Cina. Danzando tra abbracci e giravolte
In un Paese ufficialmente ateo, Pechino tollera con fastidio le religioni. Per controllare i cattolici (stimati sotto l’uno per cento della popolazione), nel 1958 venne istituita l’«Associazione patriottica cattolica cinese». Dal 2018 tra Cina e Vaticano vige un accordo che ha attenuato i contrasti.
Nell’aprile 2023, all’insaputa della Santa Sede, Joseph Shen Bin viene ordinato nuovo vescovo di Shanghai unilateralmente da Pechino, spingendo la segreteria di Stato del Vaticano a bollare la decisione come una violazione dello «spirito di dialogo e collaborazione instaurato nel corso degli anni».
Tre mesi dopo, Shen riceve la consacrazione di papa Bergoglio. Ma, passato meno di un anno, nel gennaio 2024 un altro incidente minaccia i rapporti sino vaticani: l’arresto del vescovo di Wenzhou, Peter Shao Zhumin, non riconosciuto dal governo cinese e per questo periodicamente recluso dalle autorità locali per impedirgli di svolgere il proprio ministero.
Il presule – riporta AsiaNews – aveva espresso opposizione al trasferimento di alcuni sacerdoti nella propria diocesi, alla divisione delle parrocchie, nonché al declassamento di un’altra diocesi locale a parrocchia.
È l’ultimo atto della turbolenta danza diplomatica tra Pechino e il Vaticano. Una danza scandita da giravolte spesso brusche e periodici abbracci.
Il regime e le religioni
Quella tra i due partner è una storia apparentemente impossibile. Ufficialmente atea dall’istituzione del regime comunista, la Repubblica popolare da sempre tollera con fastidio le religioni, considerate «oppio dei popoli». Specialmente quelle importate dall’esterno che il Partito-Stato, ossessionato dalla stabilità sociale, ritiene veicolo di idee potenzialmente sovversive.
Una posizione che diventa più netta da quando nel 2013 Xi Jinping assume la presidenza con la promessa di compiere la «rinascita nazionale»; ovvero vendicare l’umiliazione subita durante l’occupazione imperialista subita tra il XIX e il XX secolo.
È un capitolo della storia cinese che riguarda molto da vicino la comunità cattolica, perseguitata durante la rivolta dei Boxer (1899-1901), perché considerata responsabile dell’invasione straniera del Celeste impero.
Con la caduta della dinastia Qing e la nascita della Repubblica di Cina nel 1911, l’opera missionaria, consolidata in epo-
ca Ming (1368-1644) da Matteo Ricci e i gesuiti, affronta un ambiente politico complesso. A quel tempo, gli interessi della Santa Sede nel paese sono rappresentati da un delegato apostolico (privo di uno status diplomatico formale) fino al 1943, anno in cui vengono istituiti rapporti ufficiali con la Repubblica di Cina. Passo storico suggellato dall’arrivo a Nanchino dell’internunzio Antonio Riberi.
Il numero dei cattolici in Cina aumenta significativamente, ma le difficoltà continuano, soprattutto dopo la vittoria di Mao Zedong contro i nazionalisti e la fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949.
Le autorità comuniste arrestano Riberi con l’accusa di collusione con l’intelligence americana e partecipazione a un presunto complotto per uccidere il «Gran-de Timoniere». Nel 1951, sotto scorta della polizia, Riberi viene deportato a Hong Kong, all’epoca colonia britannica. Lo stesso anno la Cina interrompe le relazioni diplomatiche con la Santa Sede, riconoscendo questa il governo di Taiwan, l’isola che oggi Pechino vuole riannettere a tutti costi, con mezzi pacifici o con le armi (vedi articolo pag. 47, ndr).
Anno 1958: la Chiesa patriottica cattolica cinese
È nel 1958, con la creazione dell’«Associazione patriottica cattolica cinese» (Apcc), la cosiddetta Chiesa «ufficiale», che cominciano le prime nomine vescovili illecite, ovvero senza il consenso del Papa. Da allora, il cattolicesimo – come tutte le altre quattro religioni ammesse dalla Costituzione cinese (buddhismo, taoismo, islam, protestantesimo) – può operare solo sotto la supervisione dell’«Amministrazione statale per gli affari religiosi», che oggi è controllata dal dipartimento del Lavoro del fronte unito, e in ultima battuta dal Comitato centrale del partito comunista. Un’ingerenza a cui da decenni si oppone la comunità cattolica fedele al Vaticano, continuando a praticare la fede in clandestinità. Oggi più che bandire la religione, Pechino sembra intenzionato ad addomesticarla e a servirsene per scopi politici.
In anni recenti, il cattolicesimo, che non arriva all’1% della popolazione, è riuscito a intercettare le esigenze della classe media urbana alla ricerca di una rinnovata spiritualità con cui riempire il vuoto ideologico indotto dall’«arricchimento glorioso» e dall’impoverimento valoriale del «socialismo con caratteristiche cinesi» (leggi: capitalismo di Stato). Se imbrigliato, può quindi diventare una forma di conforto davanti alle storture sociali che il Partito unico non riesce a raddrizzare.
La Santa sede e l’Occidente
La religione cattolica è anche un potenziale strumento diplomatico in tempi di tensioni internazionali. Mentre i rapporti Stati Uniti ed Europa sono ai minimi storici, Pechino ha trovato nella Santa sede un inaspettato alleato per acquistare punti agli occhi dell’Occidente. Il Vaticano, da parte sua, pur intrattenendo ancora relazioni ufficiali con Taipei, vede nella Repubblica popolare un interlocutore imprescindibile per realizzare la propria missione evangelica in Asia. Secondo pronostici di Yang Fenggang, direttore del Center on religion and chinese society presso la Purdue University (Indiana, Usa), nei prossimi undici anni la popolazione cinese protestante raggiungerà i 160 milioni, mentre quella cristiana nella sua interezza toccherà i 247 milioni di membri entro il 2030. Stabilire rapporti cordiali con la leadership comunista è diventata quindi una priorità per la segreteria di Stato e il cardinale Pietro Parolin.
Vescovi «illegittimi» e vescovi «clandestini»
Compiendo un passo storico, il settembre 2018 il governo cinese e le autorità vaticane hanno siglato un accordo provvisorio sulle nomine vescovili. L’intesa – rinnovata per la terza volta lo scorso ottobre – non solo ha posto fine a decenni di ordinazioni episcopali avvenute senza il consenso papale, ma ha anche riunito la comunità cattolica. Questa conterebbe tra i 6 e i 12 milioni di fedeli, senza la distinzione tra «Chiesa ufficiale», controllata dal governo cinese, e «Chiesa clandestina», fedele al pontefice. Il significato simbolico è ugualmente rilevante: per la prima volta, Pechino ha riconosciuto l’autorità religiosa del Papa in Cina, una concessione che, in epoca imperiale, i missionari gesuiti non ottennero mai. Certo, molto resta da fare.
A oggi ci sono ancora una ventina di vescovi ordinati in precedenza dalla Santa Sede in maniera «riservata» ma che, non essendo stati né eletti, né nominati, né consacrati secondo le regole disposte anche dal governo cinese, non sono considerati formalmente come presuli. Ma lo stallo, in diversi casi, è stato risolto dal punto di vista canonico su base locale: nelle diocesi dove si trovavano a coesistere vescovi «illegittimi» – ovvero ordinati solo secondo le procedure volute dal governo cinese – e vescovi «clandestini» – nominati dal Papa ma non riconosciuti da Pechino -, il Vaticano ha accettato di legittimare il presule ufficiale, mentre il «clandestino» è stato riconosciuto anche dalle istituzioni cinesi come «vescovo ausiliare» della medesima diocesi. Questo tipo di sperimentazioni sta contribuendo a sanare lo scisma che per decenni ha afflitto la Chiesa cattolica cinese.
Per Gianni Valente, direttore dell’agenzia Fides, «la linea prospettica, a lungo termine, resta nel fatto che questi casi si risolveranno lentamente in un modo o nell’altro, per certi versi anche naturalmente».
Articolo 36 e «sinizzazione»
Insomma, la diplomazia sino-vaticana sta facendo il suo corso. Questo tuttavia non risolve il problema di fondo: il governo comunista continua a nutrire forte sospetto nei confronti dei culti importati dall’estero. Nella visione di Pechino, serve quindi addomesticarli per renderli innocui. I leader cinesi la chiamano «sinizzazione della religione», termine inserito persino nel rapporto presentato da Xi al Congresso del partito che, nel 2017, ha segnato l’inizio del suo secondo mandato presidenziale. In concreto, vuol dire reinterpretare la Bibbia e inserire «elementi della tradizione cinese» nella liturgia, la musica sacra, gli abiti clericali e gli edifici ecclesiastici. Obiettivo perseguito anche attraverso un inasprimento del quadro normativo.
Nel luglio 2023, l’«Amministrazione statale per gli affari religiosi» ha introdotto le «misure amministrative per i luoghi di attività religiosa» che, abrogando la vecchia normativa del 2005, puntano a «standardizzare la gestione dei luoghi di culto, proteggere le normali attività religiose e salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi dei cittadini credenti».
Tuttavia, molte delle disposizioni sembrano contraddire l’articolo 36 della Costituzione cinese, che garantisce «libertà di credo religioso».
Come si legge all’articolo 3 della nuova legge, «i luoghi di attività religiosa devono sostenere la leadership del Pcc e il sistema socialista, implementare a fondo l’ideologia di Xi Jinping del socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era […] praticare i valori socialisti fondamentali, aderire alla direzione della sinizzazione delle religioni della Cina». Provvedimenti, questi, che esplicitano l’imposizione della cultura cinese (han) alle minoranze etniche e religiose senza riguardo per le loro tradizioni e specificità. Non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Ai luoghi di culto viene, infatti, chiesto di «riflettere uno stile cinese e integrare la cultura cinese nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nella decorazione e in altri aspetti visivi».
Chiese e moschee
Le misure amministrative giustificano de iure una pratica attuata de facto da molti anni. Se nel 2015, circa 1.200 chiese erano state spogliate delle loro croci, secondo il Financial Times, tra il 2018 e il 2023, tre quarti delle oltre 2.300 moschee presenti in Cina sono state modificate, private di cupole e minareti, o completamente distrutte.
Per i duri e puri, è la conferma che di Pechino non ci si può fidare; che con le sue moine il partito ha raggirato la Santa sede; che l’accordo sui presuli è servito solo a distogliere l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani.
Il cardinale di Hong Kong, Joseph Zen, lo va dicendo da tempo. Da prima che, nel 2022, venisse condannato al pagamento di sanzioni pecuniarie per la mancata registrazione di un fondo di assistenza umanitaria, creato per sostenere gli attivisti dell’ex colonia britannica a processo per le proteste pro democrazia del 2019. Eppure, è innegabile: la stretta sulla comunità cattolica cinese oggi è meno intensa. Gli arresti sono meno frequenti.
L’attenzione di Xi è rivolta alle minoranze di fede islamica ed etnia centroasiatica, storicamente associate a movimenti separatisti. In confronto i cristiani sono innocui. Pregano, cantano, e assolvono mansioni assistenziali, alleggerendo il carico del welfare statale.
Nei calcoli del governo sono fattori che ormai prevalgono sulla preoccupazione che la Chiesa cattolica diventi rifugio per dissidenti e attivisti. I più «pericolosi» sono ormai stati zittiti, detenuti, o costretti all’esilio.
Così la danza diplomatica tra Pechino e il Vaticano continua. Con la speranza che ci saranno più abbracci e meno giravolte.
Alessandra Colarizi
(fine prima parte)