Argentina. Contro Milei, presidente incendiario

 

Al forum economico di Davos dello scorso del 23 gennaio, Javier Milei, il presidente ultraliberista dell’Argentina, si era superato, forse anche per non essere da meno del suo mentore Donald Trump che, tre giorni prima, aveva inaugurato la presidenza Usa a suon di proclami e di ordini esecutivi.

Inebriato da alcuni successi economici del suo governo (pagati con un aumento vertiginoso del tasso di povertà) e dalla presunzione di lottare per la libertà, il presidente argentino aveva attaccato a testa bassa e – come sua abitudine – senza usare termini edulcorati. Contro i suoi avversari di sempre (lo Stato leviatano e la sinistra), ma anche contro il femminismo, il mondo Lgbtq+, l’immigrazione e l’ambientalismo.

Sulle donne, Milei ha detto tra l’altro: «Se si uccide una donna, si parla di femminicidio, e ciò comporta una pena più severa rispetto all’omicidio di un uomo, solo a causa del sesso della vittima. Legalizzando, nei fatti, che la vita di una donna vale più di quella di un uomo». Sugli appartenenti alla comunità Lgbtq+, il presidente ha affermato: «L’ideologia di genere costituisce un abuso sui minori, chiaro e semplice. [Costoro] sono pedofili». Toccando poi il tema migratorio, ha sostenuto che in Occidente sta avvenendo una «colonizzazione inversa» ad opera di «orde di immigrati che abusano, violentano o uccidono».

Il discorso incendiario di Milei aveva provocato reazioni immediate, soprattutto in Argentina. Nel paese latinoamericano, l’evento principale è stato la «Marcia dell’orgoglio antifascista e antirazzista» organizzata dai collettivi Lgbtq+ e tenutasi sabato 1° febbraio a Buenos Aires e in varie altre città dell’interno. La manifestazione è stata un successo, ma soprattutto ha raccolto adesioni non scontate, come quella di una parte importante della Chiesa cattolica argentina.

Mons. Marcelo Colombo, arcivescovo di Mendoza e da novembre 2024 nuovo presidente della Conferenza episcopale argentina. Ha sostenuto l’adesione alla marcia di sabato 1 febbraio 2025 organizzata dai collettivi Lgbtq+ contro le dichiarazioni di Milei a Davos. (Foto Cea-Conferencia episcopal argentina)

L’adesione è stata annunciata il 30 gennaio da un comunicato dalla Pastorale della diversità sessuale dell’arcidiocesi di Mendoza: «Esprimiamo – si legge nel documento – la nostra profonda preoccupazione per i discorsi che considerano l’antirazzismo, il femminismo e la lotta per i diritti della comunità Lgbtq+ come un “cancro che deve essere rimosso” in nome di “libertà” o “buon senso”. Queste espressioni, che promuovono la discriminazione e la violenza contro le minoranze, ci sembrano allarmanti e contrarie ai valori del Vangelo. Non possiamo e non dobbiamo restare indifferenti di fronte a queste manifestazioni di odio».

L’adesione è stata ribadita da mons. Marcelo Colombo, arcivescovo di Mendoza e nuovo presidente della Conferenza episcopale argentina (dal 12 novembre 2024). In un’intervista al quotidiano Mendoza Post, l’arcivescovo ha sottolineato che la società argentina non deve fare marcia indietro in tema di tolleranza e diritti.

Su questa presa di posizione della Chiesa cattolica abbiamo sentito padre José Auletta, missionario della Consolata in Argentina che conosce bene mons. Colombo avendoci lavorato insieme per molti anni. «Premesso – ci ha detto padre Auletta – che la pastorale sociale di Mendoza è molto attiva da anni, la scelta di campo dell’arcivescovo è stata forte e chiara. La marcia è stata importante perché non si poteva rimanere silenti davanti a Milei che, a Davos, ha detto cose semplicemente vergognose. Quanto alle sue posizioni contro l’aborto e contro la cosiddetta ideologia gender sono affermazioni fatte da una persona che non ha alcuna autorità morale. In ogni caso, per noi cattolici dovrebbe prevalere un atteggiamento misericordioso verso le realtà diverse. Sempre e in tutti gli ambiti».

Paolo Moiola




Libano. Quaderno di guerra

 

Sabato, 25 gennaio 2025, Libano meridionale. Domani, stando agli accordi per il cessate il fuoco stipulati a novembre tra Israele e governo libanese, i soldati dell’Idf (Israel defense forces) dovrebbero ritirarsi dal Sud del Libano. Dopo 16 mesi, passati da rifugiati interni nel proprio Paese, migliaia di persone si preparano a tornare nelle proprie città.

Alì Ghaleb Kouteich è una di queste. Nato e cresciuto ad Houla, uno dei villaggi più a ridosso del confine con Israele, era proprietario di un supermercato, fino a che, a causa dei bombardamenti di Tel Aviv cominciati ad ottobre 2023, non ha dovuto evacuare come la totalità degli abitanti. Anche nel paese dove ha trovato rifugio, Alì ha aperto un supermercato ma, ora, alla vigilia del ritiro delle truppe israeliane, il suo unico pensiero è quello di tornare a casa. Ad Houla sono rimaste in piedi appena il 10 percento delle abitazioni, tutto il resto è stato distrutto dai bombardamenti. Nonostante questo, tutti sono pronti a tornare e a lavorare per una ricostruzione. Negli ultimi giorni, Alì ha deciso di raccogliere tutto quello che poteva dal suo negozio, aiuti di ogni genere da portare nella sua città natale per contribuire a questo nuovo inizio.

Una delle strade bombardate di Tiro. Con la sua splendida posizione sul mare, questa città del Sud del Libano era molto frequentata da turisti provenienti soprattutto dal mondo arabo. (Foto Angelo Calianno)

Domenica, 26 gennaio. Per impedire il ritorno degli abitanti di Houla, gli israeliani hanno fatto saltare in aria le strade creando crateri che rendano impossibile l’entrata delle auto. I libanesi non si danno per vinti, arrivando tutti a piedi. Alì è il primo ad entrare. Al suo arrivo però, trova i soldati dell’Idf ad attenderlo: hanno deciso di non rispettare gli accordi e continuare a presidiare il villaggio. Aprono il fuoco, Alì si accascia al suolo. Subito dopo, viene colpito anche un suo amico e, successivamente, anche due soccorritori. Nonostante il pericolo, uno dei fratelli di Alì decide di provare a salvarlo. Insieme ad un amico, riesce ad introdursi ad Houla con un piccolo motorino. I due afferrano il corpo di Alì, lo trascinano per un tratto di strada per poi caricarlo in mezzo a loro. Fuggono tra gli spari dei soldati israeliani. Purtroppo, però, per Alì non c’è più nulla da fare.

Ghassan è un giovane ingegnere, anche lui è di Houla, caro amico e vicino di casa di Alì. Ci racconta: «Con Alì siamo praticamente cresciuti insieme. Per lavoro o per studio, molti giovani lasciano il Sud, lui invece aveva deciso di rimanere. Era il più piccolo di dieci fratelli, suo padre era un’insegnante, e sua madre ha sempre lavorato la terra nella produzione del tabacco. Tutti, nel Paese, lo conoscevano come una persona pacifica, dal grande cuore. Nella sua vita non si era mai interessato di politica. Quando hanno evacuato Houla, lui è stato uno di quelli che ha cercato di rimanere fino alla fine, fin quando non è diventato troppo pericoloso. In seguito alla partenza forzata, anche fuori dal suo Paese, Alì continuava a frequentare i suoi concittadini: non vedeva l’ora di tornare. L’amore per la sua terra era così grande che, su Houla, ha scritto poesie meravigliose. Ora, dopo la sua morte e grazie ai social media, le sue parole stanno diventando sempre più conosciute. Una delle cose che più mi ha fatto male, è stato vedere come suo fratello ha dovuto provare a soccorrerlo, caricandolo su un motorino. Il video di quella scena mi ha fatto piangere».

La storia di Alì è solo uno dei numerosi esempi di quello che sta accadendo in questi giorni, nel Sud del Libano. Imboscate, attacchi e bombardamenti stanno colpendo tutti i villaggi da cui Israele avrebbe dovuto ritirare le sue truppe. Famoso è già diventato un video che mostra delle donne, nella cittadina di Maroun El Rais, mettersi di fronte ai carrarmati israeliani per impedirne l’entrata nel loro paese.

Nabatiye, un campo di calcio distrutto. Questo spazio è usato anche durante le funzioni religiose dell’Ashura. Il 28 gennaio, anche Nabatiye ha ripreso ad essere attaccata dall’Idf. Non essendoci più un posto davvero sicuro, molti dei rifugiati del Sud si sposteranno nei centri di accoglienza di Beirut. (Foto Angelo Calianno)

Martedì, 28 gennaio. Oggi si tengono molti dei funerali di chi ha provato a tornare a casa, rimanendo ucciso nel tentativo di farlo. Per molte famiglie è stato impossibile recuperare i corpi, così, molti genitori ora piangono su dei vestiti, l’unica cosa rimasta dei propri figli. Contemporaneamente ai funerali, alcuni razzi israeliani sono tornati anche a colpire Nabatiye, città che era stata già devastata prima del cessate il fuoco. Con il nuovo presidente al potere, sostenuto dall’Occidente, e con il forte indebolimento di Hezbollah, da due mesi totalmente sparito dal campo, le popolazioni del Sud del Libano si sentono abbandonate e senza una voce che possa difenderli.

Quando chiediamo ancora a Ghassan il perché di tutto questo e perché Israele, nonostante gli accordi, continui a occupare il Libano, lui ci risponde: «Storicamente, Israele ha sempre usato la forza contro di noi, anche quando non era necessario. Essendo molto avanzati tecnologicamente, potrebbero raggiungere i loro obiettivi senza il bisogno di uccidere. Invece, usano la violenza per farci del male e intimidirci. Secondo me, questo è il motivo di tutta questa distruzione nel Sud, in nessuna di quelle case bombardate c’era Hezbollah. Gli attacchi sono stati perpetrati per ricordarci la loro presenza, e di che cosa sarebbero capaci se osassimo ribellarci. Noi però non siamo solo numeri, non può esserci tutta questa ingiustizia. Ciò che sta accadendo deve essere raccontato e conosciuto in tutto il mondo».

Angelo Calianno