
Il Vangelo di Giovanni è diviso sostanzialmente in due parti: la prima è zeppa di discorsi, polemiche e «segni». «Segni» è la parola che l’evangelista usa per indicare i miracoli, e non a caso, in quanto, per la sua teologia, non sono semplicemente «prodigi», ma fatti che rimandano ad altro, a qualcosa di più importante. La seconda parte del Vangelo si concentrerà invece sulla croce. Il capitolo 11, con l’episodio della rianimazione di Lazzaro, sembra quasi mettersi a metà, come punto di passaggio. Con gli ultimi versetti del decimo capitolo, insomma, Giovanni ci conduce alla fine della prima parte del suo Vangelo. E siccome sa scrivere, dissemina il suo testo di indizi che per aiutarci a concentrarci sul nucleo del discorso: il ruolo di Gesù e il volto del Padre.
Dal tempio al Giordano (Gv 10,22-42)
Questo viene suggerito in modo discreto, nella seconda parte di questo decimo capitolo, dal trucco tutto letterario, che ci può colpire per diverse ragioni: il brano comincia con Gesù nel tempio di Gerusalemme circondato da tanta gente accorsa per la festa della dedicazione, e finisce con Gesù in un luogo solitario, deserto, in riva al Giordano. Tempio e fiume, due elementi a prima vista poco legati tra di loro.
Per il primo elemento, Giovanni parla della «festa della dedicazione», una festa generalmente poco sentita, anche se per alcuni aveva un valore simbolico rilevante: faceva memoria della nuova dedicazione del tempio ad opera dei Maccabei (1 Mac 4,56-59). Questi erano dei fratelli che avevano consacrato la loro vita alla rivolta religiosa contro i sovrani greci (eredi di Alessandro Magno) che avevano voluto imporre i loro dei. La loro era stata un’interpretazione rigida e integralista della scelta religiosa, un deciso rifiuto dei poteri mondani per dare spazio totalmente a Dio. Quella dei Maccabei era stata una lotta spirituale che si era imposta con la forza sul mondano e sul politico, anche se, purtroppo, la loro rivolta, dopo di loro, era finita in una piena commistione tra potere religioso e potere politico con i sovrani asmonei di cui l’ultimo rappresentante importante sarebbe stato Erode.
Il secondo elemento, il fiume, viene introdotto alla fine del capitolo, quando Giovanni racconta che Gesù torna al Giordano, là dove aveva ricevuto il battesimo dal Battista, un profeta che, in qualche modo, segnava l’alternativa più lontana dallo stile dei Maccabei: un profeta solo, che operava in zone disabitate, che rimandava a una concezione antica di Dio, e lo faceva fuori dalle strutture organizzate, lontano dal tempio. Il testimone di una religiosità da cui Gesù si era lasciato affascinare. Ma dov’è il Dio più autentico: nell’apparente irrilevanza del Battista, o in una religione che si impone, come quella dei Maccabei?
Gesù vero uomo (v. 22-23)
Il Vangelo di Giovanni si presta a una lettura molto disincarnata. Nella storia del cristianesimo è spesso stato considerato il «Vangelo spirituale». Eppure, già dal prologo (Gv 1,1-18) insiste sulla «carnalità» del Verbo. Anche in questo brano, quasi senza farsene accorgere, Giovanni sottolinea la concretezza della vita di Gesù.
Dice infatti che era la festa della Dedicazione (v. 22). E che era inverno (o «faceva brutto tempo», come forse sarebbe più opportuno tradurre, dato che per i primi lettori di Giovanni era ovvio che la festa della dedicazione fosse d’inverno, dal momento che arrivava intorno alla metà di dicembre). E Gesù camminava nel portico di Salomone. Sembrano tre osservazioni superflue, scollegate e inutili. Ma chi il tempio lo aveva visto (quando Giovanni scrive, è già stato distrutto), sapeva che il suo cortile interno era cinto da quattro porticati, oltre i quali un muro separava dal resto del santuario. E chi a Gerusalemme c’era stato, sapeva che d’inverno spesso sulla città tirava un vento freddo da oriente. Stando sotto quel portico, con un muro a chiudere il lato Est, quel vento si sentiva meno. Pare, insomma, la descrizione di chi quegli ambienti li conosceva, li aveva frequentati. Perché Gesù è stato una persona vera. Esposto anche a patire il freddo in una ventosa giornata d’inverno. Colui che, tra un attimo, pretenderà di essere come Dio, è pienamente inserito nella nostra umanità anche nei suoi aspetti più superficiali e secondari.
Gesù il Cristo (vv. 24-28)
È in questo momento, durante la festa meno affollata, che gli interlocutori di Gesù pretendono una risposta definitiva, chiara, incontrovertibile: «Se sei il Cristo, sii chiaro» (v. 24).
La risposta di Gesù è netta ed esplicita: «Ve l’ho già detto, e i segni che compio lo confermano. Ma voi non capite la mia voce». Gesù aveva appena parlato del gregge e del pastore, affermando che le pecore non seguono un ladro, uno che non è di quell’ovile. Le pecore seguono il pastore perché ne riconoscono la voce, pur senza saper descrivere come sia fatta. Semplicemente, lo sentono e lo riconoscono come loro. Se quindi delle pecore non riconoscono il pastore, significa che quest’ultimo è un ladro o che le pecore non sono del suo gregge. Gesù e i suoi contestatori non si appartengono, non si riconoscono.
Questi giudei che muovono obiezioni a Gesù vorrebbero una prova incontrovertibile, definitiva del suo essere il Messia. Ma nelle relazioni più profonde e vere questa prova non esiste, c’è solo la percezione di una sintonia, di una vicinanza, di un’appartenenza reciproca. È curioso che la formula utilizzata dai giudei per chiedere che Gesù sia chiaro («Fino a quando ci terrai nell’incertezza?», v. 24), alla lettera dica «fino a quando prenderai la nostra vita, la nostra anima?».
Per questo motivo, nella risposta, Gesù precisa che è lui a donare la propria vita per le sue pecore (v. 28), una vita senza fine. È la sorpresa di chi incontra Gesù, di chi crede di andare in cerca di un Dio da onorare, servire, riverire, e si scopre, invece, coinvolto in una relazione personale, sfuggente e arricchente come tutte le relazioni, e, in più, in una relazione in cui riceve più di quello che dà.
Gesù Dio (vv. 29-38)
Nei versetti che seguono, sembra che Gesù cambi argomento. Dice che nessuno potrà togliergli le pecore cui dona la vita eterna. Perché è il Padre ad avergliele date. Quel Padre che è più grande di tutti. Gesù dona la sua vita alle pecore e le custodisce e «non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano».
Siamo già lanciati verso l’affermazione che segue: «Io e il Padre siamo una cosa sola». Anche se l’evangelista è spesso ambiguo e questa affermazione ha suscitato molte discussioni nella Chiesa antica, è nel suo genere chiarissima. I due restano due, non sono amalgamati in un essere solo; eppure, i due sono una cosa sola. Come in una coppia di innamorati, i due restano distinti e distinguibili, eppure sono una nuova realtà fatta dei due insieme.
L’ascolto è incontro
Gli interlocutori di Gesù stavolta capiscono subito, e prendono le pietre per lapidarlo, perché, a parere loro, facendosi uguale a Dio, ha bestemmiato. Ma è proprio qui che si coglie la differenza tra ciò che loro si aspettano e ciò che, invece, Gesù è venuto a rivelare. Quella che Gesù spera da noi, non è una fede fondata su una dimostrazione, su una prova inconfutabile, ma, come nelle relazioni, sull’accoglienza, la custodia, la capacità di interiorizzare. Occorre fidarsi di ciò che ascoltiamo, mettersi in gioco o rifiutarlo. Occorre ascoltare e intuire, mettersi in cammino o andarsene.
È a questo livello che possiamo cogliere che Gesù e il Padre sono una cosa sola, che vedere Gesù, con tutte le sue scelte, a volte difficili da comprendere, e le sue attenzioni delicate, significa vedere il cuore del Padre all’opera.
E infatti la «prova» che Gesù offre non è teologia, non è filosofia sui massimi sistemi, ma qualcosa di molto concreto e tangibile: «Mostratemi le mie opere cattive; oppure ammettete che sono opere che vengono dal Padre» (v. 38).
In un ragionamento filosofico, il centro sono argomentazioni logiche. La verifica che Gesù offre ha, invece, al centro le azioni, la vita concreta. Ma questa concretezza va interpretata, bisogna coglierne il senso. Come quando le pecore riconoscono la voce del pastore, non perché saprebbero descriverla razionalmente, ma perché parla alla loro intuizione, al loro cuore. Si tratta di un processo di interpretazione, ma che fa appello più ai sentimenti (non le emozioni superficiali, ma il sentire profondo) che alla ragione: è questo il modo in cui Maria Maddalena al sepolcro, sentendo pronunciare il suo nome, riconosce il Signore risorto (Gv 20,16).
Risposta da innamorati
Quello che Gesù ci chiede è di intuire nelle sue azioni lo stile di Dio: si tratta di interpretare, di scommettere, sulla base di qualcosa di concreto. Quello che, invece, gli avversari di Gesù cercano è una dimostrazione incontrovertibile, che parli alla ragione e non consenta interpretazioni diverse. Loro cercano una prova scientifica, lui offre le ragioni del cuore. Quando si tratta del senso della nostra vita, sono queste ultime a contare davvero.
Così, Gesù attesta qual è il modo di fare di Dio, il vero volto del Padre: non mostra un Dio che gestisce un potere, che offre la sicurezza di risposte chiare e obbligatorie, ma un Dio innamorato che sogna una relazione. A un innamorato che ci provoca alla relazione risponderemmo, come fanno i giudei con Gesù, «Allora, adesso dimostrami in modo univoco che tu mi ami»?
Segni e parole (vv. 39-42)
La scena seguente nella quale i giudei cercano di afferrare Gesù (v. 39) senza riuscirci, è molto significativa: secondo gli argomenti della loro teologia, Gesù ha bestemmiato, perché ha azzerato la distanza tra Dio e l’uomo. Cercano di incasellarlo nei loro schemi sicuri. Il Signore però sfugge dagli schemi. Per questo Giovanni non si preoccupa di descrivere come fa concretamente a sfuggire dalle mani dei Giudei. La cosa importante è sapere che Gesù è libero, tanto libero che, più avanti, al Getsemani, sarà chiaro che verrà arrestato solo perché sarà lui a lasciarsi prendere.
Dopo la disputa nel Tempio, Gesù torna al Giordano, dove tutto era iniziato. Il volto del Padre lo si vede qui, in una relazione fatta di fiducia, sfuggente e promettente, autentica, ma senza garanzie, come tutte le nostre relazioni più profonde e vere.
Al Giordano, molti credono in Gesù (v. 42), perché è qui che si vede Dio, dove sono chiamati a mettersi in gioco, a decidere. È qui che Gesù ha scoperto il volto del Padre, come raccontato dagli altri evangelisti che i lettori di Giovanni certamente già conoscono.
Non è allora per polemica o per caso, che l’autore del Vangelo aggiunge un’ultima annotazione (v. 41): la folla nota che il Battista non aveva fatto segni, anche se aveva parlato di Gesù dicendo cose vere (in Gv 1,36: «Ecco l’agnello di Dio»). Si rende merito al precursore, che ha saputo vedere la realtà, benché questa non si imponesse, perché Gesù è apparentemente uno come gli altri, e nello stesso tempo si ammette che quella realtà Giovanni non sapeva cambiarla, e che, comunque, anche il cambiamento portato da Gesù è solo un «segno», rimanda ad altro di più profondo e ulteriore.
Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 13 – continua)