Cop29, delusione annunciata

Participating world leaders and delegates pose for a family photo during the United Nations Climate Change Conference (COP29) in Baku on November 12, 2024. (Photo by Alexander NEMENOV / AFP)
Mondo
Chiara Giovetti

I dati definitivi mostreranno probabilmente che il 2024 è stato non solo l’anno più caldo di sempre, ma anche quello in cui la soglia di 1,5 gradi è stata superata. La Cop che si è svolta a Baku non è stata un fallimento totale, ma di certo non si è dimostrata all’altezza della sfida che il pianeta ha di fronte.

Era chiaro a tutti che la 29° Conferenza delle Parti sul clima (Cop29) di Baku, Azerbajian, sarebbe stata la Cop della finanza: come scriveva l’11 novembre Ferdinando Cotugno, inviato del quotidiano Domani a Baku, nella sua newsletter Areale@, «il risultato per cui sarà giudicata sarà un numero, espresso in centinaia o migliaia di miliardi».

E quel numero è 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035: circa un quarto di quanto richiesto dai Paesi che hanno meno responsabilità nella crisi climatica, ma ne subiscono più degli altri gli effetti.

È stata la terza Cop consecutiva in un Paese produttore di petrolio – dopo la Cop27 di Sharm el-Sheik, Egitto, nel 2022, e la Cop28 di Dubai, Emirati arabi uniti, nel 2023 – e anche a Baku si sono visti tratti già presenti nei due anni precedenti: innanzitutto una riduzione degli spazi di protesta per la società civile, a cui è stato vietato di manifestare al di fuori degli spazi della Conferenza – siamo lontanissimi da Glasgow, quando 100 mila persone manifestarono per le strade della città durante Cop26 – e di alzare la voce: per cui, riportava sempre Cotugno, i manifestanti hanno solo potuto schioccare le dita e mugugnare.

Altro tratto simile alle due Cop precedenti: la presenza di un numero consistente di lobbisti del settore dei combustibili fossili. Secondo la coalizione Kick Big Polluters Out, a Baku erano 1.773, meno dei 2.456 presenti a Dubai ma molti di più dei delegati totali dei dieci Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico@.

Il discorso di apertura di Ilyam Aliyev@, presidente dell’Azerbaijan – Paese che l’indice globale di democrazia dell’Economist colloca al 130° posto su 167 – ha sottolineato che petrolio e gas sono «doni di Dio». Nessun Paese, ha detto Alyev, «dovrebbe essere criticato perché ha queste risorse e le porta sul mercato, perché il mercato ne ha bisogno. Le persone ne hanno bisogno». Come presidenza della Cop29, ha aggiunto, sosterremo la transizione verde, ma allo stesso tempo «dobbiamo essere realisti». Non le migliori premesse per intavolare un negoziato a una conferenza sul clima.

COP29 President Mukhtar Babayev speaks at a first closing plenary of the COP29 Climate Conference in Baku on November 23, 2024. The Azerbaijani head of COP29 urged nations on November 23, to bridge their differences after two weeks of fraught negotiations at the UN climate talks over money to help poorer countries tackle global warming. (Photo by STRINGER / AFP)

Perché 1.300 miliardi?

Sul principale tavolo negoziale di Baku, quello della finanza, il punto di partenza era il vecchio obiettivo quantitativo di 100 miliardi di dollari all’anno in aiuti per affrontare la crisi climatica, stabilito alla Cop di Copenaghen nel 2009 e fissato in quella di Parigi nel 2015 come cifra minima da ampliare entro il 2025. I 1.300 miliardi che i paesi in via di sviluppo ritenevano adeguati alle loro esigenze e che volevano inserire come obiettivo vincolante all’interno dell’accordo, viene dalle stime@ che tre economisti – Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern – hanno indicato in vari studi pubblicati dalla London School of Economics e che numerose agenzie delle Nazioni Unite hanno poi adottato. Per realizzare queste stime, i tre studiosi e i loro team sono partiti dai costi per sviluppo e risposta alla crisi climatica affrontati nel 2019 dal gruppo di Stati più esposti ai danni del cambiamento climatico, cioè le economie emergenti (esclusa la Cina: poi torneremo su questo punto) e i paesi in via di sviluppo, riuniti sotto la sigla Emdc.

A partire da questi costi, si legge negli studi dei tre economisti, le proiezioni indicano che i Paesi Emdc avranno bisogno di 2.400 miliardi di dollari l’anno entro il 2030 e 3.200 entro il 2035: mentre è verosimile che 1.400 miliardi l’anno entro il 2030 e 1.900 miliardi l’anno entro il 2035 siano mobilitati direttamente da questi Paesi con risorse proprie, i restanti mille miliardi l’anno entro il 2030 e 1.300 miliardi l’anno entro il 2035 devono venire da fonti esterne, cioè devono essere fondi internazionali: pubblici, privati e di altro tipo.

Questa cifra, sottolineava poco prima della Cop un rapporto Unctad@, organo delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo, sarebbe pari all’1,4% del Pil mondiale, una cifra più bassa dei 2.500 miliardi all’anno di spesa militare dei paesi Nato, pari all’1,9% del Pil.

A questo proposito, riportava Euronews, il delegato di Panama alla Cop, Juan Carlos Monterrey Gomez, ha commentato: «Per alcuni, 2.500 miliardi dollari per ucciderci a vicenda non sono sufficienti, ma mille miliardi per salvare vite è irragionevole. La cosa più ridicola è che stiamo causando la nostra stessa estinzione. Almeno i dinosauri avevano un asteroide. Noi che scusa abbiamo?»@.

La cifra richiesta dai paesi del Sud globale, continua il rapporto Unctad, è anche a pari circa un terzo del totale dei sussidi che nove paesi sviluppati (inclusa l’Italia) danno ai combustibili fossili e impallidisce di fronte alle risorse mobilitate per far fronte alla pandemia, pari a 16.400 miliardi tra spesa fiscale aggiuntiva e mancate entrate.

«Illusione ottica» e «barzelletta»

L’accordo sulla finanza climatica@ è stato raggiunto nella notte fra sabato 23 e domenica 24 novembre scorso, dopo un negoziato teso e nervoso, a più riprese sul punto di fallire. Stabilisce un nuovo obiettivo quantitativo sotto la guida dei paesi sviluppati di almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per sostenere i Paesi in via di sviluppo nell’azione per il clima con fondi provenienti da varie fonti, pubbliche e private.

Il riferimento alla cifra che i Paesi in via di sviluppo richiedevano è presente nel testo, ma come esortazione, come invito a collaborare per consentire l’aumento dei finanziamenti «fino ad almeno 1.300 miliardi l’anno entro il 2035».

Subito dopo l’adozione, ancora in assembla plenaria, i delegati di India, Nigeria, Cuba e Bolivia hanno preso la parola per esprimere la loro rabbia: secondo la negoziatrice indiana, Chandni Raina, 300 miliardi sono una cifra di «abissale povertà», insufficiente per affrontare «l’enormità della sfida che noi tutti abbiamo di fronte»: per questo, ha detto, questo accordo è «poco più di un’illusione ottica». Non è stata più tenera la delegata della Nigeria, Nkiruka Maduekwe: che i paesi sviluppati rivendichino un ruolo di guida impegnandosi su una cifra così bassa «è una barzelletta. Non lo accettiamo»@.

Questi 300 miliardi non arriveranno subito: sono un obiettivo da raggiungere entro il 2035, non il volume degli stanziamenti immediati. Inoltre, non saranno solo fondi pubblici, ma anche fondi privati e risorse da reperire sui mercati, dove Paesi come questi, che spesso hanno già un debito molto alto, faticano a trovare fondi, specialmente visto che si tratta di interventi di adattamento alla crisi climatica che non sono, per loro natura, abbastanza redditizi da invogliare potenziali finanziatori privati.

Activists hold a silent protest inside the COP29 venue to demand that rich nations provide climate finance to developing countries, during the United Nations Climate Change Conference (COP29) in Baku on November 16, 2024. (Photo by Laurent THOMET / AFP)

Gli altri risultati

Un segnale positivo, registra tuttavia l’associazione Italian Climate Network (Icn)@, è che il testo dell’accordo lascia aperta la possibilità che altri Paesi, diversi da quelli sviluppati, forniscano – per quanto su base volontaria – il loro contributo per aumentare questi fondi. E questi Paesi sono la Cina, la Corea del Sud e i Paesi del Golfo membri Opec, che nella Convezione Onu sul clima a tutt’oggi non sono ufficialmente inclusi fra i Paesi sviluppati, perché è ancora in vigore la classificazione del 1992. Si tratta di Paesi con elevate emissioni e con economie non certamente comparabili, ad esempio, a quelle di molti dei Paesi dell’Africa subsahariana, come hanno fatto presente fra gli altri il ministro dell’ambiente nigeriano, Balarabe Abbas Lawal, e la sua omologa della Colombia, Susana Muhamad@.

Fra i risultati che Italian Climate Network elenca nella sua esaustiva analisi della Cop29 c’è anche l’adozione di accorgimenti per regolamentare meglio il mercato internazionale del carbonio: semplificando molto, quando un Paese compie un’azione – ad esempio di riforestazione – che aiuta ad assorbire gas serra, oppure un’azione che evita di emettere questi gas climalteranti, accumula crediti di carbonio e li può vendere ad altri Paesi che hanno bisogno di compensare le proprie emissioni.

A Baku si sono stabiliti nuovi metodi per il calcolo dei crediti e per la valutazione dei progetti che mirano a rimuovere gas serra dall’atmosfera. Inoltre, la Cop29 è intervenuta anche sui registri che raccolgono i dati sui crediti di carbonio, istituendone uno sotto l’ombrello Onu che però Icn definisce leggero, nel senso che riunisce i registri esistenti invece di istituirne uno unico e vincolante.

I fallimenti

Nel primo anno in cui il pianeta probabilmente ha superato la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento rispetto all’epoca preindustriale, la Cop di Baku non ha nemmeno affrontato il tema della mitigazione. Nel testo finale, riporta Icn, non si parla più di uscita dai combustibili fossili né di contenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 gradi o almeno sotto i 2 gradi.

Un dato che ha preoccupato molti riguarda le negoziazioni sul prossimo inventario globale – il Global Stocktake – che aveva rappresentato un successo della Cop di Dubai – e che sono state rimandate alla prossima conferenza sul clima, la Cop30 a Belém, in Amazzonia.

Uno dei motivi per cui non si è raggiunto nessun accordo è che l’Arabia Saudita ha messo in discussione il ruolo del Gruppo intergovernativo sul cambiamento (Ipcc, nell’acronimo inglese), fin qui ritenuto il punto di riferimento scientifico su cui si sono basate le Cop, proponendo di utilizzare anche altre fonti scientifiche. In realtà, riportava a novembre il New York Times@, questa presa di posizione è solo uno degli atti di una strategia di demolizione dei negoziati sul clima che l’Arabia Saudita sta portando avanti già dalla fine della Cop28.

E questo ruolo dell’Arabia saudita richiama l’attenzione anche sull’elefante, anzi, sugli elefanti, nelle stanze negoziali di Baku: l’imminente uscita dall’accordo di Parigi degli Stati Uniti dopo la rielezione di Donald Trump, i numerosi teatri di guerra aperti nel mondo e le conseguenti tensioni che si sono insinuate anche alla Cop, un’Unione europea che ha tentato di guidare i Paesi del Nord globale e di insistere sulla riduzione delle emissioni, ma che era distratta dalle liti fra i Paesi membri sulla scelta dei commissari dell’attuale Commissione Ue, in corso negli stessi giorni a Bruxelles: sono tutti elementi che erano noti prima dell’inizio dei lavori e che avrebbero reso comunque questa Conferenza di difficile gestione. Una presidenza, come quella dell’Azerbaijan, che non sembrava davvero interessata a mediare in modo efficace per raggiungere accordi ambiziosi ha fatto il resto nell’appesantire, rimandare, affossare i negoziati.

Dopo Baku, e sulla scia di Dubai e Sharm El Sheik, sono in molti a chiedersi se ha ancora senso che il pianeta organizzi la propria azione per il clima intorno a un modello negoziale nato tre decenni fa da un trattato che rifletteva un mondo che non esiste più. «È ormai chiaro che le Cop non sono più adatte allo scopo per cui sono nate, ha scritto un gruppo di esperti di clima che include l’ex segretario generale Onu Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’ex responsabile del clima delle Nazioni Unite Christiana Figueres e lo scienziato del clima Johan Rockström. I futuri vertici, sostiene il gruppo, dovrebbero essere organizzati solo in paesi che mostrano un chiaro sostegno all’azione per il clima e che hanno regole più severe sulla lobby dei combustibili fossili. La Cop30 di Belem, che si svolgerà quest’anno a novembre, ha un’eredità pesante da raccogliere.

Chiara Giovetti

22 November 2024, Azerbaijan, Baku: Activists from Fridays for Future Germany demonstrate with other activists at the UN Climate Summit COP29. Photo: Larissa Schwedes/dpa (Photo by Larissa Schwedes / DPA / dpa Picture-Alliance via AFP)
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