Mondo. Questo, un tempo, era un ghiacciaio

 

In un clima politico che sta diffondendo il negazionismo climatico, le Nazioni Unite hanno istituito la «Giornata mondiale dei ghiacciai», prevista per il 21 marzo di ogni anno, giorno dell’equinozio di primavera. Il 2025 è anche l’Anno internazionale per la preservazione dei ghiacciai. Si tratta di un appello – fatto su iniziativa dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) e dell’Unesco – per salvare i ghiacciai della Terra che si stanno rapidamente riducendo a causa del cambiamento climatico.

Il problema interessa tutta la criosfera (che è la porzione di superficie terrestre coperta da ghiaccio e neve). Oltre al ritiro dei ghiacciai, da tempo si sta assistendo a una riduzione dello spessore della neve (in particolare, nelle Alpi) e a un incremento dello scongelamento del permafrost (un tipo di terreno perennemente ghiacciato).

Stando a un articolo pubblicato su Nature (19 febbraio 2025), dal 2000, i ghiacciai hanno perso tra il 2% e il 39% del loro ghiaccio a livello regionale e circa il 5% a livello globale. Lo studio ha osservato la perdita di massa glaciale in 19 regioni del mondo. A livello globale, le perdite maggiori sono state causate dall’Alaska (22%), dall’Artico canadese (20%), dalla Groenlandia (13%) e dalle Ande meridionali (10%). A livello regionale, la più grande scomparsa di massa di ghiaccio si è verificata nelle Alpi (39%). È proprio nelle regioni alpine che si prevede la quasi totale scomparsa dei ghiacciai entro la fine del secolo.

Un’immagine del ghiacciaio Harding (catena montuosa di Kenai), in Alaska. L’Onu ha dichiarato il 21 marzo di ogni anno «Giornata mondiale dei ghiacciai». Il 2025 è anche l’«Anno internazionale per la preservazione dei ghiacciai». (Foto Paolo Moiola)

Ghiacciai e calotte glaciali immagazzinano circa il 70% dell’acqua dolce globale, rifornendo attualmente almeno due miliardi di persone. Il loro scioglimento minaccia, quindi, la sicurezza idrica. Ma le conseguenze non si fermano a questo. La perdita di massa potrebbe contribuire a un innalzamento del livello del mare fino a circa 20 centimetri entro fine secolo. Inoltre, la riduzione del permafrost avrà implicazioni dirette sulla stabilità di terreni e costruzioni e porterà al rilascio di gas serra (ma anche di agenti patogeni) intrappolati nel suolo ghiacciato.

I periodici rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) confermano che la situazione è grave e molto probabilmente compromessa. Eppure, la politica ha scelto di essere cieca. Per esempio, Donald Trump ha sempre sostenuto che il cambiamento climatico è una bufala («It’s a hoax»). Così, appena entrato alla Casa Bianca (lo scorso 20 gennaio), ha firmato un ordine esecutivo per uscire dagli accordi sul clima di Parigi e uno anche per l’Alaska, la terra dei ghiacciai. L’obiettivo di questo secondo viene dichiarato fin dalle prime righe: «Lo Stato dell’Alaska detiene una riserva abbondante e in gran parte inutilizzata di risorse naturali […]. È pertanto imperativo revocare immediatamente le restrizioni punitive attuate dalla precedente amministrazione». Quelle definite «restrizioni punitive» sono divieti e limiti fissati dall’ex presidente Biden per proteggere e preservare un ambiente unico ma molto delicato come quello dell’Alaska.

Paolo Moiola




Uruguay. L’eredità politica e umana di Mujica detto Pepe

Il prossimo primo marzo Yamandú Orsi assumerà la carica di presidente dell’Uruguay, succedendo a Luis Lacalle Pou.

Stretto tra Argentina e Brasile, con appena 3,4 milioni di abitanti, l’Uruguay è una piccola isola di stabilità in una regione che naviga spesso in acque burrascose. Come praticamente tutti i paesi latinoamericani, anch’esso ha conosciuto una dittatura (dal 1973 al 1985), ma poi ha saputo costruire una solida democrazia dell’alternanza.

Caratteristica quest’ultima che lo distingue dai vicini. In Brasile, governa Luiz Inácio Lula da Silva, ma il suo esecutivo è assediato dai seguaci dell’ex presidente Jair Bolsonaro, recentemente incriminato per un presunto golpe ai danni dello stesso Lula. In Argentina, è al governo Javier Milei, presidente di estrema destra, attualmente al centro di uno scandalo scoppiato a causa di una criptovaluta. All’instabilità politica dei due paesi si affiancano problemi economici. Un dato su tutti: il tasso di povertà in Argentina tocca il 38,9 per cento e in Brasile il 27,4 per cento. In Uruguay, le persone in povertà sono molte meno, il 9,1 per cento.

Nato in una famiglia cattolica, nonno paterno immigrato dalla Liguria, di professione insegnante di storia, Yamandú Orsi ha vinto – al secondo turno – le elezioni del novembre 2024 con il Frente Amplio, storica coalizione politica di centrosinistra, ma ha vinto soprattutto per aver avuto al suo fianco l’ex presidente José Mujica detto Pepe.

Antenati paterni venuti dalla Liguria, professore di storia, dal 1 marzo 2025 Yamandú Orsi è il nuovo presidente dell’Uruguay. Ha vinto le elezioni di novembre 2024 anche per l’aiuto determinante dell’ex presidente José Mujica. (Foto X | Yamandú Orsi)

Al di là della sua collocazione politica, Mujica è tuttora una figura di grande carisma e popolarità ben oltre i confini nazionali. Già guerrigliero del movimento Tupamaros, incarcerato per quasi dodici anni ai tempi della dittatura, presidente della Repubblica dal 2010 al 2015, oggi Mujica ha quasi 90 anni (li compirà il prossimo maggio) ed è affetto da un cancro in fase terminale.

Conosciuto per uno stile di vita da sempre improntato all’assoluta sobrietà, ritirato nella sua modesta casa di campagna (una «chacra», fattoria, a Rincón del Cerro, località non lontana dalla capitale Montevideo), l’ex presidente ha recentemente rilasciato alcune interviste testamento nelle quali riflette sulla vita e sulla morte e si congeda dai propri concittadini.

«La vita – ha detto tra l’altro – è una meravigliosa avventura e un miracolo. Prestiamo troppa attenzione alla ricchezza e non alla felicità. Ci concentriamo solo nel fare cose e, prima che tu te ne accorga, la vita ti è passata accanto». E sulla morte ha aggiunto: «È una signora che non ci piace e che non vorremmo, ma che inevitabilmente in qualche momento arriverà. Quindi, devi rassegnarti».

In un’epoca dominata da presidenti spacconi ed egocentrici, José Mujica detto Pepe è una persona esemplare a cui Yamandú Orsi dovrebbe sempre cercare d’ispirarsi.

Paolo Moiola




Myanmar. Quattro anni di guerra civile

 

Nel conflitto civile che da quattro anni insanguina il Myanmar non si vedono spiragli di pace. In primis perché nessuno dei due contendenti in lotta – la giunta militare al potere e le forze di opposizione – è disposto a fare concessioni all’avversario, continuando a dichiarare di volerlo sconfiggere. In seconda battuta a causa dell’assenza della comunità internazionale che finora si è dimostrata impotente o indifferente. Con due eccezioni: Cina e Russia. Mentre, infatti, il blocco occidentale e gli Stati Uniti d’America hanno lasciato campo libero, le due potenze hanno continuato a sostenere la giunta militare al potere, al fine di tutelare i loro interessi strategici ed economici.

La Casa Bianca, nel tempo dell’amministrazione Trump, non sembra volersi coinvolgere per promuovere il ritorno della democrazia in Myanmar.
Nel 2022, il Congresso Usa aveva approvato il Burma Act, un provvedimento legislativo che autorizzava «l’assistenza umanitaria e il sostegno alla società civile» tramite un programma Usaid (United States agency for international development) volto ad assistere giovani esuli birmani nel loro percorso di istruzione e formazione.
Il presidente Trump, bloccando i finanziamenti all’agenzia governativa, ha fermato anche 45 milioni di dollari stanziati per oltre 400 studenti birmani che erano sostenuti tramite il Development and inclusive scholarship program dell’Usaid.

L’opposizione birmana e il governo in esilio, il National unity government (Nug), hanno incassato lo stop degli aiuti Usa con amarezza, puntualizzando che le forze della resistenza birmana non si fermeranno e che continueranno nella lotta fino al rovesciamento del regime.

Anche nelle giornate di analisi e riflessione organizzate a Roma dall’Associazione Italia-Birmania insieme, in occasione del quarto anniversario del golpe, all’inizio di febbraio, si è osservato con disappunto l’atteggiamento dell’Occidente che – focalizzato sulla guerra in Ucraina e sul conflitto in Medio Oriente – sembra aver dimenticato il quadrante del Sudest asiatico e la sofferenza del popolo birmano.

I quattro anni di guerra civile, gli ultimi due particolarmente cruenti, restituiscono ora il volto di un paese tormentato e deturpato da profonde ferite. Dal golpe che il 1° febbraio del 2021 ha rovesciato il governo democraticamente eletto, la nazione si ritrova a essere definita «il luogo più violento del mondo», come ha scritto l’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che monitora i conflitti nel mondo, rilevando oltre 50mila morti – tra i quali oltre 8mila civili -, più di 3,8 milioni gli sfollati e circa 23 milioni di cittadini interessati dal conflitto civile in corso, su una popolazione complessiva di 51 milioni di abitanti.
La popolazione è allo stremo, ha avvertito il Programma alimentare mondiale (Wfp) dell’Onu, prevedendo che oltre 15 milioni di persone soffriranno la fame nel 2025, sperimentando alti livelli di insicurezza alimentare, soprattutto nelle aree attraversate da scontri armati (in particolare negli Stati di Chin, Kachin e Rakhine, e nella regione di Sagaing). La crisi unitaria, si avverte, è destinata ad aggravarsi, anche perché le associazioni e Ong internazionali non hanno la possibilità e l’autorizzazione per soccorrere e portare aiuti ai civili.

In tale scenario la situazione sul terreno militare, nonostante il prosieguo dei combattimenti, sembra cristallizzarsi: da un lato, l’esercito birmano ha a disposizione, grazie ai rifornimenti dei potenti alleati, arsenali di armi pesanti, forze aeree, carri armati, e mantiene il controllo della parte centrale del Paese e delle grandi città come Mandalay, Naypyidaw, Yangon; dall’altro, le forze di opposizione hanno conquistato aree e municipalità nelle zone di confine, quelle che vengono orgogliosamente definite «zone liberate», cioè sottratte al potere della giunta, e controllano, secondo gli analisti, il 50% del territorio nazionale.

Intanto il regime militare al potere, che ha lanciato una campagna di reclutamento obbligatorio per rafforzare le fila dell’esercito, ha prolungato lo stato di emergenza fino a luglio 2025 e ha annunciato che entro l’anno terrà una tornata elettorale.
Si tratta, tuttavia, di un piano difficile da realizzare, dato che il censimento elettorale è stato possibile soltanto in 145 municipalità sulle 330 che compongono lo Stato, cioè meno della metà, e in zone abitate solo dalla gente dell’etnia maggioritaria, i bamar, in una nazione che si configura come multietnica e multiculturale.

La sola notizia positiva negli ultimi mesi è stata quella dell’accordo di cessate il fuoco, limitato alla regione del Nordest, siglato tra esercito e gruppi ribelli grazie alla mediazione della Cina che, come detto, tiene a tutelare i propri interessi commerciali e ha così ristabilito il traffici alla frontiera.

In un quadro di violenza generalizzata, la Chiesa cattolica ha registrato il tragico episodio dell’uccisione del primo sacerdote: si tratta di don Donald Martin Ye Naing Win, ucciso il 14 febbraio nella sua parrocchia di Nostra Signora di Lourdes dell’arcidiocesi di Mandalay, nella regione di Sagaing, nel Centro Nord del Paese, una delle aree maggiormente interessate da scontri e combattimenti.
A compiere il brutale omicidio (il prete è stato accoltellato e mutilato) un gruppo di miliziani di forze di difesa locali per motivi ancora tutti da chiarire. Sulla morte del religioso le Forze di difesa polare, che combattono sotto l’egida del National Unity Government e che controllano quella porzione di territorio in Sagaing, hanno aperto un’indagine arrestando un gruppo di dieci aggressori.

Paolo Affatato




Argentina. «Viva la libertad, carajo»

Il presidente argentino Javier Milei viene spesso descritto come un economista di successo. E tale egli stesso – spaccone per natura – si ritiene. Lo «scandalo Libra» ha intaccato pesantemente la sua immagine «vincente», anche se – come sempre accade – lui e il suo governo hanno immediatamente proclamato la propria estraneità ai fatti e addossato la colpa ai nemici.

La vicenda inizia venerdì 14 febbraio. Quel giorno Milei pubblica sul suo account di X, la piattaforma social dell’amico Elon Musk, un tweet che pubblicizza una nuova criptomoneta denominata Libra (si scrive $Libra), emessa da una società privata chiamata Kip Protocol.

«L’Argentina liberale – scrive il presidente – cresce!!! Questo progetto privato sarà dedicato a promuovere la crescita dell’economia argentina finanziando piccole imprese e startup argentine. Il mondo vuole investire in Argentina». Il messaggio si conclude con il consueto grido di battaglia, tanto populista quanto grossolano: «Viva la libertad, carajo!» (traducibile con «Viva la libertà, dannazione»).

Il tweet su X – la piattaforma social di Elon Musk – del presidente argentino Milei nel quale si pubblicizza la criptovaluta Libra, poi dimostratasi una truffa milionaria. Scoppiato lo scandalo, il messaggio è stata cancellato. Si noti lo slogan finale, «grido di battaglia» di Milei.

La criptomoneta attira migliaia di investitori (si parla di 40mila). Nel giro di pochi minuti, $Libra passa da un valore di frazioni di centesimo a 4,97 dollari per unità. Tuttavia, questa crescita è di breve durata. Solo poche ore dopo (circa undici), la criptovaluta subisce un forte e rapidissimo calo, precipitando a 0,19 dollari, lasciando un pugno di soggetti con un incasso di cento milioni di dollari e la gran parte degli investitori con perdite considerevoli. Insomma, un disastro finanziario propiziato dal tweet presidenziale che, infatti, viene cancellato.

Milei non è un neofita del settore, essendo da sempre un sostenitore di un’economia «tokenizzata», cioè fondata sulle criptovalute (un mondo nel quale si sta cimentando anche il presidente Usa Donald Trump). Anche per questo, l’opposizione argentina ha denunciato il comportamento del presidente. Sono state aperte inchieste per frode e corruzione. In mezzo allo scandalo, Milei ha prima concesso un’intervista televisiva (canal Todo Noticias) «sistemata» ad hoc e poi, il 20 febbraio, è partito per l’ennesimo viaggio negli Stati Uniti. Dove, all’assise dell’estrema destra (Conservative political action conference, Cpac), ha subito incontrato il suo «idolo» (copyright del quotidiano Pagina12) Musk al quale ha regalato una motosega, simbolo (buffonesco) del suo mandato presidenziale.

Durissimo il commento di padre José Auletta, raggiunto in Argentina: «Dallo scorso novembre la Commissione episcopale della pastorale sociale sta spingendo perché si approvi il progetto di legge sulla ludopatia. Ebbene, secondo me, le criptovalute sono un gioco d’azzardo di alto livello, che alla fine diventano una tentazione che imbriglia e invoglia anche i “piccoli”, grazie all’esempio che viene dall’alto, addirittura dal presidente della nazione. È così – conclude il missionario – che si salva l’Argentina da una situazione economica tanto complicata?».

Paolo Moiola




Africa. Aiuti a rischio nel continente

 

Tra gli ordini esecutivi che il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato il giorno del suo insediamento, il 20 gennaio 2025, ce n’era uno che sospendeva gli aiuti umanitari statunitensi in tutto il mondo per novanta giorni. Un lasso di tempo ritenuto necessario ai funzionari per esaminarli e decidere se confermarli, modificarli o eliminarli.

In realtà, l’amministrazione statunitense non ha atteso l’esito di questa valutazione per proseguire nei suoi attacchi a Usaid, l’Agenzia statunitense (governativa) per la cooperazione internazionale, creata nel 1961 da John F. Kennedy. Mentre il suo sito veniva oscurato, Trump la definiva «un insieme di radicali lunatici». Invece, per Elon Musk, capo del neonato Dipartimento per l’efficienza governativa, Usaid era «un’organizzazione criminale». Tanto da scrivere su X: «È tempo che muoia».

Il 7 febbraio poi, con un decreto, Trump ha stabilito il congedo amministrativo obbligatorio di tutti i funzionari dell’Agenzia. D’altronde, si sapeva che il presidente statunitense non riteneva che i progetti di Usaid – ad esempio, quelli a tutela di donne vittime di violenza o di minoranze vulnerabili – fossero in linea con il suo Make America great again.

Mentre negli Stati Uniti sostenitori e oppositori di Trump si scontravano, il resto del mondo iniziava a preoccuparsi delle conseguenze di questa decisione (unita a quella di abbandonare l’Organizzazione mondiale della sanità) sugli equilibri globali. Lo scorso anno, infatti, secondo le Nazioni Unite, gli Stati Uniti avevano fornito il 42% di tutto l’aiuto umanitario tracciato nel mondo. Con stanziamenti che, in media, oscillavano tra 40 e 70 miliardi di dollari l’anno, Usaid sosteneva, tra gli altri, progetti igienico-sanitari, energetici e contro la violenza sulle donne in 120 Paesi.

Iniziative sparse in tutto il mondo, ma con una concentrazione importante in Africa subsahariana, dove nel 2023 l’Agenzia aveva fornito aiuti per 12,1 miliardi di dollari. Altri 6,5 erano già stati stanziati per il 2025. Ma, con la sospensione dei fondi, molti programmi sono già stati chiusi. In Etiopia, ad esempio, cinquemila operatori sanitari sono stati licenziati per mancanza di risorse.

A rischio c’è anche il Pepfar, l’iniziativa per la lotta all’Hiv/Aids lanciata durante la presidenza di George W. Bush e che in vent’anni si calcola abbia salvato almeno 25 milioni di vite. In Sudafrica, ad esempio, i fondi del Pepfar coprivano il 20% del programma nazionale (da 2,3 miliardi di dollari) contro l’Hiv/Aids e assicuravano trattamenti antiretrovirali quotidiani a 5,5 milioni di persone.

Ma è senza dubbio la Repubblica democratica del Congo (Rdc) il Paese africano più colpito. Anche perché la decisione di congelare gli aiuti giunge in un momento critico: con l’escalation che, a fine gennaio, ha portato il Movimento del 23 marzo, supportato dal Rwanda, a conquistare Goma, capoluogo del Nord Kivu, la situazione umanitaria è sempre più drammatica.

Solo a gennaio, circa 700.000 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. La mancanza di acqua pulita e la difficoltà nel rispettare le norme igienico-sanitarie di base rende il rischio di epidemie – come colera e mpox (conosciuta anche come vaiolo delle scimmie) – concreto. Gli ospedali della città sono sovraffollati, mentre scarseggiano medicinali e strumentazioni sanitarie.

La mancanza di generi alimentari, oltre ad alimentare l’inflazione, sta anche aumentando di giorno in giorno il numero di congolesi che necessitano di aiuti. Ma molti programmi per la distribuzione di cibo di base dipendevano proprio dai fondi statunitensi. Non a caso, per Bruno Lemarquis (rappresentante delle Nazioni Unite nella Rdc), la sospensione degli aiuti «è fonte di grande preoccupazione»: nel 2024, il 70% delle risorse – circa 910 milioni di dollari su un totale di 1,3 miliardi – utilizzate dalle agenzie dell’Onu e dalle Ong operative nella Rdc proveniva proprio da Usaid. «La nostra sovra dipendenza da Usaid – ha detto Lemarquis – implica che molti programmi hanno dovuto chiudere. Quindi, è un’emergenza sanitaria e un’emergenza di beni di base».

Subito dopo l’annuncio della sospensione delle risorse statunitensi, l’Unione europea ha dichiarato di voler coprire il vuoto lasciato da Washington. Ma, nella pratica, è difficile che Bruxelles – il cui bilancio per la cooperazione internazionale è vincolato da piani settennali – riesca a compensare questa perdita. Più probabile, invece, è che lo spazio lasciato da Usaid venga riempito da potenze in ascesa come la Cina, già molto presente e apprezzata in diversi Paesi africani.

Nel frattempo è intervenuta anche la giustizia statunitense, posticipando, per il momento, lo smantellamento definitivo dell’Agenzia. Ma, intanto, quel che è assurdo è come una firma su un pezzo di carta possa arrivare a mettere a repentaglio la vita di milioni di persone in tutto il mondo.

Aurora Guainazzi




Siria. Futuro dei cristiani ancora incerto

 

Dopo due mesi dalla caduta del regime di Assad, la nuova Siria sta prendendo forma. Il superiore dei francescani di Aleppo, padre Bahjat Karakash: «Permangono segni contraddittori, serve la solidarietà di tutti, non dimenticateci».

Il futuro dei cristiani in Siria è ancora incerto. I segnali sono contrastanti. Da una parte ci sono le rassicurazioni della nuova guida Al-Jolani che, in una intervista all’Osservatore Romano, ha espresso il suo apprezzamento per Papa Francesco e ha assicurato che i cristiani saranno considerati una componente essenziale della nuova Siria; dall’altra ci sono ancora le discriminazioni che si registrano nei piccoli villaggi, lontano dalla Damasco sulla quale sono puntati i riflettori della comunità internazionale e dei media.

“Non è ancora il momento di dimenticarsi della Siria”, dice padre Bahjat Karakash, parroco latino e il superiore dei francescani di Aleppo. Nei giorni dell’avanzata dei ‘ribelli’ è stato in prima linea per aiutare le persone che erano rimaste senza cibo, acqua, elettricità. Poi la caduta di Bashar Al-Assad, vissuta come una liberazione, anche dai cristiani che pure avevano goduto di una certa protezione da parte del tiranno. Ora questa fase segnata ancora da incertezza. “La Siria continua a vivere momenti di grande instabilità e le tensioni geopolitiche rischiano di compromettere ulteriormente il futuro della nostra terra”, riferisce il francescano parlando di “un Paese ancora diviso, dove la regione nord est è ancora sotto controllo delle milizie curde, sostenute dagli Usa, mentre al sud assistiamo all’espansione della presenza militare israeliana, vicino alle alture del Golan, una mossa che continua a suscitare nuove preoccupazioni per un possibile aumento delle tensioni nella regione”.

C’è poi la difficile situazione economica per un Paese vessato da anni di guerra e distruzioni: “l’instabilità della lira siriana rende quasi impossibile le operazioni economiche, tutte le attività sono quasi ferme e il tasso di disoccupazione continua a crescere… E anche la sicurezza continua ad essere una reale preoccupazione: furti, omicidi, vendette, rapimenti, sono all’ordine del giorno”.

Ma “nonostante queste difficoltà, c’è un segnale di speranza che nasce dal cuore della nostra società. Sempre più i siriani, compresi i nostri giovani cristiani, stanno cominciando a interessarsi attivamente alla politica, spinti dalla volontà di contribuire alla rinascita del loro Paese”. Per questo, pure in una fase così precaria, la Chiesa cattolica di Aleppo ha avviato un’importante iniziativa: serate pubbliche settimanali dedicate alla formazione sulla dottrina sociale della Chiesa. Al centro dell’iniziativa anche “i valori di giustizia, solidarietà e pace, fondamentali per costruire un futuro migliore”.

Padre Bahjat cerca di veicolare questi valori anche attraverso il suo canale youtube, Add Alsama, che più meno suona come un invito a guardare al Cielo, ed è la voce dei cristiani in Siria. «Dopo la caduta del regime e l’inserimento di materiale sulla dottrina sociale, abbiamo visto un aumento esponenziale dei nostri followers, segno dell’interesse che i siriani hanno per queste tematiche e della loro sete per una dottrina che li aiuti a essere parte attiva nel processo politico che è in atto».

Infatti, nonostante le incertezze e le difficoltà, le persone possono ora confrontarsi abbastanza apertamente, mentre prima era finanche proibito avere proprie idee sulla politica e la società, come spiegano dalla Chiesa di Aleppo.

Ma per i cristiani restano le paure di fronte ad «alcuni segni di islamizzazione che cominciano a palesarsi»: dalla richiesta ad alcune donne cristiane di indossare il velo a quella agli autisti di togliere simboli religiosi cristiani. Ci sono però anche «giovani musulmani che distribuiscono fiori davanti allee chiese invitando a ricostruire insieme il Paese».

Nelle scorse settimane è arrivato in visita ad Aleppo il cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero delle Chiese orientali, inviato da papa Francesco come segno di vicinanza alle comunità locali. «Ha sottolineato il ruolo cruciale che i cristiani possono e devono avere nella ricostruzione della Siria, esortando tutti a lavorare insieme per un domani di riconciliazione e speranza. Le sue parole hanno infuso nuova fiducia in una comunità che, nonostante le sfide, continua a sognare un futuro di pace e unità».

Tra i segnali di speranza c’è il coinvolgimento di Hind Aboud Kabawat, donna e cristiana, nel Comitato di sette persone (cinque uomini e due donne) incaricato di preparare l’annunciata Conferenza nazionale della Siria, l’assemblea che dovrebbe avviare il processo per la formulazione di una nuova Costituzione e la definizione del nuovo assetto istituzionale del Paese mediorientale.

Nel frattempo, però, «è ancora troppo presto perché il mondo si dimentichi della Siria: abbiamo una lunga strada da percorrere prima di raggiungere uno stato stabile e di diritto. Senza la solidarietà di tutti non potremo affrontare le immense sfide che ci aspettano”, conclude padre Karakash.

Manuela Tulli




Stati Uniti. Volare senza biglietto

 

Da più parti si sostiene che i democratici statunitensi abbiano perso le elezioni presidenziali del 5 novembre 2024 anche perché Joe Biden non ha saputo affrontare in modo adeguato il problema migratorio. Un dato da poco reso pubblico sembrerebbe confutare questa affermazione: durante i quattro anni di presidenza di Biden ci sono state quattro milioni di persone deportate contro meno di due milioni del primo mandato di Donald Trump.

Il dato è sorprendente, ma ha una serie di spiegazioni. La prima è la legislazione d’emergenza introdotta durante la pandemia di Covid. In particolare, è stato ampiamente utilizzato il Title 42 che consentiva espulsioni facili. Introdotto da Trump nel marzo 2020, la misura è stata mantenuta da Biden fino a maggio 2023. Ci sono poi due ulteriori motivazioni: l’incremento degli arrivi alla frontiera Sud e il fatto che molti migranti espulsi ritentavano più volte l’entrata.

Oggi, pur senza il Title 42, il neoeletto Trump vorrebbe battere ogni record: «Milioni e milioni: sarà la più grande deportazione nella storia dell’America», ha promesso. Il tycoon ha iniziato fin dal primo giorno (20 gennaio) firmando un ordine esecutivo con un titolo molto esplicito: «Proteggere il popolo americano dall’invasione» (Protecting the american people against invasion).

Attualmente, gli immigrati clandestini possono essere espulsi dagli Stati Uniti e rispediti nei loro paesi di origine essenzialmente in due modalità: dopo essere stati individuati e catturati dalle autorità competenti, e a seguito di un ordine da parte di un giudice dell’immigrazione; oppure dopo essere stati fermati a un valico di frontiera o in un aeroporto: in questo caso si parla di «ritorno», non c’è bisogno di un ordine formale e non ci sono sanzioni.

I voli per i migranti illegali catturati dagli agenti dell’Ice (Immigration and customs enforcement) sono iniziati subito dopo l’insediamento di Trump. Venerdì 24 gennaio sono partiti per Città del Guatemala tre aerei militari della U.S. Air Force (dunque, non voli civili come di norma) con 265 guatemaltechi a bordo. Lo stesso giorno 88 brasiliani illegali sono stati imbarcati con destinazione Manaus. Martedì 28, due aerei hanno riportato a Bogotà più di 200 colombiani, comprese molte donne e bambini. Mercoledì 5 febbraio un aereo militare è atterrato ad Amritsar, in Punjab, con un centinaio di migranti indiani. Lunedì 10 febbraio due aerei commerciali hanno riportato a Caracas decine di migrati venezuelani.

Per motivi di visibilità e di pubblicità, il 28 gennaio 2025 Kristi Noem, segretario della Sicurezza interna (Dhs), ha partecipato a una retata di immigrati illegali a New York. Foto Ice-Immigration and customs enforcement.

L’ultima novità introdotta da Trump è la deportazione alla base navale Usa di Guantanamo Bay, sull’isola di Cuba, di migranti illegali e detenuti in carcere per reati diversi. Lì sono già iniziati i lavori di ampliamento delle strutture per ospitare fino a 30mila persone. Il primo aereo militare per quella destinazione è partito martedì 4 febbraio.

La questione delle deportazioni di Trump è tanto impattante che papa Francesco si è sentito in dovere di scrivere una lettera – cordiale nella forma, ma forte nei contenuti – ai vescovi degli Stati Uniti (10 febbraio). «Sto seguendo da vicino – ha scritto il pontefice al punto 4 – la grande crisi che si sta verificando negli Stati Uniti con l’avvio di un programma di deportazioni di massa. La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità. Al tempo stesso, bisogna riconoscere il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi durante la permanenza nel Paese o prima del loro arrivo. Detto ciò, l’atto di deportare persone che in molti casi hanno abbandonato la propria terra per ragioni di povertà estrema, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità e incapacità di difendersi».

Il problema migratorio è però simile in vari paesi del mondo come simili sono le misure per contrastarlo. In Gran Bretagna, il partito laburista al governo, superato nei sondaggi dal partito anti immigrati di estrema destra Reform Uk di Nigel Farage, sta cercando di recuperare consensi proprio con le deportazioni di migranti illegali, ora anche mostrate in televisione per convincere gli scettici. Tra luglio (mese di entrata in carica del primo ministro laburista Keir Starmer) e dicembre 2024, ci sono stati 13.460 rimpatri, segnando un più 25 per cento. Il ministero degli interni inglese (Home Office) ha organizzato voli di deportazione in almeno sette paesi, tra cui Brasile, Pakistan, Nigeria e Albania.

In Germania, il governo (oggi dimissionario) ha aumentato del 20 per cento le deportazioni (18.384 tra gennaio e novembre 2024) per contrastare l’avanzata di Alternative für Deutschland (Afd), il partito di estrema destra anti immigrazione.

Paolo Moiola




Mondo. Rimesse dei migranti, un ponte tra Paesi

 

Nel 2023 il denaro mandato dai migranti ai loro paesi di origine nel mondo ha raggiunto la cifra record di 822 miliardi di dollari. Un aiuto importante per le famiglie. Un ponte economico e sociale tra i paesi.

 

Ogni anno Carmen manda tra i due e i tremila euro a sua madre a Lima. Da poco ha superato il concorso all’Asl città di Torino e ha iniziato a lavorare come Oss in ospedale, lasciando il precedente lavoro in una casa di riposo privata. Ha potuto anche fare un mutuo per acquistare il suo piccolo alloggio nella periferia Nord della città.

I suoi soldi aiutano la madre e due nipoti, figli di una sorella rimasta vedova a causa di un incidente sul lavoro del marito. Durante la pandemia ha mandato qualche centinaio di euro anche a suo fratello, in difficoltà a San Francisco, negli Usa.

Le rimesse, ovvero il denaro inviato dai migranti ai loro paesi di origine, sono un fenomeno economico e sociale cruciale, un flusso di risorse che collega il lavoro di milioni di persone migrate con lo sviluppo e il sostentamento delle loro famiglie rimaste in patria. Hanno un impatto significativo sia nei paesi di destinazione che in quelli di origine.

L’Italia, con la sua storica tradizione migratoria e un crescente numero di lavoratori stranieri, è uno dei principali paesi europei per volume di rimesse.

I dati: 822 miliardi di $

Carmen è una dei circa 200 milioni di migranti che nel mondo mandano denaro ai territori di provenienza. La Banca mondiale stima che nel 2023 le rimesse a livello globale siano ammontate a 822 miliardi di dollari (circa un terzo del Pil italiano).

Il paese che ha ricevuto la cifra più alta è stata l’India, con una cifra di 119,5 miliardi di dollari. A seguire, il Messico (66 miliardi), le Filippine (39), la Francia (36), la Cina (29). L’Italia è al 17° posto con 12,1 miliardi di rimesse ricevute da italiani all’estero.

Non stupisce che anche paesi ad alto reddito come Francia, Italia, o Germania (all’ottavo posto con 21 miliardi) ricevano grandi volumi di rimesse. La mobilità dei lavoratori europei che espatriano è molto alta e sotto gli occhi di tutti.

Tra i paesi dai quali escono i volumi maggiori di rimesse, troviamo al primo posto gli Usa, con 93 miliardi. A seguire, Arabia saudita (38), Svizzera (37), Germania (22), Cina (20). La Francia è al sesto posto con 19 miliardi di dollari, l’Italia all’undicesimo con 12,2 miliardi.

Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Osservatorio nazionale sull’inclusione finanziaria dei migranti (Onifm), l’Asia si conferma nel 2024 il principale continente destinatario delle rimesse dal nostro Paese: il 40% dei flussi sono diretti verso Bangladesh, Filippine, India, Pakistan e Sri Lanka.

Interessanti variazioni sono state registrate rispetto al 2023, con incrementi significativi per paesi come Bangladesh (+17,4%) e Perù (+11%), mentre si osservano cali per altre nazioni come Pakistan (-9,6%) e Romania (-13,3%). Queste dinamiche riflettono non solo i cambiamenti demografici e migratori, ma anche l’evoluzione dei sistemi finanziari e delle politiche dei paesi di destinazione.

I costi delle rimesse per i migranti

Le rimesse rappresentano spesso una parte considerevole del reddito guadagnato dai migranti. Sono il frutto di sacrifici personali, rinunce a consumi o investimenti.

Su questa situazione già difficile, pesa anche il costo per l’invio del denaro. Nonostante gli sforzi globali per ridurlo, infatti, in Italia, secondo l’Onifm, per l’invio di 150 euro a dicembre 2024 una persona doveva pagare in media il 4,7%, con differenze significative a seconda dei paesi destinatari. Per mandare la stessa cifra in Senegal, ad esempio, il costo era del 2,6%, in Romania 3,89%, in Cina 4,89%, in Ghana 8,33%, in Brasile 9,40%.

Le piattaforme digitali sarebbero più economiche rispetto ai canali tradizionali, ma richiedono una maggiore alfabetizzazione finanziaria e digitale, e sono quindi meno usate.

L’osservatorio per l’inclusione finanziaria dei migranti, nel suo report, sottolinea che ridurre i costi di invio è una priorità sancita anche dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mira a portarli sotto il 3%.

L’Italia ha già intrapreso iniziative, come il portale «mandasoldiacasa», per aumentare la trasparenza e promuovere la concorrenza tra gli operatori. Tuttavia, il vero potenziale risiede nello sviluppo e nella diffusione di canali digitali accessibili e nell’educazione finanziaria sia nei paesi di origine che di destinazione.

Effetti nei paesi di origine

Per i paesi destinatari, le rimesse sono una fonte essenziale di sostentamento e sviluppo. Questi fondi contribuiscono a migliorare le condizioni di vita, finanziare l’educazione, l’accesso alla salute e promuovere iniziative imprenditoriali.

Tuttavia, vi sono anche aspetti negativi: ad esempio il rischio di creare una dipendenza eccessiva dalle rimesse, cosa che può limitare lo sviluppo di economie autosufficienti. Inoltre, le variazioni dei flussi che da un anno a un altro possono verificarsi, rischiano di portare conseguenze profonde su comunità già vulnerabili.

Ponti tra comunità

Le rimesse non sono semplicemente trasferimenti di denaro, ma ponti economici e sociali che uniscono famiglie e comunità. Supportare i migranti per il loro invio sicuro ed economico significa non solo migliorare la loro qualità di vita, ma anche contribuire allo sviluppo sostenibile globale.

Luca Lorusso




Angola, Rdc, Zambia. Il Corridoio di Lobito

 

Mai come oggi, il mondo è interessato all’approvvigionamento di considerevoli quantità di minerali critici. L’avanzare del cambiamento climatico, le sue conseguenze sempre più devastanti in ogni angolo del pianeta e la consapevolezza che in molti casi i danni sono irreversibili hanno posto la transizione ecologica al centro delle agende di molti Paesi. Per realizzarla, però, sono necessarie ingenti quantità di minerali critici, come litio, tantalio, rame e cobalto.

Molte di queste risorse si concentrano in Africa subsahariana. Ragion per cui, il continente, negli ultimi anni, si è trovato sempre più al centro della competizione tra potenze internazionali – dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Unione europea all’Australia – interessate ad assicurarsi vaste concessioni per l’estrazione di minerali critici. Una logica competitiva che, di fatto, è anche alla base della crescente attenzione che queste stesse potenze hanno destinato al corridoio di Lobito.

Una ferrovia, lunga 1.600 chilometri, che collega i giacimenti minerari di Zambia e Repubblica democratica del Congo (Rdc) al porto angolano di Lobito e che ha una storia tutt’altro che recente. Il primo collegamento infatti fu creato all’inizio del Novecento dai coloni europei che già avevano intuito quanto l’area (nel cuore del continente) – con la sua ricchezza di risorse naturali – fosse strategica per i commerci internazionali. Lo scoppio della guerra civile angolana (1975-2002), però, interruppe gli scambi e causò la distruzione di ampie porzioni della ferrovia.

Tuttavia, terminato il conflitto, la rete non fu abbandonata. In un mondo che iniziava a spingere sempre di più verso la transizione ecologica, l’infrastruttura si trovava in una posizione strategica. Inizialmente, il compito di rilanciarla fu affidato alla China railways construction corporation che, tra il 2004 e il 2014, realizzò una ristrutturazione da due miliardi di dollari. La nuova ferrovia (inaugurata nel 2015), però, non ha mai soddisfatto le aspettative, soprattutto a causa di carenze infrastrutturali che hanno impedito di raggiungere l’obiettivo prefissato di trasportare 20 milioni di tonnellate annue di merci e quattro milioni di passeggeri.

A quel punto, l’Occidente ha colto l’occasione per controbilanciare la presenza cinese nell’area e inserirsi in un contesto ricco di risorse. D’altronde, lo Zambia è tra i maggiori esportatori mondiali di rame, mentre dalle province meridionali della Rdc proviene il 70% del cobalto commerciato in tutto il mondo. E questi sono solo due dei tanti minerali presenti nella regione ed essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica.

Nel 2022, quindi, la Lobito atlantic railway company – un consorzio formato da tre aziende europee: la svizzera Trafigura, la portoghese Mota-Engil e la belga Vecturis – si è aggiudicata una concessione trentennale, a patto di investire 455 milioni di dollari in Angola e altri 100 milioni nella Rdc. Da parte loro, Unione europea e Stati Uniti hanno promesso importanti finanziamenti. Secondo le stime della Banca africana per lo sviluppo, il costo complessivo – tra quanto già speso e ancora da sborsare per la ristrutturazione – è di circa due miliardi di dollari.

Ma, Angola, Rdc e Zambia non hanno solo intenzione di riabilitare la vecchia ferrovia. Puntano anche alla costruzione di nuovi binari, così da garantire connessioni più rapide con altre aree strategiche dei loro territori. Ed è per questo che, ad esempio, la concessione alla Lobito atlantic railway company è estendibile di altri vent’anni (per un totale di cinquanta) se il consorzio costruirà anche un’altra linea – di 259 chilometri e dal costo stimato di un miliardo di dollari – tra Luacano (in Angola) e Jimbe (nello Zambia).

Ma non è tutto oro quello che luccica. C’è un timore diffuso, soprattutto tra le comunità minerarie congolesi, che il rilancio della ferrovia non farà altro che facilitare e accelerare lo sfruttamento delle risorse naturali della Rdc. Con il fatto che i giacimenti saranno più facilmente raggiungibili e meglio connessi al mercato internazionale, crescerà anche il numero di aziende interessate a sfruttarli e aumenterà la quantità di minerali estratti.

Per i minatori locali, però, non cambierà nulla: continueranno a ricevere salari molto bassi (circa due dollari al giorno) e a essere vittime di sfruttamento. Soprattutto i bambini, il cui impiego già estremamente diffuso rischia di aumentare ulteriormente, e le donne, spesso vittime di abusi e discriminazioni. Mentre la mancanza – per il momento – di industrie in grado di lavorare i minerali già nei luoghi di estrazione limita la possibilità per i Paesi africani e le comunità locali di trarre un maggior vantaggio economico (sia in termini di guadagni sia di opportunità lavorative) dall’incremento delle attività estrattive.

Aurora Guainazzi




Panama. Trump rivuole il Canale

Tra le mire espansionistiche di Donald Trump – che includono l’annessione del Canada e della Groenlandia agli Stati Uniti e la trasformazione del Golfo del Messico in un più nazionalista «Golfo d’America» – ce n’è una in particolare che potrebbe innescare uno scontro politico con la Cina, con ripercussioni in America Latina e sul commercio globale.

Il 20 ottobre 2024, il 47esimo presidente degli Stati Uniti (alllora candidato alla presidenza) ha minacciato di voler riprendere il controllo del Canale di Panama, che, a suo dire, sarebbe controllato dalla Cina attraverso l’impresa di Hong Kong Hutchison Port, attuale responsabile di due porti del Canale, da cui transitano principalmente cargo commerciali degli Stati Uniti.
Il timore di vedere compromessi i propri interessi economici, avrebbe mosso Trump a tale affermazione a cui è seguito il viaggio a Panama di Marco Rubio, attuale Segretario di Stato statunitense, nel tentativo d convincere le autorità panamensi a fermare la supposta influenza cinese sulla compagnia di Hong Kong.
«In caso contrario, dovremo prendere le misure necessarie per proteggere i nostri diritti», ha dichiarato Rubio, alludendo al fatto che Panama avrebbe violato il trattato del 1999 con cui otteneva, da parte degli Stati Uniti, la sovranità totale sul Canale.
Alle parole di Rubio ha fatto eco Trump dalla casa Bianca: «Il canale di Panama non è stato dato ai cinesi, ma ai panamensi, stupidamente», affermazione che ha alimentato i sospetti su un possibile tentativo degli Stati Uniti di contestare il trattato del 1999.
Dal canto suo, il presidente del Paese centroamericano José Raúl Mulino ha dichiarato, visibilmente piccato, che la proprietà del canale non è in discussione e che è e rimarrà di Panama. Tuttavia, per evitare un’escalation di tensione, le autorità panamensi hanno autorizzato un audit (analisi dei conti finanziari, nda) su Hutchison Port, a cui l’azienda ha dichiarato di sottoporsi senza timore, manifestando la sicurezza di chi non ha nulla da nascondere.

Gli Usa possono riprendere Panama?
Facciamo un passo indietro, a quando il canale ancora non esisteva. Nel 1903 Panama e gli Stati Uniti siglarono un accordo per creare una via navigabile attraverso l’istmo, una idea che risaliva già a Carlo V di Spagna, tre secoli prima. Alla fine, dell’800, la Francia aveva tentato un primo sforzo di costruzione, poi abbandonato. A inizio Novecento, quindi gli Stati Uniti acquistarono i diritti dalla Compagnia francese del Canale di Panama e, dopo undici anni di lavori, nel 1914, la prima nave attraversò il Canale.
Nel 1977, Washington e Panama firmarono un accordo per una gestione condivisa e nel 1999 la sovranità passò definitivamente allo Stato panamense.
Oggi Panama è l’unico paese che può decidere le sorti de canale, da cui transita il 5% del commercio mondiale di cui il 75% è statunitense. Secondo il trattato del 1999, gli Stati Uniti potrebbero intervenire militarmente solamente in caso di conflitto da potenza straniera, che causarebbe l’interruzione del traffico. Al momento, però, la Cina non sta limitando il passaggio delle navi, né ci sono prove che stia manovrando l’Hutchison Port, di proprietà di Li Ka-shing, l’uomo più ricco dell’Asia, con una fortuna economica che garantisce a lui e alle sue aziende di mantenere un certo grado di indipendenza da Pechino. Inoltre, pur gestendo due dei porti che orbitano nei pressi del Canale, l’impresa deve sottostare alle regole dell’Autorità del Canale di Panama, il cui board è eletto dal Governo panamense e all’interno del quale non c’è nessun rappresentante della Repubblica popolare cinese o di Hong Kong.

Trump teme il controllo cinese
A parte le evidenze commerciali, l’ipotesi di controllo cinese sul canale di Panama pare un pretesto per un casus belli, dietro il quale si nasconde Trump, deciso ad attaccare, piuttosto che restare a guardare, la crescente, e in questo caso reale, influenza di Pechino su tutta l’America Latina. La Cina è il primo mercato di esportazione per Brasile, Panama e Chile ed è il primo paese per importazioni di Argentina, Colombia e Brasile stesso. Inoltre, Pechino ha finanziato infrastrutture nella regione con investimenti superiori a quelli della Banca mondiale e della Banca interamericana di sviluppo. In particolare, per l’investimento nel settore minerario che vede la Cina dominare soprattutto in Messico, Argentina, Bolivia e Cile nell’estrazione del litio.
Se il Canale di Panama non è nelle mani della Cina, l’influenza di Pechino sull’America Latina è invece più concreta che mai e probabilmente anche avvantaggiata dai discorsi di odio verso i migranti latinoamericani e le ostilità dimostrate nei confronti di numerosi governi locali da parte del nuovo uomo forte della Casa Bianca.

Simona Carnino