Cop29, delusione annunciata


I dati definitivi mostreranno probabilmente che il 2024 è stato non solo l’anno più caldo di sempre, ma anche quello in cui la soglia di 1,5 gradi è stata superata. La Cop che si è svolta a Baku non è stata un fallimento totale, ma di certo non si è dimostrata all’altezza della sfida che il pianeta ha di fronte.

Era chiaro a tutti che la 29° Conferenza delle Parti sul clima (Cop29) di Baku, Azerbajian, sarebbe stata la Cop della finanza: come scriveva l’11 novembre Ferdinando Cotugno, inviato del quotidiano Domani a Baku, nella sua newsletter Areale@, «il risultato per cui sarà giudicata sarà un numero, espresso in centinaia o migliaia di miliardi».

E quel numero è 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035: circa un quarto di quanto richiesto dai Paesi che hanno meno responsabilità nella crisi climatica, ma ne subiscono più degli altri gli effetti.

È stata la terza Cop consecutiva in un Paese produttore di petrolio – dopo la Cop27 di Sharm el-Sheik, Egitto, nel 2022, e la Cop28 di Dubai, Emirati arabi uniti, nel 2023 – e anche a Baku si sono visti tratti già presenti nei due anni precedenti: innanzitutto una riduzione degli spazi di protesta per la società civile, a cui è stato vietato di manifestare al di fuori degli spazi della Conferenza – siamo lontanissimi da Glasgow, quando 100 mila persone manifestarono per le strade della città durante Cop26 – e di alzare la voce: per cui, riportava sempre Cotugno, i manifestanti hanno solo potuto schioccare le dita e mugugnare.

Altro tratto simile alle due Cop precedenti: la presenza di un numero consistente di lobbisti del settore dei combustibili fossili. Secondo la coalizione Kick Big Polluters Out, a Baku erano 1.773, meno dei 2.456 presenti a Dubai ma molti di più dei delegati totali dei dieci Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico@.

Il discorso di apertura di Ilyam Aliyev@, presidente dell’Azerbaijan – Paese che l’indice globale di democrazia dell’Economist colloca al 130° posto su 167 – ha sottolineato che petrolio e gas sono «doni di Dio». Nessun Paese, ha detto Alyev, «dovrebbe essere criticato perché ha queste risorse e le porta sul mercato, perché il mercato ne ha bisogno. Le persone ne hanno bisogno». Come presidenza della Cop29, ha aggiunto, sosterremo la transizione verde, ma allo stesso tempo «dobbiamo essere realisti». Non le migliori premesse per intavolare un negoziato a una conferenza sul clima.

COP29 President Mukhtar Babayev speaks at a first closing plenary of the COP29 Climate Conference in Baku on November 23, 2024. The Azerbaijani head of COP29 urged nations on November 23, to bridge their differences after two weeks of fraught negotiations at the UN climate talks over money to help poorer countries tackle global warming. (Photo by STRINGER / AFP)

Perché 1.300 miliardi?

Sul principale tavolo negoziale di Baku, quello della finanza, il punto di partenza era il vecchio obiettivo quantitativo di 100 miliardi di dollari all’anno in aiuti per affrontare la crisi climatica, stabilito alla Cop di Copenaghen nel 2009 e fissato in quella di Parigi nel 2015 come cifra minima da ampliare entro il 2025. I 1.300 miliardi che i paesi in via di sviluppo ritenevano adeguati alle loro esigenze e che volevano inserire come obiettivo vincolante all’interno dell’accordo, viene dalle stime@ che tre economisti – Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern – hanno indicato in vari studi pubblicati dalla London School of Economics e che numerose agenzie delle Nazioni Unite hanno poi adottato. Per realizzare queste stime, i tre studiosi e i loro team sono partiti dai costi per sviluppo e risposta alla crisi climatica affrontati nel 2019 dal gruppo di Stati più esposti ai danni del cambiamento climatico, cioè le economie emergenti (esclusa la Cina: poi torneremo su questo punto) e i paesi in via di sviluppo, riuniti sotto la sigla Emdc.

A partire da questi costi, si legge negli studi dei tre economisti, le proiezioni indicano che i Paesi Emdc avranno bisogno di 2.400 miliardi di dollari l’anno entro il 2030 e 3.200 entro il 2035: mentre è verosimile che 1.400 miliardi l’anno entro il 2030 e 1.900 miliardi l’anno entro il 2035 siano mobilitati direttamente da questi Paesi con risorse proprie, i restanti mille miliardi l’anno entro il 2030 e 1.300 miliardi l’anno entro il 2035 devono venire da fonti esterne, cioè devono essere fondi internazionali: pubblici, privati e di altro tipo.

Questa cifra, sottolineava poco prima della Cop un rapporto Unctad@, organo delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo, sarebbe pari all’1,4% del Pil mondiale, una cifra più bassa dei 2.500 miliardi all’anno di spesa militare dei paesi Nato, pari all’1,9% del Pil.

A questo proposito, riportava Euronews, il delegato di Panama alla Cop, Juan Carlos Monterrey Gomez, ha commentato: «Per alcuni, 2.500 miliardi dollari per ucciderci a vicenda non sono sufficienti, ma mille miliardi per salvare vite è irragionevole. La cosa più ridicola è che stiamo causando la nostra stessa estinzione. Almeno i dinosauri avevano un asteroide. Noi che scusa abbiamo?»@.

La cifra richiesta dai paesi del Sud globale, continua il rapporto Unctad, è anche a pari circa un terzo del totale dei sussidi che nove paesi sviluppati (inclusa l’Italia) danno ai combustibili fossili e impallidisce di fronte alle risorse mobilitate per far fronte alla pandemia, pari a 16.400 miliardi tra spesa fiscale aggiuntiva e mancate entrate.

«Illusione ottica» e «barzelletta»

L’accordo sulla finanza climatica@ è stato raggiunto nella notte fra sabato 23 e domenica 24 novembre scorso, dopo un negoziato teso e nervoso, a più riprese sul punto di fallire. Stabilisce un nuovo obiettivo quantitativo sotto la guida dei paesi sviluppati di almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per sostenere i Paesi in via di sviluppo nell’azione per il clima con fondi provenienti da varie fonti, pubbliche e private.

Il riferimento alla cifra che i Paesi in via di sviluppo richiedevano è presente nel testo, ma come esortazione, come invito a collaborare per consentire l’aumento dei finanziamenti «fino ad almeno 1.300 miliardi l’anno entro il 2035».

Subito dopo l’adozione, ancora in assembla plenaria, i delegati di India, Nigeria, Cuba e Bolivia hanno preso la parola per esprimere la loro rabbia: secondo la negoziatrice indiana, Chandni Raina, 300 miliardi sono una cifra di «abissale povertà», insufficiente per affrontare «l’enormità della sfida che noi tutti abbiamo di fronte»: per questo, ha detto, questo accordo è «poco più di un’illusione ottica». Non è stata più tenera la delegata della Nigeria, Nkiruka Maduekwe: che i paesi sviluppati rivendichino un ruolo di guida impegnandosi su una cifra così bassa «è una barzelletta. Non lo accettiamo»@.

Questi 300 miliardi non arriveranno subito: sono un obiettivo da raggiungere entro il 2035, non il volume degli stanziamenti immediati. Inoltre, non saranno solo fondi pubblici, ma anche fondi privati e risorse da reperire sui mercati, dove Paesi come questi, che spesso hanno già un debito molto alto, faticano a trovare fondi, specialmente visto che si tratta di interventi di adattamento alla crisi climatica che non sono, per loro natura, abbastanza redditizi da invogliare potenziali finanziatori privati.

Activists hold a silent protest inside the COP29 venue to demand that rich nations provide climate finance to developing countries, during the United Nations Climate Change Conference (COP29) in Baku on November 16, 2024. (Photo by Laurent THOMET / AFP)

Gli altri risultati

Un segnale positivo, registra tuttavia l’associazione Italian Climate Network (Icn)@, è che il testo dell’accordo lascia aperta la possibilità che altri Paesi, diversi da quelli sviluppati, forniscano – per quanto su base volontaria – il loro contributo per aumentare questi fondi. E questi Paesi sono la Cina, la Corea del Sud e i Paesi del Golfo membri Opec, che nella Convezione Onu sul clima a tutt’oggi non sono ufficialmente inclusi fra i Paesi sviluppati, perché è ancora in vigore la classificazione del 1992. Si tratta di Paesi con elevate emissioni e con economie non certamente comparabili, ad esempio, a quelle di molti dei Paesi dell’Africa subsahariana, come hanno fatto presente fra gli altri il ministro dell’ambiente nigeriano, Balarabe Abbas Lawal, e la sua omologa della Colombia, Susana Muhamad@.

Fra i risultati che Italian Climate Network elenca nella sua esaustiva analisi della Cop29 c’è anche l’adozione di accorgimenti per regolamentare meglio il mercato internazionale del carbonio: semplificando molto, quando un Paese compie un’azione – ad esempio di riforestazione – che aiuta ad assorbire gas serra, oppure un’azione che evita di emettere questi gas climalteranti, accumula crediti di carbonio e li può vendere ad altri Paesi che hanno bisogno di compensare le proprie emissioni.

A Baku si sono stabiliti nuovi metodi per il calcolo dei crediti e per la valutazione dei progetti che mirano a rimuovere gas serra dall’atmosfera. Inoltre, la Cop29 è intervenuta anche sui registri che raccolgono i dati sui crediti di carbonio, istituendone uno sotto l’ombrello Onu che però Icn definisce leggero, nel senso che riunisce i registri esistenti invece di istituirne uno unico e vincolante.

I fallimenti

Nel primo anno in cui il pianeta probabilmente ha superato la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento rispetto all’epoca preindustriale, la Cop di Baku non ha nemmeno affrontato il tema della mitigazione. Nel testo finale, riporta Icn, non si parla più di uscita dai combustibili fossili né di contenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 gradi o almeno sotto i 2 gradi.

Un dato che ha preoccupato molti riguarda le negoziazioni sul prossimo inventario globale – il Global Stocktake – che aveva rappresentato un successo della Cop di Dubai – e che sono state rimandate alla prossima conferenza sul clima, la Cop30 a Belém, in Amazzonia.

Uno dei motivi per cui non si è raggiunto nessun accordo è che l’Arabia Saudita ha messo in discussione il ruolo del Gruppo intergovernativo sul cambiamento (Ipcc, nell’acronimo inglese), fin qui ritenuto il punto di riferimento scientifico su cui si sono basate le Cop, proponendo di utilizzare anche altre fonti scientifiche. In realtà, riportava a novembre il New York Times@, questa presa di posizione è solo uno degli atti di una strategia di demolizione dei negoziati sul clima che l’Arabia Saudita sta portando avanti già dalla fine della Cop28.

E questo ruolo dell’Arabia saudita richiama l’attenzione anche sull’elefante, anzi, sugli elefanti, nelle stanze negoziali di Baku: l’imminente uscita dall’accordo di Parigi degli Stati Uniti dopo la rielezione di Donald Trump, i numerosi teatri di guerra aperti nel mondo e le conseguenti tensioni che si sono insinuate anche alla Cop, un’Unione europea che ha tentato di guidare i Paesi del Nord globale e di insistere sulla riduzione delle emissioni, ma che era distratta dalle liti fra i Paesi membri sulla scelta dei commissari dell’attuale Commissione Ue, in corso negli stessi giorni a Bruxelles: sono tutti elementi che erano noti prima dell’inizio dei lavori e che avrebbero reso comunque questa Conferenza di difficile gestione. Una presidenza, come quella dell’Azerbaijan, che non sembrava davvero interessata a mediare in modo efficace per raggiungere accordi ambiziosi ha fatto il resto nell’appesantire, rimandare, affossare i negoziati.

Dopo Baku, e sulla scia di Dubai e Sharm El Sheik, sono in molti a chiedersi se ha ancora senso che il pianeta organizzi la propria azione per il clima intorno a un modello negoziale nato tre decenni fa da un trattato che rifletteva un mondo che non esiste più. «È ormai chiaro che le Cop non sono più adatte allo scopo per cui sono nate, ha scritto un gruppo di esperti di clima che include l’ex segretario generale Onu Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’ex responsabile del clima delle Nazioni Unite Christiana Figueres e lo scienziato del clima Johan Rockström. I futuri vertici, sostiene il gruppo, dovrebbero essere organizzati solo in paesi che mostrano un chiaro sostegno all’azione per il clima e che hanno regole più severe sulla lobby dei combustibili fossili. La Cop30 di Belem, che si svolgerà quest’anno a novembre, ha un’eredità pesante da raccogliere.

Chiara Giovetti

22 November 2024, Azerbaijan, Baku: Activists from Fridays for Future Germany demonstrate with other activists at the UN Climate Summit COP29. Photo: Larissa Schwedes/dpa (Photo by Larissa Schwedes / DPA / dpa Picture-Alliance via AFP)




Contro il traffico di persone.

Accoglienza e liberazione


Da trent’anni aiuta donne vittime della tratta e della prostituzione forzata. Ascolta storie di schiavitù, sevizie, fughe, speranze. Di dignità e libertà ritrovate. In prossimità dell’8 febbraio, Giornata mondiale contro la tratta, incontriamo suor Maresa Sabena, in prima linea al fianco dei migranti.

Ha conosciuto centinaia di donne, soprattutto nigeriane, vittime di tratta e sfruttamento sessuale, suor Maresa Sabena, missionaria della Consolata, 90 anni in questo 2025.

Negli ultimi trent’anni ne ha aiutate molte a uscire dalla loro condizione di schiavitù e ritrovare la propria identità e dignità. Lo ha fatto nel contesto del grande lavoro svolto dall’Ufficio pastorale migranti (Upm) dell’arcidiocesi di Torino: un insieme di centinaia di persone che, per lavoro, o per volontariato, si occupano dei migranti che si trovano nel territorio torinese e che, per vari motivi, si rivolgono a loro.

Dolcezza e fermezza

Incontriamo suor Maresa nella Casa Madre dell’Istituto delle Missionarie della Consolata, in via Coazze 1, a Torino.

Ci accoglie in portineria con un sorriso gentile incorniciato dal velo grigio, e ci conduce in una stanza luminosa e dal soffitto alto dove ci fa accomodare.

I suoi gesti garbati, ma chiari e decisi, la sua voce delicata, ma ferma, ci fanno intravvedere un carattere dolce e forte allo stesso tempo: quello che serve per ascoltare le centinaia di donne vittime di tratta e per affrontare i pericoli che può comportare la loro liberazione, spesso ottenuta tramite la denuncia degli sfruttatori.

Oggi suor Maresa fa un’opera soprattutto di accoglienza e di ascolto, ma c’è stato un tempo nel quale era abituata a trattare con forze dell’ordine, tribunali, sfruttatori, percorsi di protezione per le donne che denunciavano.

I primi vent’anni di missione

Curiosi di conoscere il suo percorso, le chiediamo di darci qualche coordinata per capire chi è: «Sono nata nel 1935 a Savigliano (Cn). Ero figlia unica. Ho studiato a Pinerolo (To) dove la mia famiglia si era trasferita.

Io desideravo la missione. Nel 1956, allora, sono venuta a Torino per presentarmi alle Missionarie della Consolata.

Ho fatto la prima professione nel ’59 e, dopo due giorni, sono entrata nell’amministrazione generale a Grugliasco (To) dove sono rimasta per quasi vent’anni aiutando nelle opere delle missionarie nel mondo. Ricordo in particolare il tempo della guerra in Mozambico. È stato un periodo di lavoro molto intenso per far arrivare gli aiuti alle consorelle».

Con i migranti (del Sud Italia)

Nel 1977, lasciato l’incarico nell’amministrazione, suor Maresa si è impegnata a tempo pieno nella pastorale della parrocchia dell’Ascensione del Signore, con la quale collaborava già da tempo, zona sud ovest di Torino, non distante dagli impianti della Fiat a Mirafiori.

«In quel periodo c’era molta immigrazione dal Sud Italia e nel quartiere c’erano molti problemi – racconta -. I residenti non volevano che i bambini provenienti dal Sud, quasi tutti pugliesi di Bitonto, che abitavano nelle case popolari della zona, frequentassero le scuole con i loro figli. Vi fu una presa di posizione della parrocchia, che promosse anche manifestazioni pubbliche a difesa di queste persone.

Io formai e seguii un gruppo di genitori. Erano persone della comunità parrocchiale sensibili alle disuguaglianze sociali e alle divisioni che vi erano in quartiere. Questo gruppo aiutò i bambini delle case popolari e tenne in contatto le loro famiglie con insegnanti e servizi del territorio.

Organizzammo anche giornate di preghiera e di studio sulla cultura e la religiosità popolare.

Formammo piccoli gruppi biblici nelle case per riflettere sui Vangeli della domenica nei periodi forti dell’anno».

Suor Maresa racconta che in un primo momento aveva vissuto con disagio l’impegno in una parrocchia di Torino: «Mi dicevo che il mio impegno non era nello spirito del nostro istituto. Poi ho capito che invece era tutto un piano che il Signore aveva per me, e mi preparava per altro».

Le donne vittime di tratta

A 59 anni, alla morte dei suoi genitori, suor Maresa ha ricevuto una nuova destinazione, l’Argentina, e ha lasciato il suo lavoro alla parrocchia dell’Ascensione.

Mentre iniziava le pratiche per la partenza, però, una sua consorella che lavorava all’ufficio migranti della diocesi di Torino si è ammalata, e le sue superiore le hanno chiesto di sostituirla temporaneamente.

«Nel ’95 – racconta suor Maresa – iniziai il mio servizio con i migranti. Proprio quell’anno il Governo indisse una sanatoria che permetteva a quelli privi di documenti, ma con un lavoro, di ottenere un permesso di soggiorno. All’ufficio migranti il lavoro si moltiplicò e mi chiesero di rimanere. Poi nel 1998 fu emanata la legge Turco-Napolitano, con alcuni articoli validi ancora oggi. Essa stabiliva il diritto a un permesso di soggiorno per protezione sociale per le donne vittime di tratta che denunciavano i loro sfruttatori. Gli enti che seguivano le donne dovevano avere un riconoscimento dallo Stato e una persona referente, e l’Upm chiese a me.

Iniziai così a occuparmi delle donne vittime di tratta, soprattutto nigeriane reclutate con l’inganno nel loro Paese e tenute come schiave sotto minaccia: un lavoro che richiedeva molto ascolto, ascoltare loro ma anche i loro clienti che le conducevano da noi per ottenere un permesso.

Il passo più complicato era quello della denuncia, accompagnarle in questura, poi ai processi, soprattutto all’incidente probatorio in tribunale (un faccia a faccia fra la donna e la sfruttatrice). Per le donne che denunciavano, si attivava un programma di protezione che a volte le portava anche in altre regioni o province. Se la donna non avesse osservato il programma, l’ente avrebbe potuto toglierle il permesso».

 

Il contrasto alla tratta

Dal primo febbraio 2008 è entrata in vigore la convenzione del Consiglio d’Europa sulla tratta degli esseri umani che stabilisce il diritto di asilo politico per le vittime di tratta. La normativa è entrata in vigore in Italia il primo marzo 2011.

Oggi, quindi, la procedura è molto diversa, ci spiega la missionaria della Consolata, perché di fatto si limita a garantire il permesso di soggiorno senza avviare un percorso di protezione e di inserimento sociale della donna sfruttata, e non si propone il contrasto alla tratta perseguendo gli sfruttatori.

«È una legge che non contrasta la prostituzione perché non incide più su chi sfrutta le donne. Per l’Upm il permesso di soggiorno non è mai stato un traguardo finale, ma la prima tappa di un accompagnamento che portasse la donna a ricuperare fiducia in se stessa e riscoprire la sua dignità e vocazione.

Oggi succede che una donna ottenga il permesso di soggiorno per asilo politico e che, per i motivi più diversi, magari perché la famiglia in Nigeria domanda denaro, decida di continuare a lavorare come prostituta».

Clienti e sfruttatori

Domandiamo a suor Maresa da cosa nasce la tratta. «Da cosa nasce?», ci restituisce la domanda con un sorriso amaro: «Dalla richiesta dei clienti», risponde.

«Inizialmente c’erano alcuni uomini italiani che venivano a presentarci queste donne perché le volevano regolarizzare. Le volevano “salvare”, dicevano.

Spesso però, non era per salvarle, ma per poterle sfruttare da soli.

Abbiamo visto di tutto, anche persone colte, benestanti che volevano regolarizzare le donne e magari cercavano un alloggio per poterle ricevere, stare con loro, lontani dalle loro famiglie».

E gli sfruttatori chi sono? Suor Maresa ci dice che spesso sono donne nigeriane. Le maman hanno basi in Nigeria e in Italia. La gran parte pare che «lavori» per conto proprio, con una piccola rete di complici. Alcune, probabilmente, sono collegate ai clan della mafia nigeriana.

Contattano le donne, sovente in zone rurali molto povere, soprattutto nel territorio di Benin City, promettendo loro di farle studiare e lavorare in Italia, e stabiliscono una cifra che le donne devono pagare per il viaggio. Queste, quindi, firmano un contratto di pagamento del debito, siglandolo con un rito vudù, che per loro è molto impegnativo, e poi, quando arrivano in Italia, si ritrovano con un debito moltiplicato: da 20mila a 60-70mila euro, e con la minaccia di ritorsioni sulla famiglia rimasta in Nigeria. Per questo sono costrette a prostituirsi.

Quando chiediamo a suor Maresa se nei trent’anni di lavoro di contrasto alla tratta abbia mai avuto paura che qualche sfruttatore le facesse del male, lei risponde risoluta: «No. Nonostante il pericolo ci fosse, perché mi conoscevano benissimo, mi sono sempre fidata che c’è Qualcuno che ci aiuta e ci protegge».

La prostituzione cambia

Secondo Rosanna Paradiso, esperta anti tratta che lavora alla procura di Torino, intervistata da Federico Gottardo per «TorinoCronaca», oggi sono almeno tremila le donne nigeriane sfruttate sessualmente nel capoluogo piemontese e in provincia.

«È sempre più difficile capire quali siano le loro vere condizioni», prosegue la missionaria. Il mercato della prostituzione, infatti, sta cambiando: ce ne sono di meno in strada perché è aumentato lo sfruttamento in alloggi o centri massaggi o, a volte, anche in capannoni abbandonati. Questo rende più difficile agli operatori e ai cittadini intercettarle, e a loro chiedere aiuto.

«Negli ultimi anni, la maggioranza delle donne che viene al nostro centro, sono mandate direttamente dalle maman per chiedere aiuto per fare la domanda di asilo politico. Loro mentono, ma se durante il colloquio ci rendiamo conto che sono potenziali vittime della tratta, predisponiamo un incontro con la mediatrice culturale per far emergere la loro vera storia. La mediatrice le mette in condizione di aprirsi e superare le paure legate soprattutto al rito vudù, e a noi offre la possibilità di iniziare un discorso sulla possibilità di ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Oggi molte passano dalla Libia dove vengono già sfruttate in un modo spaventoso. Quando ci raccontano le loro storie, ci fanno vedere le ferite sul corpo: è una cosa impressionante.

In questi casi le donne presentano la domanda di asilo politico con le vere motivazioni della loro venuta in Italia, però non sono più tenute a denunciare gli sfruttatori, quindi poi teoricamente possono ancora lavorare per strada per pagare il debito».

Ascolto e accoglienza

In trent’anni di servizio all’Ufficio pastorale migranti, suor Maresa Sabena ha accompagnato personalmente più di duecento donne, ciascuna nel suo programma di protezione e inserimento sociale. «Un altro centinaio di donne sono passate da noi – aggiunge -, ma poi hanno abbandonato il programma, magari per andare in Olanda, o in Gran Bretagna». Le domandiamo come fanno le donne ad arrivare da loro: «Per passaparola. Quelle che vengono da noi, si sentono ascoltate, e lo dicono alle altre. Noi, infatti, all’Upm accogliamo in modo famigliare. Quando arriva una persona, non le chiediamo “come mai sei qui?”, “cosa vuoi da me?”. Iniziamo chiedendo se è la prima volta che viene, come ci ha conosciuti, la famiglia, tutte domande molto in generale. Solo dopo questo domandiamo anche se possiamo aiutare in qualche modo, allora vengono fuori più facilmente i problemi».

Oggi però la missionaria non si occupa più soltanto della tratta. Offre il suo servizio nell’ascolto.

«Ascolto tutto il giorno. Ascolto quelli che arrivano, donne e uomini. Siamo sei, sette persone. Ciascun volontario ascolta anche secondo le sue competenze, ci aiutiamo tra noi. Per esempio, c’è un volontario ex dipendente della previdenza sociale: quando arrivano persone sfruttate sul lavoro, le mandiamo da lui. C’è un avvocato: quando ci accorgiamo che la persona è vittima di tratta, con l’appoggio dell’avvocato l’aiutiamo a chiarire come presentare la domanda di asilo.

Ascoltiamo storie di uomini che arrivano dall’Afghanistan, dal Pakistan, che hanno la famiglia là in pericolo e non riescono a farla uscire dal Paese, a ottenere il ricongiungimento famigliare, anche se qui sono ben inseriti.

Arrivano da noi persone che sono appena arrivate in Italia, ma anche alcune che sono in Italia già da tempo e magari non sono riuscite a regolarizzarsi perché hanno sempre lavorato in nero, sfruttate da qualche parte. Allora le aiuti con l’avvocato: se vogliono, possono denunciare per sfruttamento lavorativo. Però non hanno il coraggio di farlo, perché se denunciano perdono il lavoro, e allora come vivono?

È tutto un modo che passa dall’Upm, un mondo di sofferenza».

La comunità ecumenica

Accanto all’ascolto di questo mondo di sofferenza e all’accompagnamento di donne verso la loro liberazione, c’è un’altra esperienza di suor Maresa che ci preme raccontare: quella della nascita del gruppo di preghiera ecumenico in lingua inglese, composto prevalentemente da nigeriani, nato nel 1995 e tutt’ora molto vivace.

«Avevano iniziato a venire all’Upm alcuni giovani uomini nigeriani studenti del politecnico che cercavano uno spazio per la preghiera comunitaria – spiega la missionaria -. Erano in prevalenza anglicani e di altre confessioni cristiane. E alcuni cattolici. Dato che non si trovavano bene nelle nostre chiese, hanno chiesto di poter utilizzare gli spazi dell’Upm e pregare nelle loro lingue, nelle loro modalità.

Hanno iniziato così a incontrarsi ogni domenica per leggere il Vangelo. Poi hanno portato le loro mogli in Italia, che venivano da noi a studiare la lingua italiana. Alcune di loro, in seguito, sono diventate le nostre prime mediatrici culturali in supporto al lavoro con le donne vittime di tratta. Allora ho pensato di inserire nel gruppo anche queste ultime perché potessero avere amicizie con i loro connazionali.

Fra le persone che avevano iniziato il gruppo, ne scelsi cinque, che si erano laureate in Italia, di confessione anglicana, pentecostale e cattolica, e le misi responsabili del gruppo. Chiesi aiuto ai missionari della Consolata che diedero la loro disponibilità: il primo a venire fu padre Antonio Rovelli, e poi diversi altri.

Le loro celebrazioni iniziavano alle 10 e finivano alle 14, ed erano sempre seguite da un tempo di convivialità. A un certo punto hanno anche chiesto di poter fare delle cerimonie particolari, per esempio la dedicazione dei bambini appena nati: la famiglia presenta il bambino ai responsabili e alla comunità perché questi lo offrano al Signore, allora c’è tutta la preghiera di offerta del bambino e la processione delle famiglie che gli portano un dono per dimostrare che sono felici del suo ingresso nella comunità. Bellissimo.

Il gruppo ecumenico, riconosciuto dalla diocesi, esiste ancora oggi e si ritrova ogni domenica a pregare nei locali della chiesa del Cafasso a Torino; ma da alcuni anni non lo seguo più. Quando l’ho lasciato una decina di anni fa erano più di 200 persone».

Missione a Torino

Suor Maresa, all’inizio della nostra conversazione ci ha detto che il suo sogno di ragazza era la missione in Africa: «Contattare le persone di religioni diverse per portare l’annuncio; ma anche aiutare le donne».

Le domandiamo se il suo sogno, pur non essendo mai partita per l’Africa, in qualche modo si è realizzato. «Oggi non rimpiango nulla di ciò che ho fatto e sto facendo. Sono missionaria della Consolata e il mio sogno era l’Africa che, per motivi diversi, non ho potuto raggiungere. Quando ho iniziato a lavorare all’Upm e con le donne vittime di tratta, ho visto che l’Africa la potevo trovare anche qui: donne private della loro dignità erano vicine a me.

Allora ho capito che è inutile sognare paesi lontani se non vedo, non amo e non aiuto quelle donne, meno fortunate di me, che mi abitano accanto, che sono sfruttate a causa le grandi ingiustizie e disuguaglianze che vi sono nel mondo.

Oggi, a molti anni di distanza, non posso che ringraziare il Signore, perché si è servito della mia povertà e fragilità per compiere la sua opera. Lo ringrazio ogni giorno per la vocazione religiosa missionaria, e per la missione che ha scelto per me, anche se molto diversa da quella che sognavo».

Luca Lorusso

 

Archivio MC


Qualche dato sulla tratta in Italia

A livello nazionale, secondo i dati del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2022 sono state 1.823 le persone prese in carico da parte dei progetti antitratta
attivi in Italia; 1.899 nel 2023; ben 1.737 nei soli primi nove mesi del 2024.

Tutti dati parziali, che non tengono conto delle vittime di tratta non intercettate.

Tra le vittime registrare nel 2024, il 58% erano donne, il 38,6% erano di origine nigeriana, il 3,3% minorenni, il 33,7% sfruttate sessualmente.

Un flusso continuo di schiavi del sesso e del lavoro, ma anche di persone costrette alla servitù domestica, all’accattonaggio e ad altre forme di sfruttamento.

L.L.




L’assassinio di padre Marcelo Pérez,

indigeno e difensore dei deboli


Padre Marcelo Pérez, era parroco a San Cristóbal de Las Casas nel Chiapas, e uno dei pochi sacerdoti indigeni del Messico, dell’etnia Tzotzil. Difensore dei poveri, è stato assassinato il 20 ottobre scorso appena uscito dalla celebrazione dell’eucaristia. Due brevi ricordi da un missionario e un vescovo che lo hanno conosciuto.

Nella diocesi di San Cristóbal, fin dalla sua ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 2002, si era sempre distinto per la sua semplicità e vicinanza ai poveri e ai più svantaggiati, soprattutto quelli che appartenevano alla sua etnia Tzotzil, un gruppo discendente dagli antichi Maya. È stato un grande combattente e promotore di pace in una città dove la violenza è endemica e dove gli omicidi e i rapimenti abbondano e spesso restano impuniti. Padre Marcelo Pérez, appena quarantenne, negli anni della sua vita sacerdotale è stato sempre attento al grido del suo popolo. In molte occasioni la sua parola è stata l’unica a portare all’attenzione dell’opinione pubblica la situazione dei popoli indigeni che sono sempre stati poco visibili e poco considerati nella società messicana.

La mancanza di attenzione, sostegno e valorizzazione delle culture indigene non è stata solo una questione del passato o dell’epoca coloniale, ma è ancora oggi una realtà che ha concrete conseguenze in termini umani, educativi, sanitari e culturali. In ampi settori della società messicana gli indigeni sono ancora un gruppo considerato inferiore e di seconda categoria. Questa realtà è spesso così accettata dagli stessi indigeni che a volte cercano persino di nascondere la loro origine, invece di essere orgogliosi della loro lingua e cultura. Padre Marcelo è stato un grande difensore di tutti questi valori: parlava correntemente la lingua autoctona; diffondeva la cultura e cercava di far apprezzare ai cosiddetti güeros (bianchi) le comunità indigene in mezzo alle quali loro stessi erano cresciuti. Era un coraggioso promotore della ricchezza dei popoli messicani originari.

Il profeta delle periferie

Padre Marcelo aveva fatto una grande scelta come sacerdote indigeno: essere sempre presente nelle periferie e in paricolare in quella di San Cristóbal de Las Casas, dove le comunità indigene sono più numerose. Per questo è stato ucciso.

La sua opzione ha incoraggiato anche la scelta che noi Missionari della Consolata abbiamo fatto quando abbiamo iniziato il nostro lavoro in questa grande nazione: quando siamo arrivati nella diocesi di Tuxtla Gutiérrez ci siamo stabiliti in periferia, nella regione conosciuta come tierra colorada, dove vivono i nostri fratelli Tzeltal (altro popolo indigeno discendente dai Maya).

Grazie alla sua profezia e al suo coraggio, nella nostra diocesi di Tuxtla Gutiérrez, padre Marcelo Pérez è stato un grande missionario che non ha mai tentato di fuggire di fronte alle urgenze che si presentavano per essere fedele al Vangelo di Gesù.

Nel suo ministero sacerdotale fu sempre libero di proclamare il valore e la ricchezza della fede: lo ha fatto con le sue parole e poi alla fine con il dono della sua stessa vita. È significativo che la morte violenta lo abbia raggiunto proprio nella Giornata missionaria mondiale e giorno della canonizzazione di Sant’Allamano. In lui abbiamo un esempio che illumina il nostro impegno e cammino missionario.

padre Luis Jiménez, Imc

Screenshot


Marcelo Pérez, sacerdote indigeno Tzotzil della diocesi di San Cristóbal de Las Casas, è stato assassinato domenica venti ottobre nel quartiere de Cuxtitali, appena conclusa la celebrazione dell’eucaristia.

(Photo by Luis Enrique AGUILAR / AFP)

È stato uno dei primi indigeni che ho ordinato come sacerdote e si è sempre impegnato per la giustizia e la pace. Non si è mai immischiato nella politica di partito o si è schierato a favore di una o un’altra parte; ha lavorato piuttosto per il rispetto di tutti e il dialogo tra le parti, al fine di raggiungere sempre soluzioni pacifiche.

Era un sacerdote concentrato sulla sua vocazione: uomo di preghiera, vicino al tabernacolo e molto impegnato con il suo popolo. Non si è mai vergognato delle sue origini indigene e ha sempre saputo trattare bene chi non le aveva.

Il suo omicidio ci mostra, ancora una volta, il clima di violenza che si è scatenato in Chiapas e nella maggior parte del Paese. C’è una decomposizione sociale che inizia con la distruzione della famiglia ed è consolidata dall’impunità con cui agiscono i gruppi armati. Non è tutta colpa del Governo, ma questa situazione ci fa vedere chiaramente che le istituzioni e tutti noi, comprese le Chiese, siamo sopraffatti. Non siamo riusciti a fermare la violenza che invece sta aumentando.

Questo dovrebbe far riflettere tutti, anche i credenti, ma soprattutto il Governo del Paese. Bisogna impegnarsi a smantellare questi gruppi armati che stanno facendo tanto male alla comunità.

Nella fede, speriamo che il padre Marcelo riposi in pace con Cristo risorto, perché sono benedetti coloro che soffrono per costruire la giustizia e la pace.

cardinale Felipe Arizmendi  Esquivel, vescovo emerito  di San Cristóbal de Las Casas.


Dolore è stato espresso dalla Conferenza episcopale messicana: «Quest’atto di violenza – hanno scritto i vescovi – non solo priva la comunità di un pastore delicato ma mette a tacere una voce che ha lottato instancabilmente per la pace e la giustizia nella regione». Altri due padri gesuiti, solo due anni fa, avevano perso la vita assassinati sul sagrato della loro chiesa nello Stato di Chihuahua da uomini armati mentre rimane ancora un mistero l’omicidio di padre Isaías Ramírez González il cui corpo è stato ritrovato il 15 agosto scorso sotto un ponte di Guadalajara, capitale dello Stato di Jalisco.

da Avvenire, 21/10/2024


Per i missionari e operatori pastorali uccisi nel 2024 vedi su Agenzia Fides




Dalla globalizzazione al protezionismo


Il sistema economico è cambiato. Lo sanno bene Stati Uniti e Cina, le due prime potenze mondiali. L’Unione europea è impreparata e rischia l’irrilevanza. Per questo ha chiesto aiuto a Mario Draghi. Tuttavia, le proposte da lui formulate sono deludenti e vecchie.

Il capitalismo è uno solo per i fini perseguiti, ma è plurimo per le modalità di attuazione. A determinarne la forma sono le circostanze rappresentate dalla dimensione delle imprese, i valori dominanti all’interno della società, la volontà e la capacità di pressione popolare, la situazione ambientale, i rapporti internazionali. Agli albori del capitalismo, quando la rivoluzione industriale muoveva i primi passi, la filosofia capitalista non incontrò ostacoli: si affermò il capitalismo selvaggio del lavoro minorile, del colonialismo, delle guerre di sopraffazione. Dopo la grande crisi del 1929 ci fu un sussulto di valori sociali e, grazie a economisti come John Maynard Keynes (1883-1946), si affermò la convinzione di dover conciliare il profitto con obiettivi come la piena occupazione, la garanzia di una certa sicurezza per tutti, l’indipendenza politica di ogni popolo. Un periodo di grazia che durò fino agli anni Ottanta del secolo scorso, allorché lo spirito mercantilista più radicale ebbe di nuovo il sopravvento e iniziò l’epoca neoliberista.

Intanto in tutti i paesi industrializzati si erano affermate imprese di dimensione globale che, a fine secolo, pretesero la riscrittura delle regole mondiali per trasformare il mondo intero in un unico grande mercato, un unico spazio produttivo, un’unica piazza finanziaria.

Cominciò l’era della globalizzazione che, fra i suoi effetti, ebbe anche l’emergere di nuove potenze mondiali come Cina, India, Russia, Brasile, Sudafrica, riunite nei Brics. Potenze prima avvertite come necessarie, poi come minacce.

Nello stesso periodo si affermò una nuova rivoluzione tecnologica, quella informatica, mentre vennero al pettine tutti i guasti ambientali provocati da un sistema economico che, in nome della crescita, non si è mai preoccupata dei limiti del pianeta.

Arriviamo così ai giorni nostri caratterizzati da un ripensamento della globalizzazione, da un ritrovato desiderio di protezionismo per difendersi dall’espansione altrui, da un rigurgito di nazionalismi e di guerre di sopraffazione, dalla necessità di riorganizzare gli assetti produttivi nell’illusione di poter continuare a espandere produzione e consumi senza provocare ulteriore degrado ambientale.
In termini di potenze economiche, i paesi che hanno dominato la scena nel primo scorcio del 21° secolo sono stati Cina e Stati Uniti che si contendono la supremazia tecnologica a suon di brevetti, mentre usano l’arma doganale per ostacolare l’ingresso delle reciproche mercanzie. Recentemente sia l’una che gli altri hanno aggiunto sovvenzioni governative alle imprese per promuovere l’espansione produttiva in settori strategici come i semiconduttori e le energie alternative. Politiche andate a segno dal momento che entrambi hanno registrato crescite significative in termini di prodotto interno lordo e di investimenti.

Il declino dell’Europa

Chi invece è rimasta al palo è stata l’Unione europea che ora – ancora di più dopo il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump – è terrorizzata non solo di perdere terreno nell’arena internazionale, ma addirittura di andare verso il declino.

Grida di allarme lanciate da tutte le più grandi rappresentanze industriali. Tra esse, la European round table, il forum in cui siedono gli amministratori delegati delle prime sessanta imprese operanti in Europa, che – a dimostrare quanto la situazione sia grave – riporta i dati relativi alla produzione industriale mondiale: se nel 2000 il contributo dell’Europa ammontava al 25 per cento, nel 2020 era sceso al 16,3 per cento.

Lamenti ascoltati dalla Commissione europa che, nel settembre 2023, ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sullo stato della concorrenza dell’industria europea. Che tradotto significa capire i motivi per cui l’industria della Ue sta perdendo terreno e individuare i passi per farle riprendere quota.

Draghi è stato veloce: sei mesi dopo aveva il rapporto già pronto ma, non volendo interferire con le elezioni, ha atteso settembre per annunciare i propri risultati.

Del resto sul tema molto era stato già scritto, in particolare da parte del mondo imprenditoriale che, a detta di una trentina di Organizzazioni non governative, ha lavorato a stretto contatto con Draghi per la stesura del rapporto. Protesta, quella delle Ong, contenuta in una lettera aperta in cui si lamenta scarsa trasparenza e rapporti di collaborazione quasi esclusivi con le rappresentanze imprenditoriali. Se ci fosse stato il coinvolgimento delle organizzazioni sociali e ambientali, forse certe proposte non avrebbero trovato accoglienza.

Certo, tutti sanno che le strategie per sopravvivere e anzi farsi spazio nel mercato globale sono tematiche tutte interne alla logica capitalista, per cui sarebbe stato da ingenui aspettarsi un rapporto dai contenuti rivoluzionari. Specie quando a scriverlo è un personaggio come Draghi da sempre custode del sistema. Ma certe proposte hanno fatto sobbalzare anche i più ortodossi.

Mario Draghi (alla destra) con il presidente francese Macron. Foto European Central Bank.

Lo Stato no, i privati sì?

Complessivamente il rapporto Draghi, titolato «Il futuro della competitività europea», è composto da 400 pagine distribuite in due volumi: la parte A che offre una sintesi delle conclusioni raggiunte e la parte B che entra nei dettagli dei singoli temi e settori.

Fra i settori analizzati e fatti oggetto di proposte c’è anche quello dei minerali rari, delle industrie ad alte emissioni di anidride carbonica, del riciclo, delle energie pulite, dell’intelligenza artificiale, della farmaceutica, perfino dell’industria bellica e aerospaziale.

Benché il rapporto Draghi avanzi 170 proposte, la filosofia da cui queste derivano è un condensato di pochi elementi: crescita, innovazione, dinamismo, riduzione e ottimizzazione dei costi di produzione, approvvigionamento di materie prime in maniera sicura e a buon mercato, alta disponibilità finanziaria, sicurezza militare.

A partire da questi principi il rapporto formula proposte per ogni ambito e settore. Nel caso delle telecomunicazioni, ad esempio, indica la necessità di innovare investendo nella fibra ottica e nel 5G.

Ma il problema, secondo il rapporto, è che il settore è affollato da troppe imprese di piccole dimensioni.

In Europa i gruppi dediti alla telefonia mobile sono 34 contro tre degli Stati Uniti e quattro della Cina. Una frammentazione che dà come risultato un ammontare di investimenti di gran lunga inferiore rispetto agli altri due paesi. La conclusione di Draghi è che anche in Europa bisogna favorire la nascita di mega colossi tramite fusioni e acquisizioni. Il tutto in barba all’idea fin qui inseguita che i monopoli sono pericolosi, motivo per cui negli anni Novanta venne imposta in tutta Europa la privatizzazione di quelli di Stato dediti alla telefonia e all’energia. Avallare oggi i monopoli privati sarebbe una beffa e la dimostrazione che il vero obiettivo delle privatizzazioni non era la concorrenza, ma espropriare lo Stato della sua funzione sociale.

Il rapporto raccomanda un processo di concentrazione anche nel settore della produzione bellica, che in Europa ha un giro d’affari di 135 miliardi di euro. A tale scopo porta come esempio gli Stati Uniti che, dal 1990 a oggi, hanno ridotto il numero di imprese belliche di carattere strategico da 51 a 5. E, per non dare spazio ai concorrenti esteri, Draghi chiede ai paesi dell’Unione europea di programmare insieme gli acquisti di materiale bellico privilegiando le forniture dalle imprese europee. Ma al di là delle proposte specifiche, sorprende che un rapporto sulla concorrenza si occupi anche di produzione di armi dal momento che, in termini di valore economico, rappresenta appena il 2,5% del totale della produzione industriale europea. La risposta di Draghi è militare più che economica: «L’Unione europea proviene da decenni di bassa spesa militare, bassi investimenti nell’industria bellica e basse riserve di magazzino. Ma oggi la sicurezza alle sue frontiere è radicalmente cambiata per cui deve dotarsi di un piano per rafforzare gli investimenti nella difesa in modo da raggiungere una vera indipendenza strategica e aumentare la sua influenza geopolitica a livello globale».

Un’ulteriore conferma di come economico e militare siano profondamente intrecciati fra loro.

Fra i motivi per cui l’industria europea sta perdendo terreno, il rapporto Draghi ne sottolinea un paio: costi energetici elevati (come conseguenza della riduzione di gas proveniente dalla Russia) e incapacità di produrre internamente semiconduttori, batterie al litio e altri prodotti strategici per l’innovazione tecnologica. Due strozzature che l’Europa deve risolvere insieme a un terzo elemento di crisi che non è solo suo, ma dell’intera umanità: i cambiamenti climatici che impongono l’abbattimento dell’anidride carbonica.

Chi paga?

Un insieme di problematiche che, secondo Draghi, richiedono investimenti massicci, addirittura dell’ordine di 800 miliardi di dollari, per un numero indefinito di anni.

Ma chi paga? Il rapporto Draghi non lo precisa, ma fa capire che il peso deve essere ripartito fra sfera pubblica e sfera privata. Tant’è che formula proposte per permettere a entrambe di reperire i fondi necessari.

Per quanto riguarda i governi, Draghi avrebbe potuto proporre una tassa straordinaria sui più ricchi. Invece ha ripiegato sulla formula classica del debito con l’unica novità di farlo non individualmente, ma collettivamente, in quanto Unione europea, come già successo per il finanziamento del Next generation Eu attualizzato in Italia sotto la sigla Pnrr.

Il debito contratto dall’intera Unione europea ha il vantaggio di costare meno perché quando il prestito è chiesto da un’entità ritenuta solida, questa riesce a spuntare interessi più bassi. Ma quando arriverà il momento di restituirlo, tutti i paesi membri dovranno frugarsi in tasca, e quelli più deboli si comporteranno come sempre, ossia faranno cassa tagliando le spese, in particolare quelle a beneficio dei più poveri.

I fondi pensione

Venendo alle imprese, Draghi segnala che una difficoltà incontrata in Europa è la scarsità di capitali fuori dal circuito bancario. Fa anche notare che una delle realtà non bancarie che più investe nelle imprese è rappresentata dai fondi pensione, per cui sollecita il loro potenziamento.

Il che apre degli interrogativi sul perché si insiste tanto per demolire la previdenza pubblica. Ci è stato detto che la ragione è l’inefficienza della macchina pubblica e il peso eccessivo delle pensioni che fa indebitare lo Stato. Ma, alla luce delle parole di Draghi, viene il sospetto che la verità sia un’altra: ossia che si voglia spostare le pensioni dal pubblico al privato per fare un regalo di peso alle imprese private.

La dominanza del «meno»

Per favorire la competitività delle imprese, Draghi insiste molto anche sulle regole. Oltre a raccomandare di alleggerire il carico fiscale sulle imprese e di snellire le procedure di accesso a benefici e permessi, il rapporto raccomanda anche di ridurre gli obblighi a loro carico.

Fra questi cita espressamente una disposizione appena introdotta dal Parlamento europeo. Si tratta dell’obbligo di sorveglianza del rispetto dei diritti umani, tecnicamente definita due diligence, imposto alle multinazionali con fatturato annuo superiore ai 450 milioni di euro. Draghi cita quest’obbligo, assieme ad altri di natura ambientale e sociale, come esempi concreti di costi che sovraccaricano le imprese.

A questo punto, la domanda che occorre farsi è: dove finisce l’Europa attenta ai diritti, che abbiamo sempre detto di voler costruire, se anteponiamo la concorrenza ai diritti umani e all’ambiente?

Francesco Gesualdi

 

 




Missionari santi


La Giornata missionaria mondiale di domenica 20 ottobre 2024, è stata celebrata a una settimana dalla conclusione del percorso sinodale che dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo.

In quella giornata, il Santo Padre ha proclamato la santità di Giuseppe Allamano, sacerdote della Chiesa torinese, rettore del santuario della Consolata, formatore di sacerdoti e fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Come ha scritto papa Francesco nel suo messaggio: «La missione è un andare instancabile verso tutta l’umanità per invitarla all’incontro e alla comunione con Dio. La meta dell’invito è la partecipazione di tutti i popoli al banchetto escatologico, immagine della salvezza finale nel Regno di Dio, simboleggiata e anticipata già ora nel banchetto dell’Eucaristia, che la Chiesa celebra su mandato del Signore in memoria di Lui».

«Il missionario – diceva san Giuseppe Allamano più di cento anni fa – è il ministro dell’apostolato della Chiesa, inviata da Gesù ad evangelizzare tutte le genti. Bisogna fare nostre le parole dell’Apostolo: “Tutto faccio per il Vangelo!”. Lavorare non solo per santificare noi, ma anche gli altri; essere disposti a qualunque sacrificio. “Tutto faccio per il Vangelo!”. Tutto, tutto! Mi spenderò e mi sacrificherò».

Ispirandosi al suo carisma, i missionari svolgono il loro servizio ad gentes annunciando la buona notizia dove non è ancora presente, privilegiando i più poveri, bisognosi e trascurati e prestando speciale attenzione alle situazioni umane alle quali è più difficile far giugnere il messaggio cristiano.

L’Allamano ha speso il suo sacerdozio al servizio dei fedeli nel santuario della Consolata: 46 anni vissuti con zelo pastorale e forte passione per le missioni ad gentes. Pur non lasciando mai l’Italia, ha percorso con il cuore il mondo intero cercando di fondere insieme santità e sacerdozio, evangelizzazione e missione.

Ha voluto che i suoi figli fossero come Gesù, santi ed evangelizzatori, per questo il suo motto era: «Prima santi, poi missionari». Da loro esigeva radicalità ed entusiasmo, qualità riassunte nell’espressione: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». L’importante era «fare bene il bene e senza rumore» cercando di essere «straordinari nell’ordinario».

Sergio Frassetto


Grazie per il dono della santità

La santità è dono del Signore, per questo bisogna fare festa e ringraziare. I missionari e le missionarie della Consolata l’hanno fatto lunedì 21 ottobre, il giorno dopo la canonizzazione di Giuseppe Allamano, con un’eucaristia solenne nella basilica di San Paolo fuori le mura. Una celebrazione gioiosa, rallegrata dalle danze e dai canti dei popoli africani e di altri continenti. Ha presieduto la liturgia il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico della Mongolia che nell’omelia ha invitato a ringraziare il Signore.

L’oggi di Dio nella liturgia

Nella sinagoga di Nazaret, dopo aver annunciato l’anno di grazia del Signore, Gesù dice: «Oggi si compie questa scrittura». «Oggi Dio mi chiama», disse l’Allamano mentre discerneva la sua vocazione. La ricerca della volontà di Dio nel suo «oggi» è stata costante nella sua vita e ci invita a fare altrettanto.

E c’è un’altra parola che merita essere evidenziata: «Gli occhi di tutti erano fissi su di lui»: avere gli occhi fissi su di lui così da poterli volgere agli altri con vicinanza, compassione e tenerezza.

L’eucaristia quotidiana era il perno attorno al quale ruotava la vita di san Giuseppe Allamano: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… fate questo in memoria di me», e lo Spirito Santo ha plasmato il cuore di san Giuseppe Allamano permettendogli di diventare puro strumento nelle sue mani in una successione continua di «oggi» e di «qui».

Il mistero celebrato nella liturgia è la forza che muove il presente, è l’oggi, la contemporaneità, l’attingere la forza della missione dalla contemplazione, e lui ci diceva: «Lasciamo che ci giri e rigiri a suo talento e per tal modo diverremo veri e santi missionari».

Vorrei citarvi ancora una parola del fondatore detta in un’occasione particolare: era il 24 gennaio 1905, la professione religiosa e partenza di due missionari, e lui disse così: «Nostro Signore Gesù Cristo da questo altare rivolge a voi, carissimi figli, le solenni parole che disse un giorno agli apostoli: “Andate, predicate alle genti, battezzatele, ecco io sarò con voi tutti i giorni”.

Le stesse parole rivolse nel corso dei secoli a tanti uomini apostolici che da lui chiamati ebbero la stessa missione con la stessa promessa», e aggiungeva: «Oggi queste parole sono per voi, fortunati figli della Consolata e per i vostri fratelli che vi precedettero e vi seguiranno. La vostra è la stessa missione di Nostro Signore Gesù Cristo, missione divina».

Screenshot

L’oggi della missione

Allora «oggi» significa avere gli occhi fissi su di lui, un unico movimento che definisce la santità di Giuseppe Allamano per capire la quale bisognerebbe essere saliti anche noi con lui sul «coretto» nel santuario della Consolata e aver speso come lui lunghe ore con lo sguardo fisso sul tabernacolo e l’immagine della Consolata, aver dato tempo all’ascolto dei suoi figli e figlie spirituali come anche alla gente comune che veniva al santuario per un consiglio, aver condiviso con il canonico Giacomo Camisassa e con gli altri uomini della prima ora le inquietudini e le speranze di una famiglia missionaria che stava nascendo.

Per i santi non c’è distanza, c’è solo contemporaneità. Il mistero celebrato nella liturgia è la forza che ci muove, è l’oggi, è l’essere qui per essere inviati nel mondo. E per questo i santi lasciano che lo Spirito dia loro la forma che vuole. Per san Giuseppe Allamano e per noi è la forma della missione ad gentes, la prima evangelizzazione dove la chiesa non è ancora radicata e non ci sono altri testimoni del Risorto, con lo stile di Maria. E questo stile vissuto nella vicinanza, nella compassione e nella tenerezza.

Scossi dalla santità di Allamano

Quanto san Giuseppe Allamano teneva alla serietà del nostro volerci bene tra noi. Lo considerava una priorità, un punto di attenzione continua, e qui, oggi, siamo anche noi. Allora possiamo chiederci: che dice al nostro presente la santità di Padre Fondatore? Verrebbe da dire che se non prendiamo sul serio questo invito a fissare i nostri occhi sul Signore qui presente in mezzo a noi e se trascuriamo quest’oggi, che è la possibilità concreta di volerci bene davvero, senza logiche di gruppo, ma con una vera armonia tra tutti noi, la santità di Giuseppe Allamano forse non riuscirà a giovarci più di tanto.

Sì, dobbiamo dircelo con sincerità: la sua santità ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà.

I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia che condivide le incertezze e i rapidi mutamenti del mondo. «Oggi» non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un momento di ripartenza. L’amore appassionato per il Padre Fondatore trasmessoci dalle prime generazioni dei missionari e missionarie, l’immenso lavoro apostolico portato avanti da tanti fratelli e sorelle che noi qui oggi rappresentiamo, l’impegno della postulazione, le fatiche della preparazione… tutto sarà ampiamente ripagato se prenderemo sul serio questo «oggi» e avremo gli occhi fissi sul Signore teneramente amato da san Giuseppe Allamano.

E realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico.

Che questo giorno benedetto ci aiuti a riscoprire con fervore e fedeltà creativa il dono di essere missionari e missionarie della Consolata, inviati dove altri, forse, non se la sentono di andare per rendere concretamente possibile l’incontro con Cristo, imitando così la Madre di Dio presa con noi tra gli affetti più cari per imparare da lei.

cardinale Giorgio Marengo


Pagine di vita

Era Occupatissimo

San Giuseppe Allamano svolse un intenso ministero nella diocesi di Torino, oltre a quello già molto impegnativo al santuario della Consolata e al Convitto ecclesiastico. C’è anzitutto da sottolineare il suo ministero tra le comunità di religiose. Dal 1886 al 1891 fu superiore delle Suore di san Giuseppe di Torino e, nel giro di pochi anni, compì un gran bene in quella congregazione. Unendo alla fermezza del comando una bontà longanime e comprensiva e un tatto squisito, diede impulso nuovo allo spirito e all’osservanza religiosa. Allamano fu pure superiore delle Visitandine dal 1889 fino al 1905, anno in cui il loro monastero fu trasferito da via Santa Chiara in corso Francia.

L’Allamano svolse in diocesi anche altre mansioni di prestigio tra le quali quella di dottore collegiato alla Facoltà teologica di Torino dal 1877, e quella di membro aggiunto della Facoltà legale pontificia di Torino dal 1887. Questi incarichi lo impegnarono in varie attività accademiche: adunanze generali, sessioni di esami e presidenza della facoltà stessa.

A tutto ciò si aggiunge l’intensa attività di confessore e direttore spirituale: «Ho visto io personalmente – assicurò il suo domestico Scovero – molti poveri recarsi da lui per confessione o per consiglio. Non rimandava mai alcuno, ma riceveva tutti con la stessa bontà e carità».

«A me dava l’impressione ch’egli avesse giammai niente da fare. Da noi occupava molto bene il suo tempo; mai che mostrasse avere impegni o urgenze, e soltanto più tardi abbiamo saputo che dirigeva mezza diocesi ed era occupatissimo». Con queste parole il padre Gaudenzio Panelatti ricordava le visite dell’Allamano alla prima Casa Madre, all’inizio dell’Istituto dei missionari.

«A lui – fu la testimonianza comune dei canonici G. Cappella e N. Baravalle – si può dire senza esagerazione, ricorreva tutto il clero diocesano, dai parroci più anziani fino al più giovane convittore. Così molti vescovi del Piemonte ricorrevano a lui per consiglio.

Grande conto ne fecero sempre gli arcivescovi di Torino, da monsignor Gastaldi al cardinal Gamba.

Buona parte del patriziato torinese a lui ricorreva per consiglio sia per le questioni familiari, come e molto più per le circostanze politiche e sociali. Molte personalità, sia ecclesiastiche che civili, lo avevano per direttore di spirito».

L’arcivescovo Gastaldi un giorno avrebbe detto al suo segretario: «Sono così contento che il teologo Allamano mi abbia fatto aprire il Convitto che lo faccio canonico».

Di fatto, con decreto del 10 febbraio 1883, Allamano fu nominato «canonico onorario» della Chiesa metropolitana, ad appena 32 anni di età e a tre anni dal suo ingresso alla Consolata.

Quattordici anni dopo, l’8 maggio 1897, al chiudersi dell’episcopato di monsignor Davide Riccardi, Allamano fu nominato «canonico effettivo», all’età di 46 anni. Quando si recò a ringraziare l’arcivescovo, Allamano si sentì dire: «Questa nomina servirà anche a migliorare la sua salute. Lei passa la giornata al tavolino e fra le mura del santuario e del convitto. Quale canonico effettivo dovrà frequentare il coro, e quindi sarà obbligato a fare la passeggiata dal santuario al duomo». «Come canonico Allamano era esemplarissimo – dichiarò un altro canonico – sempre puntuale all’ufficiatura e molto raccolto».

Nel discorso ai canonici in occasione della presa di possesso, il 10 novembre 1897, Allamano disse tra l’altro: «Che cosa abbiano riguardato in me i due venerandi arcivescovi per conferirmi tanto onore io non crederei se non me l’avessero entrambi espresso dicendomi che volevano darmi prova della loro soddisfazione per l’opera prestata nell’educazione del giovane clero. E il nuovo onore d’oggi mi è pure stimolo ad accrescere questo buon volere nel compiere la missione affidatami dalla Divina Provvidenza».

 




La montagna sacra


Viviamo nel tempo della crisi climatica e dell’illusione di poter controllare e dominare la Terra. Il libro di Enrico Camanni invita alla sapienza del limite. Partendo dalla proposta di scegliere una cima alpina da lasciare libera dalla presenza umana. Per contemplare (e non conquistare) qualcosa che supera l’uomo.

«In senso stretto, si definisce sacro ciò che è connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente radicalmente inferiore, subendone l’azione e restandone atterrito e insieme affascinato; in opposizione a profano, ciò che è sacro è separato, è altro».

Questa la definizione che l’enciclopedia Treccani dà del concetto di «sacro». Sacro è ciò che ha a che fare con un limite, con la delimitazione di uno spazio riservato alla sfera del divino, uno spazio che l’uomo non abita e del quale non può disporre.

Naturalmente la dimensione sacrale non ha necessariamente bisogno di essere declinata in uno specifico credo o religione.

Non occorre la fede nell’esistenza di un dio per sperimentare la sacralità. Per questo, anche in una prospettiva laica, ha senso riflettere sul significato del sacro e sulle sue implicazioni, sulla convinzione, cioè, che l’ambito dell’agire umano non è illimitato e che, di conseguenza, l’uomo non si trova al centro di tutto, perché esiste qualcosa che lo supera.

Le Alpi indicano il limite

Nel libro di Enrico Camanni si ragiona su questo senso del limite. Lo spunto che dà avvio alla riflessione è una proposta emersa durante il centenario (2022) dell’istituzione del Parco nazionale del Gran Paradiso: l’idea di impegnarsi a non salire più la cima del Monveso di Forzo, tra la Val Soana e la Val di Cogne, e dichiararla sacra, lasciandola libera dalla presenza umana. Non calpestarne più la vetta. Una proposta che ha acceso un grande dibattito.

Non si tratta, per il comitato promotore, di interdire la salita con un divieto legale (come accade, ad esempio, dal 2019 in Australia a Uluru-Ayers Rock, la «grande pietra» sacra della mitologia aborigena), la proposta ha piuttosto un valore simbolico, un invito all’astensione dall’azione del salire, alla contemplazione dal basso che ci induca a non percepirci come gli artefici onnipotenti di un mondo nel quale tutto può essere soggetto alla nostra volontà di conquista e di dominio.

Camanni esplora dunque questa concezione del limite ponendo attenzione al territorio montano. Lì, infatti, risalta con maggiore forza la necessità di percorrere la via dello sviluppo sostenibile, «che definisco “terza via” – scrive Camanni – in alternativa alle due strade a fondo cieco che sono state percorse nella seconda metà del Novecento e non sembrano ancora del tutto archiviate: le Alpi dei condomini e le Alpi della retorica romantica».

Si tratta della proposta di una differente idea di turismo e di frequentazione dello spazio alpino, opposta a quella che crede, ad esempio, che la montagna, per svilupparsi, abbia bisogno di più piste da sci, con infrastrutture a quote sempre più alte, di strade anche in valloni isolati, e così via. È l’idea di un turismo (che sembra peraltro in crescita) incentrato sulla bassa velocità, su un escursionismo in cerca di luoghi selvaggi liberi il più possibile da tracce di presenza umana, sull’esplorazione della storia e della cultura dei territori.

Il mondo politico, in Italia perlomeno, continua a rimanere sordo al turismo sostenibile: «Basti un dato – si legge nel libro di Camanni -: alla fine del 2023 il ministero del Turismo ha assegnato 152 milioni di euro alla montagna, così suddivisi: 148 milioni al turismo della neve (impianti di risalita e innevamento artificiale) e 4 milioni all’ecoturismo per “minimizzare gli impatti sociali, economici e ambientali” del settore. Una mancetta».

La sapienza del limite

Lo sfondo su cui tutto questo si gioca è la questione ambientale, in relazione alla quale è stato coniato il termine «Antropocene», perché «a differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti – scrive Paul J. Crutzen in Benvenuti nell’antropocene!, Mondadori, 2005 -, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente. La forza nuova, di cui un osservatore extraterrestre potrebbe distinguere l’azione, siamo noi, capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi assieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto e del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera degli ultimi 15 milioni di anni».

Il modo di intendere il nostro rapporto con il resto dei viventi e della natura ha, lo si voglia o no, un peso centrale nella politica odierna, la dimensione ecologica peraltro non va considerata come un ambito a sé stante ma si intreccia strettamente a quella economica e sociale.

Dai rapporti del Club di Roma dei primi anni Settanta, al lentius profundius suavius (più lento, più profondo, più dolce) di Alexander Langer, sino alla Laudato si’ di papa Francesco, non poche sono le voci che possono aiutarci a riflettere sulla pratica del limite nell’interazione tra l’uomo che agisce, produce e consuma risorse e la cornice naturale entro la quale compie queste azioni.

La sapienza del limite ha radici antiche, cercare di ancorarci saldamente a queste radici può costituire la migliore base per l’edificazione di un futuro che, è lecito pensare, o sarà ecologico o non sarà.

Massimiliano Fortuna
Centro studi Sereno Regis

Piccola bibliografia

  •  Paul J. Crutzen, Benvenuti nell’antropocene!, Mondadori, Milano 2005, pp. 94, 12,00 €.
  •  Marco Albino Ferrari, Assalto alle Alpi, Einaudi, Torino 2023, pp. 144, 12,00 €.
  •  Amitav Ghosh, La montagna vivente, Neri Pozza, Vicenza 2023, pp. 64, 10,00 €.
  •  Alexander Langer, La scelta della convivenza, E/O, Roma 2022, pp. 136, 8,00 €.
  •  Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 2022, pp. 400, 13,50 €.
  •  Papa Francesco, Laudato si’. Laudate Deum, Ancora, Milano 2023, pp. 264, 4,00 €.
  •  Marco Tedesco con Alberto Flores d’Arcais, Ghiaccio. Viaggio nel continente che scompare, Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 159, 15,00 €.

 




Bulgaria. Tradizione e resilienza


I bulgari hanno una pessima opinione della propria classe politica, lamentando corruzione e inefficienza. Si aspettano di più dall’Unione europea, ma non dimenticano Mosca. Mentre l’istituzione più rispettata rimane la Chiesa ortodossa.

La Bulgaria è un paese che cattura l’immaginazione di chi la visita. Presenta, infatti, una combinazione unica di bellezze naturali, ricchezza storica e complessità contemporanea. Situata tra i Balcani e il Mar Nero, è una nazione con una storia millenaria, costellata da dominazioni e cambiamenti politici, ma anche caratterizzata da tradizioni culturali e religiose che si sono mantenute salde nel tempo.

Abbiamo attraverso questo paese affascinante, potendo così osservare da vicino le sfide che la Bulgaria deve affrontare nella sua ricerca di un equilibrio tra il passato e il futuro, tra la sua identità nazionale e la crescente influenza dell’Unione europea. La politica instabile, i contrasti sociali e i cambiamenti economici si scontrano con una popolazione che ha una forte connessione con le proprie radici e il proprio patrimonio culturale.

Boyko Borisov, l’uomo forte della Bulgaria, con Donald Trump nel 2019. Foto White House – Shealah Craighead.

L’instabilità politica

La situazione politica è, senza dubbio, uno degli aspetti più problematici. Gli stessi cittadini esprimono sentimenti di delusione e frustrazione nei suoi confronti. Così, ogni volta che si chiede a un bulgaro un’opinione sul futuro del Paese, la risposta è invariabilmente piena di incertezze.

Le manifestazioni contro la corruzione, scoppiate nel 2020, hanno portato a mesi di proteste che hanno evidenziato la crescente insoddisfazione dei cittadini nei confronti della classe dirigente. Le accuse non risparmiano nessun grande partito e la percezione di una mancanza di giustizia ha alimentato nella popolazione un senso di alienazione dalla politica.

Allo stesso tempo, però, gli elettori continuano a votare e premiare politici che, a parole, essi stessi denunciano come inetti e marci. La politica bulgara è caratterizzata da una cronica instabilità: le elezioni anticipate sono ormai la norma (dal 2021 i cittadini sono stati chiamati sette volte alle urne) e i governi si susseguono senza che nessuno riesca a durare abbastanza per attuare riforme significative.

Questa instabilità si deve anche alla frammentazione del panorama politico in numerosi partiti. Tra questi, il conservatore Gerb (Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria) e il socialista Bsp (Partito socialista bulgaro), che si contendono il potere attraverso alleanze trasversali in una costante alternanza.

Le ultime elezioni, avvenute nell’ottobre 2024, hanno segnato l’ennesima vittoria del Gerb, il partito guidato dal corrotto e inossidabile Boyko Borisov, sempre al vertice della politica nazionale. Nonostante varie accuse e i continui battibecchi all’interno del suo stesso movimento ne abbiano più volte annunciato la fine politica, Borisov è riuscito sempre a rialzarsi, anche grazie all’appoggio di cui gode a Bruxelles e nel Partito popolare europeo.

La corruzione, che pervade ogni livello dell’amministrazione, impedisce alla Bulgaria di progredire, minando la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Secondo diversi sondaggi, la maggioranza dei bulgari ritiene che la corruzione sia uno dei principali ostacoli per lo sviluppo del Paese e la classe politica viene vista come distante e interessata soprattutto a mantenere i propri privilegi.

La cattedrale ortodossa di Aleksandr Nevskij nella capitale bulgara di Sofia. Foto Piergiorgio Pescali.

La Ue e la Russia

La Bulgaria è entrata a far parte dell’Unione europea nel 2007, un traguardo che molti cittadini avevano salutato con entusiasmo, sperando che l’adesione avrebbe portato a una rapida modernizzazione e a un miglioramento del tenore di vita.

Il cordone ombelicale che ha tenuto legata la nazione con la Russia per più di quattro decenni, però, non è mai stato reciso: culturalmente, questo è innegabile, la Bulgaria ha il cuore a Est. Qui è nato l’alfabeto cirillico, la popolazione professa per la maggior parte la fede ortodossa e l’asse Putin-Kirill, il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, continua a rappresentare un modello antagonista all’occidentalizzazione per una fetta sempre maggiore di popolazione.

Nei miei viaggi, ho avuto la possibilità di parlare con diverse persone a proposito dei cambiamenti che l’adesione all’Ue ha portato, e le opinioni sono spesso contrastanti. Nel parco cittadino di Razgrad, il Pantheon dell’immortalità, il complesso socialista che commemora gli eroi della lotta antifascista, è coperto da scritte anticomuniste e antirusse: «La Russia è nemica della Bulgaria», «Morte al comunista», «9 settembre 1944: noi non dimentichiamo». Però, a poca distanza, dalle finestre di alcune case, sventolano bandiere russe: più un simbolo della nostalgia per un passato nel quale i bisogni essenziali erano garantiti che del sostegno alla politica di Putin.

Bruxelles è spesso accusata di non essere riuscita a mantenere quella speranza di sviluppo e democrazia che caratterizzava il primo ardore popolare conseguente all’ingresso del Paese nell’Unione.

Da una parte, l’Ue ha destinato ingenti fondi alla nazione per favorirne lo sviluppo economico e infrastrutturale. In città come Plovdiv, Burgas o Varna, i segni di questa modernizzazione sono evidenti: nuove strade, edifici ristrutturati e servizi pubblici migliorati. Nel Sea Garden, il grande e bel parco pubblico di Varna, ci soffermiamo davanti alle lapidi che commemorano i cosmonauti russi. Si avvicina un uomo sulla sessantina che inizia a lamentarsi della perdita di memoria storica dei giovani bulgari. Afferma di essere un imprenditore, che ha beneficiato di finanziamenti europei per aprire una piccola impresa legata al turismo.

«Senza quei fondi, non ce l’avrei mai fatta», ci dice, riconoscendo l’importanza del sostegno europeo, «ma – aggiunge – non scorderemo mai l’aiuto tecnologico dato dall’Unione Sovietica alla Bulgaria».

È innegabile che la nazione abbia beneficiato di numerosi fondi europei per sostenere la modernizzazione delle infrastrutture e lo sviluppo economico. Tuttavia, il Paese si trova spesso sotto osservazione per la gestione inefficace e opaca di tali risorse.

Le istituzioni europee hanno più volte espresso preoccupazioni riguardo alla lentezza delle riforme giudiziarie e all’incapacità del governo bulgaro di contrastare efficacemente la corruzione e, a livello politico, i rapporti con Bruxelles sono stati spesso tesi.

La Bulgaria si è trovata in una posizione di vulnerabilità nei confronti delle decisioni europee su questioni cruciali, come la gestione delle migrazioni, la politica energetica e la sicurezza regionale.

Nonostante i bulgari tendano a incolpare l’Unione europea della loro arretratezza, è l’atteggiamento remissivo e accondiscendente dell’opinione pubblica verso la politica interna la causa per cui la Bulgaria continua a restare il paese più povero dell’Unione. Il reddito medio è tra i più bassi, e molti giovani scelgono di emigrare in cerca di migliori opportunità in paesi come la Germania, il Regno Unito o l’Italia. Molti, appena terminati gli studi universitari, hanno in programma di partire per l’estero con conseguenze profonde sul tessuto sociale e sull’economia del Paese.

Tra tradizione e modernità

Dal punto di vista sociale, la Bulgaria è un Paese in rapida evoluzione, che sta cercando un equilibrio tra modernità e tradizione. Dopo la fine del regime comunista nel 1989, la nazione ha vissuto una transizione economica e politica complessa, con profondi cambiamenti nelle strutture sociali. L’urbanizzazione e l’integrazione con l’economia occidentale hanno portato a una trasformazione della vita quotidiana, con un aumento del tenore di vita nelle principali città come Sofia, Plovdiv e Varna che si stanno modernizzando a un ritmo rapido, con infrastrutture all’avanguardia e una crescente presenza di investimenti esteri. Camminando per il centro di Sofia o di Plovdiv, tra negozi di marchi internazionali, e locali alla moda, si percepisce un’atmosfera dinamica, quasi in contrasto con il resto del Paese.

Nelle zone rurali, invece, la modernità sembra lontana. I villaggi soffrono a causa dello spopolamento e della mancanza dei servizi essenziali, evidenziando il forte divario tra città e campagna.

Questo spaccato della società riflette le difficoltà del Paese nell’affrontare le sfide della globalizzazione, ma anche una forte resilienza. I bulgari, nonostante le loro fatiche, continuano a trovare modi per mantenere vive le loro tradizioni nella diversità etnica e religiosa.

Il Paese ospita una significativa minoranza turca, nonché una comunità di rom, entrambe spesso marginalizzate a livello socioeconomico. Le relazioni tra le diverse comunità etniche sono generalmente pacifiche, ma non mancano tensioni legate alla discriminazione e all’accesso limitato a servizi pubblici essenziali.

Una splendida stanza affrescata nella chiesa della Natività, ad Arbanasi. Foto Piergiorgio Pescali.

La Chiesa ortodossa

La religione svolge un ruolo fondamentale nella cultura bulgara. La Chiesa ortodossa del Paese è una delle istituzioni più rispettate e ha mantenuto una forte influenza nella vita quotidiana e nelle festività nazionali. Anche se la società è sempre più secolarizzata, le tradizioni religiose rimangono un pilastro dell’identità bulgara.

In nessun luogo questo è più evidente che nei villaggi storici come Arbanasi, famoso per le sue chiese.

Non lontano da Veliko Tarnovo, Arbanasi è uno dei posti che più ci hanno colpito durante i nostri viaggi. Camminando per le sue strette strade lastricate, ci si sente trasportati indietro nel tempo. Le case sono costruite in pietra, con tetti a tegola rossa e cortili interni protetti da alte mura. Ma ciò che rende questo villaggio davvero speciale sono le sue chiese, autentici capolavori di arte sacra ortodossa.

Una delle più affascinanti è la Chiesa della Natività il cui esterno, così semplice e austero, nasconde un interno completamente ricoperto di affreschi vividi e intricati. Ogni parete è una storia, una scena biblica, un santo che sembra osservarti con uno sguardo senza tempo. Gli affreschi raccontano episodi del Nuovo e del Vecchio Testamento, con una maestria che lascia senza parole. La Crocifissione di Cristo, raffigurata con intensità e bellezza, indica chiaramente quanto la spiritualità bulgara sia intrecciata con la sua storia e la sua arte.

Un’altra tappa imperdibile è la Chiesa degli Arcangeli Michele e Gabriele, un capolavoro di arte sacra. Gli affreschi, che rappresentano angeli e scene celesti, attraverso i dettagli dei volti, dipinti con precisione e delicatezza, comunicano una profonda serenità.

La recinzione anti migranti sul confine con la Turchia, a Rezovo. Foto Piergiorgio Pescali.

Un popolo resiliente

La Bulgaria è un Paese che vive una tensione costante tra il passato e il presente, tra le sfide politiche ed economiche e il desiderio di preservare la propria identità culturale. La sua instabilità istituzionale e le difficoltà nel rapporto con l’Unione europea riflettono le complessità di un Paese in transizione. Tuttavia, la nazione continua a difendere il proprio ricco patrimonio culturale e religioso, che si manifesta non soltanto in luoghi come Arbanasi, ma anche negli innumerevoli splendidi monasteri, sparsi per tutto il territorio, nei quali s’intrecciano spiritualià e storia.

In questo quadro, le chiese bulgare non sono solo edifici di culto, ma veri e propri scrigni di arte e fede. Esse rappresentano la resilienza di un popolo che, nonostante le difficoltà, riesce a mantenere viva la propria identità.

Piergiorgio Pescali

 




Gruppi d’acquisto in rete


Contro il potere della «legge dei mercanti» occorre mettersi insieme e realizzare in modi concreti «la legge della solidarietà». La collaborazione, spesso semplice, messa in atto in stile faccia a faccia, è l’antidoto. Un esempio sono i gruppi di acquisto solidale che si organizzano in reti.

Le specie viventi e le società che stanno meglio sono quelle capaci di collaborazione. Quando le condizioni di vita sono ostili, il mutuo aiuto è la chiave della sopravvivenza.

La legge della solidarietà e della cooperazione, quella che Pablo Servigne e Gauthier Chapelle chiamano «l’altra legge della giungla», è quella che ci porta ad affrontare insieme le sfide della nostra epoca per viverla nel modo migliore.

Già tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il principe russo Pëtr Kropotkin, anarchico e antropologo assai noto al suo tempo, aveva introdotto il fattore della collaborazione negli studi sull’evoluzione.

Quando compì un viaggio di ricerca in Siberia, in un ambiente molto ostile, lo scienziato russo, infatti, si aspettava di ritrovare l’aspra lotta per la vita come caratteristica dominante delle relazioni tra gli animali delle stesse specie. Con sua grande sorpresa, invece, scoprì la forza evolutiva di un istinto molto più ampio rispetto a quello della competizione: la tendenza alla solidarietà e alla socievolezza. «È un sentimento infinitamente più vasto dell’amore o della simpatia personale, un istinto che si è lentamente sviluppato tra gli animali e fra gli uomini nel corso di un’evoluzione estremamente lunga, che ha insegnato tanto agli animali quanto agli uomini la forza che possono acquisire dalla pratica del mutuo appoggio e dell’aiuto reciproco, e le gioie che possono trovare nella vita sociale», scrisse nel suo «Il mutuo appoggio» del 1902.

Affrontare le sfide insieme

Sulla scia di queste considerazioni, pensiamo che oggi la collaborazione sia ciò di cui abbiamo più bisogno per affrontare le sfide della nostra epoca, e che la prospettiva del mutuo appoggio possa fare da sfondo al racconto di alcune delle molte esperienze di economia solidale oggi in atto.

Da qui nasce l’idea di questa nuova rubrica per descrivere e promuovere forme e strumenti di collaborazione, presentando progetti concreti a cui il lettore possa aderire, o che possa sostenere attraverso i propri comportamenti.

Sviluppare la legge della solidarietà richiede una trasformazione insieme individuale e sociale che porti tutti a stare meglio. Riprendendo l’invocazione con cui Lorenzo Guadagnucci termina la sua indagine sulle nuove forme di mutualismo pubblicata da Feltrinelli nel 2007, Il nuovo mutualismo: «Oggi prevale la “legge dei mercanti”, domani dovrà esserci la “legge della solidarietà”».

Distribuzione solidale

Una delle modalità per praticare la legge della solidarietà è quella del consumo critico, partendo dalla scelta di ciò che acquistiamo e della catena distributiva cui ci rivolgiamo.

In questa prospettiva sono nati i Gas, i gruppi di acquisto solidale (di cui abbiamo parlato nel numero di MC agosto-settembre 2024), nei quali la solidarietà, già presente all’interno del singolo gruppo, si estende oltre i suoi confini e l’organizzazione degli acquisti, con una particolare propensione a mettersi in rete assieme ad altre realtà solidali secondo diverse forme.

A Torino, a partire dalla fine degli anni Novanta, i Gas di città e dintorni hanno costituito una rete allo scopo di aiutarsi a fare insieme ciò che, per motivi logistici, da soli sarebbe più difficile, o impossibile.

Grazie a questa rete, già dal 2003, per i Gas torinesi è più facile fornirsi di prodotti ad alto valore sociale e ambientale, organizzando alcuni «ordini collettivi» a livello cittadino.

Mentre, infatti, di solito ogni Gas organizza i propri ordini rivolgendosi direttamente ai produttori scelti, in alcuni casi è meglio coordinarsi nella rete locale.

La rete Gastorino

Questo modo di acquistare, per i Gas di Torino, è nato con gli ordini collettivi di arance provenienti dal Sud: dal consorzio siciliano del biologico Le Galline Felici. Per il produttore, infatti, è più semplice fare un’unica grande spedizione invece di molte piccole che avrebbero un costo economico e ambientale maggiore.

Il sistema degli ordini collettivi si è poi sviluppato nel tempo fino ad arrivare alla forma attuale che prevede il coinvolgimento nella logistica di tre cooperative: ISoLa e Mondo Nuovo che gestiscono botteghe del commercio equo e solidale, e Verdessenza che gestisce un’ecobottega.

In questo modo i Gas collaborano con botteghe di prodotti equi e solidali, ecologici e sfusi, in un intreccio di forme che costruiscono un’alternativa al sistema della grande distribuzione organizzata, che noi chiamiamo «piccola distribuzione organizzata» (Pdo).

Oggi il progetto della rete di Gas torinesi prevede ordini mensili, cadenzati da settembre a giugno da un insieme di una trentina di produttori, sia nazionali che piemontesi.

Ogni mese sono disponibili un centinaio di prodotti: dalle ottime mozzarelle provenienti dai terreni confiscati alla mafia ai dolci tipici di Pasqua e Natale; dalla pasta alla farina, dalla passata di pomodoro, alle cassette di frutta e verdura; dai detersivi alla carta igienica, al pane per la colazione, agli agrumi e molto altro. Il singolo gasista può ordinare ciò di cui ha bisogno utilizzando Gasdotto, un applicativo gestionale di software libero sviluppato apposta per i Gas.

Nel giorno della consegna, grazie al coordinamento delle tre cooperative, i prodotti vengono distribuiti in tre punti della città: a Torino nord, centro e sud.

Ogni Gas ritira i prodotti, e quindi li ridistribuisce ai suoi membri.

In questo modo, una lunga serie di prodotti provenienti da progetti con forte valenza ambientale o sociale, pensiamo ad esempio agli agrumi del Progetto Sos Rosarno, arrivano regolarmente nelle dispense dei gasisti di Torino e dintorni.

Scelta piccola, grande impatto

La rete dei Gas, e il sistema degli ordini collettivi sono un servizio che facilita l’organizzazione dei gruppi e, allo stesso tempo, riconosce alle cooperative delle botteghe una quota per il loro lavoro nella logistica.

In più, il progetto facilita gli incontri con i produttori, durante i quali i cittadini possono conoscere il valore dei progetti che sostengono con i loro acquisti.

L’associazione Gastorino, che rappresenta la rete locale di economia solidale, promuove questa trasformazione collaborativa facilitando sia lo scambio di idee e informazioni che quello di prodotti e servizi, prodotti con cui i Gas sono cresciuti e che hanno mille storie da raccontare.

Incontreremo alcune di queste storie nei prossimi articoli della rubrica.

La partecipazione a un Gas, e a una rete di Gas, è una scelta semplice da parte di chi acquista, ma l’impatto è grande.

Basta andare a visitare i produttori per scoprire i benefici per le persone, le comunità e l’ambiente in cui sono inseriti.

Molti di questi produttori ci raccontano di poter stare in piedi con i progetti a favore dei loro territori proprio grazie alla vendita diretta ai consumatori e alle botteghe. Senza le nostre piccole scelte, avrebbero chiuso.

La solidarietà è un elemento fondamentale per la loro sopravvivenza e il loro sviluppo.

Andrea Saroldi


Esperienze di Piccola distribuzione organizzata

Aequos: una cooperativa di Gas tra Lombardia e Piemonte. www.aequos.bio
Ficos: filiera corta siciliana. www.ficos.org
Ppdo: piccola poetica distribuzione organizzata, in provincia di Varese. www.ppdo-varese.com
Gastorino: la rete dei Gas torinesi. https://economiasolidale.net/gastorino


Oggi prevale la «legge dei mercanti». Per attuare la «legge della solidarietà», allenarci a praticare la collaborazione e sviluppare reti, questa rubrica racconta realtà generate dall’economia solidale.
Lo scopo è promuovere forme di partecipazione di tutti al benvivere presentando proposte e progetti concreti a cui il lettore possa aderire o che possa sostenere attraverso i propri comportamenti.