che sta risentendo delle scelte di Trump: sul sito di Unaids, lo scorso febbraio, una scheda@ aiutava a farsi un’idea delle conseguenze che il blocco dei fondi produrrebbe in 39 Paesi che rappresentano il 71% di quelli finanziati dal Pepfar: in 35 di essi l’attuazione dei programmi di lotta all’Hiv si è interrotta, altri 14 Paesi riferiscono discontinuità nelle terapie salvavita, in dieci sono sospesi i test Hiv ai neonati esposti al virus e la profilassi preventiva per le giovani donne e le adolescenti. Inoltre, in nove Paesi la prevenzione della trasmissione da madre a figlio (Pmtct, nell’acronimo inglese) non funziona regolarmente, in quattro non è possibile fare i test Hiv a tutte le donne incinte e le neo madri e ci sono difficoltà a procurare e distribuire farmaci per l’Hiv; in due Paesi le scorte di medicinali sono descritte come «pericolosamente scarse».

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Tagli al personale negli ospedali in Tanzania

«Da quando è arrivata la notizia dei tagli», scrivono gli attuali responsabili del Consolata Ikonda Hospital, i missionari della Consolata Marco Turra e Willam Mkalula, «i pazienti sono preoccupati. A nove persone dello staff è stato interrotto il contratto, e chi è rimasto cerca di rassicurare i pazienti. Con i farmaci e i test possiamo andare avanti qualche mese, ma per ora non ci è stato comunicato nulla sul futuro».

Gli iscritti al servizio della clinica Hiv dell’ospedale di Ikonda a febbraio erano 2.365. «Usaid assicura(va) farmaci, i test rapidi e quelli per misurare la carica virale», spiega padre Marco, «mentre i controlli su fegato e reni li fornisce l’ospedale, così come il cibo supplementare per alcuni pazienti». Lo screening si fa proponendo il test ai pazienti ritenuti più esposti o che hanno patologie compatibili con la sindrome da Hiv. C’è un servizio di counselling prima del test e, in caso di positività, una seconda sessione di counselling precede l’apertura della cartella clinica, cioè la presa in carico del paziente. «A quel punto interviene il medico, che prescrive altri esami e stabilisce la terapia. L’aderenza da parte dei pazienti oggi è molto alta: c’è chi tiene segreta la propria condizione, ma questo non porta all’abbandono».

La situazione non è molto diversa a Makiungu, quasi 800 chilometri più a nord di Ikonda, dove padre Sandro Nava, insieme alla dottoressa Manuela Buzzi, gestisce dal 2020 l’Allamano Makiungu hospital. «Alla clinica Hiv, lavoravano otto persone pagate da due fondazioni – la Elizabeth Glaser pediatric Aids foundation e la Benjamin William Mkapa foundation – finanziate da Usaid. Per tre mesi (da febbraio ad aprile 2025, ndr) le fondazioni non riceveranno soldi dagli Usa, perciò hanno licenziato o messo in aspettativa queste otto persone. Noi ne abbiamo assunte alcune, ma non possiamo farlo con tutte».

Quando padre Sandro arrivò a Makiungu, la clinica Hiv era già in funzione «ma aveva pochi pazienti. Potenziandola, i pazienti sono aumentati». Nel 2024, i test sono stati più di 8.000, 169 i risultati positivi. A ricevere cure e farmaci sono state 763 persone, di cui 33 bambini, mentre il programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio ha seguito 96 bambini.

«Il grosso dei pazienti frequenta la clinica ogni mese», dice ancora padre Sandro, «ma c’è anche chi viene ogni tre mesi o addirittura sei, magari perché vive lontano e il costo di un passaggio in moto per raggiungere l’ospedale è troppo elevato». Secondo i dati riportati dalla scheda Unaids, in Tanzania il 90% dei fondi per la lotta all’Aids viene dal Pepfar.

Kenya, ritirata anche l’ambulanza

«Qui c’è grande confusione», commenta preoccupato fratel Severino Mbae, missionario della Consolata incaricato del Wamba Catholic hospital della Diocesi di Maralal, nel nord del Kenya. «Ci aspettiamo di non poter più assistere oltre la metà dei pazienti che abbiamo in cura, che sono 146». Fratel Severino riferisce che, a causa della sospensione voluta dal governo Usa, si è interrotto il progetto di lotta all’Hiv Tujenge Jamii (dallo swahili: Costruiamo comunità) finanziato da Usaid, che garantiva – oltre ad assistenza tecnica, formazione del personale, sensibilizzazione dei pazienti e parte del materiale informatico – anche il salario di quattro persone: un medico, un responsabile del counselling per il test Hiv, un expert patient, cioè un sieropositivo che offre orientamento ad altri, e un incaricato per i giovani e gli adolescenti. «Wamba era una delle strutture sostenute dal progetto, grazie al quale avevamo anche un’ambulanza con cui fare le campagna contro l’Hiv e la tubercolosi, ma ora è stata ritirata».

Maraldallah e Neisu, farmaci scarsi

Il Centro di salute Notre Dame de la Consolata (Csndc) di Marandallah, nel nord della Costa d’Avorio, lavora da diversi anni con i fondi del Pepfar attraverso il ministero della Sanità e in collaborazione con l’Ong Santé espoir vie – Côte d’Ivoire (Sev-Ci). I pazienti sieropositivi in cura sono 294; nel 2024 sono stati fatti 4.800 test e i positivi sono risultati essere 18: un tasso di prevalenza dello 0,4%. I costi dei farmaci antiretrovirali, forniti dal sistema sanitario nazionale, sono stati finora coperti dal Pepfar, che – come in Tanzania – sostiene il 90% della spesa annuale in questo ambito.

«Lavorare con questi fondi ha diversi vantaggi», spiega padre Wema Duwange, che nel 2022 è succeduto a padre Alexander Likono nella gestione del centro. «Uno è quello di ricevere medicinali e sostegno sociale e psicologico per i pazienti. Inoltre, i fondi Usa garantiscono un salario a migliaia di persone in Africa e la formazione continua per tutti». La decisione di Trump ha avuto un effetto immediato, dice padre Wema: «Le medicine hanno iniziato a scarseggiare: tutto si è fermato in sole due settimane».

Interruzione nell’approvvigionamento dei farmaci si sono verificate anche a Neisu, in Repubblica democratica del Congo. «Ma non possiamo attribuirle con certezza ai tagli decisi dal governo Usa», dice Séraphine Nobikana, dottoressa direttrice dell’ospedale di Neisu. «Le difficoltà a trovare i farmaci sono frequenti nel nostro Paese», che da gennaio scorso ha visto aggravarsi la crisi nella zona orientale, dove i ribelli del M23 e le truppe regolari del Rwanda hanno occupato la città di Goma. Nel 2024 l’ospedale di Neisu ha seguito e curato 173 pazienti sieropositivi. I farmaci, riporta ancora Nobikana, li fornisce il sistema sanitario nazionale. La collaborazione con il governo statunitense viene gestita dal ministero della Sanità e per il biennio 2024/ 2025 avrebbe dovuto poter contare su 229 milioni di dollari@ per il Congo (il costo di due caccia F35, ndr).

Chiara Giovetti




Scienziate visionarie


Sono poco conosciute, ma molto importanti: le donne che nell’ultimo secolo hanno contribuito con i loro studi a rinnovare la scienza e, insieme, la società. Un libro ne presenta dieci, con le loro impostazioni «visionarie» e innovative.

L’interesse del pubblico verso le storie di donne scienziate cresce nel tempo, stimolato anche da diversi libri.

Per esempio, nel 2018 è uscito Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie, volume curato da Sara Sesti e Liliana Moro.

Come sottolinea Adriana Giannini nella sua recensione del libro, «ci si rende subito conto che le scienziate selezionate […] oltre alle doti intellettuali fuori dall’ordinario, dovevano possedere una grande tenacia e sete di sapere per riuscire a evadere dal ruolo che la società prevedeva inesorabilmente per le donne che non volevano essere emarginate: occuparsi della famiglia o chiudersi in convento».

Molte di quelle donne hanno incontrato grossi ostacoli per realizzare i loro progetti, per farsi riconoscere e trovare spazio in un mondo dominato dal potere e dai pregiudizi maschili.

Tra il 2023 e il 2024 sono usciti altri tre titoli su donne scienziate, ciascuno dei quali presenta alcune figure femminili, scelte sulla base di specifiche caratteristiche: si sono occupate di scienze naturali, ambientali, mediche. Tutte con un approccio trans disciplinare, attento ai contesti sociali e alle relazioni interpersonali.

Tra «ribelli», «prime» e «visionarie», queste donne hanno introdotto nuovi modi di vedere, pensare e agire nel loro lavoro.

Visionarie

Ci soffermiamo qui sul libro di Cristina Mangia e Sabrina Presto, Scienziate visionarie, del 2024.

Le due autrici sono ricercatrici del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) che da anni studiano questioni ambientali e di salute pubblica.

La scelta delle dieci figure è in sintonia con il vissuto professionale delle autrici, e con la loro riflessione sulla scienza come impresa collettiva, immersa in un tessuto sociale che condiziona le domande di ricerca, le metodologie di lavoro, gli obiettivi.

Il filo ideale che connette tra loro le studiose presentate nel volume è proprio la convinzione che la scienza debba smettere di essere percepita (e praticata) come lo studio neutrale e oggettivo di una realtà esterna. Deve essere invece riconosciuta come una pratica collettiva e intersoggettiva di esplorazione delle relazioni tra umanità e natura, dipendente dal contesto storico in cui è fatta, dai mezzi tecnici e, soprattutto, dagli obiettivi dell’indagine. Gli obiettivi, infatti, orientano le domande di ricerca, le quali, a loro volta, condizionano la raccolta e interpretazione dei dati che contribuiscono a costruire una visione del mondo per l’intera società.

Un aspetto comune delle studiose presentate è la loro «visionarietà»: la capacità di proporre delle trasformazioni sociali tali da proteggere la sicurezza ambientale, la giustizia e la pace.

Un altro elemento è l’impegno politico. Tutte sono state protagoniste di varie forme di contestazione del maschilismo (spesso razzista) che caratterizzava le leggi, le abitudini, le regole, i vincoli del loro tempo dominato dalla tecno-scienza. Tutte hanno fatto ricorso a metodologie empatiche e nonviolente per sovvertire quella forma insidiosa di patriarcato che impediva alle donne di esprimere le loro potenzialità, e ostacolava la loro attitudine a indagare il mondo naturale con l’obiettivo d’imparare, anziché di usarlo e dominarlo.

L’esigenza di trasformare il modo di pensare e praticare la scienza si è manifestata gradualmente, a partire da quando una minoranza della comunità scientifica (soprattutto femminile) ha fatto emergere la coscienza che la complessità del mondo non può essere esplorata dalle singole discipline separate tra loro, e che occorre far collaborare visioni diverse, non solo scientifiche ma trans disciplinari.

Relazione umanità natura

Le due autrici presentano per prima la figura di Donella Meadows (Usa, 1941-2001), che negli anni 70 del Novecento, insieme ai suoi colleghi, propose l’idea che la Terra sia un sistema complesso, interconnesso e, soprattutto, «finito», ossia con risorse limitate, e limitate capacità di ripristinare gli ecosistemi alterati dalle azioni umane.

Il libro I limiti alla crescita, di cui Meadows fu prima autrice, segnò uno spartiacque nella percezione della relazione tra umanità e natura, anche se alla nuova comprensione delle cose non seguì una sufficiente consapevolezza, né furono prese adeguate misure per ridimensionare l’impatto umano sul pianeta.

Seguono le presentazioni di altre scienziate: Alice Hamilton (Usa, 1869-1970) a partire dall’inizio del Novecento, esplorò per prima le conseguenze dei processi industriali e della produzione di sostanze tossiche sui lavoratori. Aprì la strada alla moderna medicina occupazionale.

Nello stesso periodo Sara Josephine Baker (Usa, 1873-1945) avviò una rivoluzione nella sanità pubblica, introducendo e applicando norme di igiene e prevenzione soprattutto con i bambini e le fasce di popolazione più disagiate.

Un altro esempio significativo della diversa prospettiva delle donne di fronte ai problemi è quello di Alice Stewart (Regno Unito, 1906-2002): mentre ingenti finanziamenti erano destinati a sviluppare prodotti industriali sempre nuovi, pochi fondi venivano assegnati alla medicina sociale, cioè all’indagine degli effetti dei nuovi prodotti sulla salute delle persone.

Fu Alice Stewart a scoprire gli effetti della tecnologia nucleare (dalle radiografie ai fallout delle esplosioni) e a denunciare i rischi dell’esposizione alle sostanze radioattive.

Anche la giapponese Katsuko Saruhashi (1920-2007) fu coinvolta nelle indagini sugli effetti delle radiazioni e ne denunciò le gravi patologie. Non esitò a mettere le sue competenze scientifiche al servizio di una intensa attività pubblica antinucleare, e a incoraggiare le giovani ad approfondire le conoscenze scientifiche a difesa di scelte politiche consapevoli.

La statunitense Rachel Carson (1907-1964), diventata famosa a livello mondiale non solo per i suoi studi, ma anche per le sue doti di scrittrice, ha avuto il merito di opporsi coraggiosamente alla potente industria chimica che, senza scrupoli e senza controlli, stava spargendo pesticidi nelle campagne e nei campi coltivati, con effetti devastanti su ambiente e salute.

Meno famosa, ma altrettanto combattiva, fu Beverly Paigen (1938-2020), anch’essa statunitense, ricercatrice impegnata nello studio di varie forme di cancro. Raccogliendo le segnalazioni di mamme residenti nella città di Niagara Falls a riguardo di malattie e malformazioni nei loro figli, rilevò la presenza di sostanze tossiche nell’area. Dopo anni ottenne di far riconoscere una grave contaminazione nei terreni della zona.

Le ricerche di Carson e Paigen furono ostacolate da scienziati, politici e industriali che screditarono il lavoro scientifico delle due studiose e le attaccarono personalmente in quanto donne.

Solo dopo molti anni, e grazie alla loro competenza e tenacia, furono approvate importanti leggi e create istituzioni nazionali a difesa dell’ambiente e della salute.

Delle altre studiose presentate nel libro, due in particolare, Wangari Maathai (1940-2011), keniana, prima donna africana a ricevere il Nobel per la pace, e Suzanne Simard, canadese, nata nel 1960, sono ricordate soprattutto per l’attenzione che hanno dedicato alle foreste.

Wangari, con il movimento di donne da lei fondato (il Green belt movement), promosse e realizzò la riforestazione di ampie aree del Kenya, recuperando alberi autoctoni e il ripristino di eco-agro-sistemi in grado di sviluppare una agricoltura di sussistenza per le comunità locali.

Suzanne, contrariata dall’abitudine dell’industria del legno di piantare monocolture di alberi e di utilizzare diserbanti chimici per tenere «pulite» le radure, incominciò a indagare se ci fossero delle relazioni, degli scambi di informazioni tra i singoli alberi. Grazie ai suoi studi scoprì che le foreste sono ecosistemi interconnessi, le cui radici, associate a reti di funghi, costituiscono una fittissima rete sotterranea, che sarebbe stata poi chiamata «wood wide web».

L’interpretazione che Simard fornì delle relazioni scoperte dentro l’ecosistema foresta era che tra le diverse forme di vita ci sia cooperazione e mutuo sostegno: una spiegazione che fu accolta con diffidenza e scetticismo dalla comunità accademica.

È lo stesso tipo di reazione che incontrò Lynn Margulis (1938-2011), biologa statunitense, quando propose che, all’interno di singole cellule, siano attive complesse forme di cooperazione tra i corpuscoli intracellulari.

Lo sguardo femminile delle due studiose avrebbe portato a una radicale reinterpretazione di molti scambi tra gli organismi, a tutti i livelli.

Foreste e cellule, e, in generale, tutti i viventi, non sono solo in competizione tra loro, ma elaborano anche raffinati dialoghi e strumenti di cooperazione, che in certi casi portano all’evoluzione di nuove forme di vita.

Al termine della carrellata di presentazioni viene ricordata l’unica scienziata italiana del gruppo, Laura Conti (1921-1993). Come ricordano le due autrici, fu «partigiana, medica, studiosa instancabile, politica, scrittrice, divulgatrice».

Laura Conti riuscì a intrecciare competenze scientifiche e impegni sociali, e a porre alla comunità scientifica domande cruciali sugli intrecci tra scienza, etica, democrazia e condizioni sociali. Domande che – come fanno notare le due autrici – sono ancora oggi di grande attualità.

Trasformare la scienza

La mancanza di fiducia nella capacità delle donne di contribuire allo sviluppo della scienza ha accompagnato tutto il Novecento, e ancora oggi molte studiose fanno fatica a entrare in gruppi di ricerca e farsi ascoltare. Sono portatrici di modi diversi di guardare il mondo, di affrontare i problemi, di svolgere le ricerche: le loro prospettive, quando riescono a farsi sentire, possono aprire la strada a nuove piste, offrire soluzioni innovative a problemi irrisolti.

Questo approccio all’idea di scienza, ormai presente da alcuni decenni a livello internazionale, viene individuato con il termine «scienza post normale» (Pns): propone una metodologia di indagine per affrontare problemi complessi e controversi, tipici dell’interfaccia tra scienza, politica e società, ed è parte di un interessante movimento di democratizzazione della scienza. Tuttavia, è condivisa finora da una componente minoritaria della comunità scientifica, ed è contrastata dalla crescente influenza dei poteri forti (economici, politici, finanziari) e dell’apparato industriale militare in favore della competitività e della guerra.

Elena Camino

Suggerimenti di lettura

  • Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, I limiti alla crescita, Editoriale scientifica, Napoli 2023, pp. 252, 16 €.
  •  Laura Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Fandango libri, Roma 2021, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, La condizione sperimentale, Fandango libri, Roma 2024, pp. 256, 17 €.
  •  Laura Conti, Discorso sulla caccia. Dove si parla anche di evoluzione, antropogenesi, anatomia femminile, agricoltura. Di coccolamenti durati milioni di anni. Di primati, gatte e lupi. Della dubbia compatibilità tra uomo e pianeta Terra. Di possibili catastrofi. E dei rischi di facili rimedi, Altreconomia, Milano 2023, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, Il tormento e lo scudo. Un compromesso contro le donne, Fandango libri, Roma 2023, pp. 272, 18 €.
  •  Laura Conti, Cecilia e le streghe, Fandango libri, Roma 2021, pp. 176, 16 €.
  •  Wangari Maathai, Solo il vento mi piegherà. La mia vita, la mia lotta, Sperling & Kupfer, Milano 2012, pp. 393, 17,50 €.