Contro il traffico di persone.
Accoglienza e liberazione
Da trent’anni aiuta donne vittime della tratta e della prostituzione forzata. Ascolta storie di schiavitù, sevizie, fughe, speranze. Di dignità e libertà ritrovate. In prossimità dell’8 febbraio, Giornata mondiale contro la tratta, incontriamo suor Maresa Sabena, in prima linea al fianco dei migranti.
Ha conosciuto centinaia di donne, soprattutto nigeriane, vittime di tratta e sfruttamento sessuale, suor Maresa Sabena, missionaria della Consolata, 90 anni in questo 2025.
Negli ultimi trent’anni ne ha aiutate molte a uscire dalla loro condizione di schiavitù e ritrovare la propria identità e dignità. Lo ha fatto nel contesto del grande lavoro svolto dall’Ufficio pastorale migranti (Upm) dell’arcidiocesi di Torino: un insieme di centinaia di persone che, per lavoro, o per volontariato, si occupano dei migranti che si trovano nel territorio torinese e che, per vari motivi, si rivolgono a loro.
Dolcezza e fermezza
Incontriamo suor Maresa nella Casa Madre dell’Istituto delle Missionarie della Consolata, in via Coazze 1, a Torino.
Ci accoglie in portineria con un sorriso gentile incorniciato dal velo grigio, e ci conduce in una stanza luminosa e dal soffitto alto dove ci fa accomodare.
I suoi gesti garbati, ma chiari e decisi, la sua voce delicata, ma ferma, ci fanno intravvedere un carattere dolce e forte allo stesso tempo: quello che serve per ascoltare le centinaia di donne vittime di tratta e per affrontare i pericoli che può comportare la loro liberazione, spesso ottenuta tramite la denuncia degli sfruttatori.
Oggi suor Maresa fa un’opera soprattutto di accoglienza e di ascolto, ma c’è stato un tempo nel quale era abituata a trattare con forze dell’ordine, tribunali, sfruttatori, percorsi di protezione per le donne che denunciavano.
I primi vent’anni di missione
Curiosi di conoscere il suo percorso, le chiediamo di darci qualche coordinata per capire chi è: «Sono nata nel 1935 a Savigliano (Cn). Ero figlia unica. Ho studiato a Pinerolo (To) dove la mia famiglia si era trasferita.
Io desideravo la missione. Nel 1956, allora, sono venuta a Torino per presentarmi alle Missionarie della Consolata.
Ho fatto la prima professione nel ’59 e, dopo due giorni, sono entrata nell’amministrazione generale a Grugliasco (To) dove sono rimasta per quasi vent’anni aiutando nelle opere delle missionarie nel mondo. Ricordo in particolare il tempo della guerra in Mozambico. È stato un periodo di lavoro molto intenso per far arrivare gli aiuti alle consorelle».
Con i migranti (del Sud Italia)
Nel 1977, lasciato l’incarico nell’amministrazione, suor Maresa si è impegnata a tempo pieno nella pastorale della parrocchia dell’Ascensione del Signore, con la quale collaborava già da tempo, zona sud ovest di Torino, non distante dagli impianti della Fiat a Mirafiori.
«In quel periodo c’era molta immigrazione dal Sud Italia e nel quartiere c’erano molti problemi – racconta -. I residenti non volevano che i bambini provenienti dal Sud, quasi tutti pugliesi di Bitonto, che abitavano nelle case popolari della zona, frequentassero le scuole con i loro figli. Vi fu una presa di posizione della parrocchia, che promosse anche manifestazioni pubbliche a difesa di queste persone.
Io formai e seguii un gruppo di genitori. Erano persone della comunità parrocchiale sensibili alle disuguaglianze sociali e alle divisioni che vi erano in quartiere. Questo gruppo aiutò i bambini delle case popolari e tenne in contatto le loro famiglie con insegnanti e servizi del territorio.
Organizzammo anche giornate di preghiera e di studio sulla cultura e la religiosità popolare.
Formammo piccoli gruppi biblici nelle case per riflettere sui Vangeli della domenica nei periodi forti dell’anno».
Suor Maresa racconta che in un primo momento aveva vissuto con disagio l’impegno in una parrocchia di Torino: «Mi dicevo che il mio impegno non era nello spirito del nostro istituto. Poi ho capito che invece era tutto un piano che il Signore aveva per me, e mi preparava per altro».
Le donne vittime di tratta
A 59 anni, alla morte dei suoi genitori, suor Maresa ha ricevuto una nuova destinazione, l’Argentina, e ha lasciato il suo lavoro alla parrocchia dell’Ascensione.
Mentre iniziava le pratiche per la partenza, però, una sua consorella che lavorava all’ufficio migranti della diocesi di Torino si è ammalata, e le sue superiore le hanno chiesto di sostituirla temporaneamente.
«Nel ’95 – racconta suor Maresa – iniziai il mio servizio con i migranti. Proprio quell’anno il Governo indisse una sanatoria che permetteva a quelli privi di documenti, ma con un lavoro, di ottenere un permesso di soggiorno. All’ufficio migranti il lavoro si moltiplicò e mi chiesero di rimanere. Poi nel 1998 fu emanata la legge Turco-Napolitano, con alcuni articoli validi ancora oggi. Essa stabiliva il diritto a un permesso di soggiorno per protezione sociale per le donne vittime di tratta che denunciavano i loro sfruttatori. Gli enti che seguivano le donne dovevano avere un riconoscimento dallo Stato e una persona referente, e l’Upm chiese a me.
Iniziai così a occuparmi delle donne vittime di tratta, soprattutto nigeriane reclutate con l’inganno nel loro Paese e tenute come schiave sotto minaccia: un lavoro che richiedeva molto ascolto, ascoltare loro ma anche i loro clienti che le conducevano da noi per ottenere un permesso.
Il passo più complicato era quello della denuncia, accompagnarle in questura, poi ai processi, soprattutto all’incidente probatorio in tribunale (un faccia a faccia fra la donna e la sfruttatrice). Per le donne che denunciavano, si attivava un programma di protezione che a volte le portava anche in altre regioni o province. Se la donna non avesse osservato il programma, l’ente avrebbe potuto toglierle il permesso».
Il contrasto alla tratta
Dal primo febbraio 2008 è entrata in vigore la convenzione del Consiglio d’Europa sulla tratta degli esseri umani che stabilisce il diritto di asilo politico per le vittime di tratta. La normativa è entrata in vigore in Italia il primo marzo 2011.
Oggi, quindi, la procedura è molto diversa, ci spiega la missionaria della Consolata, perché di fatto si limita a garantire il permesso di soggiorno senza avviare un percorso di protezione e di inserimento sociale della donna sfruttata, e non si propone il contrasto alla tratta perseguendo gli sfruttatori.
«È una legge che non contrasta la prostituzione perché non incide più su chi sfrutta le donne. Per l’Upm il permesso di soggiorno non è mai stato un traguardo finale, ma la prima tappa di un accompagnamento che portasse la donna a ricuperare fiducia in se stessa e riscoprire la sua dignità e vocazione.
Oggi succede che una donna ottenga il permesso di soggiorno per asilo politico e che, per i motivi più diversi, magari perché la famiglia in Nigeria domanda denaro, decida di continuare a lavorare come prostituta».
Clienti e sfruttatori
Domandiamo a suor Maresa da cosa nasce la tratta. «Da cosa nasce?», ci restituisce la domanda con un sorriso amaro: «Dalla richiesta dei clienti», risponde.
«Inizialmente c’erano alcuni uomini italiani che venivano a presentarci queste donne perché le volevano regolarizzare. Le volevano “salvare”, dicevano.
Spesso però, non era per salvarle, ma per poterle sfruttare da soli.
Abbiamo visto di tutto, anche persone colte, benestanti che volevano regolarizzare le donne e magari cercavano un alloggio per poterle ricevere, stare con loro, lontani dalle loro famiglie».
E gli sfruttatori chi sono? Suor Maresa ci dice che spesso sono donne nigeriane. Le maman hanno basi in Nigeria e in Italia. La gran parte pare che «lavori» per conto proprio, con una piccola rete di complici. Alcune, probabilmente, sono collegate ai clan della mafia nigeriana.
Contattano le donne, sovente in zone rurali molto povere, soprattutto nel territorio di Benin City, promettendo loro di farle studiare e lavorare in Italia, e stabiliscono una cifra che le donne devono pagare per il viaggio. Queste, quindi, firmano un contratto di pagamento del debito, siglandolo con un rito vudù, che per loro è molto impegnativo, e poi, quando arrivano in Italia, si ritrovano con un debito moltiplicato: da 20mila a 60-70mila euro, e con la minaccia di ritorsioni sulla famiglia rimasta in Nigeria. Per questo sono costrette a prostituirsi.
Quando chiediamo a suor Maresa se nei trent’anni di lavoro di contrasto alla tratta abbia mai avuto paura che qualche sfruttatore le facesse del male, lei risponde risoluta: «No. Nonostante il pericolo ci fosse, perché mi conoscevano benissimo, mi sono sempre fidata che c’è Qualcuno che ci aiuta e ci protegge».
La prostituzione cambia
Secondo Rosanna Paradiso, esperta anti tratta che lavora alla procura di Torino, intervistata da Federico Gottardo per «TorinoCronaca», oggi sono almeno tremila le donne nigeriane sfruttate sessualmente nel capoluogo piemontese e in provincia.
«È sempre più difficile capire quali siano le loro vere condizioni», prosegue la missionaria. Il mercato della prostituzione, infatti, sta cambiando: ce ne sono di meno in strada perché è aumentato lo sfruttamento in alloggi o centri massaggi o, a volte, anche in capannoni abbandonati. Questo rende più difficile agli operatori e ai cittadini intercettarle, e a loro chiedere aiuto.
«Negli ultimi anni, la maggioranza delle donne che viene al nostro centro, sono mandate direttamente dalle maman per chiedere aiuto per fare la domanda di asilo politico. Loro mentono, ma se durante il colloquio ci rendiamo conto che sono potenziali vittime della tratta, predisponiamo un incontro con la mediatrice culturale per far emergere la loro vera storia. La mediatrice le mette in condizione di aprirsi e superare le paure legate soprattutto al rito vudù, e a noi offre la possibilità di iniziare un discorso sulla possibilità di ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Oggi molte passano dalla Libia dove vengono già sfruttate in un modo spaventoso. Quando ci raccontano le loro storie, ci fanno vedere le ferite sul corpo: è una cosa impressionante.
In questi casi le donne presentano la domanda di asilo politico con le vere motivazioni della loro venuta in Italia, però non sono più tenute a denunciare gli sfruttatori, quindi poi teoricamente possono ancora lavorare per strada per pagare il debito».
Ascolto e accoglienza
In trent’anni di servizio all’Ufficio pastorale migranti, suor Maresa Sabena ha accompagnato personalmente più di duecento donne, ciascuna nel suo programma di protezione e inserimento sociale. «Un altro centinaio di donne sono passate da noi – aggiunge -, ma poi hanno abbandonato il programma, magari per andare in Olanda, o in Gran Bretagna». Le domandiamo come fanno le donne ad arrivare da loro: «Per passaparola. Quelle che vengono da noi, si sentono ascoltate, e lo dicono alle altre. Noi, infatti, all’Upm accogliamo in modo famigliare. Quando arriva una persona, non le chiediamo “come mai sei qui?”, “cosa vuoi da me?”. Iniziamo chiedendo se è la prima volta che viene, come ci ha conosciuti, la famiglia, tutte domande molto in generale. Solo dopo questo domandiamo anche se possiamo aiutare in qualche modo, allora vengono fuori più facilmente i problemi».
Oggi però la missionaria non si occupa più soltanto della tratta. Offre il suo servizio nell’ascolto.
«Ascolto tutto il giorno. Ascolto quelli che arrivano, donne e uomini. Siamo sei, sette persone. Ciascun volontario ascolta anche secondo le sue competenze, ci aiutiamo tra noi. Per esempio, c’è un volontario ex dipendente della previdenza sociale: quando arrivano persone sfruttate sul lavoro, le mandiamo da lui. C’è un avvocato: quando ci accorgiamo che la persona è vittima di tratta, con l’appoggio dell’avvocato l’aiutiamo a chiarire come presentare la domanda di asilo.
Ascoltiamo storie di uomini che arrivano dall’Afghanistan, dal Pakistan, che hanno la famiglia là in pericolo e non riescono a farla uscire dal Paese, a ottenere il ricongiungimento famigliare, anche se qui sono ben inseriti.
Arrivano da noi persone che sono appena arrivate in Italia, ma anche alcune che sono in Italia già da tempo e magari non sono riuscite a regolarizzarsi perché hanno sempre lavorato in nero, sfruttate da qualche parte. Allora le aiuti con l’avvocato: se vogliono, possono denunciare per sfruttamento lavorativo. Però non hanno il coraggio di farlo, perché se denunciano perdono il lavoro, e allora come vivono?
È tutto un modo che passa dall’Upm, un mondo di sofferenza».
La comunità ecumenica
Accanto all’ascolto di questo mondo di sofferenza e all’accompagnamento di donne verso la loro liberazione, c’è un’altra esperienza di suor Maresa che ci preme raccontare: quella della nascita del gruppo di preghiera ecumenico in lingua inglese, composto prevalentemente da nigeriani, nato nel 1995 e tutt’ora molto vivace.
«Avevano iniziato a venire all’Upm alcuni giovani uomini nigeriani studenti del politecnico che cercavano uno spazio per la preghiera comunitaria – spiega la missionaria -. Erano in prevalenza anglicani e di altre confessioni cristiane. E alcuni cattolici. Dato che non si trovavano bene nelle nostre chiese, hanno chiesto di poter utilizzare gli spazi dell’Upm e pregare nelle loro lingue, nelle loro modalità.
Hanno iniziato così a incontrarsi ogni domenica per leggere il Vangelo. Poi hanno portato le loro mogli in Italia, che venivano da noi a studiare la lingua italiana. Alcune di loro, in seguito, sono diventate le nostre prime mediatrici culturali in supporto al lavoro con le donne vittime di tratta. Allora ho pensato di inserire nel gruppo anche queste ultime perché potessero avere amicizie con i loro connazionali.
Fra le persone che avevano iniziato il gruppo, ne scelsi cinque, che si erano laureate in Italia, di confessione anglicana, pentecostale e cattolica, e le misi responsabili del gruppo. Chiesi aiuto ai missionari della Consolata che diedero la loro disponibilità: il primo a venire fu padre Antonio Rovelli, e poi diversi altri.
Le loro celebrazioni iniziavano alle 10 e finivano alle 14, ed erano sempre seguite da un tempo di convivialità. A un certo punto hanno anche chiesto di poter fare delle cerimonie particolari, per esempio la dedicazione dei bambini appena nati: la famiglia presenta il bambino ai responsabili e alla comunità perché questi lo offrano al Signore, allora c’è tutta la preghiera di offerta del bambino e la processione delle famiglie che gli portano un dono per dimostrare che sono felici del suo ingresso nella comunità. Bellissimo.
Il gruppo ecumenico, riconosciuto dalla diocesi, esiste ancora oggi e si ritrova ogni domenica a pregare nei locali della chiesa del Cafasso a Torino; ma da alcuni anni non lo seguo più. Quando l’ho lasciato una decina di anni fa erano più di 200 persone».
Missione a Torino
Suor Maresa, all’inizio della nostra conversazione ci ha detto che il suo sogno di ragazza era la missione in Africa: «Contattare le persone di religioni diverse per portare l’annuncio; ma anche aiutare le donne».
Le domandiamo se il suo sogno, pur non essendo mai partita per l’Africa, in qualche modo si è realizzato. «Oggi non rimpiango nulla di ciò che ho fatto e sto facendo. Sono missionaria della Consolata e il mio sogno era l’Africa che, per motivi diversi, non ho potuto raggiungere. Quando ho iniziato a lavorare all’Upm e con le donne vittime di tratta, ho visto che l’Africa la potevo trovare anche qui: donne private della loro dignità erano vicine a me.
Allora ho capito che è inutile sognare paesi lontani se non vedo, non amo e non aiuto quelle donne, meno fortunate di me, che mi abitano accanto, che sono sfruttate a causa le grandi ingiustizie e disuguaglianze che vi sono nel mondo.
Oggi, a molti anni di distanza, non posso che ringraziare il Signore, perché si è servito della mia povertà e fragilità per compiere la sua opera. Lo ringrazio ogni giorno per la vocazione religiosa missionaria, e per la missione che ha scelto per me, anche se molto diversa da quella che sognavo».
Luca Lorusso
Archivio MC
- Thalita Kum e Marco Bello, Fanciulla alzati, dossier MC gen-feb 2023.
- Anna Pozzi, 2019. Oggi schiavi, MC ago-set 2019.
Qualche dato sulla tratta in Italia
A livello nazionale, secondo i dati del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2022 sono state 1.823 le persone prese in carico da parte dei progetti antitratta
attivi in Italia; 1.899 nel 2023; ben 1.737 nei soli primi nove mesi del 2024.
Tutti dati parziali, che non tengono conto delle vittime di tratta non intercettate.
Tra le vittime registrare nel 2024, il 58% erano donne, il 38,6% erano di origine nigeriana, il 3,3% minorenni, il 33,7% sfruttate sessualmente.
Un flusso continuo di schiavi del sesso e del lavoro, ma anche di persone costrette alla servitù domestica, all’accattonaggio e ad altre forme di sfruttamento.
L.L.