Giubuti. La missione «un po’ più in là»


La missione in un contesto islamico è sfidante.  Si fa con l’esempio della vita di ogni giorno. E il dialogo si realizza nel silenzio. Le «figlie» di san Allamano sono a Gibuti da 20 anni. E si spingono dove nessuno va.

La prima grande, contundente esperienza per chi arriva a Gibuti, avviene quando si esce dall’aereo e si è sopraffatti da un caldo infernale. Il piccolo aereo, nel piccolo aeroporto della capitale, parcheggia vicino alla costruzione che, in pochi metri quadrati, racchiude il controllo passaporti, la raccolta dei bagagli e il controllo doganale. Eppure, in tutta questa piccolezza, c’è da scendere la scala dell’aereo e percorrere pochi metri sotto il sole rovente, prima di entrare, con grande sollievo, nella costruzione con aria condizionata. È il primo test di sopravvivenza a cui sono sottoposti tutti coloro che arrivano a Gibuti.

Lo raccontano anche le sorelle missionarie, con un ricordo vivo: lo vissero anche loro quando, nel 2004, arrivarono in questo Paese del Corno d’Africa, un lembo di terra desertica lambito dalle onde del Mar Rosso.

Le porte del Mar Rosso

La capitale di Gibuti ha accolto per diversi anni la comunità delle Missionarie della Consolata. Atterrate nel mese di settembre 2004, insieme a una comunità di Missionari della Consolata, le sorelle spesero un primo tempo per lo studio della realtà. Su orientamento del vescovo, monsignor Giorgio Bertin (francescano, oggi vescovo emerito), si inserirono poi nelle attività della Chiesa locale, prestando servizio alla Caritas, in un orfanotrofio e nell’ambito sanitario. Fin dall’inizio fu chiaro il tipo di annuncio del Vangelo possibile in una realtà musulmana: la carità e la testimonianza di vita. «Tutte le sorelle si sono subito gettate dentro queste attività con tanto amore e con tanta gioia», racconta suor Anna Bacchion, la decana della Consolata, ormai da più di 20 anni a Gibuti. E possiamo senza ombra di dubbio inserire anche lei in questo vortice di passione missionaria. Dopo i primi anni, nella città arrivarono altre congregazioni religiose, dedite in particolare all’educazione. La Chiesa cattolica, infatti, è molto impegnata nell’istruzione. Per l’alfabetizzazione utilizza uno speciale metodo chiamato Lec (lire, écrire, compter), e gestisce nella capitale alcune istituzioni educative di livello superiore, molto apprezzate dalla popolazione. Un giorno, però, nelle nostre missionarie sorse un’inquietudine: «Tutta la Chiesa si trova nella capitale. Noi siamo missionarie, non c’è nessuna presenza di Chiesa nel resto del Paese, perché non andiamo dove non c’è ancora nessuno?». Questa inquietudine alimentò un tempo di discernimento comunitario e – senza dare troppo nell’occhio – diventò il dinamismo della missione in Gibuti: l’andare un po’ più in là, dove non c’è la Chiesa. Lo stesso dinamismo che aveva spinto san Giuseppe Allamano a fondare due Istituti missionari per la prima evangelizzazione.

Ali Sabieh

Cittadina di circa 20mila abitanti al Sud del Paese, Ali Sabieh si trova al confine con l’Etiopia, da cui riceve l’acqua potabile, vari prodotti alimentari, e da cui arrivano tanti giovani in cerca di fortuna. Nel 2009 arrivarono ad Ali Sabieh suor Redenta Maree e suor Dorota Mostowska. Nel 2013 si trasferirà in questa cittadina tutta la comunità MC, lasciando a Gibuti solo una piccola casa, nella quale giungere quando si ritornava in capitale. Quando arrivarono, non c’era nessun cristiano ad Ali Sabieh. Ancora oggi, oltre alle sorelle e al sacerdote, c’è solo una famiglia cristiana malgascia che si trova lì per lavoro.

«L’evangelizzazione in Gibuti non si realizza facendo il catechismo. Si fa con la vita, amando e servendo le persone», afferma suor Grace Mugambi, da 12 anni nel Paese. E dai saluti per strada e i commenti ascoltati nell’ospedale, dove la missionaria lavora, si capisce che le sorelle offrono il Vangelo attraverso una vita di donazione, ed è ben accolto dalla gente. «Loro vogliono che diventiamo musulmane e si intristiscono perché non ci convertiamo», ride suor Grace.

Ma il dialogo con i musulmani è possibile in Gibuti?

«Realizziamo il dialogo nel silenzio: per esempio, i giovani che vengono nella nostra scuola di alfabetizzazione, molte volte non hanno speranza per il futuro. Con gli anni, costruiamo insieme possibilità, e loro riconoscono il valore di questo servizio».

Ad Ali Sabieh, oltre alla scuola di alfabetizzazione, le sorelle hanno aperto una scuola inclusiva, «La scuola per tutti», che raccoglie una ventina di bambini e ragazzi disabili. Inoltre, si offre un corso di taglio e cucito alle donne: sono piccoli gesti rivolti alle persone più emarginate, e sono atti che dicono molto alla gente.

Obock

Il sudore cola sul corpo a rivoli. L’umidità è alta e la temperatura estremamente elevata. Obock è l’ultimo «un po’ più in là» delle Missionarie della Consolata in Gibuti. Piccolo paese che si affaccia su uno stretto del Mar Rosso, dirimpetto allo Yemen.

Dal suo porto ogni notte partono barche che raggiungono il Paese della penisola arabica, mèta ambita dei migranti etiopici che, dopo aver affrontato la traversata del deserto gibutino, si affidano ora a barconi precari gestiti da organizzazioni criminali che assicurano l’arrivo in Yemen, ultima tappa prima di raggiungere l’Arabia Saudita. Ma non tutti arrivano, e spesso il Mar Rosso si converte in un cimitero di corpi, di sogni e di speranze. Vi ricorda qualcosa tutto questo?

Le sorelle sono arrivate a Obock nel 2020: anche qui gestiscono una scuola di alfabetizzazione, ma al loro arrivo le aule erano quasi deserte. Le famiglie (qui in maggioranza di etnia Afa) non sentivano la necessità di far studiare i propri figli. Come fare? Come suor Irene Nyaatha: andando a visitarle e spiegando l’importanza dell’istruzione. Tutto questo sotto il sole cocente. Ma i risultati non hanno tardato ad arrivare: la scuola Lec conta circa 70 alunni, con una percentuale bassissima di abbandono scolare. Come ad Ali Sabieh si offre anche un corso di taglio e cucito per donne e ragazze.

Il giorno della canonizzazione di san Giuseppe Allamano, il 20 ottobre 2024, le sorelle si sono riunite con tutta la Chiesa di Gibuti per celebrare la gioia della santità del Fondatore e la gioia di essere a Gibuti da 20 anni: con danze, canti e, soprattutto, con volti radiosi hanno ribadito ancora una volta che «un po’ più in là» dei nostri schemi, delle nostre comfort zone o abitudini (anche pastorali) si trovano un fratello e una sorella che attendono la Consolazione. E quando si arriva, lì si trova il Signore.

Stefania Raspo*

 *Suor Stefania Raspo, missionaria della Consolata, dopo diversi anni in Bolivia è attualmente consigliera generale e responsabile della comunicazione per l’istituto.

 Video: 20 anni di missione in Gibuti

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Il mondo secondo Trump


Dallo scorso 20 gennaio, Donald Trump siede di nuovo alla Casa Bianca. Prima del suo insediamento, il neo presidente statunitense ha tenuto una conferenza stampa dalla quale non sono arrivati segnali confortanti per il mondo e per l’economia.

Il 7 gennaio 2025, tredici giorni prima del suo insediamento ufficiale come 47° presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha tenuto una lunga conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida.

Trump ha illustrato gli aspetti strategici del programma che intende realizzare nei prossimi quattro anni. Ebbene, in vari passaggi del suo discorso, i giornalisti presenti hanno stentato a credere alle proprie orecchie. Ad esempio, quando Trump ha dichiarato di volersi riprendere il canale di Panama e impadronirsi della Groenlandia.

Un mondo di nazioni in lotta

L’essenza della politica di Trump era già stata anticipata in campagna elettorale sotto l’acronimo «Maga», ovvero Make America great again, che tradotto significa «Facciamo di nuovo grande l’America».

Un credo politico che si iscrive fra le dottrine cosiddette «nazionaliste». Concependo il mondo come nazioni in lotta fra loro per l’egemonia, queste si pongono come obiettivo primario quello di garantire forza, prestigio e ricchezza al proprio paese contro tutti gli altri. Quanto alle divisioni sociali interne a ogni nazione, i nazionalisti fingono che non esistano e, giurando fedeltà al modello capitalista, pretendono che ricchi e poveri, lavoratori e imprenditori formino un corpo unico accomunato dal fatto di appartenere alla stessa nazione.

Al contrario, gli stranieri sono guardati tutti con sospetto, anche se, alla fine, sono divisi in due categorie: quella dei nemici, con politiche contrarie ai propri interessi, e quella degli amici, con comportamenti favorevoli al proprio arricchimento.

Non a caso la succitata conferenza stampa di Donald Trump si è aperta cantando le lodi di tale Hussain Sajwani, imprenditore miliardario degli Emirati arabi uniti che ha promesso di investire negli Stati Uniti 20 miliardi di dollari per l’apertura di centri informatici dedicati alla gestione dati.

In cima alla lista dei paesi nemici compilata da Trump, compare senz’altro la Cina, alla quale già nel precedente periodo di presidenza (dal 2016 al 2020), erano stati applicati numerosi dazi doganali come tentativo di limitare le sue esportazioni verso gli Stati Uniti e, quindi, la sua espansione economica.

Un agricoltore Usa con la bandiera trumpiana. Foto Laura Seaman – Unsplash.

Panama e il canale

Durante la conferenza stampa di Mar-a-Lago, il primo paese verso il quale Trump si è scagliato è stato Panama, accusato di danneggiare gli Stati Uniti in combutta con la Cina.

Oggetto del contendere è il canale che collega l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico. Un canale da sempre di importanza strategica per gli Stati Uniti, tant’è che nel 1902, prima ancora che esso venisse costruito, l’esercito Usa occupò militarmente l’area da scavare per assicurarsi la possibilità di controllare l’opera. Il canale entrò in funzione nel 1914 e rimase sotto gestione statunitense fino al 1999, allorché diventò di proprietà del governo panamense in virtù di accordi di cessione firmati nel 1977 dall’allora presidente Jimmy Carter (recentemente scomparso).

Per una ventina di anni l’amministrazione del canale da parte del governo panamense è proceduta senza particolari attriti con gli Stati Uniti, con grande vantaggio per Panama sia in termini economici che occupazionali. In effetti le attività del canale contribuiscono al 7% del Pil e al 23% delle entrate governative del paese centroamericano. Da un paio di anni, però, un problema di carattere ambientale sta mettendo in crisi la via di comunicazione.

Il problema si chiama siccità da cambiamenti climatici che riduce l’apporto di acqua al canale fino a imporre la limitazione del traffico di navi che possono attraversarlo. Tant’è che oggi, ai due imbocchi del canale, ci sono lunghe file di portacontainer in attesa di poterlo attraversare.

Le conseguenze sono negative soprattutto per gli Stati Uniti, che sono i principali destinatari delle merci che attraversano il canale. Le imprese statunitensi lamentano che i ritardi nelle consegne stanno facendo aumentare i prezzi e rallentano i loro processi produttivi. E, quasi fosse una congiura internazionale, Trump se la prende con la Cina: «Il canale di Panama è gestito dai cinesi, ma noi abbiamo regalato il canale a Panama e non alla Cina che ne sta abusando: quel regalo non si sarebbe mai dovuto fare».

Incalzato dai giornalisti che chiedevano cosa pensasse di fare, Trump non ha escluso l’uso della forza militare per fare tornare il canale di Panama sotto il controllo degli Stati Uniti affinché possa essere gestito a loro uso e consumo.

Una loro presenza militare nel mezzo dell’America Centrale permetterebbe agli Usa di combattere anche un altro fenomeno, quello delle migrazioni, tema posto anch’esso ai primi posti dell’agenda di Trump. Considerato che Panama è un passaggio obbligato per tutte le rotte migratorie provenienti dall’America Meridionale, uno sbarramento militare in quel territorio ridurrebbe di molto gli arrivi al confine tra Stati Uniti e Messico.

La Groenlandia

L’aspetto sorprendente è che Trump ha ipotizzato l’uso della forza militare per annettere anche la Groenlandia. Giuridicamente una regione autonoma facente parte del Regno di Danimarca, la Groenlandia è un’immensa isola, la più grande non continente, situata in zona artica. Vi abitano soltanto 56mila persone concentrate soprattutto nella parte sud, essendo la restante parte del paese coperta da una calotta glaciale che si estende sull’80% della superficie.

Gli Stati Uniti sono già presenti in Groenlandia fin dalla seconda guerra mondiale con una base aeronautica, la Pituffik Space Base, che si trova a 1.500 chilometri dal Polo Nord. Ma oltre che per motivi militari, la Groenlandia sta diventando appetibile anche per ragioni economiche da quando la tempera-

tura terrestre ha cominciato a salire.

Nel suo sottosuolo, infatti, si trovano non solo gas e petrolio, ma anche numerosi minerali molto ricercati dalle moderne tecnologie come litio, grafite e anche uranio. Fino a ora era impensabile cercare di estrarli a causa dell’enorme strato di ghiaccio che ricopre i giacimenti, ma con l’innalzamento delle temperature questo scoglio si va riducendo.

Per la stessa ragione sta assumendo importanza strategica anche il Mar Artico, il mare del Polo Nord, su cui la Groenlandia si affaccia assieme alla Russia, al Canada e all’Alaska. Se il mare si libera dal ghiaccio, può diventare navigabile per gran parte dell’anno, accorciando le distanze fra America del Nord, Asia ed Europa.

Per la verità già durante il precedente mandato presidenziale Trump aveva avanzato l’offerta di comprare la Groenlandia in linea con quanto aveva già tentato di fare Truman nel 1946.

La Danimarca, però, ha sempre opposto un fermo rifiuto e ora Trump minaccia non solo l’occupazione militare, ma anche potenti ritorsioni doganali pur di piegare la volontà del piccolo stato europeo.

Donald Trump. Foto TheDigitalArtist – Pixabay.

Il Canada

Nel suo discorso di Mar-a-Lago Trump ha scagliato la propria ira nazionalcapitalista anche contro Canada e Messico, paesi con i quali fino al 2020 aveva un accordo di libero scambio (il Nafta), poi trasformato, proprio durante la sua prima presidenza, in accordo di collaborazione (noto come Usmca) su punti specifici come agricoltura, flusso di lavoratori e brevetti. Temi tutti rigorosamente normati a principale vantaggio degli Stati Uniti.

Ciò non di meno, Trump rimprovera al Canada di continuare a vendere troppi prodotti agli Stati Uniti, contribuendo a rafforzare il debito commerciale che il paese a stelle e strisce ha verso il resto del mondo. Nel 2023, le merci canadesi hanno rappresentato circa un settimo del disavanzo commerciale statunitense, che complessivamente ammonta a 773 miliardi di dollari (dati Bea-U.S.Department of commerce).

«Ci mandano centinaia di migliaia di auto facendo un sacco di soldi. Ci mandano un sacco di altre cose di cui non abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno delle loro auto, né di altri prodotti. Non abbiamo bisogno del loro latte», ha detto Trump ai giornalisti riferendosi al vicino nordamericano.

Quindi, invece di chiedersi perché gli statunitensi comprano le merci canadesi, Trump ha partorito l’idea di risolvere il problema contabile facendo diventare il Canada un territorio statunitense.

Non a caso il giorno dopo la conferenza stampa di Mar-a-Lago, Trump ha pubblicato su una sua pagina social la cartina degli Usa comprendente anche il Canada ormai definito come 51° stato degli Stati Uniti d’America. Bontà sua, Trump ha escluso di voler piegare il Canada con l’esercito, dichiarando di volersi limitare all’impiego delle armi economiche.

Il Messico

Passando al Messico, Trump ha detto: «Abbiamo un grande deficit commerciale con il Messico, motivo per cui lo aiutiamo tantissimo».

«Il paese – ha spiegato il neo presidente – è gestito essenzialmente da cartelli criminali e noi non possiamo permetterlo. Il Messico è davvero nei guai, un sacco di guai». Poi si è buttato su una rivincita di tipo lessicale: «Cambieremo il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America».

Lanciando – infine – la stoccata finale: «Il Messico deve smetterla di permettere a milioni di migranti di penetrare nel nostro paese».

La Nato e le spese militari

Durante la conferenza stampa Trump ne ha avuto anche per gli alleati Nato, essenzialmente i paesi europei. Dichiarandosi di nuovo stufo di farsi carico della loro difesa, Trump è tornato a dire che gli alleati devono innalzare le loro spese militari. E se durante il suo primo mandato aveva chiesto che fossero portate al 2% del Pil, nel discorso di Mar-a-Lago ha spostato l’asticella ancora più in alto: «Io penso che la Nato si meriti il 5%. Non ce la può fare se rimane al 2%. […] Tutti i paesi Nato […] devono attestarsi al 5%».

Al momento, tuttavia, neppure gli Stati Uniti dedicano agli armamenti una quota di Pil tanto alta, arrivando al 3,4%. Fra i paesi Nato, solo la Polonia va più su con il 4,1%, seguita dall’Estonia con il 3,43%. Allora sorge il dubbio che la vera intenzione di Trump sia quella di annunciare al mondo l’intendimento di voler alzare ulteriormente la spesa militare degli Stati Uniti incurante del fatto che già oggi rappresenta il 38% dell’intera spesa mondiale (dati Sipri).

Dove sta andando

la democrazia? Nel complesso a Mar-a-Lago molti hanno visto un Trump ancora nelle vesti del candidato sguaiato che voleva aumentare il proprio consenso tra un popolo becero, piuttosto che un uomo di Stato che dal 20 gennaio governa il Paese più potente del mondo. Certi discorsi, tuttavia, non andrebbero fatti sotto nessun tipo di veste e il fatto che tanta gente vada dietro a chi le spara più grosse lascia molti dubbi su cosa, al giorno d’oggi, sia diventata la democrazia.

Francesco Gesualdi

 




Microfinanza, successi e correzioni


Il microcredito e, più in generale, la microfinanza sono strumenti spesso utilizzati nella cooperazione. Ma quanto sono serviti finora per fare uscire le persone dalla povertà? E cosa si potrebbe fare per renderli più efficaci?

Circa 1,4 miliardi di adulti nel mondo non hanno un conto presso un istituto finanziario o un fornitore di moneta mobile, cioè un servizio che permette di ricevere e inviare denaro con telefono cellulare anche senza un conto bancario di supporto. Lo riferisce il più recente rapporto (2021) della Banca mondiale sull’inclusione finanziaria@, che riporta l’analisi dei sondaggi effettuati su una popolazione di circa 128mila adulti intervistati in 123 paesi durante la pandemia da Covid-19.

Il rapporto sottolinea anche come questo dato sia in calo rispetto ai 2,5 miliardi del 2011 e agli 1,7 miliardi del 2017. Se nelle economie ad alto reddito quasi tutti gli adulti (96%) hanno un conto, le persone che non accedono a nessun servizio finanziario si concentrano nei paesi a basso reddito, nei quali ad avere un conto è solo il 39% degli adulti. Quasi la metà degli esclusi da questi servizi appartiene al 40% più povero delle famiglie e poco più della metà – cioè 740 milioni di persone – vive in sette paesi: India, Cina, Pakistan, Indonesia, Nigeria, Egitto e Bangladesh@.

Tre su quattro degli adulti esclusi dai servizi finanziari sono donne.

Uno degli strumenti con cui, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è cercato di ampliare l’accesso ai servizi finanziari per la fascia più povera della popolazione, è il microcredito e, più in generale, la microfinanza. L’esempio forse più noto è quello della Grameen Bank fondata nel 1983 da Muhammad Yunus, economista, imprenditore, attivista insignito nel 2006 del premio Nobel per la pace e da agosto 2024 primo ministro del Bangladesh.

Secondo alcune stime, le persone che usano servizi di microfinanza sono fra 150 e 200 milioni.

Per mettere un po’ di ordine fra i concetti ci appoggiamo all’estesa conoscenza del settore di Matteo Pietro Cortese, socioeconomista specializzato in finanza rurale, oggi consulente Fao con passati incarichi all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), Fondazione Cariplo, KfW e all’Ong Cisv.

Chioschi di Mpesa e Airtel

Microcredito e microfinanza: definizioni

«Cominciamo dalla microfinanza», spiega Matteo al telefono, «che è uno strumento per fornire servizi finanziari a persone con basso reddito che hanno difficoltà ad accedere al settore finanziario tradizionale»: non riescono ad accedere a servizi formali (in particolare ai prestiti) perché, ad esempio, non sono in grado di fornire garanzie come un titolo di proprietà o un contratto di lavoro, condizione molto frequente nei Paesi a basso reddito.

Il microcredito, continua Cortese, è una parte della microfinanza; questa, però, oltre al credito include anche il risparmio, le assicurazioni e le rimesse inviate dai migranti alle proprie famiglie.

La microfinanza è generalmente associata al formarsi di gruppi di autofinanziamento, che nei Paesi a basso e medio reddito «prendono principalmente due forme: le associazioni di risparmio e credito a rotazione, e le associazioni di risparmio e credito ad accumulazione, rispettivamente Rosca e Ascra nell’acronimo inglese».

Su questa suddivisione lo studioso di riferimento è Frist J. A. Bouman, dell’università di Wageningen, Paesi Bassi, che in un suo lavoro del 1995@ spiega come la principale differenza fra i due tipi di associazione sta nel fatto che, nel sistema Rosca, il fondo si forma raccogliendo il contributo dei membri – che può essere settimanale, mensile o avere altra cadenza concordata – e incomincia subito a ruotare, cioè a essere utilizzato da un membro a turno; non ci sono interessi sul prestito e il sistema dura finché l’ultimo membro non ha concluso il proprio turno. Nel sistema Ascra, invece, i fondi non vengono subito ridistribuiti, ma vengono prima accumulati, in genere per un periodo tra i 3 e i 12 mesi, per poi essere presi in prestito anche da più membri contemporaneamente e con tassi di interessi mensili che possono variare tra il 5 e il 15%.

Rotazione e accumulo, alcuni esempi

«Un sistema Rosca tipico dell’Africa occidentale è la tontine e, semplificando molto, funziona così: cinque persone mettono cinque euro ciascuna sul tavolo, così da creare un “piatto” da 25 euro, che la prima persona prende subito in prestito.

Nel secondo giro le stesse persone mettono di nuovo cinque euro ciascuna e sarà un secondo membro a prendere il totale in prestito. Il meccanismo continua così per cinque giri di riempimento del “piatto”, finché non si arriva al quinto membro: mentre i primi quattro hanno avuto un credito, l’ultimo ha di fatto solo realizzato un risparmio, riprendendosi alla fine tutti in una volta i cinque euro che aveva messo a ogni giro».

«Un’altro esempio, più vicino al modello Ascra, è quello delle associazioni di risparmio e prestito del villaggio (anche dette Vsla, Village savings and loan association in inglese), promosse in particolare nei primi anni Novanta del secolo scorso da Care International», confederazione di Ong che coordina 19 Care nazionali e un affiliato. Sono gruppi di risparmio comunitari autogestiti, composti da un numero di persone fra le 15 e le 25, che si riuniscono per risparmiare il proprio denaro, conservarlo in uno spazio sicuro – la scatola verde a tre lucchetti, diventata il simbolo dell’iniziativa – e accedere a piccoli prestiti o ottenere assicurazioni di emergenza. Dal 1991, si legge sul sito di Care, il modello Vsla ha sostenuto più di otto milioni di membri di questi gruppi, per la maggior parte donne.

Chioschi di Mpesa e Airtel

La crisi del 2010

Diversi milioni – trenta per l’esattezza – erano anche i beneficiari del microcredito nello stato dell’Andhra Pradesh, India centro orientale, quando nel 2010 i media internazionali cominciarono a dare conto di quella che poi venne chiamata crisi del microcredito. Secondo il governo indiano, riportava la Bbc nel dicembre di quell’anno@, in pochi mesi più di ottanta persone si erano suicidate perché non erano in grado di rimborsare i micro prestiti ricevuti.

Che cos’era successo? In un articolo sul New York Times del novembre precedente, Lydia Polgreen e Vikas Bajaj spiegavano@ che, se alle sue origini il microcredito era basato su gruppi di autofinanziamento sostenuti da enti no profit e sembrava una promettente via d’uscita dalla povertà, in anni più recenti il settore della microfinanza aveva attirato l’attenzione di società finanziarie non bancarie con scopo di lucro. I loro agenti, con metodi di persuasione piuttosto aggressivi, erano riusciti a convincere molti indiani a prendere micro prestiti senza informarli in modo corretto sui tassi di cambio applicati, spesso molto alti, e senza verificare che le persone coinvolte avessero la capacità reale di ripagare il debito e la preparazione necessaria per intraprendere un percorso del genere. In quei mesi, spiegava sempre a novembre 2010 un’analisi@ del think tank statunitense Cgap, molti clienti di questi enti smisero di restituire i propri prestiti, anche incoraggiati dagli incitamenti populisti di diversi politici indiani, generando così un serio rischio di collasso dell’intero settore bancario indiano, da cui proveniva l’80% del denaro prestato dalle istituzioni di microcredito ai clienti, pari all’equivalente in rupie di circa 4 miliardi di dollari.

I più poveri sono esclusi

Con il passare del tempo la situazione rientrò anche grazie a un intervento del governo dell’Andhra Pradesh, che bloccò i nuovi prestiti e ridusse i livelli di rimborso@. Ma la fiducia che la microfinanza fosse la strada verso la fine della povertà ne uscì piuttosto ammaccata.

«Nella letteratura», commenta Matteo Cortese, «non sembra esserci consenso su una correlazione tra impiego della microfinanza e l’uscita dalla povertà». Sembra inoltre ancora molto attuale un’intervista del 2012 a tre studiosi dell’università di Yale, Dean Karlan, Tony Sheldon e Rodrigo Canales, in cui il professor Sheldon afferma che chiedersi quante persone sono uscite dalla povertà grazie alla microfinanza è una domanda fuorviante e che è più utile concentrarsi su altri aspetti. «È più che altro una questione di resilienza», precisa Sheldon, invitando piuttosto a chiedersi: «Quanto sono ancora vulnerabili queste persone? Sono in grado di preservare i propri mezzi di sostentamento? Riescono a coprire le rette scolastiche, le spese mediche o le spese funerarie? La microfinanza li ha aiutati a essere più resilienti?»@.

Altro elemento da riconoscere al di là della retorica, continua Karlan, è che la microfinanza non raggiunge i più poveri, o lo fa solo in rari casi. Questo avviene ad esempio perché le istituzioni di microfinanza non sono disposte a concedere prestiti e o gestire i risparmi per importi che giudicano troppo piccoli, o perché spesso ai beneficiari è richiesto di avere già una sorta di micro impresa, o almeno un’attività già avviata, e tipicamente i più poveri non hanno niente di tutto questo.

Correzioni necessarie

Un possibile approccio per raggiungere queste persone in povertà estrema, riporta un altro studio Cgap, è il Graduation model, applicato in Bangladesh dalla Ong internazionale Brac, (Bangladesh rural advancement committee). Il modello è basato su cinque elementi fondamentali: l’individuazione dei più poveri tramite una raccolta di dati sul campo approfondita e partecipativa, il sostegno al consumo attraverso la fornitura di cibo o di denaro, il risparmio reso regolare, sicuro e accessibile, la formazione sulle competenze accompagnato da un coaching costante e la fornitura di beni, ad esempio bestiame o strumenti agricoli. L’idea di fondo è quella di fornire prima soluzioni non solo al problema del mancato accesso al credito, ma anche a tutte le altre difficoltà che rischiano di costringere un nucleo familiare a usare le risorse ottenute con la microfinanza non per migliorare la propria condizione ma per soddisfare necessità di base o rispondere a emergenze.

Ci sono anche altri aspetti da correggere se davvero si vuole migliorare l’accesso ai servizi finanziari specialmente per i più poveri, riprende Matteo Cortese. Innanzitutto, benché molte delle persone che avrebbero necessità di accedere al credito siano attive nell’agricoltura, molte istituzioni sono restie a finanziare questo settore, perché è un’attività altamente rischiosa e poco redditizia.

Sarebbe necessaria una maggiore elasticità anche da parte degli enti regolatori del sistema finanziario (le banche centrali) per evitare di sfavorire gli istituti di microfinanza che finanziano i piccoli produttori agricoli e che hanno inevitabilmente un portafoglio a rischio (Par) maggiore delle banche classiche che lavorano in ambito urbano. Limitare le operazioni degli istituti di microfinanza significa togliere risorse esattamente ai settori e agli utenti che più ne hanno bisogno. E si tratta di un bacino d’utenza notevole: riportava proprio la Bceao (Banca centrale degli stati dell’Africa dell’ovest) a novembre 2024@ che nella zona dell’unione monetaria – che comprende otto stati e ha come moneta il franco Cfa – le istituzioni di microfinanza erano 539 e, attraverso una rete di 4.921 punti di servizio che raggiungevano 18.923.770 clienti.

«I meccanismi di finanza mista (blended finance mechanisms)», conclude Cortese, «possono fare la differenza anche riguardo alla gestione del rischio in settori come l’agricoltura rurale». In estrema sintesi, il blending consiste nell’abbattere, o almeno nell’attenuare, i rischi legati agli investimenti allo sviluppo in contesti svantaggiati collegando i finanziamenti forniti dall’aiuto pubblico ai prestiti da parte di istituzioni pubbliche o di investitori commerciali, in modo da superare l’avversione al rischio di questi ultimi. Naturalmente, i benefici sono massimizzati solo se gli eventuali investimenti così attirati non vengono usati dai governi come pretesto per diminuire la propria quota di aiuto pubblico allo sviluppo.

Chiara Giovetti


Il microcredito in Costa d’Avorio

È  in fase di avviamento, in questi primi mesi del 2025, un nuovo progetto di microcredito a San Pedro, grande città portuale della Costa d’Avorio.

Finanziato da donatori privati, il progetto coinvolgerà nella fase iniziale quindici donne che partecipano già ora alle attività del Centro di animazione missionaria e alla gestione dei locali commerciali del Consolata Shop, un negozio aperto nell’agosto del 2024 per promuovere la vendita di prodotti locali, sia di artigianato che alimentari.

Le donne sono già coinvolte anche in un sistema di risparmio annuale con una struttura detta tontine, che fornirà garanzie di solvibilità in caso di mancato rimborso.

Le partecipanti saranno divise in tre gruppi da cinque e ciascun gruppo riceverà l’equivalente di 765 euro in franchi Cfa, da dividere equamente fra tutte le donne. I crediti saranno concessi con un interesse del 10% e condizioni flessibili per il loro rimborso e si punterà ad aumentare gradualmente il numero delle persone coinvolte. Il progetto prevede anche due seminari di formazione su gestione finanziaria, marketing e sviluppo e il Consolata Shop sarà poi il punto vendita per i prodotti che le donne realizzeranno.

Chi.Gio.




Il tocco delle tue mani


Sento ancora il tocco delle tue mani ruvide sui miei piedi. Mani vive, callose, come quelle di mio padre, di mio nonno. Il tuo lavare, asciugare, accarezzare la mia pelle, ha reso più sensibili i miei timpani che vibrano alle tue parole. Tu mi dici di rimanere in te.

Eppure sai che tra poco ti porteranno via, sai che domani a questa stessa ora sarai un corpo morto, disteso nel buio impenetrabile di un sepolcro.

Lo sai, eppure mi chiedi di rimanere in te.
E mi assicuri che tu rimarrai in me.

Io sono qui, tra il calore calmo delle tue mani sui miei piedi
e la visione del tuo sangue sopra un legno.

Come rimanere in te? Come rimani tu in me?

Com’è che io e te non ci perderemo?

Aprirai una strada nella morte?

Buon cammino a piedi nudi verso la Pasqua,

da amico
Luca Lorusso

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Danilo Dolci, un uomo di pace


Nato cento anni fa, il «Gandhi italiano» è stato nel nostro Paese uno dei pensatori più influenti della nonviolenza, della lotta contro la povertà e per l’emancipazione del Sud Italia. Il suo impegno sociale ed educativo, il suo metodo maieutico e partecipativo, sono attuali ancora oggi. Un libro ci spiega perché.

«Un cambiamento non avviene senza forze nuove, ma queste non nascono e non crescono se la gente non si sveglia a riconoscere i propri interessi e i propri bisogni».

Così diceva Danilo Dolci (1924-1997), uno dei pensatori più influenti della nonviolenza e della lotta contro la povertà e per l’emancipazione del Sud Italia.

Nel centenario della sua nascita, la sua figura è tornata all’attenzione del pubblico.

Per l’occasione, infatti, oltre a una serie di iniziative importanti sparse sul territorio italiano, è uscita una nuova edizione, per Altreconomia, del testo Danilo Dolci. Una rivoluzione nonviolenta. Il volume è curato da Giuseppe Barone, collaboratore di Dolci sin dal 1985, attuale vicepresidente del Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci, e coordinatore del comitato scientifico del Borgo Danilo Dolci (Trappeto, Palermo).

Danilo Dolci fu soprannominato «Gandhi della Sicilia» o «Gandhi italiano» perché dedicò la sua vita al miglioramento delle condizioni dei contadini della Sicilia adottando metodi nonviolenti. Utilizzò, infatti, il digiuno, ed elaborò il metodo maieutico reciproco per costruire le soluzioni dei problemi sociali insieme alle persone direttamente coinvolte.

Un esempio di democrazia dal basso che oggi, in un momento di grande scollamento tra i cittadini e politica, ritrova la sua attualità.

Biografia di un nonviolento

Il testo di Giuseppe Barone raccoglie una serie di scritti che documentano la vita e le opere di Dolci, e include interviste e testi poco conosciuti che mettono in luce la profondità del suo pensiero e del suo impegno in vari ambiti della società.

Oltre alla biografia di Dolci, nel volume troviamo un ricordo di Luca Baranelli, un’intervista di Mauro Valpiana allo stesso Dolci, nella quale l’intervistato denuncia il rapporto mafia-politica e il riemergere del fascismo già nel 1995, non solo in Sicilia, ma nelle maglie dello Stato.

Di grande interesse sono anche i testi tratti da alcune delle più importanti opere di Dolci come Per una rivoluzione nonviolenta, Dal trasmettere al comunicare e Il metodo maieutico reciproco, dove compie un’attenta analisi della realtà nella quale lavora e illustra il suo impegno sociale ed educativo ispirato alla nonviolenza.

Se c’è una metafora che può indicare l’azione di Danilo Dolci è senz’altro quella della domanda. Attraverso le domande, infatti, egli scavava con bambini e adulti nel terreno dei bisogni e creava con loro le possibili risposte che diventavano progetto politico.

Solo allora intraprendeva mobilitazioni e contatti con i politici del momento, ottenendo anche importanti risultati come la costruzione della diga sul fiume Jato, nella Sicilia Nord occidentale.

Senza dimenticare la creazione del Centro educativo di Mirto (Messina), una scuola immersa nella natura, costruita a misura di bambino.

Basti pensare che ogni aula ha tre entrate che danno tutte sulla campagna, le finestre sono basse, in modo che ogni bambino, anche da seduto, possa vedere fuori, i banchi disposti a cerchio in modo che ci sia coerenza tra il metodo maieutico e la struttura.

Solo così si può passare da una scuola incentrata sul «trasmettere» a una scuola che vuole «comunicare» e costruire un sapere condiviso, basato sull’interesse nei confronti del mondo, così naturale nei bambini e così schiacciato negli adulti.

Un libro da sorseggiare, da assaporare, da leggere insieme perché possa diventare di nuovo realtà.

Rita Vittori
Centro studi Sereno Regis


Piccola bibliografia

  • https://danilodolci.org/
  • www.borgodanilodolci.com/
  • Danilo Dolci, Banditi a Partinico, Sellerio editore, Palermo 2009, pp. 433, € 15,00.
    • Un libro tramite il quale Dolci voleva far conoscere le condizioni in cui versava nel secondo dopoguerra la popolazione della Sicilia fatta di banditi, cioè esclusi dalla società.
  •  Danilo Dolci, Dal trasmettere al comunicare, Sonda edizioni, Milano 2011, pp. 295, € 18,00.
    • Pubblicato per la prima volta nel 1988, in questo saggio Danilo Dolci denuncia i danni causati in ogni ambito da rapporti unidirezionali, trasmissivi, violenti, e propone l’alternativa della comunicazione, della maieutica reciproca, della nonviolenza.
  • Danilo Dolci, Inchiesta a Palermo, Sellerio editore, Palermo 2013, pp. 378, € 18,00.
    • È un’inchiesta su quelli che si industriano e si arrangiano, cioè i disoccupati di Palermo alla fine degli anni 50. Una massa di persone che viveva ai margini della società e in uno stato di degrado.
  •  Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio editore, Palermo 2011, pp. 425, € 15,00.
    • Danilo Dolci racconta lo «sciopero alla rovescia» nel quale guidò un gruppo di braccianti alla ricostruzione di una strada abbandonata nei dintorni di Partinico e per il quale venne arrestato nel 1956. Descrive cosa accadde nelle piazze, nei tribunali, nelle stanze di polizia. È un documento prezioso per capire quanto fosse dura la strada per affermare la democrazia repubblicana in Italia in quegli anni.
  • Danilo Dolci, Il potere e l’acqua, Melampo editore, Milano 2010, pp. 94, € 12,00.
    • In questo scritto emerge l’esperienza di Danilo Dolci con le popolazioni siciliane sul tema dell’acqua: risorsa fondamentale che può diventare strumento di potere con cui creare disuguaglianze e manipolazioni dell’ordine sociale.
  •  Danilo Dolci, Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educativa, Edizioni Mesogea, Messina 2018, pp. 301, € 19,50.
    • È una delle più belle testimonianze dell’impegno educativo di Danilo Dolci all’indomani delle lotte per la diga sullo Jato e di fronte alla spaventosa situazione delle scuole dei territori colpiti dal terremoto.