Siria: In posa con i «liberatori»

Viaggio nella nuova Syria

Ad Aleppo, prima città liberata, la folla festeggia la liberazione dal regime degli Assad. Foto Angelo Calianno.
Siria
Angelo Calianno

Dopo 54 anni, è crollato il regime della famiglia Assad. La gran parte dei siriani ha festeggiato. La domanda principale è: i nuovi padroni islamisti saranno affidabili? Reportage da Damasco, Maaloula, Idlib e Bosra.

Giovedì 12 dicembre 2024. Entriamo in Siria in auto, arrivando da Beirut. Sono trascorsi cinque giorni dalla presa di Damasco da parte dei ribelli dello Hay’at Tahrir al-Sham (Hts).

Passato il confine libanese, non esiste più un’autorità ufficiale: non c’è un controllo documenti o qualcuno che metta un visto sui nostri passaporti. Troviamo solo alcuni militanti armati che ci chiedono il motivo del nostro passaggio. Quando mostriamo i tesserini da giornalisti, ci sorridono e ci indicano la via. La strada che porta a Damasco è disseminata di mezzi militari bruciati, carri armati di fabbricazione russa abbandonati, postazioni lanciamissili distrutte: è quello che rimane della fuga dell’esercito governativo.

In questi giorni, la capitale siria-na è meta di un vero e proprio pellegrinaggio. Migliaia sono le persone che arrivano alla grande moschea degli Omayyadi. Viaggiano fino a qui per festeggiare la caduta del regime degli Assad, dittatura che ha tenuto in ostaggio questo Paese per 54 anni.

Si viene qui anche per conoscere i «liberatori»: i ribelli dell’Hts. Decine di ragazzini si fanno fotografare accanto ai combattenti, a volte anche in posa imbracciando le loro armi. Molti dei ribelli, sul braccio, hanno cucito lo stemma che riproduce la prima parte della Shahādah, ovvero la frase riportata sul Corano: «Non esiste nessun Dio se non Allah».

Lo stesso motto era stato adottato dai membri dell’Isis in Iraq, e dai Talebani in Afghanistan.

Quando facciamo notare questo particolare a uno dei combattenti, ci risponde: «Queste sono parole di cui Daesh si è appropriato mettendole sulla propria bandiera, ma appartengono a tutto l’islam. Noi non abbiamo nulla a che vedere con loro. Anzi, li combattiamo».

La maggior parte dei «ribelli», con cui parliamo, arriva da Idlib, città che è stata la roccaforte dell’Hts dal 2017. Ma, guardandoci attorno con un occhio più attento, notiamo anche alcuni mercenari stranieri: un ucraino e alcuni ceceni che, a parte dirci la loro provenienza, si rifiutano di rilasciare dichiarazioni.

Ogni giorno, a Damasco, nella grande moschea degli Omayyad arrivano centinaia di fedeli islamici a pregare insieme ai ribelli dell’Hts. Foto Angelo Calianno.

Carceri e fosse comuni

Le immagini degli Assad, padre e figlio, che tappezzavano ogni angolo della nazione, ora sono oggetto di qualsiasi tipo di vandalismo. Ovunque, si cancellano i volti della famiglia dei dittatori. Si coprono tutte le vecchie bandiere, prima dipinte sulle serrande dei negozi e sui muri di ogni città, per sostituirle con l’immagine del nuovo vessillo: una bandiera verde, bianca, nera e con tre stelle.

La maggior parte delle persone con cui parliamo è entusiasta di questo cambiamento. L’aria è davvero elettrica.

In un caffè nel centro di Damasco, saturo del fumo di narghilé, incontriamo Bilal. Lo avevamo già conosciuto anni fa, durante la guerra, ora ci confessa: «È difficile far capire la nostra felicità in questo momento. Quando siete stati qui, l’ultima volta, io non ho potuto dirvi quasi nulla per paura delle spie. Ho dovuto anche riportare la vostra presenza, e il dettaglio dei nostri incontri, alla “polizia segreta” di Assad, proprio perché tutto doveva essere controllato. Oggi, come vedi, siamo liberi di insultarlo, di prenderlo in giro cantando cori contro la sua famiglia. Io sono nato e cresciuto nel regime, l’idea di dirvi quello che vi sto dicendo adesso era impensabile solo pochi giorni fa. La paura, però, è così radicata in noi che, anche ora mentre vi parlo, non sono totalmente tranquillo e continuo a guardarmi le spalle. Ho ancora il timore che qualcuno possa ascoltarmi e denunciarmi. Ci vorrà tempo per togliersi queste abitudini».

Per una parte di nazione che festeggia, ce n’è un’altra che fa i conti con il dolore e la ricerca dei propri cari. Gli oppositori degli Assad venivano arrestati per poi «scomparire», senza quasi lasciare traccia. Nessuno dei familiari sapeva esattamente in quali penitenziari si trovassero e se fossero vivi o morti.

Oggi, tutti i parenti degli ex detenuti affollano le prigioni del regime, carceri come quelle di Saydnaya. Provano a cercare documenti o indizi che possano riaccendere una speranza. Centinaia di genitori e figli si radunano anche fuori dagli obitori e, tra le foto dei cadaveri riesumati dalle fosse comuni, provano a identificare particolari attraverso i quali riconoscere i propri familiari.

Non tutti i siriani sono ottimisti quando guardano al futuro, alcuni sono molto cauti e hanno anche timore nel parlare.

A Maaloula, la cristiana

Una ragazza si fa ritrarre con un kalashnikov in mano nel cortile della moschea degli Omayyad. Foto Angelo Calianno.

Arriviamo a Maaloula, cittadina cristiana di circa duemila abitanti, a un’ora da Damasco. Qui si parla ancora l’aramaico e i suoi monasteri, come quello di Santa Tecla, fanno parte dei siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco.

Nel 2013, Maaloula divenne tristemente famosa per gli attacchi subiti dal gruppo estremista di al-Nusra. Per due mesi l’esercito siriano, insieme ai miliziani cristiani, provò a contrastare l’assedio dei combattenti di al-Nusra, capitolando poi il 2 dicembre.

I cristiani vennero accusati di essere alleati di Assad. Per punire la loro resistenza, i militanti jihadisti bruciarono case e chiese, in seguito, rapirono anche dodici suore dal monastero di Santa Tecla. Le religiose rimasero in ostaggio per tre mesi. Furono, infine, liberate in uno scambio con prigionieri detenuti nelle carceri di Assad.

Il gruppo di al-Nusra era stato fondato tra il 2011 e il 2012, proprio da Abu Mohammed al-Jawlani, attuale leader dell’Hts e della «Nuova Siria». Fu lui a coordinare l’assedio e la conquista di Maaloula.

Quando cerchiamo di intervistare alcune suore nel monastero, ci chiedono rispettosamente di andare via. Nessuno ha voglia di parlare. Proviamo ad avvicinare alcuni abitanti del villaggio. Un gruppo di ragazzi vorrebbe dirci qualcosa, ma vengono subito zittiti dagli uomini più anziani. Un signore, mentre allontana i giovani che volevano parlare con noi, ci dice: «Questo non è il momento di fare dichiarazioni. Noi ora aspettiamo di vedere quello che accadrà. Sicuramente, per noi una cosa è importante: non cederemo le nostre armi».

Malgrado, almeno a prima vista, la maggior parte dei siriani esprima gioia, positività e parli di pace, tutti cercano di recuperare armi, quasi in maniera ossessiva.

Data la fuga improvvisa dell’e-sercito, gli armamenti si trovano abbandonati ovunque. Le persone frugano nei mezzi militari incustoditi, nei vecchi depositi e al mercato nero. Tutti le hanno in casa, ma sembrano non bastare mai.

Jawlani ha dichiarato che uno dei primi obiettivi del nuovo governo sarà quello di disarmare i civili. Ma nessuno di quelli con cui parliamo pare pronto ad accettare questa disposizione.

Il colonnello Naseem Abu Ara (Ottava brigata), seduto sui gradini dell’anfiteatro romano di Bosra. Foto Angelo Calianno.

A Idlib, l’Hts e tante armi

Ci spostiamo a Idlib, città al confine con la Turchia e centro nevralgico dell’Hts dal 2017. Nonostante venga dipinta, almeno dai ribelli che la governano, come un esempio virtuoso di benessere e convivenza tra religioni, troviamo un’atmosfera piuttosto conservatrice. La città, anche se ufficialmente non lo è, sembra sotto una severa sharia islamica.

Nel centro di Idlib, entriamo in uno dei negozi di armi. Qui si può comprare di tutto e in modo perfettamente legale: dai lanciarazzi ai mortai, dai vari tipi di kalashnikov alle pistole. Come commesso troviamo Hussein, un bambino che, già a dieci anni, è esperto di calibri e uso delle armi leggere. Il negozio è affollatissimo. Nessuno sa come sarà la prossima legge sulle armi. Questi luoghi potrebbero essere chiusi e gli armamenti sequestrati. Quindi, si cerca di vendere e comprare tutto e il più presto possibile.

A Bosra, l’Ottava brigata

Parlando della «liberazione» della Siria, i media internazionali hanno quasi sempre nominato l’Hts di Jawlani come unico artefice della fine di Assad. In realtà, le operazioni hanno visto agire (almeno ufficialmente) quattro diversi gruppi autonomi e su più fronti.

Uno dei più importanti, e il primo ad entrare a Damasco, è stato quello dell’Ottava brigata, milizia (un tempo finanziata dalla Russia) che controlla il Sud della Siria, nella provincia di Dar’a. Riusciamo a ottenere un’intervista con l’ufficiale più alto in grado, il colonnello Naseem Abu Ara.

Ci accoglie a Bosra, all’interno dello splendido teatro romano della città: «Benvenuti nella Siria libera!». Ci dice molto calorosamente.

«Possiamo dire con orgoglio di essere stati i primi ad entrare a Damasco. E con altrettanto orgoglio, affermare che il nostro primo pensiero è stato quello di mettere al sicuro i corpi diplomatici e i funzionari stranieri. Non ci aspettavamo di vincere così velocemente. Prospettavamo che la battaglia per riconquistare Damasco potesse durare almeno sei mesi. Ma quando abbiamo cominciato ad avanzare, i militari di Assad sono fuggiti abbandonando armi e mezzi. È anche importante sapere che i nostri rivoluzionari sono professionisti, mentre l’esercito di Assad era formato da soldati di leva molto inesperti. Ma ora il tempo di combattere è terminato. Il nostro obiettivo era quello di liberarci degli assassini del regime. Adesso vogliamo solo la pace per tutti i siriani.

Alcuni organi di stampa si sono detti preoccupati per le minoranze etniche e religiose in questo Paese. Per quel che mi concerne, non attaccheremmo mai altri siriani. Non importa la loro razza o religione: per noi ogni siriano fa parte della nostra nazione e, in quanto tale, va protetto».

Quando gli chiediamo quale sarà il futuro della Siria e qual è il suo rapporto con Jawlani, ci risponde: «Non abbiamo ancora avuto un vero incontro per parlare dei prossimi passi. Ci vorranno alcuni mesi. Inizialmente, siamo stati in disaccordo sulla loro idea di governare tutta la Siria avendo come unico centro Damasco. Il nostro obiettivo è quello di mantenere controllo e sicurezza nella regione del Sud. Sono sicuro che riusciremo a trovare una soluzione. La nostra volontà non è quella di creare divisioni interne, ma di mantenere la pace. In ogni caso, quando si formerà un governo, il nostro primo obiettivo sarà quello di mantenere i diritti delle popolazioni del Sud».

Per molti analisti che studiano il Medio Oriente e anche per molti intellettuali siriani che, dopo anni di esilio, potranno finalmente tornare in patria, la Siria verrà divisa in diverse regioni, tante quante sono i grup-pi che hanno combattuto contro Assad.

Un uomo imbianca una saracinesca cancellando la vecchia bandiera della Siria.; questa azione, altamente simbolica, è avvenuta in ogni angolo della Paese. Foto Angelo Calianno.

Nuovi abiti, stesse regole?

In alcune sue dichiarazioni, Jawlani ha affermato che ci vorranno quattro anni per le prossime elezioni. Nel frattempo, la sua immagine sta cambiando. Sono stati dismessi gli abiti da combattente in favore di vestiti eleganti. Il suo nome di battaglia, Abu Mohammed al-Jawlani, sta progressivamente sparendo dalle news e dai social media in favore del suo vero nome: Ahmed al-Sahara. Su Wikipedia, la biografia del nuovo leader della Siria è stata modificata più di 400 volte nel solo mese di dicembre.

In un’intervista alla Bbc, Jawlani ha detto: «Ora abbiamo bisogno che le sanzioni verso la Siria vengano tolte. Quelle riguardavano il precedente regime. L’Hts non è mai stato un gruppo terroristico, perché non ha mai preso di mira i civili. Smentisco quello che è stato detto su di me, cioè che voglio trasformare la Siria in una sorta di Afghanistan. L’Afghanistan nasce da comunità tribali, i siriani hanno un altro modo di pensare».

Il 14 dicembre 2024, mentre Jawlani rilasciava queste dichiarazioni, centinaia di donne scendevano nella piazza principale di Aleppo per protestare. Erano le mogli di uomini incarcerati dall’Hts, detenzioni avvenute nei primi anni della sua fondazione. Le manifestanti hanno accusato Jawlani di aver messo in galera i propri mariti, colpevoli di aver rifiutato di prendere parte alle operazioni più radicali della sua organizzazione.

Durante la protesta, le donne hanno distribuito volantini su cui era scritto: «La nostra rivoluzione continuerà finché la dittatura secolare non sarà eliminata. Vogliono cambiare volto, ma mantenere le stesse regole».

Angelo Calianno

Nella prigione di Saydnaya, a Sud di Damasco, un uomo cerca tra i registri sparsi ovunque tracce del passaggio di suo figlio; in questo carcere di Assad sono stati rinchiusi migliaia di detenuti, anche minorenni. Foto Angelo Calianno.

I nuovi padroni (e i loro finanziatori)

Le quattro organizzazioni

Il gruppo Hay’at Tahrir al-Sham, meglio noto con il suo acronimo Hts, è nato da una parte di al-Nusra, nato a sua volta da una costola di al-Qaeda. Al-Nusra era stato fondato e comandato da Jawlani, inizialmente come fronte armato di al-Qaeda per le operazioni in Siria, successivamente, nel 2016, è diventato indipendente per disaccordi strategici su come agire nel Paese. Ha cambiato così il suo nome trasformandosi nell’odierno Hts.

Il gruppo è stato attivo principalmente nel Nord Ovest della Siria, soprattutto nella provincia di Idlib e in una parte di Aleppo. L’Hts conta circa 10mila militanti attivi. Oltre a questi, sono presenti altri due sottogruppi, uno dei quali è formato da mercenari stranieri. Jawlani ha sempre dichiarato che l’Hts è totalmente autofinanziato. Sono però molti i sospetti che non possa essere davvero così. Anche se non ci sono prove ufficiali, tutti i numeri portano a un coinvolgimento economico degli Stati Uniti, di Israele (che – in cambio – otterrebbe e occuperebbe i territori vicino al proprio confine), e di alcuni Emirati arabi che avevano interesse a vedere Assad fuori gioco.

La Syrian national army (Sna) è un’organizzazione finanziata principalmente dalla Turchia, che la usa come fronte per combattere i curdi e riconquistare le terre dell’Est, denominate oggi come «Stato indipendente del Rojava». La Sna ha agito in maniera autonoma e non coordinata con l’Hts, gruppo con il quale è spesso in disaccordo. Gli screzi tra Sna e Hts potrebbero essere uno dei problemi per la formazione del prossimo Stato siriano.

Il Free syrian army (Fsa) è nato nel 2011 da un gruppo di disertori dell’esercito di Assad ed è finanziato dal Qatar.

Infine, l’Ottava brigata, conosciuta localmente come «La Brigata dei leoni della guerra», è stata finanziata per anni dalla Russia per combattere l’Isis nelle regioni del Sud della Siria. L’Ottava brigata è stata quella militarmente più coinvolta nella presa di Damasco. Punta a mantenere una sorta di propria autonomia e gestione nelle regioni del Sud.

An.Ca.

Yarmouk, il quartiere palestinese di Damasco, è stato il primo luogo a ospitare i ribelli dell’opposizione anti Assad per questo fu pesantemente bombardato tra il 2011 e il 2012; qui un furgoncino raccoglie i bambini da accompagnare a scuola. Foto Angelo Calianno.

Da terrorista (con taglia) a presidente

Al-Jawlani, il nuovo leader

Abu Mohammed al-Jawlani è il leader dell’Hts e oggi della Siria. Il suo vero nome è Ahmed al-Sahara. Nato a Riyadh nel 1982, Jawlani passa i primi sette anni della sua vita in Arabia Saudita, paese dove il padre lavora come ingegnere petrolifero. Lui e la sua famiglia fanno ritorno in Siria nel 1989. Da ragazzo, Jawlani comincia a studiare medicina, studi che poi abbandona nel 2003 per unirsi ad al-Qaeda. Con questa combatte in Iraq contro gli Stati Uniti fino al 2006, quando, sempre in Iraq, viene arrestato dalle forze statunitensi e passa cinque anni in galera. Uscito di prigione, viene mandato da al-Baghdadi in Siria per creare un nuovo fronte a Idlib: l’al-Nusra. Quando al-Baghdadi lascia al-Qaeda per formare Daesh, prova ad annettere anche l’al-Nusra di Jawlani. Qui si crea la prima grande frattura tra i due, non sul modo di operare ma sui luoghi in cui operare. Jawlani dichiara di essere contro l’idea del califfato globale di al-Baghdadi, e di voler concentrare le sue azioni all’interno dei confini siriani. Nel 2017, Jawlani raggruppa migliaia di militanti anti Assad da diverse provincie siriane e forma il suo attuale gruppo, l’Hts. Gli Stati Uniti avevano messo su di lui una taglia di dieci milioni di dollari per atti terroristici. Oggi quella taglia è stata revocata e Jawlani, dopo essere stato ricercato per anni, non è più annoverato nelle liste dei terroristi.

An.Ca.

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