Pellegrini di Speranza


«La speranza non delude» è il titolo della bolla di indizione del Giubileo 2025, segnato da due ricorrenze molto significative, anche per la missione: i 1.700 anni del Concilio di Nicea, che ci ricordano l’importanza della prassi sinodale per «custodire l’unità del popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo»; e, «per una provvidenziale circostanza» (n.17), la celebrazione insieme – cristiani d’Oriente e d’Occidente – della Pasqua, che avverrà proprio quest’anno, il 20 aprile.

La prima ricorrenza è importante soprattutto perché ci fa presente – di fronte ai ripetuti tradimenti dello stile evangelico – la necessaria continua conversione dei missionari al principio cristologico della
missione, senza il quale non c’è evangelizzazione. Detto altrimenti, i missionari sono «segni di speranza» solo se rimangono ancorati allo stile umile e povero della missione di Cristo, come ribadisce a più riprese il Concilio (cfr. LG 8; AG 5).

La seconda ricorrenza è eloquente soprattutto perché ci invita a ridurre l’ambivalenza della prassi missionaria, presente anche nelle pagine più belle della missione. Basti pensare al pregiudizio anti-ecumenico e antireligioso che fino al Vaticano II condannava le altre Chiese e religioni ai margini della storia della salvezza, senza alcuna possibilità di collaborazione per il bene dell’umanità.

D’accordo con Spes non confundit, «La speranza non delude» (Rm 5,5), anche il Giubileo 2025 si connette con la categoria del pellegrinaggio: «Il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita» (n. 5). Solo dei missionari «pellegrini», viandanti, capaci di staccarsi dalla propria cultura, dalla propria patria, dalla propria famiglia, saranno in grado di avventurarsi nell’affascinante e rischioso viaggio alla scoperta di mondi sconosciuti già abitati dalla speranza, grazie all’azione e alla presenza dello Spirito, che precede l’arrivo e la presenza della Chiesa.

Basti pensare al ruolo del primo grande «movimento missionario», quello monastico, dal secolo V al XII. Spinti dal desiderio di santificarsi secondo la tipica forma del «martirio bianco» (l’ascetismo), i monaci – come nel caso più celebre dell’irlandese san Colombano e dei suoi discepoli – abbandonavano il loro monastero e andavano di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio, «pellegrini per amore di Cristo», senza farvi più ritorno, come in un volontario esilio. Questo movimento missionario, come pellegrinaggio per amore di Dio e di Cristo, fu per molti aspetti fortemente innovativo sia per la santificazione personale, sia per l’evangelizzazione dell’Europa.

Ma la particolarità di quest’anno giubilare consiste nel porre «segni di speranza», capaci di renderla reale, evidente, tangibile, non solo a livello personale, ma anche sociale; non solo in una parte del mondo, ma a livello globale. Nella selezione dei segni, la bolla di indizione invita anzitutto a «porre attenzione al tanto bene che è nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza» (n. 7).  I segni dei tempi, oltre a esprimere l’anelito di tanta parte dell’umanità, chiedono di essere trasformati in «segni di speranza». Come? Per esempio, osando la pace in tempo di guerra; non perdendo il desiderio di trasmettere la vita in mezzo all’inverno demografico; privilegiando la giustizia riparativa rispetto a quella punitiva per i detenuti.

Meritano attenzione – per la sintonia con Lev 25,8-17 – soprattutto l’appello a costituire, con il denaro speso per le armi, un fondo mondiale per eliminare la fame e l’accorato invito a condonare il debito dei Paesi che non possono più ripagarlo: «Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati» (n. 16). Davvero la speranza non delude, ma ricolma i nostri cuori missionari.

FESMI, Federazione stampa missionaria italiana

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


MC, una casa per la cooperazione

Un paio di volte l’anno esco dal mio ufficio e mi chiudo la porta alle spalle, perché so che non tornerò per un paio d’ore. Vado nella biblioteca della casa generalizia dei Missionari della Consolata a Roma e mi siedo sulla scala di legno che porta dalla saletta principale a quella rialzata e che passa accanto allo scaffale dove ci sono i numeri di Missioni Consolata rilegati per anno. Con l’insolito e suggestivo sottofondo di musica, spesso lirica, che viene da un vicino teatro, mi metto a sfogliare.

Ho iniziato per cercare corrispondenze, anniversari, eventi di cui parlare in Cooperando: di che cosa scriveva la rivista in questo mese di trent’anni fa? E di cinquanta, sessanta, venti anni fa? C’erano progetti sul campo di cui dava conto?

La prima sorpresa è stata scoprire la rubrica «Appelli dal fronte», pubblicata dal gennaio del 1968 al maggio del 1974, che in ogni numero proponeva ai lettori un’iniziativa in missione da sostenere con un’offerta. Da lì è nato «Come cooperavamo», il box sui progetti d’antan – così d’antan che ancora non si chiamavano progetti – che ogni tanto è apparso all’interno di «Cooperando». Ma per trovare questi spunti basterebbe un quarto d’ora, dirà il lettore attento: perché non torni alla tua scrivania a tenere d’occhio i progetti?

Confesso: se mi fermo ore su quella scaletta è perché ogni volta trovo qualche gioiellino, a cominciare dai pezzi eleganti e divertenti di padre Benedetto Bellesi, il mio primo direttore. Ma ce ne sarebbero a decine da citare, come è inevitabile che sia quando una rivista fa per decenni da ponte non solo fra Italia e Africa, America Latina, Asia, ma fra persone e comunità italiane e persone e comunità in luoghi talmente isolati che sarebbe stato altrimenti quasi impossibile averne notizia.

E poi la storia, del secolo scorso e di questo, che attraversa le pagine: non di sfuggita, come fosse un’eco, ma come una presenza imponente che lascia orme profonde, solchi, dentro ai quali i missionari stessi hanno camminato, senza sottrarsi al confronto con mondi e punti di vista anche molto lontani dal loro.

Quanto alla cooperazione in particolare, poi, i pezzi sul volontariato, sullo sviluppo, sulla collaborazione con organizzazioni come Mani Tese pubblicati fra gli anni Sessanta e gli Ottanta del secolo scorso hanno contenuti e linguaggi di un’attualità che mi colpisce ogni volta.

Insomma, buon compleanno MC, te li porti bene questi 125 anni e più. E grazie del servizio che hai reso e rendi alla cooperazione.

Chiara Giovetti
Roma, 10/10/2024

Nonno missionario

Molto rev. padre Anataloni,
Ho seguito con entusiasmo l’elevazione agli altari di san Giuseppe Allamano.

In quei giorni ho potuto incontrare anche padre Rinaldo Do (a Isiro, in Congo Rd), con il quale ho un contatto quotidiano. Da pensionato e nonno faccio parte attiva, con entusiasmo e soddisfazioni, del gruppo missionario parrocchiale Belém, con presenza quasi tutte le domeniche, presso i nostri banchetti vendita, nelle cinque parrocchie del territorio parrocchiale di Alzano Lombardo (Bg).

Abbiamo diversi missionari locali, nessuno della Consolata, in Amazzonia, in Messico, in Papua Nuova Giunea, in Bangladesh, e anche missionarie, purtroppo ritornate al Padre di recente: suore che sono state nella Sierra Leone, che hanno subito anche un rapimento e sono state poi rilasciate (erano tra le sette missionarie di Maria-Saveriane che furono sequestrate il 25 gennaio 1995 dai ribelli del Fronte rivoluzionario unito e liberate il 21 marzo successivo, ndr).

E il cappuccino padre Apollonio, che con il suo decesso, ci ha lasciato in eredità un lebbrosario in Brasile.

Quando san Giuseppe Allamano, padre di missionari e missionarie, raggiunse la gloria del Bernini, ho sentito la necessità di rivolgere una preghiera per i nostri missionari. A metà preghiera mi ha raggiunto un dolorosissimo blocco, con una lacrimuccia: sono un ex seminarista della Consolata. Dopo 9 anni in istituto, alla vigilia dei primi voti, d’accordo con il padre spirituale, ho lasciato. Ma non solo, in seguito, in modo colpevole, ho accantonato anche lo spirito missionario, tra l’altro molto gioioso, che avevo appreso a suo tempo.

Ora, se, nella parte terminale della rivista MC, ci fosse un piccolo trafiletto, magari gestito da un padre in infermeria, dove ne conosco molti di persona, con esperienza di missione e mi aiutasse a rientrare nello spirito missionario della Consolata, forse servirebbe a molti volontari ed ex, che sempre vi stimano e amano.

Mettetemi in condizione di pregare l’Allamano, non raggiungereste grandi risultati, con me: alla fine otterreste non grandi fasci di luce, ma una lucina del presepio, che, in ogni caso, può stare davanti all’Allamano, e quale nonno, porterei in dotazione tre nipotini, che mi seguono nel mondo missionario.

Ferruccio Vitali
Alzano Lombardo, 16/11/2024

Caro Ferruccio,
grazie di questa condivisione personalissima e grazie della passione missionaria che non ti ha mai lasciato; un amore per la missione che sembra essere di casa nel paese dove vivi.

La canonizzazione è stato certamente un avvenimento che ha galvanizzato tutti noi. È stata una tappa essenziale del cammino che stiamo facendo insieme missionari, missionarie e laici che condividono la nostra passione. Davanti abbiamo ancora un anno molto pieno e significativo per tutti noi. La meta sarà il 16 febbraio 2026, centenaria della morte di san Giuseppe Allamano. Una data che diventa occasione e stimolo per rinnovare la nostra fedeltà al suo carisma e, soprattutto, per declinarlo nella nuova realtà in cui tutti viviamo, con tutte le sue crisi, contraddizioni e drammi, ma anche con tantissime nuove potenzialità inedite.

Le pagine di questa rivista saranno un luogo privilegiato per condividere con i nostri amici e «tifosi» questo cammino. Non aspettarti sorprese straordinarie, ma davvero cammineremo insieme per «fare bene il bene», da «santi» anzitutto, «poi missionari».

Sant’Allamano, Attento alla Stampa

A Torino è pubblicata regolarmente la rivista «Il Santuario della Consolata». È la continuazione de «La Consolata», il mensile sorto nel 1899, una rivista, meglio «bollettino», come si diceva allora, che, a sua volta, nel 1928, dopo aver accompagnato per molti anni i primi passi dei missionari e missionarie della Consolata, ha generato «Missioni Consolata» come rivista autonoma.

Quando entro, oggi, nella redazione di MC resto affascinato da una gigantografia appesa a una parete: è la copertina del primo numero de «La Consolata» (vedi la foto qui sopra). Un’immagine a colori di oltre 125 anni fa, disegnata e decorata con arte, dalle proporzioni perfette. Una bellezza. Sì, perché al fondatore de «La Consolata» piacevano «le cose belle», e le esigeva puntando sull’eccellenza.

Si chiamava Giuseppe Allamano quel fondatore, sacerdote, il quale nel 1901 fondò pure i Missionari della Consolata e, nel 1910, le Missionarie della Consolata. Con lui operava un altro prete speciale: Giacomo Camisassa.

Ed ecco che, last but not least, il 20 ottobre Giuseppe Allamano è stato dichiarato santo.

Chi dice che a Giuseppe Allamano stava a cuore anche la stampa afferma una verità indiscutibile. Egli sostenne diversi giornali cattolici con consigli e denaro. Ebbe un peso rilevante sulle testate Italia Reale, Corriere Nazionale, La Voce dell’Operaio, Risveglio Cattolico. Inoltre, ispirò, incoraggiò e sostenne la nascita del quotidiano francese La Croix, il cui direttore, padre Paul Bailly, nel 1883 venne a Torino in pellegrinaggio al santuario della Consolata.

Questo dimostra che il canonico Allamano non era solo il rettore della Consolata, chiuso nel suo santuario, bensì partecipava alla vita sociale del suo tempo. «La Consolata» fu una rivista attraente anche sotto il profilo fotografico. I fotografi erano gli stessi missionari della Consolata, che raggiunsero il Kenya nel 1902. Però, prima di partire, frequentavano corsi di fotografia. Secondo padre Candido Bona, uno degli storici dell’istituto, il primo maestro di fotografia dei missionari fu nientemeno che Secondo Pia, il celebre fotografo della Sindone di Torino.

Quadretto con immagine b/n della Consolata (foto di Secondo Pia) che si trovava sopra letto dell’Allamano durante la malattia dopo la quale decise di fondare l’Isittuto nel 1901.

Secondo Pia era amico di Allamano, che gli commissionò la foto del quadro della Madonna Consolata dell’omonimo santuario. Poi l’immagine bianco e nero, incorniciata in centinaia e centinaia di quadretti, fu distribuita in tutta Torino. Un esemplare (foto qui sopra) si trova tutt’oggi in Corso Ferrucci 18, nella chiesa dedicata a San Giuseppe Allamano, che ne raccoglie le spoglie mortali.

Ebbene, i fotografi de «La Consolata» erano alcuni, pochi, missionari muniti di ottime macchine fotografiche (e relativo materiale di camera oscura per sviluppo e stampa, ndr), alcune delle quali sono conservate nel museo etnografico dell’istituto. Le foto destano tuttora ammirazione. Ritraggono specialmente l’etnia dei Kikuyu del Kenya. Oggi alcuni Kikuyu, visitando il nostro archivio fotografico, restano a bocca aperta di fronte ai ritratti dei loro nonni ed esclamano stupiti: «Ma noi eravamo proprio così?».

I missionari erano soprattutto scrittori. «La Consolata», prima, e MC, dopo, riportano i loro articoli che Allamano e Camisassa leggevano con passione. Si tratta di un materiale di notevole pregio anche etnografico. Alcune tesi di laurea sono state scritte avendo come fonte primaria le suddette riviste.

Sulla scia di Giuseppe Allamano, le Missionarie della Consolata hanno pure dato vita alla loro rivista «Andare alle Genti», mentre i Missionari hanno allargato l’orizzonte con «Fatima Missionaria» in Portogallo, «Antena Misionera» in Spagna, «Dimension Misionera» in Colombia, «Missões» in Brasile, «The Seed» (Il Seme) in Kenya, «Enendeni» (Andate) in Tanzania, «Missions» in Corea del Sud, «Reveil» in Canada, «Consolata missionaries» negli Usa. E tutto è «buona novella».

Francesco Bernardi
Torino, 28/09/2024

Una preghiera

Salve, non c’è un motivo particolare ma ho scritto una preghiera per invocare San Giuseppe Allamano, ve la mando, spero vi piaccia. Arrivederci,

Canonico Giuseppe,
primo padre della Consolata,
intercedi per noi,
affinché impariamo
ad affrontare 
i nostri dolori nel corpo e nello spirito
e i nostri cattivi pensieri.

Consolaci con la tua
attenzione e il tuo ascolto e
sostienici nel nostro quotidiano,
a volte così duro e greve.

Insegnaci a incontrare l’altro,
chiunque sia, senza pregiudizi

e senza etichettare
con fretta e ignoranza.

Aiutaci a diventare santi
che sanno fare bene il bene
senza far rumore,
a diventare missionari d’amore,
testimoni di fede.

Andare alle genti?
Adesso comincio.

Deo gratias? Sempre.
Amen

Stefania Barbieri
08/11/2024

 





Taiwan. Una società plurale

 


C’è stato un tempo dell’oro per le religioni. Mentre oggi la situazione è stabile. La storia dell’isola ha portato a una società complessa e diversificata. Libertà e pluralità sono una grande ricchezza. Ma le sfide attuali non sono da sottovalutare. Reportage dall’isola di Formosa.

Hsinchu, 16 settembre. È sera e fa ancora caldo umido a Ximen street. Nel cortile della chiesa Sacro Cuore di Gesù c’è movimento. Ci sono persone indaffarate con scatole e pentole di cibo, altre montano piccole griglie per cuocere alla brace. Altre ancora portano strumenti musicali. Entrano ed escono dai locali della struttura. Sono i parrocchiani che stanno preparando la festa della luna o festa di metà autunno. È una ricorrenza importante a Taiwan e ha origini antiche, nata dal ringraziamento per il raccolto.

«Facciamo la festa con il barbecue», ci dicono. Molti di loro sono di mezza età, alcuni anziani ma molto dinamici. I giovani sono pochi. La parrocchia è gestita dai Missionari della Consolata dal 2017 ma è stata fondata dai Gesuiti nei primi anni Cinquanta. Questa era la base dei padri della Compagnia di Gesù per tutta la diocesi di Hsinchu (cfr. MC dicembre 2024).

Ma per capire la storia della Chiesa cattolica a Taiwan, occorre fare un passo indietro.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Invasione

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, i cattolici a Taiwan erano pochissimi, circa 25-30mila, molti concentrati nel Sud. Nel 1949, quando i nazionalisti di Chang Khai-shek (e del suo partito, il Kuomintang) persero la guerra civile contro i comunisti di Mao Tse-dong in Cina e decisero di riparare temporaneamente sull’isola. Taiwan era tornata in mani cinesi nell’ottobre del 1945, «restituita» dal Giappone sconfitto nella Seconda guerra mondiale.

Taiwan fu dunque «invasa» da funzionari dell’apparato statale, militari dell’esercito nazionalista, politici, famiglie di ricchi commercianti. Si parla di oltre un milione e mezzo di persone su circa 11 milioni di abitanti dell’isola. Anche molte infrastrutture, reperti dell’impero cinese e, ovviamente, le riserve aurifere, vi furono traslate. Chang Khai-shek stabilì il suo quartier generale a Taipei, in attesa di contrattaccare e recuperare territorio sul continente.

Gli abitanti, prima dell’invasione dei mainlander, erano costituiti dai diversi gruppi aborigeni (austronesiani, che parlavano lingue distinte ed erano spesso in contrasto tra loro), il popolo Hakka (originario del Nord della Cina) e quello Hokklo (giunto dal Sud, la regione dall’altra parte dello Stretto di Formosa). Questi ultimi sono gruppi etnici cinesi di antica migrazione, che parlavano lingue completamente diverse e non intellegibili. Il giapponese era utilizzato come lingua di comunicazione tra i gruppi, mentre il mandarino, la lingua comune cinese, era poco usato e solo dalle élite culturali.

Trasferimento in massa

Intanto, sul continente, il nuovo regime installatosi a Pechino iniziò una persecuzione di religiosi e fedeli delle varie religioni, in particolare cristiani e buddhisti,

I cattolici non fecero eccezione: «In quegli anni – ci racconta padre Edi Foschiatto, missionario saveriano a Taiwan da trent’anni – preti, religiosi e religiose lasciarono la Cina continentale e vennero sull’isola. Tant’è che il territorio fu suddiviso e affidato a diverse congregazioni. Anche i vescovi erano da “sistemare” e si costituirono sei diocesi e l’arcidiocesi di Taipei. Ai Gesuiti toccò proprio la diocesi di Hsinchu, che ha una parte di pianura e anche una zona montagnosa».

Padre Jeffrey Chang, gesuita delle Hawaii, professore di Teologia della Chiesa alla Fu Jen University di Taipei (l’università cattolica fondata a Pechino nel 1925 e trasferita a Taipei nel 1959 dalla Società del Verbo Divino e dalla Compagnia di Gesù), sviluppa il discorso: «In quegli anni ci fu un enorme flusso di risorse umane e finanziarie della Chiesa cattolica verso Taiwan. E questo avvenne in poco tempo. Inoltre, si pensava che sarebbe stato un passaggio temporaneo».

Gli anni Cinquanta e Sessanta furono un periodo di grandi investimenti da parte della Chiesa, grazie alla presenza di personale e ai fondi di entità ecclesiastiche in Europa e Stati Uniti. Il contesto taiwanese era quello di una società povera e poco sviluppata. Il numero dei fedeli aumentò, grazie ai cattolici in fuga dalla Cina comunista, ma soprattutto perché molti taiwanesi abbracciarono questa fede. Si arrivò a oltre 300mila, cifra che è rimasta stabile fino ad oggi.

«La Chiesa cattolica portò welfare, in termini di ospedali e scuole di ogni ordine e grado, comprese le università – continua padre Chang -, ma anche valori umani e cultura. Ad esempio, fu pioniera nel campo delle trasmissioni radio. Mentre nel periodo della crescita economica, sviluppò il sistema delle casse cooperative, per finanziarono le piccole imprese, partecipando attivamente, in quella fase, allo sviluppo economico e sociale (spinto proprio dalle microimprese famigliari negli anni 70 e 80, ndr). Sempre con l’obiettivo di trasmettere valori: moralità, rispetto della vita umana, cooperazione e armonia sociale».

Un percorso simile fu fatto anche dalle diverse confessioni protestanti, in particolare presbiteriani, anglicani e battisti.

Una realtà piccola

Oggi la Chiesa cattolica è una realtà piuttosto piccola nel panorama nazionale – conta circa 1,4% dei 23,5 milioni di taiwanesi -, ma ha un impatto sociale importante, grazie alle attività nei settori educativo, sanitario, aiuto ai migranti, che le è riconosciuto.

«Una delle sfide della chiesa taiwanese oggi – secondo padre Chang -, è che, terminata la generazione dei missionari degli anni tra i 50 e i 70 e vista l’esiguità dei numeri, occorre definire come saranno gestite tutte queste strutture, e trovare un nuovo equilibrio». L’invecchiamento della popolazione e la mancanza di vocazioni locali, apre anche il grande problema della gestione delle parrocchie.

La festa della luna al Sacro Cuore di Hsinchu ci fornisce qualche risposta. I missionari della Consolata, presenti nel Paese da 10 anni, hanno la gestione di questa e di altre due parrocchie della diocesi Xinpu e Xinfong (cfr. MC dicembre 2024). Sono originari di sei paesi di Africa, Sud America e Asia.

I parrocchiani paiono molto attivi: c’è chi cuoce salsicce e altre carni sulle griglie, chi distribuisce piatti di riso, chi organizza un concerto con tanto di chitarre elettriche, basso e amplificatori. Si respira aria di comunità, oltre che di festa.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Diversità

Non lontano da Ximen street ci inoltriamo in un grande mercato coperto. Si estende per l’intero isolato. Dentro vi si trova di tutto. Ogni merce e cibo, dai noodles (spaghetti di riso o soia) ai bao (fagotti di pastella ripieni di maiale o altro). C’è un teatrino, dove un gruppo di donne, in costume (alcune vestite da uomini con barba e baffi) esegue una rumorosa performance. Girovagando dentro il mercato accediamo a una grande sala con dei tavoli. Qui diverse persone sono intente a confezionare dei pacchi regalo. Più avanti scorgiamo degli altari, con grandi statue dorate, imbanditi come fosse una festa, e carichi di offerte di ogni tipo, dalla frutta, ai fiori, alle bottigliette d’acqua. Siamo entrati nel tempio Du Cheng Huang o del «Dio della città», che si sviluppa dentro il mercato, con diverse sale anche di una certa ampiezza. Assistiamo a un susseguirsi senza sosta di pellegrini che accendono le bacchette di incenso, fanno gesti rituali davanti alle diverse divinità, poi le piantano in bacili di svariata dimensione pieni di sabbia di fronte agli altari. Con nostro stupore assistiamo a un rito che inizia all’improvviso. La posizione strategica dentro al mercato, favorisce il via vai dei fedeli.

A Taiwan si trova una grande varietà di religioni. Le principali sono il buddhismo, che secondo un sondaggio di Academia sinica del 2021 sarebbe seguito da circa il 20% della popolazione, e il taoismo, circa il 19%. Altre indagini forniscono percentuali più elevate ma non ci sono dati ufficiali. Le chiese protestanti raccolgono circa il 5,5% dei fedeli, mentre il yiguandao (o ikuadao, una religione sincretica originaria della Cina) è al 2,2% e infine il cattolicesimo.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Le religioni popolari

Ma la religione, meglio le religioni, che hanno più seguito sono, senza dubbio, quelle popolari, o folk religions. Sarebbero seguite, sempre secondo i dati di Academia sinica, da circa il 28% dei taiwanesi. Si tratta di una religione che segue una moltitudine di divinità.

«È una religione degli spiriti – ci dice padre Edi -. Fa da collegamento con gli antenati e con i defunti. Non ha leader o regole particolari, ma alcune feste importanti, nel mese di agosto e il 5 aprile, il giorno dei morti. Ha alcune liturgie legate al taoismo e officiate da sacerdoti taoisti. Nei templi c’è mescolanza: si può trovare la statua di Buddha assieme a tante divinità popolari. C’è quella dei soldi, per la giustizia, dei bambini, per gli esami».

«Le folk religions – ci racconta Jeffrey Chang -, statisticamente sono quelle che hanno più seguaci, ma essi non hanno nessuna affiliazione tra loro. I luoghi di culto sono una moltitudine: templi, piccoli o grandi che si vedono ovunque per strada a Taiwan. Inoltre una persona può andare in un tempio e nell’altro, pregare diverse divinità, e cambiare negli anni, a seconda della necessità. È un senso di credenza multipla, da non confondere con sincretismo».

Continua il professore: «L’esclusività religiosa non è una caratteristica della società taiwanese. Non c’è mai stato un gruppo maggioritario che ha monopolizzato la società o il potere politico, né una religione di Stato o un culto obbligatorio. C’è sempre stata pluralismo e tutte le religioni sono minoranze, nessuna è dominante. Gli stessi buddhisti sono suddivisi in svariate correnti, diverse tra loro. Non ci sono molti paesi come questo. D’altronde anche prima che arrivassero popoli da fuori, qui vivevano i gruppi aborigeni, ognuno con la propria lingua e fede, e nessuno in grado di conquistare tutta l’isola».

Lo Stato e le religioni

Jeffrey Chang fa alcuni confronti: «Qui c’è un rapporto diverso tra Stato e religione rispetto a quello che si ha in Europa o negli Usa. A Taiwan non c’è, e non c’è mai stato, il controllo dello Stato sulla religione o viceversa. Da un lato c’è libertà di associazione, di espressione e di culto. Dall’altro un gruppo religioso non tenterà mai di influenzare il governo o il potere legislativo ai fini dei propri interessi, ad esempio per far passare leggi ad esso favorevoli».

E continua lo studioso: «I sociologi la chiamano twin toleration o accettazione mutua, e significa che la religione e la società e la politica hanno reciproco rispetto, dell’esistenza di una e dell’altra».

C’è, inoltre, una certa collaborazione: «Le strutture religiose sono le benvenute alla partecipazione, ad esempio quando ci sono disastri naturali. Le organizzazioni confessionali di emergenza e carità sono importanti per rispondere in questi casi».

La politica, comunque, tiene in considerazione le religioni: «Un altro aspetto interessante è che in tempo di elezioni, i politici visitano templi e chiese. Lo fanno per trovare supporto e devono farlo con molti, vista la diversità sul territorio».

Diversi interlocutori ci dicono che i rapporti tra le religioni sono buoni. C’è un certo livello di dialogo, ma i diversi gruppi collaborano tra loro più facilmente su tematiche sociali che su quelle teologiche. Non ci sono frizioni né particolari motivi di competizione.

A livello di ecumenismo tra cristiani ci sono molti scambi tra cattolici e protestanti. «La questione è che le istituzioni cattoliche sono molte, e anche le chiese protestanti sono diversificate, quindi c’è una certa dispersione».

Padre Edi, ad esempio, ci racconta dei buoni rapporti con la vicina chiesa presbiteriana, con la quale ci sono diverse iniziative e incontri ecumenici.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Contaminazioni positive

Visitiamo la cattedrale di Hsinchu costruita nel 1955. In una loggia c’è un altarino. Sopra un pannello con tante schedine ognuna delle quali riporta un nome. Di fronte il bacile con la sabbia per piantare i bastoncini di incenso fumanti. Se non fosse per il crocefisso al centro delle tessere, una statua della Madonna a destra e una di san Giuseppe a sinistra, si direbbe essere di fronte a un altare di una religione popolare. Invece no, i nomi cinesi sono quelli dei defunti della parrocchia e tutto l’insieme è l’altare degli antenati. Lo ritroviamo in ogni chiesa visitata, da quella di città, alla più piccola di montagna. È un elemento di collegamento con la cultura profonda locale.

Secondo padre Edi: «La sfida della Chiesa oggi a Taiwan è la missione. Si tratta di un popolo aperto a religioni ed esperienze. Le famiglie qui sono quasi tutte pluri religiose. Bisogna essere più missionari. L’impegno sociale della Chiesa verso chiunque aiuta l’azione missionaria. Ma occorre uscire dalla chiesa, essere in mezzo alla gente fare “carità” pratica. Così potremo avere più dinamismo e nuovi credenti. E non parlo solo dei giovani».

Jeffrey Chang insiste, nel suo perfetto inglese accademico: «Una delle caratteristiche distintive di Taiwan è la diversità etnica, culturale, religiosa. La maggior parte delle persone hanno una fede. Difficile dire quale. Affinché in una società plurale la gente stia insieme, lavori, cooperi, forse la democrazia non è la soluzione ideale, ma non ne abbiamo trovata una migliore finora. E funziona».

Marco Bello

Taiwan. (Foto Marco Bello)


Suor Maria Teresa Hu
una famiglia «pluri religiosa»

Maria Teresa Hu è taiwanese, è nata a Taipei nel 1960. Lei è una seconda generazione, perché suo padre è arrivato dalla Cina continentale nei primi anni Cinquanta, dopo la sconfitta dei nazionalisti nella guerra civile contro i comunisti. La incontriamo in una saletta dell’università cattolica Fu Jen di Taipei, alla facoltà di teologia St. Bellarmine, dove insegna teologia. Ci accoglie calorosamente e ci regala un ciondolo con il carattere cinese della felicità. «La mia famiglia non è cattolica, ma io ho studiato lingua e letteratura spagnola proprio qui, all’università dei gesuiti. Il mio background religioso sono le folk religions (religioni popolari), e solo grazie agli studi sono entrata in contatto con il cattolicesimo. Poco prima di laurearmi ho deciso di battezzarmi». È il 1982, dopo la laurea, Maria Teresa inizia a lavorare per aziende commerciali che hanno bisogno di personale con competenze linguistiche. Intanto matura la sua vocazione.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

«Dopo cinque anni e mezzo ho preso la decisione di entrare nella congregazione delle Figlie di Gesù, di spiritualità ignaziana. Ho lasciato il lavoro e seguito la formazione di sette anni. Ho poi iniziato a lavorare in un collegio della nostra congregazione, in particolare nella scuola primaria».

Nel 1999 troviamo suor Maria Teresa a Roma per la professione e quindi per i voti un anno più tardi. Poi gli studi continuano con un master seguito da un dottorato, di nuovo alla Fu Jen university di Taipei.

«Posso dire che la mia famiglia di origine è pluri religiosa: ci sono buddhisti, taoisti, e io sono l’unica cattolica. Ma questo è molto comune in Taiwan e non ci sono problemi o attriti».

Chiediamo a suor Maria Teresa di spiegarci in cosa consistono le folk religions. «Si può dire una miscela di confucianesimo, buddhismo e taoismo. In un tempio a Taiwan puoi trovare gli dei delle tre religioni. Non è una religione pura».

Suor Maria Teresa ci ricorda una minoranza importante. Sono le popolazioni native, i cosiddetti aborigeni di origine austronesiana. Tra loro la percentuale di cristiani è molto elevata perché i missionari, sia cattolici che protestanti, dedicarono loro molte energie. A Taiwan sono attualmente riconosciute per legge sedici popolazioni indigene e altre dieci lottano per il riconoscimento, per un totale di poco più di 500mila individui.

Parlando con suor Maria Teresa, taiwanese, cattolica, affrontiamo il tema dell’identità sull’isola: «Tutti quelli che hanno più di 50 anni hanno ricevuto un’educazione gestita dal Kuomintang (Kmt, ex partito unico di Chang Khai-shek, oggi all’opposizione, ndr). Quindi si sentono più cinesi. Quelli nati dopo, quando il Dpp (Partito democratico progressista, fondato nel 1986, con posizioni più autonomiste, al potere dal 2000 al 2008 e dal 2016 a oggi, ndr) ha iniziato ad avere un peso, ha promosso una nuova interpretazione della storia e nuove ideologie, oggi hanno meno di 40 anni, hanno ricevuto un’educazione con impronta diversa, e dicono di essere taiwanesi. Culturalmente non c’è conflitto [con i cinesi del continente]. In Cina guardano le nostre serie tv e viceversa. Io parlo il mandarino e il taiwanese (lingua hokkienese o hokklo, parlata anche nel Sud della Cina, ndr). Non ci sono migliaia di anni di odio tra di noi. In passato la gente della Cina continentale e noi di Taiwan andavamo molto d’accordo. Adesso ci sono tensioni. Ma per me, è solo geopolitica».

Ma.Bel.




Il ritorno del guardiano invisibile dell’ecosistema sardo


Le ali del grifone Gli ecosistemi sono equilibri delicati. La scomparsa di una specie può avere gravi conseguenze. In Sardegna, grazie all’impegno di alcuni e a fondi europei, si è scongiurato il peggio. E il grande rapace sta ripopolando i suoi habitat.

La Sardegna, un’isola di rara bellezza, conosciuta principalmente per le sue spiagge dorate e il mare cristallino, conserva al proprio interno, nel cuore, un tesoro inestimabile: il grifone (Gyps fulvus). Questo maestoso rapace vive da sempre fra vette rocciose e paesaggi mozzafiato nella zona del bosano (provincia di Oristano).

Simbolo di forza e libertà, riveste un ruolo cruciale nell’equilibrio ecologico dell’isola, eppure ha rischiato l’estinzione a causa di minacce che hanno messo a dura prova la sua sopravvivenza.

Il grifone, considerato il «guardiano invisibile» dell’ecosistema, svolge una funzione essenziale nella decomposizione e nel riciclo delle carcasse animali. Questi imponenti avvoltoi, con un’apertura alare che può raggiungere i due metri e mezzo, rappresentano gli «spazzini aviari» dell’isola, contribuendo in modo significativo alla rimozione dei rifiuti organici e alla regolazione delle malattie. Il loro instancabile lavoro di smaltimento delle carcasse consente il ritorno dei nutrienti al suolo, alimentando così il ciclo vitale dell’ecosistema.

Nonostante il ruolo cruciale dei grifoni, la loro popolazione in Sardegna era drammaticamente diminuita, arrivando a contare solo 100-120 individui e 35 coppie territoriali. Le principali minacce erano legate alla scarsa disponibilità alimentare, all’uso di bocconi avvelenati e al disturbo antropico nei siti di nidificazione. Spesso, infatti, barche e gommoni cercavano di avvicinarsi il più possibile ai nidi pur di ottenere una foto o comunque avvistare un esemplare.

Il disturbo provocato portava i grifoni alla fuga e i giovani, non ancora abili nel volo, spesso finivano in mare, annegando.

Il ritorno

Fortunatamente, grazie al progetto Life under griffon wings, finanziato dall’Unione europea e coordinato dall’Agenzia regionale Forestas (struttura tecnica operativa nel settore forestale e ambientale), la specie ha iniziato a tornare a volare nei cieli sardi.

Un elemento chiave di questo programma di conservazione è stata l’introduzione innovativa dei «carnai aziendali».

Ci conduce a visitarli, il dottor Dionigi Secci, che si occupa del progetto europeo sin dai suoi esordi.

I carnai aziendali sono veri e propri punti di alimentazione per i grifoni e vengono gestiti direttamente dagli allevatori locali. Questi luoghi nei quali le carcasse di ovini e bovini vengono lasciate a disposizione dei grifoni affinché se ne possano nutrire, hanno rappresentato una soluzione sostenibile e di successo per garantire loro una fonte di cibo sicura e costante. Anziché dover provvedere al sotterramento delle carcasse o alla bruciatura, gli allevatori le collocano in questi speciali recinti, permettendo così ai rapaci di nutrirsi in modo controllato e senza rischio di avvelenamento. Si tratta di un progetto virtuoso poiché unisce il recupero di un animale in via di estinzione al controllo delle carni che vengono portate in tavola: affinché si possa continuare a smaltire le carcasse facendone cibo per i rapaci, infatti, l’allevatore è tenuto a garantire una giusta alimentazione agli animali allevati e dimostrare di non aver utilizzato farmaci o sostanze che possano essere dannosi per l’uomo e, di conseguenza, anche per i grifoni.

«I carnai aziendali hanno trasformato un costo di gestione per gli imprenditori in una risorsa preziosa per la conservazione della biodiversità», spiega il dottor Marco Muzzeddu, veterinario presso il Centro di allevamento e recupero della fauna selvatica di Bonassai (Sassari). «Grazie a questa rete di alimentazione sicura, abbiamo assistito a un incredibile aumento della popolazione di grifoni, che è passata da 100-120 individui a circa 230-250 in pochi anni».

Il dottor Muzzeddu è fra i maggiori esperti di fauna selvatica e all’interno del Centro faunistico di Bonassai si occupa anche del recupero di volatili come aquile reali, gufi, occhioni oltre a svolgere attività di divulgazione. Spesso, infatti, il Centro accoglie scolaresche e visitatori interessati al dialogo e all’approfondimento circa la tematica della sostenibilità ambientale.

Direttore sanitario della struttura, Muzzeddu si occupa – oltre che della salvaguardia dei grifoni e di animali in via di estinzione – di chirurgia sulla fauna selvatica terrestre e marina.

È famoso il suo intervento chirurgico su un leone arrivato a Sassari insieme ad artisti circensi. Interventi in barca, in elicottero, salvataggi e recupero di animali in luoghi impervi sono la quotidianità per questo medico veterinario che è diventato un punto di riferimento fondamentale.

Ripopolare e proteggere

Oltre all’implementazione dei carnai, il progetto Life under griffon wings ha adottato altre misure fondamentali, come il rilascio di 63 giovani grifoni provenienti da centri di recupero in Spagna e dall’Amsterdam royal zoo, il potenziamento del Centro faunistico di Bonassai e l’istituzione di un nucleo cinofilo antiveleno composto da agenti del Corpo forestale e cani addestrati, per contrastare l’uso di bocconi avvelenati.

Inoltre, sono stati realizzati sentieri e capanni di osservazione per mitigare il disturbo antropico nelle aree di nidificazione, e sono stati predisposti codici etici per la fotografia naturalistica e l’escursionismo.

Nonostante i notevoli successi, la strada per la salvaguardia a lungo termine del grifone in Sardegna non è ancora del tutto spianata. L’areale di questa specie rimane ristretto al settore nordoccidentale dell’isola, rendendola vulnerabile a minacce come le collisioni con infrastrutture energetiche (pale eoliche) e il saturnismo, una malattia causata dall’intossicazione da piombo. Per affrontare queste sfide, è stato avviato il nuovo progetto Life safe for vultures, che mira a espandere l’habitat del grifone e a mitigare ulteriormente le minacce.

La storia del ritorno del grifone in Sardegna è un esempio di come la collaborazione tra istituzioni, esperti e comunità locali possa portare a risultati tangibili nella tutela della biodiversità. Questo maestoso rapace, simbolo di libertà e forza, è tornato a volare nei cieli sardi, un segnale di speranza per l’intero ecosistema dell’isola. La sua salvaguardia rappresenta una sfida cruciale, non solo per la Sardegna, ma per l’intero Mediterraneo, e il delicato equilibrio tra l’uomo e la natura.

I rischi delle pale

Se in passato, il saturnismo è stato uno dei principali elementi che hanno messo a rischio il grifone, oggi se n’è aggiunto un altro legato all’energia sostenibile.

In Sardegna, infatti, l’installazione di impianti eolici è diventata un tema centrale nel dibattito politico e sociale. Le pale eoliche, che possono raggiungere fino a 120 metri di altezza, sono percepite da molti come una minaccia al paesaggio dell’isola. La preoccupazione principale dei residenti è che la Sardegna, famosa per la sua bellezza naturale, si trasformi in un’area industriale dedicata alla produzione di energia, con impatti estetici e ambientali significativi.

Dal punto di vista energetico, la Sardegna ha un potenziale notevole per la produzione di energia eolica. Tuttavia, le proposte di installazione di oltre 800 nuovi impianti hanno sollevato forti opposizioni. Gli attivisti sostengono che gran parte dell’energia prodotta non sarà destinata al consumo locale, ma esportata verso il Nord Italia, senza apportare benefici diretti alle comunità sarde. Inoltre, si teme che i profitti non vengano equamente redistribuiti tra la popolazione locale.

Le preoccupazioni riguardano il rischio per la biodiversità, in particolare per l’avifauna che spesso si scontra con le pale eoliche rimanendo uccisa sul colpo, e l’uso di terreni agricoli per l’installazione di pannelli fotovoltaici. Molti cittadini chiedono un approccio più sostenibile e democratico nella pianificazione energetica, auspicando che la Regione stabilisca chiaramente le necessità locali e il ruolo delle rinnovabili nel contesto sardo.

Nonostante queste critiche, esperti del settore sottolineano che l’energia eolica è una componente essenziale per la transizione ecologica, necessaria per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. La sfida rimane quella di trovare un equilibrio tra sviluppo sostenibile e tutela del patrimonio naturale, coinvolgendo le comunità locali nel processo decisionale.

«Senza il rispetto per ogni forma di vita, l’essere umano è destinato a scomparire. Mi batto affinché le persone capiscano che abitare degnamente il mondo significa contribuire a garantirne l’equilibrio. Un atto di gentilezza verso un essere sofferente è un atto di umanità che innesca un circolo virtuoso. Non siamo i padroni di questo mondo, ci è solo stato dato in prestito. Altri verranno dopo di noi e abbiamo il dovere di lasciare ciò che ci è stato donato nelle migliori condizioni possibili», conclude il dottor Muzzeddu.

Valentina Tamborra




La missione comincia da casa


Tante sono state le feste di ringraziamento per la canonizzazione di Giuseppe Allamano. Prima nel suo paese natale, poi a Torino al santuario della Consolata e nella Casa Madre. Quindi si sono moltiplicate in giro per il mondo.

Castelnuovo don Bosco, 23 ottobre. Il paese sulla collina dell’alto astigiano oggi è tirato a festa. Bandierine di tutte le nazioni attraversano le sue vie arroccate. Alle finestre e ai balconi è stato appeso il foulard con l’immagine del nuovo santo. I bambini della scuola elementare hanno affisso sulla via i loro disegni: ritraggono un Giuseppe Allamano del tutto originale.

Nella chiesa di sant’Andrea, dove il santo ha celebrato la sua prima messa nel 1873, all’età di 22 anni, fervono i preparativi. Il giovane sindaco di Castelnuovo, Umberto Musso, dirà, alla fine della celebrazione, in italiano e inglese: «Abbiamo un record del mondo, siamo l’unico comune ad aver dato la nascita a quattro santi!».

Da mezzo mondo

I pellegrini si ritrovano in piazza e piano salgono sul colle. Una volontaria con la pettorina gialla spiega, in francese, a un gruppo di congolesi, alcuni aspetti storici del piccolo comune. Allo stesso modo, altri accompagnano alla chiesa i mozambicani, gli ivoriani, i colombiani, parlando loro nelle diverse lingue.

Alle 10 sant’Andrea è già piena e mezz’ora dopo inizia puntuale la celebrazione. La musica del coro del Colle don Bosco accoglie i celebranti. Prende quindi la parola padre Gianni Treglia, superiore della Regione Europa dei missionari della Consolata, che in diverse lingue introduce la celebrazione: «Quattro giorni fa è stato canonizzato Giuseppe Allamano. Adesso la sua vita è riconosciuta dalla Chiesa universale. […] Oggi esprimiamo la nostra gratitudine per quest’uomo, figlio di Castelnuovo. “Ho portato con me il mondo contadino e la vita tra queste colline, una comunità di relazioni e di speranze”, diceva. “In mezzo ai miei figli e figlie missionari, mi sono sempre sentito come in famiglia”. Essere famiglia, essere insieme, dare testimonianza di unità e di amore vicendevole. Questa esperienza lui l’aveva dentro fino dall’infanzia, vissuta in questa terra».

La chiesa di sant’Andrea è colma e sono state messe pure alcune panche all’esterno. Oltre ai pellegrini da diversi paesi del mondo ci sono gli abitanti di Castelnuovo.

I primi passi

«Siamo qui per ringraziare il Signore per questa canonizzazione. Qui Giuseppe ha mosso i primi passi. […] Ringraziamo gli abitanti di questa terra speciale, per la loro grande accoglienza», così esordisce nella sua omelia padre James Lengarin, superiore generale dei Missionari della Consolata, nono successore di Allamano e primo di origine africana. Ricorda poi la giovinezza del fondatore dei due istituti, che è cresciuto, anche spiritualmente, in questo paese del Piemonte. E di come abbia vissuto un clima missionario alla «scuola di don Giovanni Bosco», anch’egli nato qui. Ma dice anche che Allamano è riuscito ad andare al di là, a «interpretare queste situazioni per andare oltre Torino, il Piemonte, e aprirsi alle persone più lontane, nelle periferie del mondo», perché ha compreso che «la salvezza è per tutti».

E continua: «La festa di oggi non è soltanto nostra, ma è di tantissime persone nel mondo che hanno conosciuto i missionari della Consolata».

Parla a un’assemblea variopinta, padre James: «Siamo tutti cittadini del mondo, e sappiamo che purtroppo milioni di persone soffrono, sperimentano le devastazioni della guerra, le malattie, la fame, l’umiliazione della povertà. Oltre alle condizioni fisiche, molti vivono in povertà spirituale […]». Il fatto di avere tante persone a Castelnuovo, di differente origine, vuol dire che «la missione continua».

Padre James ricorda pure «tante nostre sorelle e fratelli hanno anche perso la vita, mentre erano missionari in paesi lontani, e sono stati sepolti laggiù».

Chiede l’intercessione del «beato Giuseppe Allamano», ma si ferma. «Non siamo ancora abituati: del santo Allamano!», e dal pubblico si leva una risatina di compiacimento. «Chiediamo di avere la forza e il coraggio di vivere anche lontani, anche quando le energie umane sono poche, e la speranza sarà l’unica cosa che ci salverà».

Castelnuovo

«Mai missionari solitari»

Dopo la messa e le foto di rito, i pellegrini si radunano per lingua. Ogni gruppo segue un volontario che regge un cartello colorato, e tutti invadono pacificamente il paese. Sono visitate, in particolare, la casa natale di san Giuseppe Allamano e quella di suo zio, san Giuseppe Cafasso.

Passate le nuvole del mattino, il sole è comparso e pare di vivere in una splendida giornata primaverile che ben si adatta al momento di festa.

Verso le cinque tutti si ritrovano in piazza don Bosco. È il momento dei saluti. Suor Lucia Bortolomasi, madre superiora delle Missionarie della Consolata ringrazia le autorità presenti, poi ricorda una frase di Allamano, appena letta nella sua casa natale: «A Castelnuovo ho incontrato tante persone che hanno preso a cuore la mia vita». Suor Lucia riprende: «Vogliamo dire grazie, perché è stato un giorno speciale, un giorno bellissimo. Voi di Castelnuovo avete vissuto le parole di Allamano quando dice che il bene bisogna farlo bene. Abbiamo visto ogni cosa, ogni dettaglio, fatto bene con il tocco speciale dell’amore». E conclude: «Abbiamo visto da parte vostra un lavoro di squadra. Il fondatore ci ha sempre detto: “Mai missionari solitari in missione, ma vivere insieme, in comunione, perché l’unione fa la forza”. Per realizzare la santità delle piccole cose, nella vita ordinaria».

Castelnuovo


Torino, 25 ottobre

Santuario Allamano

A «casa sua»

È una mattina piovosa, ma il cortile della Casa Madre si sta già animando con i primi gruppi di pellegrini, reduci delle tre giornate di Roma e delle due piemontesi.

Ieri è stata celebrata la messa di ringraziamento nel santuario della Consolata, del quale san Giuseppe Allamano è stato rettore per 46 anni. Oggi il ritrovo sarà proprio a «casa sua», in corso Ferrucci, nel suo santuario. Nella chiesa fervono i preparativi.

Incontriamo il gruppo giunto da Oujda, in Marocco, quello della Costa d’Avorio, del Congo Rd, i mozambicani, i laici del Brasile e della Colombia. Ma anche padre Jasper, keniano arrivato da Taiwan, padre Dieudonné, congolese dalla Mongolia, e la signora Lina, dal Kazakistan. Solo per citarne alcuni. Poi gli europei, e molti amici dei missionari e delle missionarie di Torino e del quartiere. Tutto il mondo è qui.

Padre Antonio Rovelli e padre Sandro Faedi, i responsabili dell’organizzazione dell’accoglienza dei pellegrini a Roma e Piemonte, corrono indaffarati per gli ultimi dettagli.

Allo scoccare delle 10,30 fanno il loro ingresso nella chiesa affollata le danzatrici: sono le novizie delle suore, vestite con  abiti africani a dominante verde intenso. Danzano e cantano fino all’altare seguite dai cinque vescovi e dai sacerdoti che celebreranno la messa. Alle ali dell’altare siedono almeno un centinaio di preti nei loro paramenti bianchi, la maggior parte missionari della Consolata. Altrettante sono le missionarie.

Padre Gianni Treglia prende la parola ed esordisce arringando i presenti: «Allamano!». E tutti rispondono:«Viva!». E ancora padre Gianni, «Viva!» e tutti «Allamano!». E poi, insieme: «Grazie per averci dato Giuseppe Allamano!».

Il superiore della Regione Europa ringrazia il Signore per il dono di san Giuseppe Allamano: «Questo è il luogo del suo sogno missionario che, non potendolo realizzare personalmente, lo ha realizzato con la fondazione di due istituti. […] Il sogno stesso di Dio che vuole che tutta l’umanità abbia la salvezza. Giuseppe Allamano l’ha affidato a noi, suoi figli e figlie».

Il mandato missionario

La celebrazione è presieduta da monsignor Francisco Múnera Correa, arcivescovo di Cartagena e presidente della Conferenza episcopale colombiana. Le letture vengono fatte in italiano e kiswahili.

È poi monsignor Osório Citora Afonso, mozambicano e neovescovo ausiliario della capitale Maputo, fa l’omelia: «Dopo i fasti di piazza san Pietro […] ci siamo recati nei luoghi che videro la vita quotidiana di san Giuseppe Allamano, prima a Castelnuovo don Bosco, quindi al santuario della Consolata, e oggi qui in Casa Madre, dove si trova il suo sepolcro. È un luogo che ci invita a sostare in preghiera, in meditazione. Un luogo che è anche un’oasi di relazione. È una casa. È la sua dimora dalla quale continua a spandere benedizione, incoraggiamento e consolazione».

Riferendosi al Vangelo appena letto (Marco 16,14) monsignor Osório dice: «Gesù, l’ultimo gesto, quello del mandato missionario, lo fa in una casa, un luogo di relazione, così non è casuale che anche noi veniamo nella casa di Allamano per riascoltare il mandato missionario. È in questa casa che si sente ancora: “Andate e predicate”».

«Perché una casa è un luogo di vita, di incontri, dove i religiosi e i laici cercano di vivere e testimoniare la passione per la missione. Parlando dello spirito di famiglia, Allamano parlava della casa dove si sta insieme, dove si vive il quotidiano. Casa come luogo di invio missionario: è da casa che si parte».

Monsignor Osório ritorna poi su una famosa frase del santo: «Allamano diceva: “Siate straordinari nell’ordinario”. Per vivere questa santità, ripartiamo dalle nostre case, ripartiamo dalle relazioni, dalle piccole cose.

Sono partiti da Torino tanti anni fa, erano quasi tutti piemontesi, e per questo motivo adesso siamo qua in tanti, e veniamo da molte parti del mondo».

E per evidenziare questa «mondialità» chiede: «Dove è avvenuto il miracolo? Non a Torino, Roma, o in una grande città, ma tra il popolo dell’Amazzonia».

La celebrazione continua, si canta seguendo il coro italiano diretto da padre Sergio Frassetto. L’atmosfera è quella delle grandi feste. C’è gioia, c’è voglia di viverla tutti insieme, provenienti da tante nazioni e da popoli dei quattro continenti, ma in sintonia.

Impegno di santità

Suor Lucia Bortolomasi prende infine la parola, con la sua voce dolce, ma ferma: «È qui che vogliamo esprimere il nostro grazie a Dio e alla Consolata, per questo immenso dono, che è san Giuseppe Allamano. Vogliamo ringraziare tutti voi, amiche e amici, perché ci siete stati vicino in questi giorni di festa, e anche perché, in diversi modi, ci accompagnate nella nostra missione.

Un grazie tutto speciale alle nostre missionarie e missionari e alle persone che sono ammalate, ma che ogni giorno offrono la loro preghiera e la loro sofferenza a Dio per l’annuncio del Vangelo, e per sostenerci. Ci danno forza».

Poi aggiunge: «Vogliamo fare un regalo speciale a san Giuseppe Allamano. Vogliamo regalargli il nostro impegno di vivere quella santità che lui ci ha sempre indicato. Essere presenze umili, semplici di consolazione, nella vita di tutti i giorni».

Padre James Lengarin, visibilmente contento, esprime il suo ringraziamento: «Sono qui per dire grazie a tutte le persone che hanno guidato questa macchina organizzativa». E parte un applauso alla commissione organizzatrice.

«Tutti i 35 paesi del mondo in cui siamo presenti sono rappresentati in questo momento speciale. Siamo una famiglia grande, che si vuole bene».

Ringrazia l’arcidiocesi di Torino, «dove siamo nati e da dove siamo partiti. E anche per gli aiuti concreti che sono arrivati da qui» alle missioni.

Ricorda poi i missionari e le missionarie defunte: «Fanno parte di questa grande famiglia. Loro ci hanno aiutato a essere ciò che siamo oggi. Anche in cielo sono tutti in festa». Ringrazia la Regione Europa e la Casa Madre e tutti «i fratelli vescovi che hanno partecipato». Conclude con un grazie caloroso «a tutti i pellegrini che sono venuti. Siamo tutti membri di questa famiglia. Ripartiamo da questo santo.
Portiamo la consolazione nel mondo e siamo seminatori di speranza».

Con le parole di padre James, si chiude la celebrazione, ma la festa continua, e i pellegrini si accalcano presso la tomba di san Giuseppe Allamano, per un saluto, una preghiera, ma anche per portare a casa una foto con lui, perché da oggi c’è un santo in famiglia.

Marco Bello


Un Santo mondiale

I festeggiamenti per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano si sono moltiplicati nei diversi paesi di missione.

Il 9 novembre è stata grande la festa al campus universitario di Nairobi, con la presenza della direzione generale, di tutti i vescovi della Consolata in Kenya, il nunzio apostolico e le suore della Consolata.

Gli studenti e i diaconi dell’istituto hanno assicurato il servizio all’altare. Ma i protagonisti sono stati le centinaia di fedeli venuti per celebrare il nuovo santo, con musica e danze oltre che con preghiere.

Anche a Bogotà, Colombia è stata celebrata una grande festa il 16 novembre al Collegio Giuseppe Allamano, dove erano presenti più di seicento persone.

Feste di ringraziamento, grandi e piccole si sono tenute in tutti i 35 paesi di missione dove sono presenti missionarie e missionari della Consolata.

M.B.

Celebrazione eucaristica presieduda da mons. Giraudo, vescovo ausiliare di Torino nel santuario della Consolata


Per informazioni più dettagliate sulle celebrazioni in vari Paesi del mondo, vedi www.consolata.org

Ai piedi della Consolata, il gruppo dei vescovi

 

Celebrazione di ringraziamento nel santuario della Consolata




In Missione con padre Carlo Biella. Profumi e colori della missione


Colori. Profumi. Sensazioni. Immersi nel calore del Mozambico, dei suoi raggi di sole, tra la sua polvere e la sua gente. Note del viaggio dell’agosto 2024 de «I Bagai di binari» di Cernusco Lombardone (Lc) nella missione di Uncanha, diocesi di Tete.

Tete, capoluogo della regione omonima, nel nord ovest del Paese africano, è una cittadina con poco più di 150mila abitanti. Uncanha, la missione di padre Carlo Biella, missionario della Consolata nativo di Cernusco, si trova a più di 280 km di distanza, nel mezzo di terre aride, alberi di papaia e un gran numero di piccoli villaggi.

Con il fuoristrada, acquistato grazie alla nostra parrocchia nel 2022, in nove ore raggiungiamo la meta: un piccolo villaggio, con vicino la missione con un pozzo e un pannello solare. Attorno la scuola primaria, un piccolo auditorium per le riunioni, la casa della maestra e una per la famiglia del catechista. Scopriremo presto che ogni villaggio ha il suo catechista e responsabile parrocchiale che gestiscono sia la parte spirituale che organizzativa di ogni comunità.

Attorno al pozzo incontriamo alcuni bambini figli di pastori che non frequentano la scuola, ma accudiscono animali, li abbeverano e parlano e capiscono solo la lingua locale. Un chupa-chupa li rende felici. La gioia di un gioco da noi improvvisato durante l’intervallo scolastico ha dato colore al cortile polveroso tra sorrisi, applausi, salti e abbracci, che danno un senso e un significato alla parola missione e perché no, anche alla parola chiesa, termini che anche con le più sofisticate e argute parole non si riescono sempre a spiegare.

L’accoglienza

La missione si estende a Nord-ovest verso Nhanseula e Malowera. Per raggiungere la prima sono necessarie due ore di fuoristrada su un percorso a terra battuta. Calorosa è l’accoglienza per padre Carlo e noi, suoi ospiti.

La celebrazione della messa è il momento focale. Nella chiesetta dalle mura grigie spiccano i colori di canti, balli e dei doni per noi ospiti: pollame, alimenti, farine e offerte per la parrocchia. Da parte nostra doniamo un pallone, gesto simbolico che riperemo in tutte le comunità che visiteremo nei prossimi giorni. La lingua della celebrazione è sia il portoghese che la lingua locale, il chichewa. Dopo la presentazione di ciascuno di noi, stringiamo la mano a ognuno dei presenti.

Tre ore passano veloci, poi il pomeriggio di giochi con i bambini con il pallone e senza, mentre in un campo vicino due squadre di ragazzi giocano una partita di calcio. Visitiamo la famiglia del catechista del villaggio, la cui madre è impossibilitata a muoversi. Le case sono capanne o casette circondate da pali di legno a mo’ di recinzione impedendo l’ingresso ad animali. Pollame e caprette sono libere di pascolare per l’intero villaggio. I bagni sono strutture fuori dall’abitato con un buco e una zona apposita per lavarsi con secchi d’acqua, calda solo se posta sul fuoco.

Visitiamo anche il luogo della missione originale, abbandonata – come tantissime in questo ampio territorio – durante i terribili anni della guerra di indipendenza e poi quella civile tra Frelimo e Renamo.

L’indomani visitiamo Malowera, più a Nord, a un’ora di distanza d’auto. L’accoglienza qui è ancora più calorosa, con la stretta di mano a tutti appena arrivati, un cartello di benvenuto per padre Carlo, canti e balli, e poi un momento personale di riconciliazione per una cinquantina di persone.

Tre ore di celebrazione all’aperto sotto il sole e all’ombra di alcune piante. Alle spalle il cantiere per la costruzione della nuova chiesa per rimpiazzare quella distrutta dalla guerra e dall’abbandono.

Al tramonto di una domenica diversa dalle solite ritorniamo a Uncanha lasciandoci alle spalle abbracci, sorrisi e strette di mano di persone che vivono il valore vero e intenso della comunità e dell’accoglienza.

Con la comunità di Kanyenze

L’incontro di martedì 6 agosto con la comunità di Kanyenze a 20 km circa da Uncanha, ci ha aiutato a capire meglio il compito dei missionari: portare alla gente la parola di Dio, costruendoci attorno valori importanti quali la condivisione e la preghiera, un’opportunità di crescita e vera vita.

Padre Carlo, da oltre 30 anni in Mozambico, incontra per la prima volta questo gruppo di 70 famiglie di recente stanziamento grazie a Dixon, catechista e coordinatore della comunità di Uncanha. Questa comunità è diversa dalle altre, perché qui nessuno è ancora battezzato e quindi va proprio fatta la prima evangelizzazione.

«Qui si inizia dalle basi, a spiegare da zero certi gesti – ci racconta padre Carlo – con concetti semplici come si fa con i bambini. Dire chi è Gesù, cosa si intende per Eucarestia. Per iniziare una comunità cristiana – ha aggiunto – sono indispensabili un catechista che formi e parli alla gente e un coro che anima e che è motivo di aggregazione».

La messa viene accompagnata dal coro di Uncanha e vede i consueti gesti di accoglienza e doni verso la comunità e i sacerdoti celebranti e il dono di due palloni da parte nostra per le comunità locali. L’edificio della chiesa non c’è, tanto che celebriamo la funzione all’aperto sotto una pagoda con tetto di paglia.

Bambini, per due ore fermi e poco rumorosi, e mamme sono raggruppati attorno all’altare improvvisato, con sguardo curioso; una macchia di colori che colpisce. Grazie alla traduzione di Dixon in lingua chichewa si trasmettono così quei valori indispensabili per una comunità cristiana e alcuni avvisi. Allo stesso tempo la comunità esprime la problematicità di non avere un pozzo da cui attingere acqua, indispensabile per un villaggio, in particolare quest’anno nel quale le piogge non sono state abbondanti.

È stata una conoscenza reciproca, che ha avuto il suo fulcro nella preghiera comunitaria, sperando di poter far crescere una comunità di famiglie pronte a iniziare insieme un cammino di fede e di crescita sia materiale che spirituale.

La semplicità, ritrovata novità

Altre opportunità trovano spazio nel cammino qui a Uncanha. Le attività scolastiche si sono concluse per i bambini del primo ciclo della primaria con alcune prove lunedì e martedì 5 e 6 agosto; accompagnati dalla maestra Rosa, hanno appreso i fondamentali della lingua e dell’aritmetica.

Abbiamo così l’occasione di condividere con loro momenti di gioco in aula o nello spazio esterno. Provvisti di palloncini colorati, bolle di sapone e una palla azzurra portati dall’Italia siamo riusciti a far vivere nei loro occhi la meraviglia nel vedere qualcosa di nuovo.

Vista la temperatura si può anche giocare, divisi in tre squadre, con qualche gavettone in cortile. Tutto si chiude con un momento in cerchio, sorrisi gioiosi e un lungo applauso finale. Divertiti torniamo in aula e lasciamo un chupachupa a ognuno.

Nulla di speciale per noi, una giornata divertente per loro. La riscoperta della semplicità di alcuni gesti aiuta a capire che ogni tanto fa bene «fermarci» per non farci trascinare dalla frenesia dei nostri tempi.

A Zumbo e Miruru

Il viaggio si addentra nel vivo e sabato 10 agosto si parte per un viaggio di quattro ore per Zumbo, villaggio alla confluenza del fiume Luangwa con lo Zambesi, vicino al confine con lo Zambia (è il villaggio dove i primi cinque missionari della Consolata arrivarono il 5 marzo 1926, ndr). L’occasione è la celebrazione di sei battesimi.

Con padre Carlo celebra anche don Alfredo che consegna alla comunità un ostensorio per l’adorazione dell’Eucarestia, donato dalla sua attuale parrocchia. Canti e balli animano come sempre la Messa, celebrata la domenica solo quando è presente uno dei sacerdoti.

Il giorno dopo attraversiamo il fiume per raggiungere la comunità di Bawa, fotografando lungo il fiume ippopotami e un alligatore. La comunità è in fermento perché si sta preparando ad accogliere il festival dei cori delle parrocchie nei prossimi giorni di agosto.

A Zumbo c’è grande attesa per l’arrivo del vescovo di Tete Diamantino Antunes. Martedì 13 infatti grande festa in paese: bambini e fedeli accolgono l’arrivo del vescovo tra petali e stuoie lungo la strada. Nel pomeriggio sono celebrate le cresime di 57 persone nello spazio davanti alla chiesa coperto da tetti di paglia.  Non sono mancati i doni al termine della messa e i ringraziamenti.

In questa realtà vivono le suore della Consolata (dove erano già arrivate il il 30 agosto 1927, ndr), presenti: Ana Paola, Betania e Ivonne, provvisoriamente alloggiate vicino al piccolo ospedale della cittadina. La loro ospitalità e dolcezza ha rallegrato il nostro soggiorno. È in costruzione una casa per loro in centro paese e accanto si pensa di edificare un asilo nido.

Il viaggio non è terminato

Mercoledì 14 andiamo con il vescovo nel villaggio di Miruru, isolato, distante due ore da Zumbo, nei pressi di un’antica chiesa abbandonata in stile gotico attorno alla quale si sta costruendo un villaggio, nella speranza di accogliere delle famiglie e formare una parrocchia. Si riparte da zero e si ricostruisce. Forza e volontà non mancano, si vuole riportare alla vita numerosi edifici, ormai ridotti ruderi, un tempo missione dei Gesuiti di inizio 1900, poi abbandonata per le vicissitudini storico politiche.

A pochi metri il cimitero con le tombe dei padri fondatori, purtroppo profanato di recente: per questo si è deciso di far partire da qui la processione fino all’ingresso della chiesa, ora senza tetto, dove sono state celebrate dal vescovo le cresime. Sette i cresimati con i rispettivi padrini e madrine e la richiesta da parte di dom Diamantino di tornare ad animare questo villaggio per poter così dare un senso alla costruzione di diverse strutture come una scuola, laboratori, case. Sicuramente entro Natale verrà ricostruito il tetto della chiesa.

La sera cala dopo la festa, in un’atmosfera suggestiva, sotto un cielo aperto e stellato.

L’indomani mattina un risveglio altrettanto incantevole al sorgere del sole per tornare alla base.

Ciò che resta

«In questa stupenda esperienza ciò che mi ha colpito maggiormente è stata la semplicità con cui i bambini, ma non solo, trovavano il sorriso non appena ci vedevano, specialmente quando passavamo tra i villaggi con il fuoristrada. Ci seguivano con lo sguardo, notavano noi bianchi tutti assieme e ci ricambiavano il saluto con un bellissimo sorriso e tutti pieni di gioia e anche sorpresa – ci ha raccontato Matteo, nipote di padre Carlo e uno dei responsabili in oratorio della comunità giovanile cernuschese -. Sicuramente ho portato a casa la consapevolezza di essere estremamente fortunato ad avere privilegi e comodità che prima di questo viaggio davo per scontato. Ad esempio, la mancanza di acqua corrente, principalmente durante la doccia, si è fatta sentire notevolmente, ma anche la sporadicità con cui si presentavano le varie case di cura e i rarissimi ospedali, che per fortuna non ci sono serviti, l’assenza quasi totale di strade asfaltate che hanno aumentato le ore di spostamento tra una parrocchia e l’altra. Sicuramente in queste tre settimane ho capito perfettamente perché gente come padre Carlo viene chiamata missionario: hanno da compiere una vera e propria missione, che non consiste solamente nel diffondere il più possibile il Vangelo tramite le celebrazioni e le catechesi, ma anche stare dietro a tutto quello che ci gira attorno, quindi gestire le contabilità di tutte le parrocchie, ascoltare i bisogni dei parrocchiani, costruire chiese, asili, abitazioni, pozzi, risolvere le problematiche che saltano fuori ogni giorno e adattarsi a una vita che è totalmente diversa da quella che viviamo qui».

«Scegliere un momento significativo di questa esperienza, è difficile. Condividere con queste comunità, la vita di tutti i giorni, giocare a “Giro giro tondo” con i bambini e vedere la felicità nei loro occhi, fa riflettere – è il pensiero di Nadia, del direttivo de I bagai di binari (i ragazzi dei binari), l’associazione missionaria di Cernusco -. A loro non serve molto per essere felici e sorridere, nonostante abbiano poco o quasi nulla. Per questo, continuiamo a sostenere quei progetti che, con eventi, sottoscrizioni a premi e altro, ci permettono di raccogliere fondi per sostenere queste realtà».

«Questa piccola esperienza mi ha confermato quanto sia importante aiutare chi ha bisogno, meglio sul posto, nel loro Paese d’origine – ha aggiunto Dario Vanoli, presidente de I bagai di binari -. L’aiuto concreto di chi veramente ha voglia di soccorrere chi ha bisogno è quello che serve; è bene che, chi lo fa, faccia rete e coinvolga chi ha intorno. Sono piccoli semi, segni che possono però dare tanto: un sorriso, una chiacchierata e, perché no, anche una vita che cambia. Tutto ciò è uno splendido frutto. Sono esperienze che consiglio caldamente ai giovani, perché aiutano a crescere. Grazie ancora una volta a chi ci è stato vicino e ha sostenuto concretamente le donazioni fatte a padre Carlo. Per questo è importante seguire e sostenere i nostri progetti: un aiuto concreto e diretto per queste realtà missionarie o del territorio».

Proprio perché la missione continua, ci saranno in futuro nuove avventure simili.

I bagai di binari
(ibagaidibinari@libero.it)




Buio e luce a duello (Gv 9)


Il nono capitolo del Vangelo di Giovanni narra la guarigione di un uomo nato cieco. Il cuore del capitolo, però, è dedicato alle conseguenze di quella guarigione, in buona parte uno scontro verbale tra coloro che sono definiti farisei o giudei e Gesù. Gli altri personaggi si muovono in quello spazio e sono chiamati a prendere posizione. C’è chi lo fa con trasparenza e lucidità (il cieco guarito) e chi preferisce restare nell’ombra, muoversi senza chiarezza, per tenersi al riparo, come fanno i genitori del malato risanato.

Colui che era cieco, in effetti, ci mostra un atteggiamento limpido, onesto. Quello che Gesù gli chiede di fare, dopo avergli posto del fango sugli occhi: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», lui lo compie (v. 7). Quando i giudei lo interrogano sulla sua condizione, risponde sempre direttamente e senza ambiguità (vv. 9.11.17.24). Ammette serenamente ciò che non sa (vv. 12.25.36), ma intanto non gli manca il coraggio di ragionare e di provare, inutilmente, a far ragionare i suoi interlocutori (vv. 25-34): «Se quell’uomo sia peccatore, non lo so. Ma so che mi ha guarito, e non è cosa che accada tutti i giorni. Ed è strano che un peccatore possa portare a termine un’opera divina straordinaria».

Potremmo dire, seguendo il modo di esprimersi dell’evangelista, che il cieco nato mostra di vederci molto bene (o di essere guarito perfettamente) e di lasciarsi illuminare dalla luce (v. 5), mentre coloro che dovrebbero aiutare gli altri a vedere sembrano accecati dalla gelosia e da un rispetto rigido della legge: si muovono nelle tenebre (vv. 39-41, sui quali torneremo).

Il modo di ragionare umano

Abbiamo già detto che nel Vangelo di Giovanni, e in particolare in questo episodio, gli avversari di Gesù vengono definiti «farisei», ma anche «giudei». Questa seconda espressione è spesso, nel testo, una specie di parola in codice. Che quella non possa essere una definizione razzista lo intuiamo facilmente: anche Gesù è un giudeo, come i suoi discepoli e quasi tutti i personaggi del Vangelo. Per l’evangelista, però, «i giudei» sono coloro che si contrappongono a Gesù rinfacciandogli di non essere rispettoso della legge ebraica.

Molto probabilmente quella formula serviva anche a suggerire un messaggio sottinteso ai lettori di Giovanni. Alcuni di questi, infatti, non avevano abbandonato la frequentazione delle sinagoghe finché non ne erano stati espulsi, provvedimento che a volte li aveva sorpresi e di cui si rammaricavano. Giovanni sembra quasi volerli consolare, insinuando che quei giudei che si presentano come interpreti e garanti della volontà divina non si muovono necessaria- mente nella luce. Ecco perché anche del cieco nato si dice che venga «gettato fuori», espulso (v. 34), come quei cristiani scomunicati dai «giudei».

Questi, quindi, si presentano come rappresentanti della volontà divina, esprimendo un’intenzione buona e un compito prezioso.

Ma in base a cosa interpretano il volere di Dio? In base a una lettura rigorosa e pedante della legge scritta, intesa come un giudizio tranciante sulle azioni e sulle persone. Questo approccio rigido e legalista permette loro di illudersi di distinguere in modo sicuro chi è nel giusto e chi nell’errore: «Noi sappiamo che quest’uomo è peccatore» (v. 24); «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?» (v. 34). È un’impostazione che costituisce sempre un rischio per qualunque persona religiosa, rischio nel quale anche le chiese cristiane nella loro storia a volte sono cadute, quello di porsi davanti alla vita degli esseri umani come giudici inflessibili, forti di una legge scritta che si pensa essere più significativa del modo con cui le persone provano a vivere e interpretare le proprie esperienze.

È lo stesso approccio che porta i discepoli di Gesù a chiedersi: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché fosse generato cieco?» (v. 2). La convinzione di fondo che ispira la domanda è che Dio interviene direttamente e immediatamente nella storia, punendo i malvagi. Questa era l’impostazione più tradizionale della religione ebraica, anche se era già stata contestata da tanti profeti: un’interpretazione consolante, perché rassicura la maggior parte delle persone di essere già a posto, già giuste.

E allora, se così fosse, di fronte a una persona che cieca non lo è diventata ma è nata, ci si interroga al limite se non sconti le colpe di altri, anche dei suoi stessi genitori. Sembrerebbe tutto logico, finché non si mettono in discussione le premesse del discorso.

Il modo di ragionare divino

Ma Gesù non si adegua a questo modo di ragionare. È vero che in questo capitolo non si insiste sul fatto che il suo modo di porsi, di dialogare e di agire rispecchi o attesti quello del Padre, ma è anche vero che il cieco guarito ci aiuta a recuperare come implicito ciò che non viene esplicitato: «Da che mondo è mondo, non si è mai sentito che qualcuno abbia aperto gli occhi di un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 32-33). È il cieco stesso a vedere nella propria guarigione un segno del fatto che quanto compiuto da Gesù è opera divina. E allora, qual è e come si esprime questa opera divina? Fin dall’inizio, Gesù rifiuta di ragionare in termini di peccato. Persino la malattia invalidante è l’occasione di mostrare Dio all’opera (v. 3). E il Dio che interviene nella storia è innanzi tutto colui che permette di vivere, e di vivere in pienezza. E se Gesù fa semplicemente le opere di colui che lo ha mandato (v. 4), ciò significa che è il Padre stesso a volere che gli uomini vivano bene. A dirla tutta, non sembrerebbe che sia semplicemente Gesù ad agire, benché poi nel nostro episodio sia solo lui a fare e discutere. L’evangelista fa infatti dire a Gesù che coloro che devono agire sono tanti, «noi». Come in un lapsus, inizia a suggerire che non è solo lui a dover compiere le opere del Padre, ma anche i discepoli e i futuri credenti, che sono coinvolti in questa comunione tra Padre e Figlio. Per ora sembra un particolare non significativo, un errore casuale, ma più avanti Gesù potrà spiegare meglio che è a quello che sono chiamati tutti i credenti in lui.

Che Gesù non si muova in una logica di peccato e punizione è mostrato dalla modalità del suo intervento, che appare totalmente gratuito, un vero e proprio dono.

Fidarsi

Il cieco non chiede neppure di essere guarito. È Gesù che prende l’iniziativa. Se c’è da parte sua una richiesta previa, è semplicemente quella di fidarsi. Ma non si tratta tanto di una condizione, quanto di un ingresso nella logica divina, che chiede, cerca, spera un incontro personale profondo, giocato sempre e solo sulla fiducia.  Allora Gesù spalma subito del fango sugli occhi dell’uomo, come anticipo della guarigione, ma poi gli chiede di andare a lavarsi. Peraltro, potremmo dire che è Gesù stesso, inviato da un Padre che cerca incontro e fiducia profondi, a fidarsi del cieco, perché non va a controllare che si lavi, né resta lì ad aspettarlo. Lo invia, e confida che tutto sarà fatto secondo l’intenzione del Padre.

Né pretende di essere ricompensato. Solo quando il cieco ora vedente sarà stato mortificato dai farisei ed espulso dalla sinagoga, Gesù, sentendo la notizia, lo cerca e gli propone di credere in ciò che il guarito non sa ancora di conoscere. Gli offre di entrare in una nuova dimensione di fiducia e di ascolto.

Gesù, autentico volto del Padre, rifiuta quindi di ragionare in termini di peccato, ma si muove in una dimensione di relazione personale e di fiducia, offrendola non come mezzo per compiacere se stesso, ma come risposta al desiderio e al bisogno umano.

Non il Dio severo che si offende se si viola una sua regola («Era sabato il giorno in cui Gesù aveva aperto gli occhi al cieco»: v. 14), ma il Padre amorevole che spera di essere amato, e che sa che quell’amore può fare il bene dei suoi figli.

Lo scontro tra luce e tenebra

Comprendiamo allora bene perché l’indagine dei farisei sull’uomo nato cieco sia condotta in quel modo così duro e fastidioso: non stanno cercando di capire il cuore di Dio, né di comprendere bene che cosa è accaduto, vogliono solo ricondurre tutto ai propri criteri prefissati, che attribuiscono a Dio. Tanto che, se del bene è stato fatto fuori dalle regole, è segno che non è bene, che va pensato come peccato.

E si interrogano i testimoni per scoprire tracce di questo peccato, intimidendo i genitori dell’uomo guarito e punendolo perché si limita a indicare ciò che era sotto gli occhi di tutti: «Dio non ascolta i peccatori. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (vv. 31.33).

Possiamo allora comprendere meglio la chiusura del capitolo. Gesù sostiene di essere venuto nel mondo per un giudizio, per distinguere la luce dalle tenebre. Chi con le proprie decisioni e azioni cerca di costruire l’umanità, accresce la possibilità per tutti di vivere pienamente, riconoscendo con coraggio i segni di vita e crescita e promessa che coglie intorno a sé, vive nella luce divina, vede e prospera. Gesù giunge nel mondo destinato ad aiutare a distinguere tra chi si muove in questa che è la linea di comportamento divina e chi si lega a leggi, dominio, distinzioni rigide. In questo senso «chi non vede», chi si sente peccatore, sbagliato, inadeguato perché non corrispondente a un modello rigido, tornerà a vedere. E chi crede di vedere e poter giudicare gli altri, diventerà cieco (v. 39).

È possibile che i farisei che ascoltano Gesù comprendano il senso del suo discorso, se reagiscono chiedendo: «Siamo ciechi anche noi?» (v. 40). E la risposta di Gesù è esattamente in quella linea: «Se foste ciechi», ossia se davvero non ci vedeste, senza vostra responsabilità, come un cieco che nasca tale, «non avreste colpa». «Siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (v. 41). Il Padre guarda il cuore, l’intimo, e riconosce i limiti non voluti, le fragilità, le difficoltà (anche il cieco nato ammette di non sapere tante cose), senza pensare che siano dei problemi. Esattamente come chi ama non incolpa l’amato di limiti che non riesce a superare pur provandoci, o che addirittura non riconosce. È la presunzione di essere coloro che sanno tutto, e possono vagliare chi è a posto e chi no, che ci fa essere ciechi.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 11 – continua)

Guarigione del cieco nato. Maria Mfariji Shrine – Marsabit, Kenya (© Gigi Anataloni)




Gli Eredi di Gengis Khan


Sommario

  1. Grattacieli, musei e gher
  2. L’Impero e la nuova Mongolia
  3. A misura di cavallo (e di moto)
  4. Monaci e sciamani, i sopravvissuti
  5. Libera come i suoi cavalli
  6. Ha firmato il dossier

 


Grattacieli, musei e gher

La piazza Sükhbaatar con il palazzo dello Stato mongolo (congresso, governo, presidenza), nel centro di Ulaanbaatar. Foto Paolo Moiola.

La capitale mongola

Con i suoi record di freddo e d’inquinamento, la capitale mongola non pare un luogo attrattivo. Eppure, la Mongolia è anche Ulaanbaatar. Qui vive la metà della popolazione. Qui ci sono i musei che raccontano la storia del Paese, quella gloriosa di Gengis Khan, ma anche quella dolorosa della dominazione russa e del comunismo.

Ulaanbaatar, agosto. Il nome non poteva essere diverso: «Aeroporto internazionale Chinggis Khaan» (Gengis Khan, in italiano). Ulaanbaatar, la capitale mongola (chiamata Urga fino al 1924), si raggiunge tramite un’autostrada a più corsie che pare esagerata considerato il traffico inesistente.

Tutto cambia nel breve volgere di una cinquantina di chilometri. Il numero di auto aumenta rapidamente, le spianate con cavalli in libertà e le colline lasciano il posto ai primi grattacieli e a decine di cantieri edili, testimonianza di una città in piena espansione. In effetti, la popolazione della capitale mongola – stimata oggi in 1,6 milioni di persone – è aumentata enormemente negli ultimi decenni, creando – lo vedremo – non pochi problemi.

I russi e l’alfabeto cirillico

Una delle prime cose che si notano sono le scritte in alfabeto cirillico. Così sono i cartelli stradali e le insegne dei negozi. Detto che per uno straniero è relativamente facile leggere le parole (diverso è comprenderne il significato), la domanda che sorge immediata è: perché, in Mongolia, si utilizza questo alfabeto?

La risposta si trova nella storia del Paese. Il cirillico fu introdotto nel 1946 dal governo mongolo filosovietico. Dall’epoca di Gengis Khan fino a quell’anno, i mongoli avevano utilizzato ininterrottamente, per oltre 800 anni, il «bichig», l’alfabeto tradizionale derivato dalla lingua uigura e scritto in linee verticali dall’alto al basso.

Un buon cambio? «No – ci dirà in seguito lo scrittore mongolo Ayurzana Gun-Aajav -. Fu una violenza dello stalinismo. Quei politici cambiarono l’alfabetizzazione introdotta da Gengis Khan e distrussero gli intellettuali nazionali. Poi, gli storici sovietici riscrissero la nostra storia in stile marxista». All’opposto di quanto sta accadendo nella regione cinese della Mongolia Interna (nel Nord e Nordest della Cina, dove Pechino sta sostituendo il mongolo con il mandarino), a partire da quest’anno il governo di Ulaanbaatar spingerà per la graduale reintroduzione del bichig, secondo un progetto condivisibile e ambizioso. La Mongolia ha, inoltre, annunciato che l’inglese sarà ufficialmente designato come prima lingua straniera nell’istruzione secondaria. Si ritiene che promuovere l’inglese sia più facilmente accettato da tutte le parti, in quanto è privo del pesante bagaglio storico legato all’insegnamento del russo o del cinese.

In inglese sono le insegne della fabbrica di cashmere (la pregiata fibra ottenuta dal pelo della Capra hircus), che si descrive come «the largest cashmere factory store in the world». Impossibile non notarla, anche per il via vai di turisti che la visitano.

La fabbrica è a pochi metri dal Palazzo d’inverno del Bogd Khan, un complesso di edifici dotato di fascino se non fosse soffocato dai moderni palazzi che lo circondano su ogni lato. Le strutture ospitavano la residenza imperiale dell’ottavo Jebtsundamba Khutughtu (titolo del capo spirituale del buddhismo tibetano, terzo della gerarchia dopo il Dalai Lama e il Panchen Lama), che in seguito fu proclamato Bogd Khan, sovrano della Mongolia (dal 1911 al 1924), l’ultimo della sua storia. «Bogd» e «Khan» sono termini onnipresenti: il secondo – capo, sovrano – a causa della storia, il primo – santo, sacro – perché oggi è usato per indicare distretti, montagne, vulcani.

Il monastero di Gandan

Nel Palazzo d’inverno si unirono potere spirituale (Bogd) e potere temporale (Khan). Tuttavia, la fede religiosa – all’inizio lo sciamanismo (sciamanesimo) e poi il buddhismo (tibetano) – ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella storia mongola.

Il monastero di Gandan, uno dei più importanti del Paese, è vicino al centro. Si tratta di una sorta di cittadina buddhista, un insieme di templi sopravvissuti alle distruzioni effettuate dal regime comunista filosovietico (1921-1989), in particolare durante l’epoca stalinista (1928-1953).

In questi giorni d’agosto, al Gandan viene celebrata la cosiddetta «iniziazione di Kalacakra», una cerimonia buddhista volta a promuovere la pace nel mondo e preparare gli individui alle pratiche di meditazione tantrica. L’evento – guidato da Jhado Rinpoche (nel buddhismo tibetano, Rinpoche è un titolo onorifico) – ha attirato monaci da vari luoghi e moltissimi fedeli. Seduti per terra sotto un grande tendone innalzato per l’occasione, i fedeli rivolgono sguardo e attenzione verso un palco sul quale si è sistemato il gruppo di monaci officianti.

La piazza della storia

Il Gondan è vicino al centro, ma evitare il traffico supercongestionato è impossibile. Gli ingorghi sono la normalità e le auto – quasi tutte Toyota Prius bianche importate di seconda mano dal Giappone – si muovono a passo d’uomo. Non esiste una metro (che è in progetto) e i pochi autobus pubblici rimangono imbottigliati al pari delle automobili. Probabilmente, il modo più rapido sarebbe quello di muoversi a piedi.

Finalmente arriviamo nel cuore della capitale, un centro che ruota attorno alla vasta piazza Sükhbaatar, dal nome del protagonista della rivoluzione comunista del 1921 in onore del quale l’antica capitale Urga venne ribattezzata Ulaanbaatar («eroe rosso»). Qui si può camminare con tranquillità e rivedere – in meglio – le proprie impressioni sulla città mongola, soprattutto oggi che il cielo è terso e l’aria fresca. Sia chiaro, la piazza non ha nulla che lasci a bocca aperta, essendo un (brutto) concentrato di stili disomogenei. Con l’aggravante di numerose gru che stanno innalzando nuovi condomini in spazi troppo ristretti.

Premesso questo, sul lato Nord della piazza si allunga, sorretto da massicce colonne, il palazzo dello Stato mongolo che ospita il parlamento (State great khural), la presidenza e il governo. Al culmine della sua scalinata centrale, un Gengis Khan seduto sul trono domina la piazza.

In mezzo alla stessa, proprio sotto la statua equestre dell’«eroe rosso» Sükhbaatar, notiamo un uomo seduto su una sedia pieghevole. «Diciamo no alla brutalità della polizia», dice in più lingue il cartello accanto a lui. La guida non è con noi e, dunque, risulta impossibile scambiare due parole con il solitario manifestante. Tuttavia, il solo fatto che sia possibile una protesta di questo tipo indica quanto la Mongolia odierna – quella cioè nata dalla pacifica rivoluzione del 1990 – sia lontana dai regimi dittatoriali che la circondano.

Sulle strade laterali della piazza, ci sono altri edifici di rilievo come il Teatro nazionale, il Palazzo della cultura, la Borsa valori. A poche centinaia di metri dalla statua equestre splendono anche i vetri della Blue Sky Tower, un grattacielo a forma di vela che ospita un hotel di lusso. Non può però essere questo l’attrattiva imperdibile del centro.

Lo sono, invece, su una strada a lato del Parlamento, due tra i più importanti musei della capitale: il Museo nazionale della storia mongola e il modernissimo Museo Chinggis Khaan. Nonostante sia vissuto in un’epoca lontana (1162-1227), rimane lui, Gengis Khan nato Temüĵin, il fondatore del Paese, l’indiscutibile protagonista, orgoglio di ogni singolo mongolo, cittadino o nomade che sia. A maggior ragione, dopo aver sperimentato le lunghe dominazioni – dirette e indirette – della Cina (dal 1691 al 1911 e dal 1916 al 1921) e della Russia (dal 1921 al 1989).

Una mappa del Paese, stretto tra Russia e Cina, da cui si differenzia anche per aver adottato, nel 1990, un sistema politico democratico.

Nelle gher della capitale

Stando all’Organizzazione mondiale della sanità, fino a qualche anno fa Ulaanbaatar era una delle capitali più inquinate al mondo. Oggi è stata superata da molte altre città asiatiche e africane. Certamente la sua aria non è pulita né salutare. Le ciminiere s’innalzano in piena città e il traffico automobilistico – lo abbiamo verificato di persona – è assurdo.

La capitale è anche il luogo con la più alta concentrazione di poveri. Arrivati dalle regioni interne del Paese, hanno occupato le zone periferiche costruendo le gher (yurte, in russo), le tradizionali tende dei nomadi mongoli.

Nei ger districts i servizi pubblici (acqua corrente, fognature, strade) sono inesistenti o molto limitati. Le stime parlano di almeno 800mila persone ovvero circa la metà della popolazione della città. Inquinamento e povertà sono fatti correlati.

A Ulaanbaatar, il carbone – quello grezzo (il più economico e il più inquinante) è stato giustamente vietato dalle autorità a maggio 2019 – è comunemente utilizzato per il riscaldamento domestico e per cucinare. Poiché la città è la capitale più fredda al mondo (nonostante il cambiamento climatico, per otto mesi all’anno la temperatura media è inferiore o prossima allo zero), questo combustibile è largamente utilizzato soprattutto dai poveri che abitano le gher. Bruciarlo significa, però, rilasciare nell’aria grandi quantità di inquinanti con pesanti conseguenze per la salute e la vita quotidiana.

Un problema di non facile soluzione considerato che la Mongolia è un grande produttore di carbone. Il giacimento di Tavan Tolgoi, nel Sud del Paese, è uno dei più vasti al mondo.

La storia di un paese in una città

Capita sovente che una capitale non offra un’immagine corretta del proprio paese. Ulaanbaatar non fa eccezione e, tuttavia, essa offre al visitatore la possibilità di avere sotto gli occhi tutta la storia mongola: quella gloriosa del condottiero e imperatore Gengis Khan nei musei, quella del dominio russo e della Mongolia comunista nei tristi casermoni di stampo sovietico, quella del libero mercato e della democrazia nei modernissimi grattacieli e, infine, quella della tradizione – millenaria; eppure, sempre viva – nelle gher. È proprio in queste ultime che si può incontrare il volto più vero e affascinante del popolo mongolo.

Paolo Moiola

La pagoda che introduce al Palazzo d’inverno del Bogd Khaan, complesso interessante, ma soffocato dai palazzi circostanti e dal traffico automobilistico. Foto Paolo Moiola.


L’Impero e la nuova Mongolia

  • 1206 – Temüĵin-Gengis Khan (1162-1227) fonda l’Impero mongolo. Con i suoi discendenti esso diverrà presto uno dei più estesi della storia.
  • 1227-1241 – Dopo la morte di Gengis Khan, gli succedono per due soli anni il figlio più giovane Tului e poi il terzo, Ogodei.
  • 1245-1247 – Il frate Giovanni da Pian del Carpine pubblica la sua Historia Mongalorum, il primo trattato sul popolo mongolo.
  • 1271 – Kublai Khan (1215-1294), il nipote di Gengis Khan, trasferisce la capitale dell’Impero a Pechino e dà inizio alla dinastia Yuan.
  • 1271-1295 – Il mercante ed esploratore veneziano Marco Polo (1254-1324) viaggia verso la Cina. Rimarrà nell’impero di Kublai Khan per diciassette anni.
  • 1578 – Altan Khan (1507-1578) dichiara il buddhismo lamaista religione di Stato.
  • 1691-1910 – La Mongolia è sotto la dominazione cinese dei Manchu. Dopo una breve pausa, i cinesi tornano nel 1916.
  • 1921 (marzo) – Con l’aiuto dei sovietici, i mongoli sconfiggono i cinesi ed entrano nella capitale Urga (tre anni dopo ribattezzata Ulaanbaatar).
  • 1924 (agosto) – Nel suo terzo congresso il Partito rivoluzionario del popolo mongolo stabilisce che l’obiettivo è l’instaurazione del comunismo.
  • 1932 (aprile-ottobre) – Un vasto tentativo di rivolta viene represso duramente dalle forze armate.
  • 1937-1952  – Il maresciallo Choibalsan, l’uomo di Stalin in Mongolia,  governa il Paese con il terrore e le purghe.
  • 1941  – Il partito decide il passaggio all’alfabeto cirillico, ufficializzato dal governo nel 1946.
  • 1948-1955  – Nell’ideologia del governo filosovietico Gengis Khan passa da eroe nazionale a nemico.
  • 1989-1991 – Uno dopo l’altro crollano i governi dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Questa si scioglie nel dicembre 1991.
  • 1990 (marzo) – Anche in Mongolia nascono nuovi partiti, tra cui il Partito democratico mongolo.
  • 1991 (luglio) – Si svolgono le prime elezioni libere.
  • 1992 (13 gennaio) – Viene approvata la nuova Costituzione mongola.
  • 2023 (31 agosto-4 settembre) – Papa Francesco visita la Mongolia, accompagnato dal cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar (e missionario della Consolata).
  • 2024 (28 giugno) – Il Partito del popolo mongolo (Mpp) vince le elezioni parlamentari.
  • 2024 (2-3 settembre) – A Ulaanbaatar arriva Vladimir Putin.

Pa.Mo.


 A misura di cavallo (e di moto)

Un nomade a cavallo governa il proprio gregge di capre e pecore. Foto Paolo Moiola.

La popolazione nomade

Steppe infinite e tanti animali. È tra questi due elementi che si svolge l’esistenza dei pastori nomadi. Oggi, soprattutto per i più giovani, il dilemma è: rimanere o cercare il proprio futuro in città?

Tra Hovd, Olgiy e la catena dell’Altai. È quando lo Uaz – un diffusissimo fuoristrada russo tanto spartano quanto efficace – abbandona la sottile striscia d’asfalto, che si entra nella vera Mongolia, quella di Gengis Khan condottiero e conquistatore. Non tanto per la catena montuosa dell’Altai che caratterizza questa regione, quanto per la vastità dell’ambiente che ti circonda.

Tutto è immenso e spettacolare. Gli altopiani sono sterminati e bordati da cime innevate che possono superare i quattromila metri. Non ci sono strade né indicazioni né alberi. Ogni tanto s’incontrano greggi di pecore e capre. O s’intravvedono, sperduti in uno spazio che pare senza fine, dei puntini bianchi, le gher, le tipiche tende dei nomadi, le loro case mobili.

Siamo partiti da Hovd (Khovd) – circa 1.500 chilometri a Ovest di Ulaanbaatar -, cittadina in cui i Kazaki sono ancora una minoranza. Qui, nella provincia (aimag) di Bayan-Olgiy, la più montagnosa del Paese, sono invece la grande maggioranza (oltre il 90 per cento), quasi tutti di religione islamica.

Arriviamo nella valle di Namatjin, alle pendici del Tsambagarav innevato. Stanotte saremo ospitati nelle tende di un gruppo di nomadi kazaki. Preparata e simpatica, la nostra guida Ankhbayar (Ankhaa) Chimeddorj fa da interprete, anche se il kazako non è la sua lingua preferita.

Ci sono uomini, donne e bambini. I loro volti rubicondi paiono indicare un buono stato di salute. Ci viene spiegato che questo accampamento è abitato da tre famiglie tra loro imparentate. Vivono in tre gher, circondate da capre, pecore e una decina di mucche, con gli animali che si muovono in spazi amplissimi. Il luogo, inoltre, è favorito dalla presenza di un piccolo ruscello d’acqua fresca.

Essere nomadi significa che i pastori mongoli si spostano almeno un paio di volte durante l’anno a seconda delle condizioni del pascolo, dell’acqua, del tempo, e anche della scuola dei bambini. Di conseguenza, la gher è parte fondamentale di questa esistenza perché è una casa mobile, facilmente smontabile e trasportabile.

A parte lo straordinario scenario naturale, agli occhi di uno straniero sono proprio questi manufatti umani ad attrarre l’attenzione. Di forma circolare, costruite attorno a uno scheletro di legno, rivestite con spesse coperte di feltro tenute insieme da grosse corde, le gher sono strutture millenarie (ne scrisse già lo storico greco Erodoto) eppure insostituibili. Oltre a una piccola porta d’ingresso in legno intagliato e variamente dipinto, le tende mongole hanno un’apertura sul soffitto da cui esce la canna fumaria della stufa che si trova al centro e che, di norma, funziona con lo sterco essiccato degli animali (disponibile in quantità illimitata). La stufa serve sia per cucinare che per scaldare l’ambiente, considerato che l’escursione termica tra giorno e notte è notevole, anche nella stagione estiva.

Per tutto questo, entrare per la prima volta in una «nostra» gher è una sensazione unica. In quella che ci capita c’è una pentola con latte e odore di caglio, ma non manca lo spazio per allungare sul pavimento i sacchi a pelo.

Nell’accampamento dei nomadi kazaki non c’è acqua corrente, non c’è elettricità e non c’è un bagno. Per le necessità fisiologiche esiste una latrina un po’ defilata (ma neanche tanto) costituita da un muretto di sassi alto mezzo metro e una fossa sormontata da due assi.

Siamo in un ambiente islamico, ma le donne kazake non sono velate. Ci sono molti bambini e i più grandi tra essi che si occupano anche degli animali. Per esempio, le ragazze mungono le capre raggruppate in un recinto a poca distanza dalle gher. Per queste persone gli animali sono tutto. Forniscono le coperture e il combustibile per le gher. Forniscono i vestiti. Forniscono il cibo: la carne (immancabile) e i prodotti caseari (latte e formaggi) costituiscono, infatti, piatto essenziale dell’alimentazione dei nomadi.

Un accampamento di pastori nomadi con tre gher; in primo piano, un baldacchino su cui viene steso il formaggio. Foto Paolo Moiola.

Al cospetto del ghiacciaio

Il paesaggio è affascinante, ma il tragitto lungo e faticoso. È già buio quando raggiungiamo la meta di oggi, una sorta di campo base per il Tavan Bogd, il massiccio montuoso dei «cinque Santi». La maggiore delle cinque vette è lo Huiten con i suoi 4.374 metri d’altezza. I viaggiatori che passano da qui sono ancora pochi (per fortuna, verrebbe da pensare), ma comunque in lento e costante aumento. Per questo le gher – sempre appartenenti a gente kazaka – sono in numero maggiore del consueto.

Usciti dai sacchi a pelo e dalle gher, troviamo la luce del mattino, un cielo terso e un paesaggio magnifico. Per raggiungere il ghiacciaio un trekking sarebbe la soluzione migliore, ma non c’è tempo. Ci affidiamo, dunque, agli Uaz, probabilmente l’unico beneficio portato dalla Russia alla Mongolia. L’abilità degli autisti fa sì che i mezzi s’arrampichino come stambecchi lungo la montagna. Si fermano in prossimità di un altare sciamanico (ovoo), innalzato al cospetto del ghiacciaio.

Pochi metri più avanti, un chiassoso gruppo di soldatesse e soldati mongoli si fa notare mentre si danno il cambio per farsi una foto con un’aquila addestrata. Sono talmente entusiasti che, terminato lo schooting fotografico, si mettono a intonare canti e a ballare avendo il maestoso ghiacciaio a fare da sfondo.

Lo scheletro in legno di una gher; questa ha una base fissa, una tipologia utilizzata soltanto nei campi gher attrezzati per i turisti (che si stanno diffondendo). Foto Paolo Moiola.

Le aquile dei «burkitshi»

Siamo in ritardo o forse ci siamo persi. Ankhaa e gli autisti deviano gli Uaz verso un paio di gher su una collina che domina un’amplissima valle di greggi in libertà. Confabulano con i nomadi e trovano un accordo: questa notte ci si fermerà qui. Oltre alle tende, ci sono due strutture in legno, un recinto per gli animali, un vecchio camion con un carico di erba, un paio di moto, un baldacchino su cui sono state distese delle forme di formaggio.

Le gher che ci vengono offerte sono le abitazioni delle famiglie e, quindi, arredate con mobili e letti. Per questo le padrone di casa vengono a fare spazio, portando via vestiti e oggetti vari. Insomma, si potrebbe dire che si tratta di un bed and breakfast (b&b) alla mongola.

Prima di cena, Ankhaa e Ahkjol, la guida locale, si offrono di accompagnarci da alcuni kazaki, accampati non lontani dal luogo dove ci troviamo, che praticano la caccia con l’aquila (sono chiamati «burkitshi»).

La provincia di Bayan-Olgiy è famosa anche per le sue aquile. Lungo il tragitto, le abbiamo ammirate volare libere nel cielo. La caccia con le aquile – prese dal nido da piccole e addestrate nel corso di anni – è un’antica tradizione dei nomadi kazaki. Il cacciatore cavalca il suo cavallo nella steppa. Quando vede una possibile preda (volpi, lepri, lupi e altri piccoli mammiferi), libera l’aquila, la quale insegue e cattura l’animale. Il rapace torna quindi dal cacciatore che, a mo’ di ricompensa, gli offre un pezzo di carne.

Appena arrivati all’accampamento, Ankhaa e Ahkjol parlano con il padrone di casa. Dopo poco, questi si dirige verso una sorta di trespolo su cui è legata la sua aquila. Quindi, con fatica, visto il dimenarsi furioso dell’animale, la sistema su un braccio, precedentemente avvolto in uno spesso guanto protettivo. Non è piacevole vedere un uccello così maestoso e selvaggio legato con una corda. Tuttavia, si tratta di uno di quei casi in cui non bisogna giudicare ma semplicemente calarsi nel contesto. Non abbiamo l’opportunità di vedere animale e uomo all’opera. Tuttavia, ammirare l’apertura alare del rapace quando il pastore alza il braccio verso l’alto è impressionante.

Un cacciatore kazako mostra con orgoglio la propria aquila; prelevato dal nido da piccolo, il rapace viene addestrato e quindi utilizzato nella caccia. Foto Paolo Moiola.

Mongoli nomadi e mongoli stanziali

Al di là dell’attrazione che può suscitare per la sua vicinanza fisica con la natura e – se vogliamo – quella mentale con l’infinito, nella realtà, l’esistenza dei nomadi è dura a causa dell’isolamento, del clima e del lavoro faticoso. Volendo dare credito alle statistiche, oggi non più del 30 per cento della popolazione mongola è nomade.

Secondo Ankhaa, i mongoli che lasciano quella vita per la città sono soprattutto i giovani perché vogliono studiare e anche perché sono interessati «ad avere case in cui si possa fare una doccia con acqua calda».

Eppure, a conti fatti, per un mongolo quella nomade rimane la scelta migliore. «Oggi – ci spiegherà Batbayar Baabar, ex politico e ministro, autore di vari libri sulla storia del Paese -, quello dei pastori è il gruppo più ricco della società mongola. Vivono nelle gher per seguire i loro animali, ma hanno auto, camion, motociclette, case in città dove vivono i loro figli. La sfida più grande che devono affrontare è la manodopera. All’opposto, i più poveri sono i mongoli stanziali e, in particolare, quelli che vivono nelle gher attorno a Ulaanbaatar».

Paolo Moiola

Cammelli nel deserto del Gobi. Foto Paolo Moiola.


Monaci e sciamani, i sopravvissuti

Religione e spiritualità in Mongolia

I russi fecero piazza pulita senza pietà: vennero uccisi monaci e sciamani, e rasi al suolo centinaia di templi. Dal 1990, con il passaggio alla democrazia, buddhismo e sciamanesimo sono rinati.

Valle del fiume Orkhon (Mongolia centrale). C’è un gruppo di yak che pascola tranquillo. Alcuni di essi hanno una pelliccia talmente folta da toccare il terreno. Li incontriamo nel luogo da cui parte il sentiero che conduce a Tuvhken, il monastero sorto nella foresta dei monti Khangai, a un’altitudine di circa 2.400 metri. Per raggiungere Tuvhken, si cammina per tre chilometri tra larici, cedri e cavalli in libertà. Una piccola radura e alcune «ruote della preghiera» (i cilindri girevoli su cui sono impressi alcuni mantra, le parole sacre) indicano che siamo arrivati: il monastero è qualche decina di metri più in alto, incastonato proprio sotto uno sperone roccioso. Le piccole strutture che lo compongono sono trasandate o chiuse. Nell’unico tempio aperto, nella penombra notiamo un solo monaco seduto e assorto in meditazione.

Ci arrampichiamo sullo sperone per raggiungere la sua sommità che è piatta e tutta delimitata da coloratissime lung-ta, le «bandierine della preghiera» (semplici ritagli di stoffa legati a una corda con stampate immagini o mantra). Da qui si può ammirare la foresta sottostante e la vista è spettacolare.

A parte la bellezza del luogo, Tuvhken è importante perché fu fondato nel 1653 da Zanabazar (1635-1723), artista riconosciuto, ma soprattutto prima guida (chiamata Jebtsundamba Khutuktu) del buddhismo lamaista mongolo. Fino ad oggi se ne contano dieci. Infatti, dopo la scomparsa nel 2012 del nono leader, l’8 marzo 2023, dalla sua residenza a Dharamsala, in India, il Dalai Lama ha annunciato il decimo Jebtsundamba Khutuktu, individuato in un bambino mongolo nato negli Stati Uniti.

Monaco buddhista in raccoglimento all’interno di un tempio. Foto Paolo Moiola.

La rinascita dei monasteri

Dopo la visita a Tuvhken, rimaniamo nella valle dell’Orkhon (il fiume più lungo del Paese), per dirigerci verso Harhorin (Kharkhorin, la traslitterazione dei termini mongoli non è mai univoca). Qui sorgeva Karkhorum (Karakorum) che, per qualche decennio (1235-1260), fu la capitale dell’Impero. A suo ricordo è stato eretto un piccolo, prezioso museo. A poche centinaia di metri da questo si trova Erdene Zuu, il più grande monastero buddhista del Paese, fondato nel 1586 e anch’esso con una storia di distruzioni, ricostruzioni e riaperture.

Il monastero pare una cittadina fortificata essendo circondato da mura sulle quali sono stati eretti 108 (numero sacro del buddhismo) stupa (strutture funerarie con cupola emisferica). Gli spazi sono ampli, ma – è la prima volta che ci capita – c’è molta gente e non è facile distinguere tra fedeli e turisti, con i secondi spesso troppo invadenti. Entriamo nelle tre pagode dalle tegole verdi adibite a museo, dove il buddhismo ti sommerge con i suoi colori forti, le sue statue, le sue maschere. Il tempio aperto al culto (Lavrin) si trova più avanti, in una struttura bianca in stile tibetano. Un piccolo gruppo di monaci è seduto all’esterno a conversare.

Tra Terra e Cielo

In Mongolia, non ci sono, però, soltanto le vestigia del buddhismo. Nelle praterie del Paese, più spesso delle greggi e molto più spesso delle persone, s’incontrano gli «ovoo». Il termine indica dei luoghi di culto sciamanico, realizzati per ringraziare gli spiriti della natura e per la buona sorte dei viaggiatori. Si tratta di cumuli di pietre accattastate a mo’ di piramide in mezzo alle quali s’intravvedono i doni lasciati dai viandanti (caramelle, latte, vodka, qualche banconota in tögrög, la moneta mongola). Gli ovoo sono spesso resi più appariscenti dalle «khadag», le sciarpe rituali di seta azzurra che ricordano Tengri, il dio del cielo blu. Il fatto che essi vengano «alimentati» con le offerte, fa pensare che lo sciamanesimo – nella versione del tengrismo e magari in sincretismo con il buddhismo – sia ben più diffuso di quanto non raccontino le statistiche.

Lo sciamanesimo – termine nato in terra asiatica ma presto diffusosi mondialmente – è una credenza religiosa nata tra chi vive a diretto contatto con la natura e i suoi elementi: cacciatori, raccoglitori, pastori e agricoltori.

Se tutti gli esseri viventi (persone, animali, piante) hanno un’anima, allora occorre qualcuno che sia in grado di connettersi con essa. Questo qualcuno è lo sciamano, un intermediario tra il mondo degli uomini e degli animali e quello degli spiriti. Come qualcuno ha poeticamente sintetizzato, gli sciamani sono dei «nomadi tra Terra e Cielo».

Una bimba getta un’offerta sull’ovoo (con bandierine buddhiste), innalzato al cospetto del massiccio del Tavan Bogd, negli Altai. Foto Paolo Moiola.

La Pax mongolica e le fedi religiose

Nella famosa Storia segreta dei mongoli (scritta da un anonimo attorno al 1240), Temüĵin-Gengis Khan invoca spesso il Cielo e la Terra (in quest’ordine). Ai suoi tempi i nomadi seguivano lo sciamanesimo e il tengrismo, ma la successiva penetrazione del buddhismo (soprattutto nell’epoca di Kublai Khan, il nipote di Gengis Khan) invece di produrre contrasti diede origine a una sorta di sincretismo religioso.

In generale, gli storici sono concordi nel ritenere che, nell’Impero mongolo, quasi come corollario alla cosiddetta «Pax mongolica» (termine latino per indicare una relativa stabilità e sicurezza che favorivano i commerci), ci fu una grande tolleranza religiosa. Come poterono constatare anche alcuni esploratori e missionari cattolici: i francescani Giovanni da Pian del Carpine (1182-1252), Guglielmo di Rubruck (1220-1293) e Giovanni da Montecorvino (1247-1328).

Interessante notare che, sotto l’Impero mongolo, i religiosi di qualsiasi fede erano esentati dal pagamento delle tasse.

Le purghe dell’epoca comunista

Questa condizione di rispetto e – addirittura – di privilegio, venne spazzata via nelle epoche successive e, in particolare, durante quella comunista.

Si calcola che, nei settant’anni di regime filosovietico, furono spogliati e rasi al suolo oltre 600 monasteri ed eliminati almeno 20mila monaci, mentre altre migliaia di essi furono imprigionanti, costretti a lasciare o a fuggire. Identica sorte toccò agli sciamani (in generale, più difficili da riconoscere e, quindi, da perseguire).

Con la fine del regime comunista (nel 1989) si assistette a una rinascita sia del buddhismo che dello sciamanesimo. Si ritiene che oggi, nel Paese, ci siano cinquemila monaci e migliaia di sciamani (c’è chi dice siano addirittura ventimila).

Monaci buddhisti nel monastero di Gandan, nel centro di Ulaanbaatar. Foto Paolo Moiola.

Nella nuova Mongolia

Ovoo e monasteri, sciamanesimo e buddhismo, sciamani e monaci. Dare un «peso» alla religione nella nuova Mongolia democratica è complicato, forse impossibile. Il primo passo è stato, comunque, la Costituzione del 13 gennaio 1992 nella quale viene riconosciuta (articoli 9 e 16) la libertà religiosa.

Secondo le statistiche ufficiali, oggi oltre il quaranta percento della popolazione mongola non è credente. «Impossibile – ci dice Ayurzana Gun-Aajav, poeta e romanziere, conosciuto soprattutto per La leggenda dello sciamano (uscito in Mongolia nel 2010 e nel 2020 in Italia) -. Al contrario, io immagino che la maggior parte dei mongoli sia religiosa. Naturalmente, abbiamo ancora profonde impronte di comunismo in molte sfere della nostra società. Ma i mongoli avevano conservato molti rituali religiosi anche nell’era comunista. Ad esempio, non seppellivano mai i morti senza una cerimonia buddhista».

«Quando ero giovane – prosegue Ayurzana -, ero più o meno ateo. Crescendo, sono diventato religioso, il che è stato un processo sorprendente per me. Ecco perché non parlo ai giovani di buddhismo o sciamanesimo: perché so che loro non hanno bisogno di alcuna religione. Sono troppo giovani per comprendere le basi del mondo mentale. Quando saranno pronti, sarà la vita stessa a mostrare tutto. Buddha disse: “Verrà il tempo e la condizione sarà”. I buddhisti non hanno mai fretta, aspettano sempre. E lo sciamanesimo mongolo è molto simile al buddhismo. Alcuni sciamani eseguono rituali buddhisti, alcuni lama raccomandano alcuni metodi sciamanici ai loro credenti. Il buddhismo tibetano è molto influenzato dalla fede originale di Tengri, senza la quale sarebbe stato impossibile importare un intero sistema religioso nel mondo mentale dei nomadi».

«Ogni religione – spiega ancora lo scrittore – ha la sua teoria, ha persino delle leggi severe. Non c’è niente del genere nello sciamanesimo. Esso è nato semplicemente dalla visione di persone antiche che hanno imparato a conoscere il mondo non attraverso la conoscenza, ma attraverso sentimenti primitivi. Per loro, i sogni o l’intuizione sono più importanti della scienza, l’inconscio più importante della coscienza, il mondo più surreale di quanto si pensi. Lo sciamanesimo è più simile alla poesia che alla religione. E più simile a un percorso creativo che a un modello di pensiero».

Paolo Moiola

Matrimonio


Libera come i suoi cavalli

La Mongolia tra Russia e Cina

Senza sbocchi al mare, schiacciata tra due paesi retti da governi dittatoriali, la giovane democrazia mongola prova a seguire la propria strada. Compito non facile, considerata la sua dipendenza economica da Mosca e Pechino.

Dal Gobi a Ulaanbaatar. Nel Gobi – considerato il sesto deserto al mondo per estensione – la temperatura media annuale è di 8,5 gradi centigradi e le precipitazioni non superano i 50 millimetri all’anno. Tuttavia, il termine deserto può risultare fuorviante. Quando si passa dalle steppe al Gobi, una delle prime impressioni riguarda gli animali: è vero, ci sono più cammelli, ma cavalli e capre non mancano neppure qui. La seconda riguarda, invece, la morfologia: vi si possono incontrare colline rocciose e chilometri di dune di sabbia color ocra, ma anche oasi verdi e pascoli. In inverno, può addirittura comparire la neve.

Anche per questa sua varietà paesaggistica il Gobi è una regione frequentata dal turismo internazionale, come testimoniano i folti gruppi di viaggiatori sudcoreani incontrati. Né si può dimenticare che questo è il paradiso della paleontologia visto che qui sono stati trovati e si trovano fossili di dinosauri risalenti a milioni di anni fa. Anche noi possiamo averne un assaggio a Dalanzadgad, capoluogo dell’Omnogovi, nel locale e ricco museo di natura e storia.

Queste attrazioni non dovrebbero però far perdere di vista le problematiche. Il deserto del Gobi – come tutta la Mongolia – sta, infatti, subendo le conseguenze dei cambiamenti climatici. In particolare, l’aumento delle temperature e dei periodi di siccità stanno favorendo l’allargamento della desertificazione e con esso la perdita di biodiversità dell’ecosistema.

Cavalli in libertà nei vastissimi spazi della steppa mongola. Foto Paolo Moiola.

Quella strada ferrata tra Russia e Cina

Nella lunga traversata del Gobi, ci dirigiamo a Sud Est, verso la provincia di Dornogovi, poco toccata dal turismo e conosciuta soprattutto per le tempeste di sabbia e la ferrovia. È qui, nella cittadina di Saynshand, che lasceremo gli Uaz.

Il nostro treno è già in stazione. La linea è quella della Trans mongolian railway, che taglia in due la Mongolia centrale per 2.215 chilometri, dal confine russo a Nord fino a quello cinese a Sud. La possente locomotiva diesel è sovietica, come dimostra lo stemma di falce e martello incastonato accanto al finestrino laterale. Ci porterà fino a Ulaanbaatar, circa 420 chilometri verso Nord. Tuttavia, nonostante la relativa vicinanza, il viaggio durerà tutta la notte.

I vagoni sono vecchi ma non scomodi. E il servizio è adeguato. Nonostante la notte stellata, nelle prime ore dal finestrino si può scorgere poco, anche durante le fermate in stazioni sconosciute e poco illuminate. Poi, alle prime luci dell’alba, il deserto del Gobi è già alle spalle. Davanti a noi, rilievi verdi e le prime propaggini della capitale, la cui periferia è estesa e anonima come quella di tante altre città.

Poco prima delle sette del mattino, il treno entra nella stazione di Ulaanbaatar. Fuori è subito traffico e palazzoni uno addosso all’altro, un mondo opposto rispetto alla Mongolia degli Altai o del Gobi dove gli spazi sembravano senza confini.

All’interno di questa gher, un divano, un orologio e tappeti alle pareti. Foto Paolo Moiola.

Ai grandi magazzini di Stato

Siamo in centro e non si trova un parcheggio libero. Soprattutto qui, nei pressi dei grandi magazzini di Stato. «State department store», la scritta in inglese si allunga sul primo piano dell’edificio. Sul tetto svetta, invece, l’anno della fondazione: il 1921, oltre un secolo fa.

Scale mobili, luci a profusione, marchi internazionali: sembra uno shopping center di una qualsiasi grande città, un esempio di non-luogo come i duty free degli aeroporti internazionali. È il sesto piano che ospita qualcosa di più locale, come abbigliamento tradizionale e souvenir vari. Sugli ordinati scaffali della libreria troviamo anche i libri dei nostri interlocutori, Ayurzana Gun-Aajav e Batbayar Baabar: il romanzo (La leggenda dello sciamano) del primo e i libri di storia (Almanac. History of Mongolia) del secondo.

Usciamo dalla mecca dello shopping mongolo per reimmergerci nella vita reale.

Formaggio esposto al sole su un graticcio fuori dalla gher. Foto Paolo Moiola.

La democrazia e i suoi sabotatori

In prossimità di un incrocio, a poca distanza dalla piazza Sükhbaatar, resiste un modesto edificio di un solo piano. È dipinto di blu perché blu è il colore del Partito democratico della Mongolia (di centrodestra), la seconda forza politica del Paese che qui ha la propria sede.

Nelle elezioni del 28 giugno 2024 è arrivata seconda dietro il Partito del popolo mongolo, la formazione di centrosinistra (nata dallo scioglimento del Partito comunista) che oggi è alla guida del governo nazionale.

Senza sbocchi al mare, fisicamente schiacciata dalla Russia a Nord e la Cina a Sud, economicamente da esse dipendente, dal 1990 la Mongolia ha imboccato e difeso la strada della democrazia. A Ulaanbaatar, ci sono state proteste di piazza a luglio 2008, dicembre 2018 e dicembre 2022. Sempre contro la corruzione e per questioni economiche. Quando si è liberi di protestare, significa che la democrazia funziona.

Da ex ministro divenuto scrittore e storico, pur avendo studiato a Mosca, Batbayar Baabar non ha dubbi: «Dall’Artico all’Oceano Indiano, dal Pacifico al Mar Nero, la Mongolia è l’unico paese con una società aperta e un sistema libero e democratico». L’orgogliosa certezza del nostro interlocutore è ammirevole. Tuttavia, nemici e sabotatori della democrazia mongola sono dietro l’angolo.

La realtà lo mette subito in chiaro. «Molte strade sono bloccate perché sta per arrivare Putin», ci spiega Ankhaa, la guida, per giustificare un traffico peggiore del solito.

È vero: Vladimir Putin, lo zar russo inseguito da un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra, sta per arrivare (2-3 settembre 2024) a Ulaanbaatar per incontrare le principali autorità mongole. E queste non lo faranno arrestare, anche perché Mosca fornisce al Paese la maggior parte del suo carburante e una notevole quantità di elettricità.

La limitata libertà d’azione del Paese si era vista anche nel novembre del 2016 quando il Dalai Lama venne a visitare il Gandan, il principale monastero della capitale mongola.

All’epoca, Pechino – che considera il leader tibetano un terrorista che attenta all’unità della Cina – si arrabbiò molto con il governo di Ulaanbaatar. Tanto che quest’ultimo si vide costretto a promettere: mai più il Dalai Lama in Mongolia.

Insomma, per gli orgogliosi eredi di Gengis Khan non sarà facile difendersi dalle ingerenze di vicini di casa per i quali la democrazia è soltanto una pericolosa invenzione dell’Occidente.

Ankhaa è, però, totalmente e orgogliosamente ottimista: «Nonostante la pandemia, le guerre, gli antagonismi geopolitici, la Mongolia continuerà a portare avanti la sua politica estera pacifica e aperta, indipendente ma anche pragmatica. Da oltre trent’anni lo stiamo dimostrando».

Paolo Moiola

Due donne kazake all’interno di una gher; al centro, la stufa per cucinare e riscaldare, quasi sempre alimentata con sterco essiccato. Foto Paolo Moiola.


Ha firmato il dossier:

PAOLO MOIOLA. Giornalista, redazione Missioni Consolata. Ha viaggiato in Mongolia nell’agosto 2024.

Hanno collaborato: Ayurzana Gun-Aajav, Ulaanbaatar, scrittore (poeta e romanziere); Batbayar Baabar, Ulaanbaatar, scrittore e storico, ex uomo politico e ministro; Ankhbayar (Ankhaa)
Chimeddorj, Ulaanbaatar, guida turistica (Genghis Khan expedition tour Llc).

Una ragazza raccoglie il latte delle capre, uno degli animali più allevati tra i nomadi mongoli. Foto Paolo Moiola.

Un militare mongolo di stanza alla frontiera degli Altai suona il «khuuchir», strumento musicale tradizionale, alle sue spalle il ghiacciaio Potanin. Foto Paolo Moiola.

 




Cop29, delusione annunciata


I dati definitivi mostreranno probabilmente che il 2024 è stato non solo l’anno più caldo di sempre, ma anche quello in cui la soglia di 1,5 gradi è stata superata. La Cop che si è svolta a Baku non è stata un fallimento totale, ma di certo non si è dimostrata all’altezza della sfida che il pianeta ha di fronte.

Era chiaro a tutti che la 29° Conferenza delle Parti sul clima (Cop29) di Baku, Azerbajian, sarebbe stata la Cop della finanza: come scriveva l’11 novembre Ferdinando Cotugno, inviato del quotidiano Domani a Baku, nella sua newsletter Areale@, «il risultato per cui sarà giudicata sarà un numero, espresso in centinaia o migliaia di miliardi».

E quel numero è 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035: circa un quarto di quanto richiesto dai Paesi che hanno meno responsabilità nella crisi climatica, ma ne subiscono più degli altri gli effetti.

È stata la terza Cop consecutiva in un Paese produttore di petrolio – dopo la Cop27 di Sharm el-Sheik, Egitto, nel 2022, e la Cop28 di Dubai, Emirati arabi uniti, nel 2023 – e anche a Baku si sono visti tratti già presenti nei due anni precedenti: innanzitutto una riduzione degli spazi di protesta per la società civile, a cui è stato vietato di manifestare al di fuori degli spazi della Conferenza – siamo lontanissimi da Glasgow, quando 100 mila persone manifestarono per le strade della città durante Cop26 – e di alzare la voce: per cui, riportava sempre Cotugno, i manifestanti hanno solo potuto schioccare le dita e mugugnare.

Altro tratto simile alle due Cop precedenti: la presenza di un numero consistente di lobbisti del settore dei combustibili fossili. Secondo la coalizione Kick Big Polluters Out, a Baku erano 1.773, meno dei 2.456 presenti a Dubai ma molti di più dei delegati totali dei dieci Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico@.

Il discorso di apertura di Ilyam Aliyev@, presidente dell’Azerbaijan – Paese che l’indice globale di democrazia dell’Economist colloca al 130° posto su 167 – ha sottolineato che petrolio e gas sono «doni di Dio». Nessun Paese, ha detto Alyev, «dovrebbe essere criticato perché ha queste risorse e le porta sul mercato, perché il mercato ne ha bisogno. Le persone ne hanno bisogno». Come presidenza della Cop29, ha aggiunto, sosterremo la transizione verde, ma allo stesso tempo «dobbiamo essere realisti». Non le migliori premesse per intavolare un negoziato a una conferenza sul clima.

COP29 President Mukhtar Babayev speaks at a first closing plenary of the COP29 Climate Conference in Baku on November 23, 2024. The Azerbaijani head of COP29 urged nations on November 23, to bridge their differences after two weeks of fraught negotiations at the UN climate talks over money to help poorer countries tackle global warming. (Photo by STRINGER / AFP)

Perché 1.300 miliardi?

Sul principale tavolo negoziale di Baku, quello della finanza, il punto di partenza era il vecchio obiettivo quantitativo di 100 miliardi di dollari all’anno in aiuti per affrontare la crisi climatica, stabilito alla Cop di Copenaghen nel 2009 e fissato in quella di Parigi nel 2015 come cifra minima da ampliare entro il 2025. I 1.300 miliardi che i paesi in via di sviluppo ritenevano adeguati alle loro esigenze e che volevano inserire come obiettivo vincolante all’interno dell’accordo, viene dalle stime@ che tre economisti – Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern – hanno indicato in vari studi pubblicati dalla London School of Economics e che numerose agenzie delle Nazioni Unite hanno poi adottato. Per realizzare queste stime, i tre studiosi e i loro team sono partiti dai costi per sviluppo e risposta alla crisi climatica affrontati nel 2019 dal gruppo di Stati più esposti ai danni del cambiamento climatico, cioè le economie emergenti (esclusa la Cina: poi torneremo su questo punto) e i paesi in via di sviluppo, riuniti sotto la sigla Emdc.

A partire da questi costi, si legge negli studi dei tre economisti, le proiezioni indicano che i Paesi Emdc avranno bisogno di 2.400 miliardi di dollari l’anno entro il 2030 e 3.200 entro il 2035: mentre è verosimile che 1.400 miliardi l’anno entro il 2030 e 1.900 miliardi l’anno entro il 2035 siano mobilitati direttamente da questi Paesi con risorse proprie, i restanti mille miliardi l’anno entro il 2030 e 1.300 miliardi l’anno entro il 2035 devono venire da fonti esterne, cioè devono essere fondi internazionali: pubblici, privati e di altro tipo.

Questa cifra, sottolineava poco prima della Cop un rapporto Unctad@, organo delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo, sarebbe pari all’1,4% del Pil mondiale, una cifra più bassa dei 2.500 miliardi all’anno di spesa militare dei paesi Nato, pari all’1,9% del Pil.

A questo proposito, riportava Euronews, il delegato di Panama alla Cop, Juan Carlos Monterrey Gomez, ha commentato: «Per alcuni, 2.500 miliardi dollari per ucciderci a vicenda non sono sufficienti, ma mille miliardi per salvare vite è irragionevole. La cosa più ridicola è che stiamo causando la nostra stessa estinzione. Almeno i dinosauri avevano un asteroide. Noi che scusa abbiamo?»@.

La cifra richiesta dai paesi del Sud globale, continua il rapporto Unctad, è anche a pari circa un terzo del totale dei sussidi che nove paesi sviluppati (inclusa l’Italia) danno ai combustibili fossili e impallidisce di fronte alle risorse mobilitate per far fronte alla pandemia, pari a 16.400 miliardi tra spesa fiscale aggiuntiva e mancate entrate.

«Illusione ottica» e «barzelletta»

L’accordo sulla finanza climatica@ è stato raggiunto nella notte fra sabato 23 e domenica 24 novembre scorso, dopo un negoziato teso e nervoso, a più riprese sul punto di fallire. Stabilisce un nuovo obiettivo quantitativo sotto la guida dei paesi sviluppati di almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per sostenere i Paesi in via di sviluppo nell’azione per il clima con fondi provenienti da varie fonti, pubbliche e private.

Il riferimento alla cifra che i Paesi in via di sviluppo richiedevano è presente nel testo, ma come esortazione, come invito a collaborare per consentire l’aumento dei finanziamenti «fino ad almeno 1.300 miliardi l’anno entro il 2035».

Subito dopo l’adozione, ancora in assembla plenaria, i delegati di India, Nigeria, Cuba e Bolivia hanno preso la parola per esprimere la loro rabbia: secondo la negoziatrice indiana, Chandni Raina, 300 miliardi sono una cifra di «abissale povertà», insufficiente per affrontare «l’enormità della sfida che noi tutti abbiamo di fronte»: per questo, ha detto, questo accordo è «poco più di un’illusione ottica». Non è stata più tenera la delegata della Nigeria, Nkiruka Maduekwe: che i paesi sviluppati rivendichino un ruolo di guida impegnandosi su una cifra così bassa «è una barzelletta. Non lo accettiamo»@.

Questi 300 miliardi non arriveranno subito: sono un obiettivo da raggiungere entro il 2035, non il volume degli stanziamenti immediati. Inoltre, non saranno solo fondi pubblici, ma anche fondi privati e risorse da reperire sui mercati, dove Paesi come questi, che spesso hanno già un debito molto alto, faticano a trovare fondi, specialmente visto che si tratta di interventi di adattamento alla crisi climatica che non sono, per loro natura, abbastanza redditizi da invogliare potenziali finanziatori privati.

Activists hold a silent protest inside the COP29 venue to demand that rich nations provide climate finance to developing countries, during the United Nations Climate Change Conference (COP29) in Baku on November 16, 2024. (Photo by Laurent THOMET / AFP)

Gli altri risultati

Un segnale positivo, registra tuttavia l’associazione Italian Climate Network (Icn)@, è che il testo dell’accordo lascia aperta la possibilità che altri Paesi, diversi da quelli sviluppati, forniscano – per quanto su base volontaria – il loro contributo per aumentare questi fondi. E questi Paesi sono la Cina, la Corea del Sud e i Paesi del Golfo membri Opec, che nella Convezione Onu sul clima a tutt’oggi non sono ufficialmente inclusi fra i Paesi sviluppati, perché è ancora in vigore la classificazione del 1992. Si tratta di Paesi con elevate emissioni e con economie non certamente comparabili, ad esempio, a quelle di molti dei Paesi dell’Africa subsahariana, come hanno fatto presente fra gli altri il ministro dell’ambiente nigeriano, Balarabe Abbas Lawal, e la sua omologa della Colombia, Susana Muhamad@.

Fra i risultati che Italian Climate Network elenca nella sua esaustiva analisi della Cop29 c’è anche l’adozione di accorgimenti per regolamentare meglio il mercato internazionale del carbonio: semplificando molto, quando un Paese compie un’azione – ad esempio di riforestazione – che aiuta ad assorbire gas serra, oppure un’azione che evita di emettere questi gas climalteranti, accumula crediti di carbonio e li può vendere ad altri Paesi che hanno bisogno di compensare le proprie emissioni.

A Baku si sono stabiliti nuovi metodi per il calcolo dei crediti e per la valutazione dei progetti che mirano a rimuovere gas serra dall’atmosfera. Inoltre, la Cop29 è intervenuta anche sui registri che raccolgono i dati sui crediti di carbonio, istituendone uno sotto l’ombrello Onu che però Icn definisce leggero, nel senso che riunisce i registri esistenti invece di istituirne uno unico e vincolante.

I fallimenti

Nel primo anno in cui il pianeta probabilmente ha superato la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento rispetto all’epoca preindustriale, la Cop di Baku non ha nemmeno affrontato il tema della mitigazione. Nel testo finale, riporta Icn, non si parla più di uscita dai combustibili fossili né di contenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 gradi o almeno sotto i 2 gradi.

Un dato che ha preoccupato molti riguarda le negoziazioni sul prossimo inventario globale – il Global Stocktake – che aveva rappresentato un successo della Cop di Dubai – e che sono state rimandate alla prossima conferenza sul clima, la Cop30 a Belém, in Amazzonia.

Uno dei motivi per cui non si è raggiunto nessun accordo è che l’Arabia Saudita ha messo in discussione il ruolo del Gruppo intergovernativo sul cambiamento (Ipcc, nell’acronimo inglese), fin qui ritenuto il punto di riferimento scientifico su cui si sono basate le Cop, proponendo di utilizzare anche altre fonti scientifiche. In realtà, riportava a novembre il New York Times@, questa presa di posizione è solo uno degli atti di una strategia di demolizione dei negoziati sul clima che l’Arabia Saudita sta portando avanti già dalla fine della Cop28.

E questo ruolo dell’Arabia saudita richiama l’attenzione anche sull’elefante, anzi, sugli elefanti, nelle stanze negoziali di Baku: l’imminente uscita dall’accordo di Parigi degli Stati Uniti dopo la rielezione di Donald Trump, i numerosi teatri di guerra aperti nel mondo e le conseguenti tensioni che si sono insinuate anche alla Cop, un’Unione europea che ha tentato di guidare i Paesi del Nord globale e di insistere sulla riduzione delle emissioni, ma che era distratta dalle liti fra i Paesi membri sulla scelta dei commissari dell’attuale Commissione Ue, in corso negli stessi giorni a Bruxelles: sono tutti elementi che erano noti prima dell’inizio dei lavori e che avrebbero reso comunque questa Conferenza di difficile gestione. Una presidenza, come quella dell’Azerbaijan, che non sembrava davvero interessata a mediare in modo efficace per raggiungere accordi ambiziosi ha fatto il resto nell’appesantire, rimandare, affossare i negoziati.

Dopo Baku, e sulla scia di Dubai e Sharm El Sheik, sono in molti a chiedersi se ha ancora senso che il pianeta organizzi la propria azione per il clima intorno a un modello negoziale nato tre decenni fa da un trattato che rifletteva un mondo che non esiste più. «È ormai chiaro che le Cop non sono più adatte allo scopo per cui sono nate, ha scritto un gruppo di esperti di clima che include l’ex segretario generale Onu Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’ex responsabile del clima delle Nazioni Unite Christiana Figueres e lo scienziato del clima Johan Rockström. I futuri vertici, sostiene il gruppo, dovrebbero essere organizzati solo in paesi che mostrano un chiaro sostegno all’azione per il clima e che hanno regole più severe sulla lobby dei combustibili fossili. La Cop30 di Belem, che si svolgerà quest’anno a novembre, ha un’eredità pesante da raccogliere.

Chiara Giovetti

22 November 2024, Azerbaijan, Baku: Activists from Fridays for Future Germany demonstrate with other activists at the UN Climate Summit COP29. Photo: Larissa Schwedes/dpa (Photo by Larissa Schwedes / DPA / dpa Picture-Alliance via AFP)




Contro il traffico di persone.

Accoglienza e liberazione


Da trent’anni aiuta donne vittime della tratta e della prostituzione forzata. Ascolta storie di schiavitù, sevizie, fughe, speranze. Di dignità e libertà ritrovate. In prossimità dell’8 febbraio, Giornata mondiale contro la tratta, incontriamo suor Maresa Sabena, in prima linea al fianco dei migranti.

Ha conosciuto centinaia di donne, soprattutto nigeriane, vittime di tratta e sfruttamento sessuale, suor Maresa Sabena, missionaria della Consolata, 90 anni in questo 2025.

Negli ultimi trent’anni ne ha aiutate molte a uscire dalla loro condizione di schiavitù e ritrovare la propria identità e dignità. Lo ha fatto nel contesto del grande lavoro svolto dall’Ufficio pastorale migranti (Upm) dell’arcidiocesi di Torino: un insieme di centinaia di persone che, per lavoro, o per volontariato, si occupano dei migranti che si trovano nel territorio torinese e che, per vari motivi, si rivolgono a loro.

Dolcezza e fermezza

Incontriamo suor Maresa nella Casa Madre dell’Istituto delle Missionarie della Consolata, in via Coazze 1, a Torino.

Ci accoglie in portineria con un sorriso gentile incorniciato dal velo grigio, e ci conduce in una stanza luminosa e dal soffitto alto dove ci fa accomodare.

I suoi gesti garbati, ma chiari e decisi, la sua voce delicata, ma ferma, ci fanno intravvedere un carattere dolce e forte allo stesso tempo: quello che serve per ascoltare le centinaia di donne vittime di tratta e per affrontare i pericoli che può comportare la loro liberazione, spesso ottenuta tramite la denuncia degli sfruttatori.

Oggi suor Maresa fa un’opera soprattutto di accoglienza e di ascolto, ma c’è stato un tempo nel quale era abituata a trattare con forze dell’ordine, tribunali, sfruttatori, percorsi di protezione per le donne che denunciavano.

I primi vent’anni di missione

Curiosi di conoscere il suo percorso, le chiediamo di darci qualche coordinata per capire chi è: «Sono nata nel 1935 a Savigliano (Cn). Ero figlia unica. Ho studiato a Pinerolo (To) dove la mia famiglia si era trasferita.

Io desideravo la missione. Nel 1956, allora, sono venuta a Torino per presentarmi alle Missionarie della Consolata.

Ho fatto la prima professione nel ’59 e, dopo due giorni, sono entrata nell’amministrazione generale a Grugliasco (To) dove sono rimasta per quasi vent’anni aiutando nelle opere delle missionarie nel mondo. Ricordo in particolare il tempo della guerra in Mozambico. È stato un periodo di lavoro molto intenso per far arrivare gli aiuti alle consorelle».

Con i migranti (del Sud Italia)

Nel 1977, lasciato l’incarico nell’amministrazione, suor Maresa si è impegnata a tempo pieno nella pastorale della parrocchia dell’Ascensione del Signore, con la quale collaborava già da tempo, zona sud ovest di Torino, non distante dagli impianti della Fiat a Mirafiori.

«In quel periodo c’era molta immigrazione dal Sud Italia e nel quartiere c’erano molti problemi – racconta -. I residenti non volevano che i bambini provenienti dal Sud, quasi tutti pugliesi di Bitonto, che abitavano nelle case popolari della zona, frequentassero le scuole con i loro figli. Vi fu una presa di posizione della parrocchia, che promosse anche manifestazioni pubbliche a difesa di queste persone.

Io formai e seguii un gruppo di genitori. Erano persone della comunità parrocchiale sensibili alle disuguaglianze sociali e alle divisioni che vi erano in quartiere. Questo gruppo aiutò i bambini delle case popolari e tenne in contatto le loro famiglie con insegnanti e servizi del territorio.

Organizzammo anche giornate di preghiera e di studio sulla cultura e la religiosità popolare.

Formammo piccoli gruppi biblici nelle case per riflettere sui Vangeli della domenica nei periodi forti dell’anno».

Suor Maresa racconta che in un primo momento aveva vissuto con disagio l’impegno in una parrocchia di Torino: «Mi dicevo che il mio impegno non era nello spirito del nostro istituto. Poi ho capito che invece era tutto un piano che il Signore aveva per me, e mi preparava per altro».

Le donne vittime di tratta

A 59 anni, alla morte dei suoi genitori, suor Maresa ha ricevuto una nuova destinazione, l’Argentina, e ha lasciato il suo lavoro alla parrocchia dell’Ascensione.

Mentre iniziava le pratiche per la partenza, però, una sua consorella che lavorava all’ufficio migranti della diocesi di Torino si è ammalata, e le sue superiore le hanno chiesto di sostituirla temporaneamente.

«Nel ’95 – racconta suor Maresa – iniziai il mio servizio con i migranti. Proprio quell’anno il Governo indisse una sanatoria che permetteva a quelli privi di documenti, ma con un lavoro, di ottenere un permesso di soggiorno. All’ufficio migranti il lavoro si moltiplicò e mi chiesero di rimanere. Poi nel 1998 fu emanata la legge Turco-Napolitano, con alcuni articoli validi ancora oggi. Essa stabiliva il diritto a un permesso di soggiorno per protezione sociale per le donne vittime di tratta che denunciavano i loro sfruttatori. Gli enti che seguivano le donne dovevano avere un riconoscimento dallo Stato e una persona referente, e l’Upm chiese a me.

Iniziai così a occuparmi delle donne vittime di tratta, soprattutto nigeriane reclutate con l’inganno nel loro Paese e tenute come schiave sotto minaccia: un lavoro che richiedeva molto ascolto, ascoltare loro ma anche i loro clienti che le conducevano da noi per ottenere un permesso.

Il passo più complicato era quello della denuncia, accompagnarle in questura, poi ai processi, soprattutto all’incidente probatorio in tribunale (un faccia a faccia fra la donna e la sfruttatrice). Per le donne che denunciavano, si attivava un programma di protezione che a volte le portava anche in altre regioni o province. Se la donna non avesse osservato il programma, l’ente avrebbe potuto toglierle il permesso».

 

Il contrasto alla tratta

Dal primo febbraio 2008 è entrata in vigore la convenzione del Consiglio d’Europa sulla tratta degli esseri umani che stabilisce il diritto di asilo politico per le vittime di tratta. La normativa è entrata in vigore in Italia il primo marzo 2011.

Oggi, quindi, la procedura è molto diversa, ci spiega la missionaria della Consolata, perché di fatto si limita a garantire il permesso di soggiorno senza avviare un percorso di protezione e di inserimento sociale della donna sfruttata, e non si propone il contrasto alla tratta perseguendo gli sfruttatori.

«È una legge che non contrasta la prostituzione perché non incide più su chi sfrutta le donne. Per l’Upm il permesso di soggiorno non è mai stato un traguardo finale, ma la prima tappa di un accompagnamento che portasse la donna a ricuperare fiducia in se stessa e riscoprire la sua dignità e vocazione.

Oggi succede che una donna ottenga il permesso di soggiorno per asilo politico e che, per i motivi più diversi, magari perché la famiglia in Nigeria domanda denaro, decida di continuare a lavorare come prostituta».

Clienti e sfruttatori

Domandiamo a suor Maresa da cosa nasce la tratta. «Da cosa nasce?», ci restituisce la domanda con un sorriso amaro: «Dalla richiesta dei clienti», risponde.

«Inizialmente c’erano alcuni uomini italiani che venivano a presentarci queste donne perché le volevano regolarizzare. Le volevano “salvare”, dicevano.

Spesso però, non era per salvarle, ma per poterle sfruttare da soli.

Abbiamo visto di tutto, anche persone colte, benestanti che volevano regolarizzare le donne e magari cercavano un alloggio per poterle ricevere, stare con loro, lontani dalle loro famiglie».

E gli sfruttatori chi sono? Suor Maresa ci dice che spesso sono donne nigeriane. Le maman hanno basi in Nigeria e in Italia. La gran parte pare che «lavori» per conto proprio, con una piccola rete di complici. Alcune, probabilmente, sono collegate ai clan della mafia nigeriana.

Contattano le donne, sovente in zone rurali molto povere, soprattutto nel territorio di Benin City, promettendo loro di farle studiare e lavorare in Italia, e stabiliscono una cifra che le donne devono pagare per il viaggio. Queste, quindi, firmano un contratto di pagamento del debito, siglandolo con un rito vudù, che per loro è molto impegnativo, e poi, quando arrivano in Italia, si ritrovano con un debito moltiplicato: da 20mila a 60-70mila euro, e con la minaccia di ritorsioni sulla famiglia rimasta in Nigeria. Per questo sono costrette a prostituirsi.

Quando chiediamo a suor Maresa se nei trent’anni di lavoro di contrasto alla tratta abbia mai avuto paura che qualche sfruttatore le facesse del male, lei risponde risoluta: «No. Nonostante il pericolo ci fosse, perché mi conoscevano benissimo, mi sono sempre fidata che c’è Qualcuno che ci aiuta e ci protegge».

La prostituzione cambia

Secondo Rosanna Paradiso, esperta anti tratta che lavora alla procura di Torino, intervistata da Federico Gottardo per «TorinoCronaca», oggi sono almeno tremila le donne nigeriane sfruttate sessualmente nel capoluogo piemontese e in provincia.

«È sempre più difficile capire quali siano le loro vere condizioni», prosegue la missionaria. Il mercato della prostituzione, infatti, sta cambiando: ce ne sono di meno in strada perché è aumentato lo sfruttamento in alloggi o centri massaggi o, a volte, anche in capannoni abbandonati. Questo rende più difficile agli operatori e ai cittadini intercettarle, e a loro chiedere aiuto.

«Negli ultimi anni, la maggioranza delle donne che viene al nostro centro, sono mandate direttamente dalle maman per chiedere aiuto per fare la domanda di asilo politico. Loro mentono, ma se durante il colloquio ci rendiamo conto che sono potenziali vittime della tratta, predisponiamo un incontro con la mediatrice culturale per far emergere la loro vera storia. La mediatrice le mette in condizione di aprirsi e superare le paure legate soprattutto al rito vudù, e a noi offre la possibilità di iniziare un discorso sulla possibilità di ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Oggi molte passano dalla Libia dove vengono già sfruttate in un modo spaventoso. Quando ci raccontano le loro storie, ci fanno vedere le ferite sul corpo: è una cosa impressionante.

In questi casi le donne presentano la domanda di asilo politico con le vere motivazioni della loro venuta in Italia, però non sono più tenute a denunciare gli sfruttatori, quindi poi teoricamente possono ancora lavorare per strada per pagare il debito».

Ascolto e accoglienza

In trent’anni di servizio all’Ufficio pastorale migranti, suor Maresa Sabena ha accompagnato personalmente più di duecento donne, ciascuna nel suo programma di protezione e inserimento sociale. «Un altro centinaio di donne sono passate da noi – aggiunge -, ma poi hanno abbandonato il programma, magari per andare in Olanda, o in Gran Bretagna». Le domandiamo come fanno le donne ad arrivare da loro: «Per passaparola. Quelle che vengono da noi, si sentono ascoltate, e lo dicono alle altre. Noi, infatti, all’Upm accogliamo in modo famigliare. Quando arriva una persona, non le chiediamo “come mai sei qui?”, “cosa vuoi da me?”. Iniziamo chiedendo se è la prima volta che viene, come ci ha conosciuti, la famiglia, tutte domande molto in generale. Solo dopo questo domandiamo anche se possiamo aiutare in qualche modo, allora vengono fuori più facilmente i problemi».

Oggi però la missionaria non si occupa più soltanto della tratta. Offre il suo servizio nell’ascolto.

«Ascolto tutto il giorno. Ascolto quelli che arrivano, donne e uomini. Siamo sei, sette persone. Ciascun volontario ascolta anche secondo le sue competenze, ci aiutiamo tra noi. Per esempio, c’è un volontario ex dipendente della previdenza sociale: quando arrivano persone sfruttate sul lavoro, le mandiamo da lui. C’è un avvocato: quando ci accorgiamo che la persona è vittima di tratta, con l’appoggio dell’avvocato l’aiutiamo a chiarire come presentare la domanda di asilo.

Ascoltiamo storie di uomini che arrivano dall’Afghanistan, dal Pakistan, che hanno la famiglia là in pericolo e non riescono a farla uscire dal Paese, a ottenere il ricongiungimento famigliare, anche se qui sono ben inseriti.

Arrivano da noi persone che sono appena arrivate in Italia, ma anche alcune che sono in Italia già da tempo e magari non sono riuscite a regolarizzarsi perché hanno sempre lavorato in nero, sfruttate da qualche parte. Allora le aiuti con l’avvocato: se vogliono, possono denunciare per sfruttamento lavorativo. Però non hanno il coraggio di farlo, perché se denunciano perdono il lavoro, e allora come vivono?

È tutto un modo che passa dall’Upm, un mondo di sofferenza».

La comunità ecumenica

Accanto all’ascolto di questo mondo di sofferenza e all’accompagnamento di donne verso la loro liberazione, c’è un’altra esperienza di suor Maresa che ci preme raccontare: quella della nascita del gruppo di preghiera ecumenico in lingua inglese, composto prevalentemente da nigeriani, nato nel 1995 e tutt’ora molto vivace.

«Avevano iniziato a venire all’Upm alcuni giovani uomini nigeriani studenti del politecnico che cercavano uno spazio per la preghiera comunitaria – spiega la missionaria -. Erano in prevalenza anglicani e di altre confessioni cristiane. E alcuni cattolici. Dato che non si trovavano bene nelle nostre chiese, hanno chiesto di poter utilizzare gli spazi dell’Upm e pregare nelle loro lingue, nelle loro modalità.

Hanno iniziato così a incontrarsi ogni domenica per leggere il Vangelo. Poi hanno portato le loro mogli in Italia, che venivano da noi a studiare la lingua italiana. Alcune di loro, in seguito, sono diventate le nostre prime mediatrici culturali in supporto al lavoro con le donne vittime di tratta. Allora ho pensato di inserire nel gruppo anche queste ultime perché potessero avere amicizie con i loro connazionali.

Fra le persone che avevano iniziato il gruppo, ne scelsi cinque, che si erano laureate in Italia, di confessione anglicana, pentecostale e cattolica, e le misi responsabili del gruppo. Chiesi aiuto ai missionari della Consolata che diedero la loro disponibilità: il primo a venire fu padre Antonio Rovelli, e poi diversi altri.

Le loro celebrazioni iniziavano alle 10 e finivano alle 14, ed erano sempre seguite da un tempo di convivialità. A un certo punto hanno anche chiesto di poter fare delle cerimonie particolari, per esempio la dedicazione dei bambini appena nati: la famiglia presenta il bambino ai responsabili e alla comunità perché questi lo offrano al Signore, allora c’è tutta la preghiera di offerta del bambino e la processione delle famiglie che gli portano un dono per dimostrare che sono felici del suo ingresso nella comunità. Bellissimo.

Il gruppo ecumenico, riconosciuto dalla diocesi, esiste ancora oggi e si ritrova ogni domenica a pregare nei locali della chiesa del Cafasso a Torino; ma da alcuni anni non lo seguo più. Quando l’ho lasciato una decina di anni fa erano più di 200 persone».

Missione a Torino

Suor Maresa, all’inizio della nostra conversazione ci ha detto che il suo sogno di ragazza era la missione in Africa: «Contattare le persone di religioni diverse per portare l’annuncio; ma anche aiutare le donne».

Le domandiamo se il suo sogno, pur non essendo mai partita per l’Africa, in qualche modo si è realizzato. «Oggi non rimpiango nulla di ciò che ho fatto e sto facendo. Sono missionaria della Consolata e il mio sogno era l’Africa che, per motivi diversi, non ho potuto raggiungere. Quando ho iniziato a lavorare all’Upm e con le donne vittime di tratta, ho visto che l’Africa la potevo trovare anche qui: donne private della loro dignità erano vicine a me.

Allora ho capito che è inutile sognare paesi lontani se non vedo, non amo e non aiuto quelle donne, meno fortunate di me, che mi abitano accanto, che sono sfruttate a causa le grandi ingiustizie e disuguaglianze che vi sono nel mondo.

Oggi, a molti anni di distanza, non posso che ringraziare il Signore, perché si è servito della mia povertà e fragilità per compiere la sua opera. Lo ringrazio ogni giorno per la vocazione religiosa missionaria, e per la missione che ha scelto per me, anche se molto diversa da quella che sognavo».

Luca Lorusso

 

Archivio MC


Qualche dato sulla tratta in Italia

A livello nazionale, secondo i dati del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2022 sono state 1.823 le persone prese in carico da parte dei progetti antitratta
attivi in Italia; 1.899 nel 2023; ben 1.737 nei soli primi nove mesi del 2024.

Tutti dati parziali, che non tengono conto delle vittime di tratta non intercettate.

Tra le vittime registrare nel 2024, il 58% erano donne, il 38,6% erano di origine nigeriana, il 3,3% minorenni, il 33,7% sfruttate sessualmente.

Un flusso continuo di schiavi del sesso e del lavoro, ma anche di persone costrette alla servitù domestica, all’accattonaggio e ad altre forme di sfruttamento.

L.L.