Africa. Aiuti a rischio nel continente

L’ordine esecutivo che vuole chiudere Usaid

Logo di Usaid, l'agenzia governativa statunitense per la cooperazione.
Africa
Aurora Guainazzi

 

Tra gli ordini esecutivi che il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato il giorno del suo insediamento, il 20 gennaio 2025, ce n’era uno che sospendeva gli aiuti umanitari statunitensi in tutto il mondo per novanta giorni. Un lasso di tempo ritenuto necessario ai funzionari per esaminarli e decidere se confermarli, modificarli o eliminarli.

In realtà, l’amministrazione statunitense non ha atteso l’esito di questa valutazione per proseguire nei suoi attacchi a Usaid, l’Agenzia statunitense (governativa) per la cooperazione internazionale, creata nel 1961 da John F. Kennedy. Mentre il suo sito veniva oscurato, Trump la definiva «un insieme di radicali lunatici». Invece, per Elon Musk, capo del neonato Dipartimento per l’efficienza governativa, Usaid era «un’organizzazione criminale». Tanto da scrivere su X: «È tempo che muoia».

Il 7 febbraio poi, con un decreto, Trump ha stabilito il congedo amministrativo obbligatorio di tutti i funzionari dell’Agenzia. D’altronde, si sapeva che il presidente statunitense non riteneva che i progetti di Usaid – ad esempio, quelli a tutela di donne vittime di violenza o di minoranze vulnerabili – fossero in linea con il suo Make America great again.

Mentre negli Stati Uniti sostenitori e oppositori di Trump si scontravano, il resto del mondo iniziava a preoccuparsi delle conseguenze di questa decisione (unita a quella di abbandonare l’Organizzazione mondiale della sanità) sugli equilibri globali. Lo scorso anno, infatti, secondo le Nazioni Unite, gli Stati Uniti avevano fornito il 42% di tutto l’aiuto umanitario tracciato nel mondo. Con stanziamenti che, in media, oscillavano tra 40 e 70 miliardi di dollari l’anno, Usaid sosteneva, tra gli altri, progetti igienico-sanitari, energetici e contro la violenza sulle donne in 120 Paesi.

Iniziative sparse in tutto il mondo, ma con una concentrazione importante in Africa subsahariana, dove nel 2023 l’Agenzia aveva fornito aiuti per 12,1 miliardi di dollari. Altri 6,5 erano già stati stanziati per il 2025. Ma, con la sospensione dei fondi, molti programmi sono già stati chiusi. In Etiopia, ad esempio, cinquemila operatori sanitari sono stati licenziati per mancanza di risorse.

A rischio c’è anche il Pepfar, l’iniziativa per la lotta all’Hiv/Aids lanciata durante la presidenza di George W. Bush e che in vent’anni si calcola abbia salvato almeno 25 milioni di vite. In Sudafrica, ad esempio, i fondi del Pepfar coprivano il 20% del programma nazionale (da 2,3 miliardi di dollari) contro l’Hiv/Aids e assicuravano trattamenti antiretrovirali quotidiani a 5,5 milioni di persone.

Ma è senza dubbio la Repubblica democratica del Congo (Rdc) il Paese africano più colpito. Anche perché la decisione di congelare gli aiuti giunge in un momento critico: con l’escalation che, a fine gennaio, ha portato il Movimento del 23 marzo, supportato dal Rwanda, a conquistare Goma, capoluogo del Nord Kivu, la situazione umanitaria è sempre più drammatica.

Solo a gennaio, circa 700.000 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. La mancanza di acqua pulita e la difficoltà nel rispettare le norme igienico-sanitarie di base rende il rischio di epidemie – come colera e mpox (conosciuta anche come vaiolo delle scimmie) – concreto. Gli ospedali della città sono sovraffollati, mentre scarseggiano medicinali e strumentazioni sanitarie.

La mancanza di generi alimentari, oltre ad alimentare l’inflazione, sta anche aumentando di giorno in giorno il numero di congolesi che necessitano di aiuti. Ma molti programmi per la distribuzione di cibo di base dipendevano proprio dai fondi statunitensi. Non a caso, per Bruno Lemarquis (rappresentante delle Nazioni Unite nella Rdc), la sospensione degli aiuti «è fonte di grande preoccupazione»: nel 2024, il 70% delle risorse – circa 910 milioni di dollari su un totale di 1,3 miliardi – utilizzate dalle agenzie dell’Onu e dalle Ong operative nella Rdc proveniva proprio da Usaid. «La nostra sovra dipendenza da Usaid – ha detto Lemarquis – implica che molti programmi hanno dovuto chiudere. Quindi, è un’emergenza sanitaria e un’emergenza di beni di base».

Subito dopo l’annuncio della sospensione delle risorse statunitensi, l’Unione europea ha dichiarato di voler coprire il vuoto lasciato da Washington. Ma, nella pratica, è difficile che Bruxelles – il cui bilancio per la cooperazione internazionale è vincolato da piani settennali – riesca a compensare questa perdita. Più probabile, invece, è che lo spazio lasciato da Usaid venga riempito da potenze in ascesa come la Cina, già molto presente e apprezzata in diversi Paesi africani.

Nel frattempo è intervenuta anche la giustizia statunitense, posticipando, per il momento, lo smantellamento definitivo dell’Agenzia. Ma, intanto, quel che è assurdo è come una firma su un pezzo di carta possa arrivare a mettere a repentaglio la vita di milioni di persone in tutto il mondo.

Aurora Guainazzi

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