Lei è Claudia Sheinbaum Pardo, delfina di Amlo, il presidente uscente. Guiderà il secondo paese dell’America Latina per popolazione. Un paese in crescita ma afflitto da una violenza endemica.
Nel paese dei femminicidi – nel 2023 sono stati 827 -, dal primo di ottobre una donna, la doctora Claudia Sheinbaum, sarà alla guida del Messico. Nelle elezioni dello scorso 2 giugno ha battuto – nettamente (36 milioni di voti contro 16,5, oltre 30 punti percentuali di scarto) – un’altra donna, la senatrice di origini indigene Xóchitl Gálvez.
Il dato (ufficiale) dei femminicidi è certamente drammatico, ma la contesa elettorale tra due donne indica che nel Paese latino-americano è in corso un cambiamento radicale. Inevitabilmente lento, ma effettivo.
Forse il passo più significativo può essere individuato nel decreto del 6 giugno del 2019, soprannominato «paridad de genéro en todo». Con esso furono modificati nove articoli della Costituzione messicana per applicare la parità di genere nelle candidature e nei posti negli organi esecutivo, legislativo e giudiziario, a livello federale, statale e municipale.
I sei anni di Amlo
Claudia Sheinbaum prenderà il posto del suo mentore Andrés Manuel López Obrador (Amlo), fondatore di Morena (oggi primo partito del Paese) e presidente tanto popolare quanto controverso. Fin dalla sua entrata nell’arena politica, la missione di Amlo è stata riassunta in una frase: «Por el bien de todos, primero los pobres» (Per il bene di tutti, prima i poveri), affermazione meritoria, ma molto impegnativa. Di sicuro, dopo decenni di dominazione dei due partiti conservatori (Pan e Pri), la sua presidenza – forse catalogabile come «populismo di centrosinistra» – è stata una novità assoluta.
Nei sei anni del suo mandato la spesa pubblica per programmi sociali è aumentata in modo significativo, ma i problemi fondamentali – l’insicurezza e la povertà su tutti – non hanno trovato soluzione.
Nonostante sei aumenti del salario minimo giornaliero (passato dagli 88 pesos del 2018 agli attuali 249, pari a circa 13 euro), il livello della povertà è rimasto alto. Secondo i dati di Coneval (un organismo costituzionale autonomo), ben 46,8 milioni di persone vivono in povertà, pari al 36,3 per cento della popolazione del paese. Di queste, oltre nove milioni (7,1 per cento) sono afflitte da povertà estrema.
Per gli strani giochi della politica e dell’economia, nel sessennio di Amlo i miliardari messicani hanno visto incrementare (di molto) le proprie fortune. Dietro a Carlos Slim (diciassettesimo nella classifica mondiale di Forbes), ci sono altre 13 persone: questo ristrettissimo gruppo di privilegiati – racconta un rapporto di Oxfam Mexico – controlla l’8 per cento dell’economia complessiva del paese.
Non è andata meglio in tema di sicurezza. La politica di Amlo sintetizzata nello slogan «abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili) è fallita, stando al numero degli omicidi e delle sparizioni, sempre altissimo.
Nei primi quattro mesi del 2024 la media è stata di 81 omicidi al giorno. Nelle statistiche degli ultimi sei anni impressionano poi due cifre: l’uccisione di 9 sacerdoti cattolici (vedere riquadro) e di 44 giornalisti (5 nel 2023 più uno scomparso).
Secondo Article 19, organizzazione messicana indipendente e apartitica che promuove la libertà d’espressione, nel 2023 nel Paese latino-americano ci sono state 561 aggressioni a giornalisti o mezzi d’informazione, un numero più alto rispetto ai governi che hanno preceduto quello di Amlo.
Questa è la pesante eredità di Obrador. Detto ciò, chiedersi se Claudia sarà una mera esecutrice delle volontà del presidente uscente, suo grande sponsor e padre politico, è un ragionamento dal vago sapore maschilista: dubitare della sua autonomia decisionale perché donna?
Il curriculum di Claudia
Nata in una famiglia di ebrei non praticanti, padre chimico con genitori della Lituania, madre biologa con genitori della Bulgaria, laureata in fisica all’Universidad Autónoma de México (Unam), un master a Berkeley e un dottorato, Claudia Sheinbaum è stata sindaca di Città del Messico.
Da anni, Amlo parla di «quarta trasformazione» della vita messicana. Nelle sue intenzioni si tratta di un indispensabile passaggio storico dopo le precedenti tre fasi: la guerra d’indipendenza (1810-1821), il periodo della riforma (1858-1861) e gli anni della rivoluzione (1910-1917), culminati con la promulgazione della Costituzione messicana (5 febbraio 1917).
Claudia Sheinbaum ha promesso più volte che continuerà sulla strada segnata da Amlo per dare seguito alla quarta trasformazione.
Sarà poi interessante vedere come la presidenta affronterà la questione climatica in un Paese che ne sta già patendo le conseguenze con picchi straordinari di calore e gravi carenze di acqua.
Il curriculum parla a suo favore, avendo lei collaborato con gli scienziati delle Nazioni Unite riuniti nel Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Le sue scelte prima dell’elezione sono però state contraddittorie. È stata infatti accusata di aver appoggiato il Tren Maya, la grande opera di Amlo contestata dagli ambientalisti.
Sul fronte energetico, Claudia Sheinbaum ha confermato di voler incrementare le fonti rinnovabili, senza dimenticare che il Messico è l’undicesimo produttore mondiale di petrolio tramite la Pemex (Pétroleos mexicanos), compagnia interamente di proprietà statale. La presidenta afferma che non sarà privatizzata, nonostante sia gravata da molti debiti.
Il vicino di casa
Il giorno seguente alla vittoria elettorale di Claudia Sheinbaum, il presidente americano Joe Biden ha chiamato l’eletta per complimentarsi.
Tutto prevedibile, considerato che Messico e Stati Uniti condividono molti affari e molti problemi. Il Paese latino-americano è il secondo socio commerciale degli Usa dopo il Canada. Inoltre, 11 dei 12 milioni di messicani nati in patria ma che vivono all’estero risiedono negli Stati Uniti, generando un enorme flusso di rimesse. Infine, dalla frontiera settentrionale del Messico – 3.169 chilometri di lunghezza – transitano la gran parte dei migranti illegali diretti negli Usa, una delle questioni più dibattute nella contesa elettorale tra Biden e lo sfidante Trump.
Le dimensioni del problema sono evidenziate da un dato: nel solo mese di dicembre 2023, la polizia di frontiera Usa ha fermato 250mila migranti che cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti.
Cosa accadrà se nelle elezioni del 5 novembre dovesse prevalere il candidato repubblicano? Durante la lunga e scorrettissima campagna elettorale, Trump ha affermato che, dopo la sua vittoria (che lui dà per certa) farà espellere milioni di immigrati senza documenti. Secondo il Pew research center, questi sono circa 11 milioni. Di questi 4,1 milioni (il 40 per cento) sono messicani, risultando di gran lunga il principale gruppo di immigrati senza documenti (irregolari), precedendo nell’ordine quelli provenienti da El Salvador, India, Guatemala e Honduras.
La previsione
Oltre ai problemi citati, la situazione messicana è complicata da un’altra questione rilevante, interna al Paese.
Il presidente Amlo ha, infatti, proposto un pacchetto di venti riforme costituzionali, alcune molto interessanti (su diritti e ambiente), altre più opinabili (su organi giudiziari e guardia nazionale).
Per essere approvate, esse necessitano una maggioranza qualificata sia alla Camera che al Senato. Vedremo cosa accadrà in questi mesi di transizione tra le due presidenze.
Avendo in mente quanto accaduto alle (poche) colleghe latinoamericane elette alla medesima carica, possiamo prevedere che Claudia Sheinbaum, doctora y presidenta, avrà un compito duro.
Ed è molto probabile, anzi quasi certo, che sarà osservata e valutata con più severità rispetto a un presidente maschio.
Paolo Moiola
La Chiesa cattolica messicana e la neopresidente
BUONI PROPOSITI
Al contrario di altri paesi latinoamericani, in Messico la Chiesa cattolica ha resistito meglio all’erosione di fedeli per mano delle Chiese evangeliche. Stando ai dati dell’ultimo censimento (Inegi, 2020), i cattolici sono il 77,2 percento della popolazione. Questo non significa che non ci siano problemi. Per esempio, la Chiesa cattolica messicana ha avuto un rapporto piuttosto conflittuale con il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo). A parte le tematiche sensibili (aborto, eutanasia, gender), l’accusa principale è di non aver fatto abbastanza contro la violenza del crimine organizzato. Violenza di cui è stata vittima la stessa Chiesa: durante la presidenza di Amlo sono stati ben nove i sacerdoti assassinati.
Di discendenza ebraica, la neopresidente ha spesso affermato di essere cresciuta in una famiglia laica con entrambi i genitori che si professavano atei. Questo non le ha impedito di incontrare papa Francesco in Vaticano lo scorso 15 febbraio.
Dopo la sua vittoria, la Conferenza episcopale messicana (Cem) ha rilasciato un comunicato di felicitazioni e di speranza.
«Oltre a sottolineare il privilegio di essere la prima donna a raggiungere la più alta carica del Paese, eleviamo le nostre preghiere affinché, con la responsabilità e la saggezza che la carica richiede, e cercando sempre il bene comune, possa condurre il Messico verso orizzonti migliori», ha scritto, tra l’altro, la Cem nel suo messaggio.
Pa.Mo.
Niger. Creatività al lavoro
Vi ricordate le start up di giovani nigerini di cui avevamo scritto nel marzo 2023? Avevamo incontrato alcuni protagonisti del progetto «Obiettivo lavoro», gestito da due Ong italiane. Le attività sono terminate e li abbiamo contattati per sapere come è andata.
Abbiamo parlato in video chiamata con il coordinatore del progetto Obiettivo lavoro, gestito dalla Ong Cisv in partenariato con Africa 70. Le attività, iniziate a fine 2020, consistevano nell’aiuto a start up di giovani imprenditori e a cooperative.
Moussa Arohalassi Halidou, dottorato in nutrizione, con oltre tredici anni di esperienza nel campo dello sviluppo, pare soddisfatto: «È un progetto fuori dal comune, rispetto a quelli che si trovano oggi in Niger. Gli iniziatori delle micro imprese e i membri delle cooperative sono stati responsabilizzati rispetto all’uso dei fondi, sia per gli investimenti iniziali che per le attività. Sono stati loro a studiare e proporre gli investimenti da fare. Noi, équipe di progetto, abbiamo verificato la fattibilità delle loro idee».
Responsabili della gestione finanziaria, dunque, ma anche della scelta dei fornitori e del rapporto con i clienti.
Soddisfazioni
Per quanto riguarda le micro imprese, l’équipe di progetto ha fatto una selezione delle 36 migliori idee di start up, su circa 500 domande ricevute. È stato quindi dato un appoggio formativo nelle materie della gestione d’impresa e dell’amministrazione. Ogni start up ha poi ottenuto un pacchetto di fondi (tra i 5 e i 6mila euro) per gli investimenti iniziali, ricevuti a rate dopo aver presentato un pano aziendale soggetto ad approvazione.
Quindi, l’équipe del progetto è rimasta al fianco di imprenditrici e imprenditori in una forma permanente di tutoraggio. «Noi siamo stati lì a verificare quello che le micro imprese facevano, per orientarle e dare consigli», continua Moussa, soddisfatto dei risultati. «Il progetto Obiettivo lavoro ha permesso a molte micro imprese di partire. Non esistevano, e il progetto le ha accompagnate a formalizzarsi, e poi a cominciare le loro attività».
Oggi però il progetto è terminato, e il tempo di accompagnamento è scaduto: «Avere a disposizione un periodo più lungo per accompagnare le start up aiuterebbe gli imprenditori a ridurre certe difficoltà che devono affrontare per portare le imprese a realizzare un maggiore volume di affari e quindi creare impiego.
Questo è uno degli obiettivi del progetto: creare lavoro per giovani e donne. Lo abbiamo raggiunto con le cooperative, ma non ancora con le micro imprese. Ogni start up dovrebbe creare dai due ai tre posti. Purtroppo, a fine progetto, non c’erano ancora questi numeri. È qualcosa che si vede sul medio lungo termine: quando una micro impresa decollerà, allora assumerà personale».
Difficoltà
Ma le difficoltà non sono mancate, come ricorda il coordinatore. A partire dal colpo di Stato del 26 luglio dello scorso anno (cfr MCnotizie. Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel), e dalle conseguenti sanzioni imposte dalla Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) che hanno bloccato il sistema finanziario nigerino. Ricorda Moussa: «Le sanzioni internazionali hanno reso più complesso l’arrivo dei fondi dall’Italia, ma anche i versamenti delle rate alle singole micro imprese, che poi dovevano realizzare, esse stesse, gli investimenti, ad esempio per l’acquisto di macchinari o di materiali. Tutto questo ha complicato il programma».
Inoltre, occorre ricordare che in tutta l’area del Sahel, imperversano diversi gruppi armati jihadisti, rendendo insicuri vasti territori. «Il Paese non è totalmente stabile e ci sono zone nelle quali sono frequenti gli attacchi da parte di gruppi armati. Le cooperative e le micro imprese nella regione di Tillaberi hanno avuto questo problema, mentre quelle nella capitale Niamey e a Zinder non sono state toccate».
Gli chiediamo come hanno proceduto: «Le nostre équipe non potevano visitare i partner, seguirli e dare loro consigli perché era troppo pericoloso. Per i momenti di formazione e le riunioni facevamo venire i responsabili a Niamey. Inoltre, in alcune zone, le strutture esistenti, come uffici e magazzini, sono state saccheggiate dai gruppi armati. Tutto questo ha penalizzato le start up di quell’area».
Niger Shine Lady’s
Dopo aver sentito Moussa, abbiamo contattato alcuni imprenditori che sono riusciti a partire.
Lei si chiama Leila Barry, e si definisce imprenditrice sociale. Ha 34 anni ed è laureata in comunicazione d’impresa all’Università di Niamey. Ha un buon lavoro nel settore amministrativo, ma non le bastava. «L’idea della creazione della micro impresa Niger shine lady’s mi è venuta perché facevo borse e scarpe in cuoio e desideravo formare alcune ragazze del mio quartiere a produrle perché diventassero autonome sul piano economico. Dopo alcuni anni, quando ero capo progetto per una Ong internazionale che si occupava della salute delle donne, ho notato che le ragazze più povere avevano difficoltà a procurarsi gli assorbenti. Allora mi è venuta l’idea di insegnare loro la confezione di assorbenti igienici riutilizzabili».
Leila ha iniziato con l’ideazione del prodotto, ha poi realizzato qualche piccolo investimento con i propri fondi: «Pensavo ai bisogni delle ragazze che stavo seguendo». In seguito, il progetto le ha permesso di acquisire le macchine da cucire elettriche e le competenze in gestione.
Leila continua appassionata: «Gli obiettivi della mia micro impresa inizialmente erano la confezione di assorbenti riutilizzabili ma anche la fornitura di servizi associati per le ragazze in difficoltà, in tutto il Paese. In secondo luogo, avevo l’idea di creare qualche posto di lavoro, indispensabile per il funzionamento dell’attività. Ovviamente con una gestione rigorosa, per raggiungere la sostenibilità economica nel tempo. Ma sempre con grande attenzione agli aspetti sociali e ambientali».
Leila racconta che ci sono state anche difficoltà di tipo culturale, in quanto il tema è ancora considerato tabù dalla maggior parte della gente in Niger. Oggi però l’impresa funziona e oltre lei vi lavorano la sua assistente, un sarto e un guardiano.
Terra di Adamo
Ismael Hassane Adamou è un ingegnere nigerino di 32 anni. È a capo di un laboratorio che fa test sui materiali dell’edilizia. Qualche tempo fa, ha avuto un’idea: «Si può avere un terreno a Niamey, ma costruire una casa è piuttosto complicato. Allora ho pensato a un’alternativa al mattone in cemento, economica e pure più adattata al nostro clima. Ho scoperto un tipo di mattone di terra compattata con una particolare forma a incastro, che mette insieme economicità e un maggior confort all’interno della casa».
Si tratta di mattoni fabbricati con speciali presse, che compattano ad alta pressione una miscela di terra lateritica (molto diffusa in Niger) con una percentuale di cemento.
Ismael: «Ho chiamato la mia impresa Terre d’Adam (Terra di Adamo). L’obiettivo principale è quello di diffondere la costruzione con la terra, in quanto i suoi vantaggi sono innegabili e, in seconda battuta, di aiutare a risolvere la crisi di alloggi che c’è a Niamey. Oggi, infatti, in questa città è molto complicato trovare una casa in affitto o in acquisto ben costruita.
Questi mattoni sono economici perché usano meno cemento di quelli normali, ma sono comunque molto solidi. Inoltre, la costruzione avviene più rapidamente grazie alla struttura a incastro. Anche questo fa diminuire i costi complessivi».
Ismael, preparato tecnicamente, ha allargato le sue conoscenze grazie al progetto Obiettivo lavoro: «Ho acquisito alcune competenze cruciali, soprattutto in contabilità e in gestione, che mi hanno permesso di strutturare la micro impresa e renderla redditizia».
La start up produce attualmente tra i 120 e i 200 mattoni al giorno, utilizzando una pressa manuale. «Ma con la pressa semi automatica che stiamo per installare, potremo moltiplicare questo numero per 20», riprende soddisfatto Ismael. «Inoltre – continua -, l’appoggio passo passo di Cisv fino dall’apertura dell’impresa è stato fondamentale, perché mi ha permesso di sentirmi aiutato e seguito in tutto il processo. È stato molto importante per me. Mi sono sentito come in famiglia».
Oggi, la start up, è pronta a mettersi sul mercato. Impiega un responsabile della produzione e tre operai.
Cerimonie e compost
«Mi chiamo Rahamatoulaye Alio Sanda Almou, detta Ramatou, ho 27 anni, sono nigerina e ho studiato farmacia all’Università di Niamey. Quando ero studentessa, mi è venuta l’idea di creare una micro impresa. Ho avuto la possibilità di seguire una formazione in gestione d’impresa, e questo mi ha spinto a creare la mia attività. Ho scelto il settore dei servizi igienico sanitari con l’idea di trasformare i rifiuti organici in concime».
L’idea era buona: «Ma non è stato facile. Volevo creare la mia micro impresa, mi sono subito scontrata con i primi problemi: come finanziarla e quindi realizzarla?». Ramatou ha partecipato ad alcuni concorsi per le idee di start up nazionali e regionali. Ne ha vinto uno, e con i fondi ricevuti ha comprato la prima «toilette mobile» che pensava di affittare agli enti locali, con l’obiettivo di migliorare le condizioni igieniche dei quartieri della capitale ma anche di ottenere concime organico.
«Mi sono scontrata con il problema delle abitudini e degli usi della popolazione. Come portare le persone a utilizzare le toilette?». Nel frattempo, è arrivata la pandemia e tutto si è fermato. «Mi sono detta: devo essere resiliente e riflettere su come rimodulare le attività della micro impresa. Ho quindi orientato l’attività al privato, che mi pareva più recettivo per utilizzare questo servizio. L’idea era quella di fornire servizi a chi organizza eventi privati e cerimonie, come i matrimoni, i battesimi, che coinvolgono molte persone». I servizi si sono ampliati all’affitto di sedie e tendoni per gli eventi, molto utilizzati nel paese.
«Devo dire che la pandemia è stata una difficoltà, ma anche un fattore determinante che mi ha fatto cambiare gli obiettivi della micro impresa. Inoltre mi ha spinta a cercare dei partenariati con progetti come Obiettivo lavoro».
Ramatou ha chiamato la sua start up «Sapta», che in haussa, la lingua più parlata in Niger, significa pulito o pulizia. Selezionata dal progetto di Cisv, ha potuto acquisire le attrezzature che le mancavano. Inoltre, lei e i suoi colleghi, hanno seguito formazioni di marketing, gestione aziendale e contabilità.
Oggi Sapta impiega quattro persone, di cui due permanenti e la altre a cottimo.
Polli che passione
Moumuni Saley ha 31 anni, è sposato e ha una figlia di due anni: «Il mio lavoro è gestire progetti in ambito sanitario, perché ho un master di secondo livello in gestione di progetti e programmi di salute pubblica. Però ho anche alcune certificazioni in fabbricazione di incubatrici per le uova, in orticoltura, in avicoltura moderna e biologica. Inoltre, ho competenze in gestione d’impresa.
La mia idea di micro impresa è nata perché avevo un sogno: creare una fattoria integrata, che comprendesse la piscicoltura, l’orticoltura e l’avicoltura. Era una passione che non avevo potuto seguire con gli studi».
La start up Complex Agro vende polli, pulcini e uova, produce e vende incubatrici, e fornisce assistenza dopo la vendita, consulenze e formazioni.
«Il progetto Obiettivo lavoro mi ha permesso di fare il salto di qualità. Prima facevo tutto questo a casa e in modo informale, in piccole quantità, non avevo i mezzi tecnici e finanziari. Adesso, dopo avere ricevuto tre formazioni sulla gestione d’impresa e una sull’avicoltura biologica, e dopo il finanziamento per le infrastrutture, tecnicamente sono più forte. È come se mi avesse fatto progredire di otto anni di lavoro in uno solo. Sono passato a un livello superiore per realizzare il mio sogno».
Marco Bello, con la collaborazione di Issa Yakouba
Solo e in compagnia (Gv 6,1-59)
Con il sesto capitolo, il Vangelo di Giovanni ci stimola ad accelerare e approfondire il cammino. Lo fa innanzi tutto segnalando che ci troviamo a Pasqua (6,4), osservazione che può sembrare inutile se si dimentica che proprio a Pasqua dell’anno precedente Gesù aveva espresso il suo giudizio sul culto nel tempio (2,13-17) e che in quella dell’anno successivo morirà in croce.
Lo fa anche con un racconto, quello della moltiplicazione dei pani, che, a differenza dei Vangeli sinottici, qui fa da preludio a una riflessione sull’eucaristia che ci saremmo aspettati di trovare più avanti, ossia durante l’ultima cena (dove invece è assente).
Infine, l’evangelista inizia a parlare con insistenza del rapporto di Gesù con il Padre, e per la seconda volta nel suo percorso ricorre a un «Io sono» (6,20) su cui torneremo presto.
Si arriverà a un certo punto nel capitolo a esplicitare che nessuno ha visto Dio e solo Gesù lo può far conoscere (6,46), un tema che percorre sottotraccia tutto il Vangelo fin dall’inizio. Ciò che fa Gesù è ciò che farebbe il Padre. Guardare il Figlio, dunque, significa guardare anche chi lo ha mandato.
Diventa allora significativo il gioco di Gesù che un po’ si ritira in solitudine, un po’ si mostra ai suoi e alle folle.
Il capitolo 6 si apre con Gesù che si ritira con gli apostoli sul monte (6,2-3) per evitare le folle che lo seguono per le sue guarigioni. Ma da lì le vede venire verso di lui, e non solo non le scaccia, ma si chiede come fare a dare loro da mangiare. A quel punto Gesù intuisce che la gente vuole «prenderlo per farlo re» (6,15), quindi si ritira sul monte da solo. Mentre lui è sul monte, i discepoli passano senza di lui dall’altra parte del lago, ma vengono colti da una tempesta. D’improvviso Gesù compare camminando sulle acque, e li porta a destinazione invitandoli a non avere paura (6,16-21).
Infine, Giovanni si avventura in una descrizione abbastanza contorta dello stupore della gente, che cerca Gesù faticando a trovarlo (6,22-25). Il fatto che la descrizione non sia lineare non è un errore dell’evangelista. Anzi, egli, proprio in questo modo attira lì la nostra attenzione, perché ci rendiamo conto ancora una volta che Gesù, che è cercato, potrebbe sottrarsi alla folla, e un po’ lo fa, ma si lascia anche trovare, per commozione e perché vede che gli altri hanno bisogno di lui.
Il volto del Padre
Abbiamo già detto che l’«Io sono» è uno degli elementi che ci suggeriscono un «cambio di marcia» di Giovanni. Il momento è quello in cui Gesù, camminando sulle acque, compare ai discepoli che stanno faticando a gestire la barca nel mare in tempesta. Loro, come è comprensibile, al vederlo si spaventano, ma Gesù li rassicura dicendo «Io sono» (6,20). Si tratta di una formula che potrebbe essere banale, il nostro «sono io», ma già nel Primo Testamento sono parole che richiamano la rivelazione del nome divino a Mosè: «Dirai agli israeliti: “Io sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Nel Vangelo di Giovanni la formula diventa solenne. Gesù, infatti, dice molte volte «io sono»: il pane di vita (nel capitolo 6), la luce del mondo (8,12), la porta delle pecore (10,7.9), il buon pastore (10,11.14), la risurrezione e la vita (11,25), la vera vite (15,1.5). Addirittura, in alcuni casi non aggiunge nulla, ma si limita a dire «Io sono» (8,24.28.58; 13,19), che sicuramente ha un tono solenne e divino.
Già una volta Gesù nel Vangelo aveva usato questa formula, parlando con la samaritana (4,26), ma là poteva sembrare un uso più semplice e «banale»: la donna parla del messia, Gesù le svela «Sono io, che parlo con te». Nell’episodio di Gesù che cammina sulle acque in tempesta, invece, le stesse cominciano a sembrare qualcosa d’altro, anche perché sono dette da chi sta compiendo un’impresa sovrumana.
In queste righe del Vangelo di Giovanni, Gesù inizia ad alludere alla propria dignità divina, e nello stesso tempo continua a dichiararsi inferiore e in comunione con il Padre, del quale è la visibilità.
Quello che mostra in questo capitolo è allora il volto di un Padre che non avrebbe bisogno della compagnia degli umani, eppure sceglie di mettersi a disposizione, di lasciarsi trovare, sapendo che sono loro ad aver bisogno di lui. Il volto di un Dio che è padrone degli elementi (moltiplica i pani, calma la tempesta facendo arrivare subito a riva), ma non si sostituisce alla libertà e alla fatica degli esseri umani: sfama cinquemila persone, ma a partire non dal nulla, bensì da cinque pani d’orzo e due pesciolini (pasto scarno anche per chi lo aveva portato, ma che intanto deve essere messo a disposizione, deve essere perduto per essere ritrovato), e fa giungere a riva marinai che però intanto avevano provato a remare. Un Dio al servizio degli uomini, ma senza sostituirsi a loro.
Quello che Gesù mostra è un Dio che non usa mai gli elementi di cui è Signore per arrecare un danno, ma sempre e soltanto per il bene.
Un Padre che, come Gesù, sarebbe autosufficiente, ma sceglie di non stare da solo. E un Padre che interviene poco, per salvaguardare la libertà degli umani, ma quando lo fa interviene solo salvando, sfamando, mai punendo.
Che cosa dobbiamo fare? (Gv 6,26-35)
Negli Atti degli Apostoli la reazione al primo discorso di Pietro in cui si racconta la vicenda di Gesù è «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). Al versetto 28 del capitolo 6 di Giovanni, anche la folla che cerca Gesù sull’altra riva del lago e lo trova, gli domanda: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». È comprensibile, umano e anche ammirevole: di fronte alla scoperta di una interpretazione diversa della nostra vita, chiedersi in che cosa cambiare è generoso e onesto. Gli interlocutori di Gesù, insomma, non sono né superficiali né ipocriti. Ma la risposta di Gesù spiazza, sulla linea di ciò che aveva lasciato intuire nel dialogo con la donna di Samaria (Gv 4,23-24): «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (6,29).
A essere significativi e sorprendenti sono almeno due aspetti. Il primo è che il «da fare» non sia qualcosa che deve essere fatto. Se è vero che le parole senza azioni sono vuote, è però ancora più vero che a essere significative nelle relazioni umane sono le intenzioni: il bambino che vuole aiutare la mamma provando a farle trovare al rientro a casa una pietanza che però è immangiabile non verrà rimproverato, ma probabilmente la farà commuovere. E orientando il rapporto con Dio non nel fare, ma nel credere (pisteuete), nell’affidarsi, nel confidare (questo è il senso profondo di un verbo che resta un po’ ambiguo), Gesù riorienta il rapporto degli esseri umani con Dio sull’unica cosa che conta, ossia la relazione. Vuoi fare l’opera di Dio? Fidati di lui, affidati a lui, vivi in una relazione di amicizia, di affetto, dove a essere decisivo non è ciò che fai, ma l’intenzione con cui vivi. Questo sembra essere per Gesù il cuore della morale religiosa: vivere una relazione autentica, profonda, di affetto con Dio. Quello che si fa, di conseguenza, è frutto di questa relazione.
Ma c’è anche un altro aspetto decisivo, perché in realtà Gesù non invita a credere in Dio, ma «in colui che egli ha mandato», ossia in Gesù stesso. In modo chiaro si afferma ciò che era già stato intuito prima e che ora diventa più esplicito: il Dio invisibile si può vedere e incontrare in Gesù.
Di fronte alla comprensibile perplessità degli interlocutori («Che segno compi perché ti crediamo?»), Gesù, alludendo alla manna del deserto, donata ogni giorno da Dio al suo popolo nel tempo dell’Esodo, parla del pane. Non solo i pani moltiplicati, ma un cibo che possa nutrire. Gesù, cioè, non si limita a dire: «Guarda che miracoli faccio, guarda come sono potente!», ma invita a cogliere che quello che lui fa è al servizio della vita di chi incontra, è destinato a nutrire, a sfamare. Gesù mostra un Padre che non vuole essere adorato e riverito, ma che si dona perché i suoi amici non patiscano fame o sete. Colui che può sfamare e dissetare, sulla linea dell’incontro con la donna samaritana, è Gesù. Poi, dalla dimensione fisica siamo invitati a passare a quella esistenziale, perché non viviamo soltanto di pane, ma di relazioni e senso della vita che sono ciò di cui abbiamo più bisogno.
Non si tratta di qualcosa a cui Gesù arrivi marginalmente o di recupero: «La volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40).
Si parla della risurrezione nell’ultimo giorno, ma se ne parla al presente. Perché Gesù e il Padre vogliono la vita degli esseri umani, e questo desiderio non distinguerà tra il futuro e l’adesso.
Il cristiano non faticherà a capire che qui in fondo si parla dell’eucaristia, ma, persino più che nei sinottici, è chiaro che non la si potrà più intendere semplicemente come rito, bensì come gesto che rimanda a tutta l’esistenza di Dio: l’eucaristia raccoglie in un punto ciò che il Padre e Gesù fanno sempre, donare la vita per far vivere gli esseri viventi.
Figlio di Giuseppe o del Padre? (Gv 6,36-59)
Quello che Gesù afferma è pesante, intenso. Svela un volto di Dio che forse fatichiamo a immaginre: talora abbiamo la tentazione di pensare a un Dio giudice severo che castiga in modo durissimo chi si comporta male (cioè, gli altri). Invece, qui Giovanni ci mostra un Dio amante della vita e pronto a donarsi per nutrire l’umanità. Ma svela anche un Gesù che pretende di far conoscere il Padre, che si pone come tramite indispensabile: «Il pane della vita sono io!» (6,35).
Anche noi avremmo probabilmente reagito come gli interlocutori: «Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre?» (6,42). C’è un primo livello di contestazione che capiamo immediatamente: «Chi ti credi di essere? Sappiamo chi sei!». Ma questo tradisce un sottinteso più profondo: ci aspettiamo che Dio sia completamente diverso dall’uomo, non abbia rapporti con la nostra quotidianità. È un pensiero che percorre gran parte dell’umanità, non solo cristiana: vedendosi limitati e imperfetti, gli uomini pensano che Dio sia completamente diverso da loro. Ecco perché ci sembra convincente che Dio non si capisca, parli lingue strane, si nasconda misteriosamente in riti incomprensibili, dietro a muri o fumi di incenso. Quello che Gesù ha suggerito, che il Padre sia visibile in lui, e che Dio sia interessato a fare vivere e nutrire l’umanità, invece, contraddice questa lontananza e divisione.
Gesù mostra un divino che poteva anche rimanere lontano dall’umano, ma che ha voluto abbattere le distanze, è entrato nell’umanità fino in fondo, si occupa degli esseri umani non per farsi servire e riverire ed è pronto a farsi cibo e bevanda, per farli vivere, di bene (6,55-56).
Questo è possibile a Gesù perché a tale scopo è stato inviato dal Padre, di cui è immagine (6,57). Gesù è così perché è il Padre a essere così, pronto a donare se stesso perché gli esseri umani abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza. Non a caso Gesù può dire che chi si nutre di questo cibo, vivrà in eterno (6,58).
Angelo Fracchia (Il volto del Padre 07- continua)
Cina. L’offensiva culturale di Xi
L’attacco agli Stati Uniti e all’Occidente da parte del presidente cinese è sistematico e totale. Mira a sostituire idee e valori con la visione cinese. Ma a una disamina attenta emergono le molte contraddizioni di Pechino.
Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben mille anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta.
Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche tecnologicamente più avanzate al mondo: quelle rovine ospitano i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina.
Liangzhu non è però solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più «democratico» e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.
Può sembrare strano, ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà «revisioniste») della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché, occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, ha proposto una nuova soluzione alle «molteplici sfide globali»: «Tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità», ha spiegato Xi.
La globalizzazione «armonica» di Xi
Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global civilization initiative (Gci), l’ultima di tre iniziative che, insieme, suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global development initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global security initiative), e appunto la gestione delle relazioni diplomatiche (la Gci). Secondo quest’ultima, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto, è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico economico migliore o universalmente valido.
Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dell’«armonia senza uniformità» e «della coesistenza armoniosa delle differenze») come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra paesi: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo. Oltre che da Confucio e Laozi, il trittico Gdi-Gsi-Gci trae ispirazione dal concetto di «comunità dal destino condiviso», teorizzato dalla leadership cinese negli anni Novanta. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and road initiative (Bri), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che «il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso» e che «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono «aspirazioni comuni» verso cui tendere.
Relativizzazione dei valori e nessuna ingerenza
Se la Bri punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuo-le che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico e culturale.
È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei «profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia», come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la «neutralità» cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv.
Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentativi dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 hanno accolto altri quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran ed Emirati arabi uniti).
Come appare evidente, gli effetti della Gci non sono esclusivamente «culturali», almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità (lo Stato-nazione), l’ingerenza della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale.
Teoria e realtà
C’è chi ritiene che la missione civilizzatrice di Xi strizzi l’occhio alle autocrazie amiche. Riferimenti alla Gdi, Gsi e Gci, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure, l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammi-
ratori. Se «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono principi incontestabili, è impossibile non riscontrare come nel mondo reale Pechino fatichi a rispettarne il significato letterale. Basta pensare all’espansionismo militare nel Mar cinese meridionale, che la Repubblica popolare rivendica quasi tutto per sé e dove negli ultimi mesi pescherecci e guardia costiera delle Filippine sono stati respinti a cannonate d’acqua. O alla repressione delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la provincia cinese al confine con l’Asia centrale. Difficile parlare di rispetto per le differenze culturali quando le diversità vengono annullate persino dentro i confini nazionali.
La superiorità cinese
Scricchiola anche l’assioma dell’«equità», tanto caro al Sud globale. A parole la Cina sostiene la tradizionale architettura internazionale con al centro le Nazioni Unite: l’organizzazione, che meglio esprime le istanze dei paesi in via di sviluppo, figura esplicitamente nei documenti fondativi delle tre nuove iniziative globali di Pechino. Eppure, balza all’occhio come la retorica dei media statali spesso non esiti a rimarcare l’eccezionalità della tradizione cinese.
In una lettera scritta per commemorare il sito archeologico di Liangzhu, Xi ha affermato che la civiltà cinese, essendo «aperta e in costante cambiamento» da oltre 5.000 anni, «assorbe le parti migliori di altre civiltà da tutto il mondo». Riprendendo lo stesso concetto sulla rivista teorica Qiushi, lo scorso maggio il presidente spiegava senza giri di parole che «dal punto di vista della tradizione culturale, la civiltà cinese è l’unica civiltà al mondo che è continuata fin dall’antichità senza interruzioni. L’effetto combinato di molteplici fattori ha consentito alla nazione cinese di modellare gradualmente una mentalità nazionale e una psicologia culturale indipendenti e autonome nel suo sviluppo storico».
Questa autonomia, profondità e longevità – aggiunge il leader – attribuisce alla civiltà cinese «un fascino unico che è diverso dalle altre civiltà del mondo».
Tra le righe, si scorge una malcelata forma di «suprematismo culturale» molto antica che, se in epoca imperiale si manifestava nei confronti dei paesi «vassalli» del vicinato asiatico, oggi spesso emerge per scoperchiare i «doppi standard» degli Stati Uniti, modello di democrazia solo quando si tratta di criticare i paesi rivali.
Non potendo ancora rivendicare una superiorità economica (che, peraltro, oggi pare allontanarsi), a Pechino non resta che reclamare un primato immateriale: il tema della pochezza culturale degli Stati Uniti, il «nuovo mondo» senza storia, ricorre frequentemente sui media cinesi. D’altronde, oltre la Muraglia, proprio lo scontro geopolitico con Washington sembra aver rinvigorito quell’orgoglio per il passato negli ultimi vent’anni un po’ offuscato dai numeri luccicanti del Pil.
Il rapporto con gli Stati Uniti
Nelle relazioni con gli Usa, c’è un prima e c’è un dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Quello è stato il momento in cui la competizione sino-americana è debordata sul piano ideologico. Che sia stato così, è diventato evidente, però, solo nell’aprile di due anni dopo quando, parlando al Future security forum, l’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di stato degli Usa, Kiron Skinner, ha rimarcato come per «la prima volta» Washington si trovasse a fronteggiare «una grande potenza» non caucasica.
Da quel momento, per parte dell’establishment americano, la cultura e l’identità razziale sono diventate criteri per stabilire la natura – cooperativa o conflittuale – delle relazioni con gli altri Stati. Tanto che l’autorevole analista cinese Wang Jisi recentemente ha constatato come ormai «il dibattito politico e ideologico tra la Cina e gli Stati Uniti è essenzialmente definito dalle direttrici del nazionalismo, della cultura e della civiltà – “l’Oriente contro l’Occidente” – non tra socialismo e capitalismo, o tra proletariato e borghesia».
Contro le contaminazioni
È quindi la Cina che attacca o va considerata «legittima difesa»? Come spiega Xi sul Qiushi, «Sin dai tempi moderni, l’afflusso delle tendenze culturali occidentali ha avuto un impatto sulle tradizioni culturali e sul mondo spirituale del popolo cinese. Alcune persone hanno gradualmente perso la loro soggettività culturale. Come riconquistare la spina dorsale culturale è diventata una questione importante, legata alla sopravvivenza e allo sviluppo della nazione cinese». Un compito spettante al Partito comunista che, investito di una «missione storica», lo porterà avanti concentrandosi da una parte «sulla civiltà materiale», dall’altra «sulla civiltà spirituale». Il messaggio è chiaro: la prosperità economica non può prescindere dallo «sviluppo della cultura socialista». Non solo perché, come dice Xi, la Cina si sente minacciata dalle contaminazioni ideologiche esterne, ma anche perché dietro l’apparente sicurezza della leadership cinese si nascondono timori e debolezze. Impossibile non notare, infatti, come l’enfasi attribuita al passato glorioso serva a sviare l’attenzione dalle difficoltà del presente.
In patria, il rallentamento della crescita economica (scesa al 5% dal 10% del 2010) sta affossando gli stipendi; oltreconfine le disponibilità economiche più contenute hanno indotto una riduzione degli investimenti nel Sud globale.
Radici confuciane e marxismo
In cerca di nuove fonti di legittimazione, Pechino guarda indietro. Erede della Cina imperiale e maoista, la leadership comunista guidata da Xi sta investendo massicciamente nell’archeologia e nella ricerca storica per valorizzare tanto le radici confuciane quanto i «geni rossi» del Paese. Nella stanza dei bottoni viene utilizzato il termine «le due integrazioni», formula che sta a indicare la capacità con cui il Partito ha saputo armonizzare «i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e il meglio della sua cultura tradizionale, adattando continuamente il marxismo al contesto cinese e alle esigenze dei tempi».
Occorreranno mesi, forse anni, prima di poter giudicare il valore geopolitico della controffensiva culturale di Xi.
Dall’altro lato del Pacifico qualche perplessità già c’è. Per R. Evan Ellis, docente presso il United states army war college, in molte parti del mondo – proprio quelle a cui ammicca la Gci -, i concetti di «civilizzazione» e «modernità» sono ancora associati alla dominazione coloniale e all’emarginazione delle popolazioni indigene.
Senza bisogno di guardare troppo lontano, nello Xinjiang usi e costumi locali vengono considerati sintomo di arretratezza in contrapposizione al progresso economico e sociale delle province cinesi abitate dall’etnia maggioritaria Han. A quanto pare, i «doppi standard» non sono una prerogativa solo dell’Occidente.
Alessandra Colarizi
La lanterna resta accesa. Padre Bernardo Sartori, missionario
L’ultima volta che lo incontro è a Roma, lungo Via San Pancrazio. Un caldo giorno d’estate del 1968. Sono in autobus, quando scorgo sul marciapiedi una veste nera e una barba bianca.
«Ferma, ferma! – grido al conducente del bus -. C’è un’emergenza!». L’autobus si ferma fra lo stupore generale. Le porte a fisarmonica del mezzo si aprono.
Corro da lui, distante circa 70 metri, e lo chiamo: «Padre Bernardo!».
Quando mi vede, esclama: «Varda, varda el fiòl de Marino» (Guarda, guarda il figlio di Marino).
«Cosa fai qui a Roma?», mi chiede.
«Sto studiando teologia».
Conversiamo un po’. Naturalmente in dialetto veneto.
Padre Bernardo Sartori, quando ti incontra, chiunque tu sia, ti fa sentire «unico» nella sua vita. Così è anche per me in questo giorno romano.
Tuttavia, le persone accolte nel suo cuore sono migliaia e migliaia: a Falzé di Trevignano (Treviso), suo paese natale, a Troia (Foggia), dove ha operato come animatore missionario e, soprattutto, in Uganda, che lo vedrà missionario per 49 anni filati.
Padre Bernardo ha una parola speciale «solo per te». Una parola gioiosa.
Alla fine del nostro incontro nella capitale mi prende per mano dicendo: «Méname casa, parché me son pers qua a Roma» (Portami a casa, perché mi sono perso qui a Roma).
Padre Bernardo Sartori dal 2022 è «venerabile». Presto sarà «beato». Un fulgido esempio della Chiesa missionaria.
Quella stupida guerra
Bernardo Sartori nasce il 20 maggio 1897. Una frazione con meno di mille persone, tutta campi di frumento, granoturco, foraggio per vacche e buoi, gelsi per i bachi da seta e filari di viti. Ma spesso la metà dei raccolti è roba del «paròn». I contadini, infatti, in stragrande maggioranza sono fittavoli o mezzadri.
Fra i «paroni» c’è pure un conte. I bambini, quando lo vedono passare per strada fumando il sigaro, lo sbeffeggiano con la cantilena: «Conte coe braghesse onte / conte col capel de paia / conte canaia» (Conte con i pantaloni unti / conte con il cappello di paglia / conte canaglia).
Quei «paroni», con le loro mogli e amanti, sono spesso «canaglie», incuranti della fame e pellagra che affligge i contadini.
Un giorno padre Angelo Pizzolato, frate cappuccino di Falzé, durante un’omelia denuncia: «La nostra gente è rimasta povera a causa di due, tre signorotti».
Povera è pure la famiglia di Bernardo Sartori. Ad esempio: per pagare la retta del seminario diocesano, dove Bernardo studia da prete, i genitori devono togliersi la polenta dalla bocca. Polenta, perché il pane lo mangiano solo i «paroni».
Scoppia la Prima guerra mondiale (1914-1918). È «la grande guerra».
«Un’inutile strage», come lamenta il papa Benedetto XV. Falcia la vita a 10 milioni di persone. I caduti italiani sono 650mila (senza contare i civili) e i mutilati 450mila.
Nel 1917 anche Bernardo Sartori, ventenne, viene arruolato e mandato sul fiume Isonzo.
Una notte le mitragliatrici degli austriaci crepitano furiose a pochi passi da lui, le granate gli piovono intorno come arpie seminando morte. I cadaveri si ammassano al suolo tra urla disperate. Bernardo dice a se stesso: «È finita anche per me».
Poi si inginocchia, stringe la corona del rosario e prega: «Madonna santa, non farmi morire in questa stupida guerra. Io voglio andare fra i neri dell’Africa».
Amico lettore, se ti capita di entrare nella chiesa parrocchiale di Falzé, sosta davanti all’altare della Madonna del Carmine. Fra i vari ex voto «per grazia ricevuta» ne troverai uno firmato «Chierico Bernardo Sartori». Testimonia la sua vittoria in «una stupida guerra».
Da Troia a Ortisei
«Io voglio andare fra i neri dell’Africa».
Quella notte, sotto una tempesta di bombe, Bernardo Sartori promette di diventare missionario. E missionario sarà sulla scia di san Daniele Comboni, fondatore dell’omonimo istituto missionario.
Ordinato sacerdote il 31 marzo 1923, padre Bernardo è pronto per il grande balzo verso l’Africa, ma lo scoprono tisico con i polmoni bucati. La morte lo attende impietosa. Il tubercolotico, però, guarisce, ancora «per grazia ricevuta» dalla Madonna del Carmine di Falzé.
Ora si parte? Non ancora. Nel 1927 il superiore dei Comboniani lo manda a Bovino, in provincia di Foggia, per iniziare un seminario missionario. Però il seminario nascerà nella vicina, gloriosa ed antica Troia, che nulla ha a che fare con la Troia della seducente Elena, descritta dal poeta greco Omero.
Siamo sempre nel foggiano. Qui padre Bernardo e alcuni comboniani fanno i preti, risiedono in una casa (un ex convento) dedicata a «Maria Mediatrice di tutte le grazie». Sennonché «la Mediatrice» non c’è. Mancano pure i quattrini per comprarne un’immagine.
La notizia giunge fino al vescovo Fortunato Farina, che mette mano al suo portafoglio.
Padre Bernardo, in fatto di Madonne, ha gusti fini. Non si accontenta di immagini qualsiasi, magari rabberciate con lo spago. Per Troia, Bernardo esige una Maria Mediatrice pregevole, artistica, nuova di zecca. Soprattutto che parli al cuore dei troiani.
A tal scopo raggiunge Ortisei, in Alto Adige, dove si intagliano statue sacre in legno pregiato.
«Non voglio “una Madonna nordica”, perché io sono missionario nel Sud Italia – esordisce padre Bernardo di fronte all’artigiano altoatesino -. Inoltre, deve essere una Madonna missionaria».
«Si spieghi meglio, reverendo, perché lei sta andando sul difficile», replica l’artigiano dall’accento teutonico.
«La Madonna – spiega padre Sartori – tenga in una mano il piede di Gesù Bambino e con l’altra ne sorregga il braccio, quasi voglia porgerlo ai fedeli visitatori. Insomma, una Madonna che presenti a tutti Gesù salvatore del mondo». Oggi, secondo la mariologia moderna, la Madre del Signore è immagine e inizio della Chiesa, che avrà il suo compimento domani e dopo domani. Nel frattempo, Maria, per il travagliato popolo di Dio, «brilla quale segno di sicura speranza e consolazione» (Lumen Gentium 68). Infine, nel 1965, al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II, papa Paolo VI (oggi santo) dichiarerà Maria «Madre della Chiesa». La dimensione mariana è uno dei cardini della spiritualità del nostro missionario.
Maria, Sultana d’Africa
Emoziona il tenore Andrea Bocelli, cieco, quando canta: «Con te partirò. Paesi che non ho mai veduto e vissuto con te, adesso sì li vedrò».
Finalmente anche padre Bernardo Sartori parte. Parte per un paese mai visto. È l’Uganda dei martiri Carlo Lwanga e dei suoi 21 compagni (alcuni anglicani). Parte il 5 novembre 1934 con in cuore tutte le persone cui ha comunicato la sua passione missionaria in Italia.
Quando arriva a Gulu, trova ad attenderlo fratel Arosio, un amico fin dai tempi di Troia.
«Ciao, vecchio. Cosa sei venuto a fare in Uganda?», lo canzona Arosio.
«Sono venuto a costruire chiese per la Madonna», sorride Bernardo.
«Ed io ti aiuterò», conclude Arosio.
«Costruire chiese per la Madonna». Grazie al sostegno dei compaesani di Falzé, degli amici di Troia e di altri benefattori, padre Bernardo costruirà numerose chiese in onore della Madre del Signore.
Ne ricordo quattro: Maria Sultana d’Africa a Lodonga, Maria Madonna di Fatima a Koboko, Maria Regina Mundi a Otumbari, Maria Madre della Chiesa a Arivu.
A Lodonga la vita è particolarmente complessa, perché è controllata in tutto dai musulmani. I colonialisti inglesi, che dominano l’Uganda, ritengono che a Lodonga l’Islam diventerà presto l’unica religione dell’intera tribù dei Logbara. Però padre Sartori erige una barriera con Maria, Sultana d’Africa. Ebbene, l’avanzata islamica si arresta. Nel 1961 i musulmani sono 30mila, e 30mila rimarranno a tutt’oggi, mentre i cattolici aumenteranno. Inoltre, parecchi musulmani abbracceranno il Cristianesimo. Di qui l’affermazione: «L’unico missionario capace di convertire i musulmani è padre Bernardo Sartori».
C’è «una logica soprannaturale» nel missionario: Maria è la porta dell’evangelizzazione (ad Iesum per Mariam). Così la chiesa materiale è il coronamento visibile di un’altra realtà più importante: la nascita della Chiesa viva.
Alla costruzione di chiese padre Bernardo abbina sempre un’altra opera assai più impegnativa e significativa: l’annuncio della «lieta notizia».
Ecco, allora, le interminabili visite alle comunità cristiane a piedi, in bicicletta o con la famosa moto a monocarrello; ecco le interminabili maratone sacramentali, le istruzioni, le penitenze. Il tutto accompagnato da una predicazione appassionata, canti coinvolgenti e una costante promozione sociale e spirituale.
Last but not least, tanta preghiera personale e altrettanta affabilità verso tutti.
Solo così si spiegano le conversioni dei seguaci di Muhammad.
Quello storico mattino
Dal 1971 il missionario vive le drammatiche vicende della bizzarra quanto brutale dittatura di Idi Amin Dada, nonché la sua caduta nel 1979, conseguente alla guerra Uganda-Tanzania.
Nel 1979 l’esercito del Tanzania invade l’Uganda fino alla capitale Kampala. È una dura «ritorsione», giacché i soldati di Amin hanno invaso per primi il Tanzania a Kagera.
Il Tanzania pagherà salatissima, in termini economici, quella invasione di «liberazione», mentre l’Uganda sprofonderà nella guerra civile.
Nella missione di Arivu tanti cristiani di padre Bernardo cercano scampo nel Congo (allora Zaire). Il missionario li segue, profugo tra i profughi.
Nel 1980 ritorna in Uganda e il 28 aprile rimane coinvolto in una sparatoria a Otumbari.
Da giugno a luglio 1982, padre Bernardo è nuovamente profugo in Congo. Instancabile nella pastorale e nell’assistenza alla popolazione abbattuta nel fisico e nel morale.
Ritorna in Uganda, nella missione di Ombaci. Ha 85 anni. È molto stanco.
Ma ogni mattina sosta in chiesa dalle ore 4 alle 8. Come se non bastasse, trascorre notti intere in preghiera.
Pure quel mattino, mentre in cielo si rincorrono le stelle sotto lo sguardo assorto della luna, il missionario entra in chiesa facendosi luce con una lanterna al cherosene.
È storico quel mattino, perché è il mattino di Pasqua del 3 aprile 1983.
Ora padre Bernardo Sartori giace esamine sul pavimento della chiesa al cospetto del Santissimo. È ritornato alla casa del Padre.
La lampada è ancora accesa, segno di una fede che ha vinto la morte.
L’arrivederci del popolo di Uganda al suo missionario è una apoteosi di commozione e riconoscenza senza pari.
La notizia raggiunge la gloriosa Troia, che proclama il lutto cittadino.
Mentre la modestissima Falzé canta l’alleluia pasquale, perché il loro indimenticabile compaesano è risorto.
Francesco Bernardi
L’articolo si rifà liberamente al libro «La sfida di un uomo in ginocchio» (padre Bernardo Sartori, missionario comboniano in Uganda), scritto da Lorenzo Gaiga, Emi, Bologna 1985.
I Padroni del mondo.
Lo strapotere delle aziende tecnologiche
Sono nate promettendo l’uguaglianza e la fine dei monopoli. Ma presto hanno rivelato la loro vera faccia. Come le aziende Big tech sono diventate il Grande fratello di Orwell.
Nella storia della pubblicità rimane una pietra miliare. È lo spot della durata di un solo minuto, con cui, senza mai mostrare il prodotto, venne reclamizzato il primo Macintosh di Apple: un personal computer che, negli intenti di Steve Jobs, avrebbe dovuto affermarsi (e così è stato) come un oggetto rivoluzionario. Ambientato in un futuro distopico, in cui domina una sorta di Grande fratello, lo spot, firmato dal grande regista Ridley Scott, andò in onda una sola volta nel 1984, durante una pausa di gioco del Super Bowl. Eppure lasciò un segno indelebile nell’immaginario collettivo, veicolando l’idea che – grazie ad Apple – sarebbe finito lo strapotere di chi, all’epoca Ibm, deteneva il monopolio dei computer. Finalmente accessibile a tutti, il pc avrebbe liberato l’umanità da una sorta di cappa, tipica di una società totalitaria come quella descritta nel romanzo «1984» di George Orwell.
Quarant’anni dopo, sappiamo com’è andata a finire: nell’arco di pochi decenni, i nuovi protagonisti del mondo della comunicazione sono diventati giganti ingombranti e pericolosi, assai più dell’Ibm del 1984. Nel frattempo, gli attori della rivoluzione digitale – Steve Jobs, Bill Gates, Jeff Besoz, solo per citare i più noti – diventavano i profeti della «nuova era».
È stato coniato un neologismo per indicare il pool di colossi che oggi hanno dimensioni economiche pari a quelle di alcuni Stati, una potenza tecnologica straordinaria (già adesso e, ancor più, in futuro grazie all’intelligenza artificiale), oltre che una capacità di influenza sui cittadini senza precedenti. L’acronimo Gafam allude a Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Quelli che, nel suo libro Rete padrona (Feltrinelli) Federico Rampini, già 10 anni fa, chiamava «i nuovi padroni dell’universo».
Jobs, Gates & company
Sebbene le aziende in questione siano diverse fra loro per vari aspetti (vedi box Salobir), è diventato ormai comune l’utilizzo dell’acronimo Gafam al quale oggi andrebbe forse aggiunta un’ulteriore M. Il riferimento è a Elon Musk, patron di Tesla e di molte altre aziende, divenuto particolarmente famoso da quando, nel 2022, ha acquistato Twitter, poi diventato X. Particolare curioso: anche «il visionario Musk» ha accompagnato l’acquisto di Twitter con una dichiarazione che voleva essere profetica: «L’uccello è stato liberato». A soli due anni di distanza, il cinguettio dell’uccellino in questione sa più di agonia che non di libertà.
Se ci occupiamo qui di un tema come questo, in apparenza per addetti ai lavori, è perché urge avere più consapevolezza del potere e delle strategie dei Gafam, così da utilizzarne i prodotti in modo adeguato. Già, perché tutti, in un modo o nell’altro, siamo fruitori dei tanti servizi offerti da queste aziende.
Dell’importanza dei social e del peso delle imprese che li hanno lanciati, ce ne siamo accorti, in modo particolare dopo il 2016. Ormai è documentato da inchieste giornalistiche e studi scientifici come in quel fatidico anno – sia nel caso del referendum sulla Brexit quanto nelle elezioni che portarono alla vittoria di Donald Trump – un ruolo importante venne giocato dalle fake news, veicolate ad arte proprio sui social. Un fenomeno talmente nuovo e grave che per definirlo fu coniata un’espressione inquietante, «post verità», che l’Oxford english dictionary indicò come parola dell’anno proprio nel 2016. Quanto alle fake news e agli effetti di quello che gli studiosi chiamano «disordine informativo», ci siamo resi conto di quanto pesino nella vita di una comunità soprattutto durante la pandemia, quando un’informazione corretta, rispetto ad esempio ai vaccini, ha determinato la vita o la morte di tante persone.
«Mostri a cinque teste»
Sono ormai numerosi i libri che mettono sotto accusa i Gafam e le loro strategie, oltre che i loro comportamenti (tra questi l’allergia ai sindacati e il frequente ricordo all’elusione fiscale). Un pamphlet, uscito in Francia nel 2023 a firma di Philippe Gendreau, definisce i Gafam niente di meno che «un mostro a cinque teste». Sotto accusa è, anzitutto, l’enorme potere economico da essi acquisito. Un esempio fra i tanti: a gennaio di quest’anno Apple aveva raggiunto un valore di mercato di tremila miliardi di dollari, più dell’intero Pil della Francia, la settima economia del mondo. Il rapporto Oxfam 2024 conferma: «Le “Big tech” dominano i mercati: tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online fluiscono a Meta (Facebook e altri), Alphabet (Google) e Amazon, e oltre il 90% delle ricerche online viene effettuato tramite Google».
Tale preoccupante trend già qualche anno fa era finito sotto la lente della Commissione antitrust della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, che in un rapporto di 449 pagine, così dipingeva i Gafam: «Aziende che una volta erano start up da strapazzo che sfidavano lo status quo sono oggi divenute i tipi di monopoli che non si vedevano dall’era dei baroni del petrolio e dei magnati delle ferrovie. Benché queste aziende abbiano apportato indubbi benefici alla società, il dominio di Amazon, Apple, Facebook e Google ha un prezzo. Queste società tipicamente controllano il mercato mentre vi competono». La concentrazione di potere economico è tale che i Gafam sono anche gli unici che possono compiere acquisizioni di altre aziende del settore: non a caso Facebook (ora di Meta) ha comprato prima WhatsApp e poi Instagram, sborsando cifre astronomiche, che pochissimi altri al mondo avrebbero potuto investire.
Il nuovo petrolio
Con il loro dominio nel settore tecnologico, dai software all’e-commerce, di fatto i Gafam sono ormai indispensabili per miliardi di persone che ogni giorno li usano: pensiamo, ad esempio, a quante ricerche sul web ogni giorno vengono effettuate tramite Google, a quante mail viaggiano grazie a Gmail, a quanti messaggini quotidianamente ci scambiamo su Whatsapp, quanti prodotti vengono acquistati su Amazon e così via. Tale dominio tecnologico, pressoché incontrastato, ha reso questi colossi i principali controllori di quello che oggi viene chiamato «il nuovo petrolio»: i dati personali che, coscienti o meno, ogni giorno affidiamo alle piattaforme mentre interagiamo con loro. Un autentico tesoro. È proprio a partire da questa oceanica massa di informazioni personali – prelevate, lavorate e vendute – che sta prendendo forma quello che la studiosa Sushana Zuboff ha chiamato «il capitalismo della sorveglianza».
Più in generale, le conseguenze sulle persone prodotte da queste aziende sono ormai sotto gli occhi di tutti. Il «Wall Street Journal» del 27 gennaio 2021 ha scritto che «abbiamo perso il controllo di ciò che vediamo, leggiamo – e persino pensiamo – a favore delle più grandi società di social media». Franklin Foer, nel suo I nuovi poteri forti, descrive «come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi». Il giornalista statunitense Max Fisher nel suo La macchina del caos va oltre, quando denuncia: «Questa tecnologia esercita un’attrazione talmente forte sulla nostra psicologia e sulla nostra identità, ed è talmente pervasiva nella nostra vita, da cambiare il nostro modo di pensare, di comportarci e di relazionarci con gli altri. L’effetto finale, moltiplicato su miliardi di utenti, è quello di cambiare la società stessa in cui viviamo».
Un terreno (troppo?) fertile
Come siamo arrivati fin qui? Accanto a ragioni tecniche ed economiche, va ricordato il terreno culturale fertile del quale sono cresciuti i Gafam. Complici e miopi, ubriacati dal mito dell’underdog che diventa uomo di successo, in tanti, per anni, abbiamo osannato acriticamente personaggi quali Steve Jobs, Bill Gates e altri. Troppo bella la favola delle start up che nascevano dal nulla (di solito in mitici garage) per poi sbaragliare il mercato. Troppo seducente l’ideologia della Silicon Valley, anche se poi, nel giro di pochi anni, si è rivelata una Valle oscura (come suona il titolo del libro con cui Anna Wiener smonta il mito del più “cool” pezzo d’America).
«C’è stata un’indulgenza eccessiva», sintetizza per i lettori di MC Stefania Garassini, giornalista e studiosa, che già nel 1993 aveva fondato la rivista «Virtual», il primo mensile dedicato alla cultura digitale in Italia. «Non c’è dubbio – spiega Garassini – che l’avvento delle tecnologie digitali sia stato accolto da un alone di ottimismo. Del resto, affascinava molti l’utopia californiana, ossia l’idea che il pc garantisse l’accesso universale al sapere, una partecipazione più democratica e una cittadinanza più informata. Poche, molto poche le voci critiche in quel periodo. Dopo l’esplosione della bolla speculativa che ha colpito nel 2000 le aziende cosiddette «dot.com», l’economia del digitale è ripartita alla grande grazie al web 2.0. Non c’è stata critica all’inizio perché era dominante un pregiudizio positivo; in più, era difficile prevedere come si sarebbe evoluto il tutto». Continua Garassini: «Tra i pochi ad aver messo in guardia circa possibili effetti problematici del digitale segnalo
Howard Rheingold, autore di Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio. La tesi era chiara: c’è la possibilità che la tecnologia si riveli uno strumento molto adatto a promuovere un’esasperata commercializzazione dei nostri dati. “Quando il Grande Fratello arriverà, non stupitevi se avrà le sembianze di un commesso del supermercato”. È andata proprio così, la situazione ci è sfuggita di mano».
Piattaforme nel mirino
Dalle stelle alle stalle. Per lunghi anni i Gafam hanno conquistato fette di mercato sempre più ampie, ottenendo successo e popolarità in moltissimi Paesi del mondo. A quale prezzo? Amaro il bilancio che Valerio Bassan fa nel suo recente libro Riavviare il sistema. «La nascita di grandi monopoli tecnologici ha profondamente trasformato la struttura di internet. L’ingerenza autocratica di aziende e governi l’ha frammentata. E la diffusione di modelli di business basati su “datificazione” e sorveglianza ha disumanizzato il ruolo delle persone su internet». Gli fa eco padre Eric Salobir, nel suo Dieu et la Silicon valley: «Il mondo hi-tech è in crisi. Una crisi che non ha cessato di amplificarsi a partire dallo scandalo di Cambridge Analytica. Aggiungiamoci alla rinfusa le questioni dell’anonimato online, delle fake news e delle falle nella sicurezza informatica. Tutte cose che in comune hanno l’erosione della fiducia nelle nuove tecnologie. Un senso di inquietudine è venuto a gettare ombre sullo stupore, del resto sempre più relativo, ispirato dalle loro promesse».
Non da oggi, stanno emergendo una serie di problemi che hanno portato i Gafam a salire, loro malgrado, alla ribalta mondiale in più occasioni. A febbraio il Ceo di Meta è stato convocato per l’ottava volta dal Congresso americano, insieme ai responsabili di alcune delle principali piattaforme (TikTok, YouTube, Twitter-X e altre). Nello stesso mese la città di New York ha aperto una causa contro TikTok, Facebook, Instagram, YouTube e Snapchat ritenendoli responsabili di aver peggiorato la salute mentale di minori e adolescenti. Il 13 marzo la Camera dei rappresentati americana ha approvato a larga maggioranza una legge che apre la strada al divieto di usare TikTok negli Usa. Questa serie di interventi – stando a quanto scrivono alcuni – avrebbe spinto Musk e altri big delle aziende della Silicon Valley, storicamente simpatizzanti per i Democratici, a cambiare cavallo, sposando Trump in vista del voto di novembre.
L’influenza sulla politica
Altro paradosso: il sogno di una trasformazione digitale che avrebbe aumentato i diritti di tutti è naufragato schiantandosi contro un uso politico dei prodotti Gafam, in particolare dei social. Abbiamo così assistito all’uso efficace di Facebook e altri social da parte di autocrati e dittatori che sono riusciti a inasprire il controllo su dissidenti e voci critiche, anziché favorire la partecipazione popolare, come negli auspici dei pionieri del web. Ricordate la Primavera araba? Lo strumento di Twitter, che servì per infiammare le folle, è stato il medesimo poi utilizzato per diffondere fake news dai detentori del potere. In un articolo uscito sull’Huffington post il 3 giugno, l’autore – un russo di cui viene taciuto il nome per ragioni di sicurezza – sostiene che «i giganti del web, tra profitto e libertà di parola in Russia, spesso sacrificano la seconda ai fini del primo».
La questione di un utilizzo equilibrato delle piattaforme riguarda da vicino il futuro della democrazia. Come sottolineava Gianni Riotta il 6 giugno su Repubblica: «L’arena cruciale della nostra vita politica quotidiana è, da una generazione, la rete e le elezioni per la Casa bianca fra Trump e il presidente Biden a novembre, avranno nel web il campo di battaglia decisivo». Alla luce di tutto questo, appare urgente quindi che la politica intervenga in maniera decisa sul tema delle Big tech, se si vogliono conservare intatti i pilastri della corretta informazione, della trasparenza e della democrazia, altrettanti capisaldi per una convivenza che si possa definire civile. L’alternativa è che nei prossimi mesi si possano ripetere, negli Stati Uniti, le incredibili scene cui abbiamo assistito in occasione dell’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021: un’azione coordinata per mezzo di Facebook.
Il tango si balla in due
In attesa che siano meglio regolamentati i Gafam, cosa possiamo fare noi, utenti di Google e dei social o clienti di Amazon? Nel marzo 2021, Nick Clegg, capo delle relazioni pubbliche di Facebook, rispose con un lungo post a chi accusava il social di Zuckerbeg di faziosità. Il titolo era Tu e l’algoritmo: per ballare il tango bisogna essere in due. Al netto dello spirito polemico, Clegg ha ragione su un punto: quanto noi utenti siamo consapevoli dell’uso che facciamo dei prodotti dei Gafam? Quanto stiamo (o meno) attenti alla nostra privacy? E così via.
Il giornalista Gigio Rancilio dal giugno 2016 cura su Avvenire la rubrica «Vite digitali». Interpellato da MC, spiega: «In un mondo dove moltissime delle nostre azioni sono tracciate, è evidente che ogni nostra scelta assume un valore economico, politico e sociale.
Pensiamo all’informazione: non è la stessa cosa cliccare su un generico contenuto prodotto dall’ennesimo creator o sull’inchiesta di un giornale. Tutto ciò produce conseguenze ben precise. Ognuno di noi vota quotidianamente, con le tante azioni digitali che compie. Diventa allora necessario saper cercare con intelligenza e, in secondo luogo, valutare criticamente il risultato di quanto ci viene proposto: è l’attività più importante che come cittadini digitali – dagli adolescenti ai nonni – siamo chiamati a compiere». Chiude Rancilio: «Per quanto ci chiedano un surplus di vigilanza, sarebbe sbagliato eliminare le tecnologie e l’intelligenza artificiale dalle nostre vite. È facile spaventarsi delle conseguenze, ma siamo chiamati alla responsabilità e, in ogni caso, abbiamo sempre il dovere della speranza».
Gerolamo Fazzini
La macchina del caos
Facebook: 3 miliardi di utenti
Con i suoi tre miliardi di utenti e una potenza di fuoco senza eguali, Facebook, che ha da poco compiuto 20 anni, è il più fortunato, ma anche il più criticato, dei social al mondo.
Nel febbraio scorso la prestigiosa rivista Wired ha scritto: «A due decenni esatti dal lancio, possiamo dirlo: non avremmo dovuto fidarci. La storia del social network fondato da Mark Zuckerberg è infatti costellata di scandali, controversie, invasioni della privacy, disinformazione, inquietanti esperimenti di ingegneria sociale e addirittura violenza alimentata tramite quella che era nata come una innocua piattaforma per aiutare amici e parenti a restare in contatto».
Non meno taglienti le parole di Sheera Frenkel e Cecilia Kang in apertura del loro volume
Facebook: l’inchiesta finale (Einaudi, 2021), frutto di un lavoro giornalistico immane: «Un potente monopolio che ha fatto grossi danni. Ha abusato della privacy degli utenti e ha fomentato la diffusione di contenuti tossici e dannosi raggiungendo tre miliardi di persone».
A detta di molti, oltre che per lo scandalo di Cambridge Analytica, Zuckerberg dovrebbe rivolgere le sue scuse, in particolare, a milioni di utenti di Paesi in via di sviluppo dove, complice l’età media molto bassa, il suo social è particolarmente diffuso. Nel 2021 Alexandre Piquard ha firmato su Le Monde un caustico pezzo dal titolo Facebook non sa le lingue, nel quale afferma: «Alcuni documenti interni all’azienda rivelano che in molti paesi, soprattutto quelli più instabili, il social network non è in grado d’impedire o limitare la diffusione dei contenuti violenti e discriminatori». Come documenta, con abbondanza di esempi. La macchina del caos di Max Fisher, i social, in particolare Facebook (per colpa di algoritmi progettati per aumentare ad ogni costo il coinvolgimento dei fruitori, anche a costo di puntare su contenuti divisivi e premiare spesso i fautori dell’odio), hanno, in molti casi, esasperato le posizioni politiche, esacerbato le divisioni religiose, contribuendo a seminare violenza. Il tutto in Paesi quali Myanmar, Sri Lanka, India, Indonesia. Anche una giornalista coraggiosa come la filippina Maria Ressa, vincitrice del Nobel per la pace nel 2021, nel suo libro Come resistere a un dittatore (La nave di Teseo, 2023), racconta come lei stessa inizialmente aveva utilizzato Facebook per le sue battaglie pro-democrazia, ma si sia vista costretta a fare marcia indietro, dopo essersi accorta dei perversi meccanismi che regolano la piattaforma di Zuckerberg.
G.F.
Dio e la Silicon Valley.
Eric Salobir
Fondatore di Optic, il primo think tank affiliato al Vaticano che ha a che fare con la tecnologia, il domenicano Eric Salobir è, insieme a fra Paolo Benanti, francescano, tra gli uomini di Chiesa più esperti in tema di rivoluzione digitale. In un bel volume uscito in Francia nel 2020 (e presto in Italia, per i tipi di Lev), dal titolo Dieu et la Silicon Valley, invita a non cedere a facili schematismi: «La Silicon Valley non è il paradiso, ma non si riduce alla visione caricaturale rappresentata dall’acronimo Gafam. E poi c’è il fatto che le entità di questa sigla sono profondamente diverse tra loro, tanto nei servizi che offrono come nei loro motti o slogan: che cosa c’è di comune tra il Don’t be evil, l’imperativo categorico di Google presente nel suo codice etico, e il Work hard. Have fun. Make history di Amazon? Non si possono assimilare in una stessa parola, Gafam, aziende dalla cultura e dal business model così differenti».
G.F.
Quali sono le alternative ai Gafam.
Incontro con Valerio Bassan, giornalista esperto digitale
Giornalista, già docente universitario, autore dell’apprezzatissima newsletter «Ellissi», Valerio Bassan è un acuto osservatore del mondo digitale, come prova il suo libro «Riavviare il sistema». MC lo ha intervistato, per capire se ci sono alternative percorribili ai prodotti «Made in Gafam».
Per quanto potenti siano le Big Tech, alcune vittorie sul fronte della privacy negli ultimi anni i consumatori le hanno ottenute. Quali e come?
«Dal 2018, anno in cui fu varato il Gdpr (regolamento della Ue in materia di trattamento dei dati e privacy, ndr), i cittadini hanno visto uno sforzo da parte dell’Unione europea nel regolamentare lo strapotere delle grandi aziende tecnologiche. Due leggi recenti come il Digital markets act e il Digital services act sono state implementate con l’obiettivo di porre un freno a pratiche commerciali considerate scorrette, e di aprire le “scatole nere” degli algoritmi che i colossi tech utilizzano per rafforzare il proprio dominio. Tutto starà nel vedere come queste leggi – perfettibili, ma che rappresentano un primo storico passo avanti – verranno implementate. L’effetto potrebbe essere ampiamente positivo per chi risiede nel continente. Resta da vedere se ci sarà un impatto a livello globale, dato che molte di queste aziende operano al di fuori dei confini Ue».
La stragrande maggioranza di noi utilizza Google Chrome come browser. Altri usano Firefox. Potrebbe valer la pena cambiare abitudini?
«I browser sono la nostra porta d’accesso principale al web, e per questo svolgono un ruolo di intermediazione che è quasi invisibile ai nostri occhi ma rimane estremamente potente e influente; plasmano la nostra esperienza di internet e sono i canali di irrigazione da cui transitano moltissimi nostri dati. Ma non tutti i browser sono uguali. Firefox, ad esempio, così come Brave, sono tra i più attenti alla nostra privacy. Oltre a proteggere meglio le nostre informazioni, sono progettati per aiutarci a fare scelte consapevoli su come investiamo il nostro tempo e la nostra attenzione online, il tutto con un’esperienza di navigazione equiparabile a quella di browser più dominanti come Chrome. Installarli è facile e sono anch’essi gratuiti, dunque non ci sono reali motivi per non provarli da subito».
Passiamo alle app di messaggistica: la più nota in assoluto è senz’altro Whatsapp. Conviene abbandonarla e dirottarci su Signal? Se sì, perché?
«Signal è un’ottima app, con tante funzioni che ci permettono di salvaguardare la nostra privacy; inoltre, essendo di proprietà di una fondazione non profit, ci garantisce che i nostri dati non verranno mai usati per fini commerciali. Per quanto la apprezzi e la usi spesso, mi viene tuttavia difficile immaginare un mondo senza Whatsapp, che è molto diffusa e altrettanto semplice da utilizzare. Con così tanti utenti è impossibile ipotizzare una reale migrazione di massa verso un’alternativa: è la logica protettiva dei giardini recintati, in cui vince chi ha sfruttato al meglio l’effetto network. Ed è per questa stessa ragione che subito dopo Whatsapp troviamo Messenger, un servizio che appartiene alla stessa azienda, Meta. Forse solamente quando l’interoperabilità sarà più diffusa avremo più possibilità di scelta, e quindi saremo liberi di decidere di utilizzare l’app più sicura per ricevere i messaggi di chiunque».
Quando Musk si è impadronito di Twitter, trasformandolo poi in X, parecchi utenti sono migrati su Mastodon, tra questi un intellettuale del calibro di Vito Mancuso. Ebbene: Mastodon si presenta come «il social networking che non è in vendita». E reclamizza i suoi servizi sostenendo che «la tua home feed dovrebbe essere riempita con ciò che conta di più per te, non con ciò che una corporation pensa che dovresti vedere». C’è da fidarsi?
«Mastodon è un progetto decentralizzato, e in quanto tale nessuno può guadagnarci: non c’è un proprietario e nessuno può controllarne ogni spazio, come invece succede con le piattaforme private delle Big Tech. Ci riporta a un’idea primordiale della rete, quella del cyberspazio, in cui non c’è una reale sovranità all’interno degli spazi di discussione, che su Mastodon si chiamano “istanze”, e quindi non c’è una reale possibilità di monetizzazione. Insomma, c’è da fidarsi, ma la vera domanda è un’altra: e cioè quante persone siano disposte a spostarsi all’interno di un social decentralizzato, perdendo i propri follower e following, e ritrovandosi in un ecosistema più povero di contenuti, influencer e creator».
Veniamo ai servizi e-mail o cloud. Quali ti senti di consigliare?
«Di servizi di e-mail e cloud alternativi ce ne sono tantissimi. I più etici e conosciuti a livello internazionale sono sicuramente lo svizzero Protonmail e il tedesco Tutanota. In Italia c’è poi il progetto tecnologico e politico insieme di Autistici/Inventati, che nasce come servizio open source pensato appositamente per attivisti e collettivi».
Infine. Per chi volesse fare a meno di Google, ci sono motori di ricerca alternativi? Che ne pensi di DuckDuckGo?
«I motori di ricerca sono un altro grande gatekeeper e meriterebbero di vedere il proprio monopolio messo quantomeno in discussione – cosa tutt’altro che semplice. DuckDuckGo è una buona alternativa perché non raccoglie né condivide le informazioni personali degli utenti, né traccia le ricerche. Certo, a volte i risultati possono non essere all’altezza di quelli di Google, specialmente in termini di rilevanza e aggiornamento. Con la diffusione dell’AI, però, stiamo assistendo alla genesi di una nuova era, in cui il ruolo dei motori di ricerca cambierà: questi sistemi ci forniranno sempre più risposte direttamente nella ricerca, grazie alla generazione di testi, e diminuiranno i link verso pagine esterne, trattenendo gli utenti al loro interno. Purtroppo, questo nuovo scenario indebolirà i concorrenti più indipendenti: a essere più performanti saranno i motori di nuova generazione che potranno spendere più soldi nella creazione di sistemi più sofisticati e negli accordi con i fornitori dei contenuti. E quindi temo che, ancora una volta, in primissima fila resteranno i servizi delle Big Tech come ChatGPT (di OpenAi, finanziata da Microsoft, che ha la sua Ai Copilot, integrata nel motore di ricerca Bing, ndr) e Gemini (di Google), che hanno capitali da investire molto più grandi rispetto ai competitor indipendenti, come Perplexity o la stessa DuckDuckGo».
G.F.
Come la vita è diventata virtuale
Breve storia della rivoluzione digitale
È una storia di quarant’anni. E sta continuando con evoluzione sempre più rapida. Ha cambiato le abitudini e il modo di relazionarsi di miliardi di persone nel mondo. Ma non è tutto positivo. Ripercorriamone le tappe.
Questa sintetica cronologia ricapitola alcune delle principali tappe del processo che ha visto l’affermazione su scala globale dei Gafam, soprattutto il lancio e la successiva diffusione di alcuni dei più famosi prodotti tecnologici e social media del mondo.
1969. Nasce Arpanet negli Usa, la prima rete di computer a uso militare e accademico, da essa sarà originata Internet nel 1983.
1975 Nasce Microsoft.
1982. Appare il sistema operativo McDos. Il settimanale statunitense «Time» dedica la copertina al personal computer come «macchina dell’anno». L’anno dopo nasce il «mouse».
1984. Attiva dal 1977, Apple mette sul mercato Macintosh, il primo pc destinato al largo consumo con un’innovativa interfaccia grafica. Nello stesso anno, in Cina, viene fondata Lenovo, che gradualmente si specializzerà nel campo dei pc.
1985. Microsoft introduce il sistema operativo Windows, con applicazioni come Word ed Excel, che conosceranno grande fortuna e che, insieme ad altri programmi, verranno poi ribattezzati Office nel 1990.
1989. Il 12 marzo Tim Berners-Lee presenta ai suoi capi al Cern di Ginevra quello che poi diverrà il World wide web, il principale servizio di internet.
1991. Grazie a Linus Torvalds, studente finlandese di ingegneria, decolla Linux, uno dei sistemi operativi open source più utilizzati anche oggi.
1992. A dicembre viene inviato il primo Sms della storia, messaggio di 160 caratteri.
1994. Il giovane Jeff Bezos fonda Amazon.
1995. Con il nuovo sistema operativo Windows 95, Microsoft consolida la propria leadership nel settore. L’azienda, che Bill Gates e Paul Allen avevano fondato vent’anni prima, diverrà uno dei pilastri dei Gafam.
1998. ll 6 maggio è la data di esordio di iMac, uno dei prodotti più importanti nella storia di Apple perché rappresenta l’introduzione del design nel mondo dell’informatica.
Il 4 settembre Larry Page e Sergey Brin, due studenti della Stanford University, lanciano il motore di ricerca Google, in un garage di Menlo Park. Pochi anni dopo, verranno introdotti nel motore di ricerca annunci pubblicitari targhettizzati sulla base delle ricerche degli utenti. Si affermerà così Google AdWords, la piattaforma pubblicitaria della compagnia, che porterà in breve Google a diventare uno dei colossi del settore tech.
1999. Il 19 gennaio arriva sul mercato il primo telefono Blackberry, per l’epoca un oggetto straordinario: consente infatti di mandare e ricevere messaggi tramite una tastiera Qwerty. Il 21 luglio viene messo in commercio il primo modello di iBook: un altro prodotto di grande successo targato Apple, per la lettura di libri non cartacei.
2000. A inizio anno decolla Baidu, il primo motore di ricerca cinese che diventerà il secondo al mondo, dietro Google. La Commissione europea mette nel mirino Microsoft per sfruttamento di posizione dominante; seguono due condanne rispettivamente nel 2004 e nel 2008.
2001. Il 15 gennaio nasce Wikipedia, enciclopedia online a contenuto libero. Diverrà una delle tappe più importanti dell’evoluzione di internet nel decennio 2000-2009. Nello stesso anno Apple lancia l’iPod, rivoluzionario sistema per la fruizione di brani musicali in digitale. Steve Jobs presenta la nuova strategia di Apple: il pc al centro, come «hub» di una serie di nuovi dispositivi. Nasce la digital lifestyle.
2002. Da un team di quattro persone, fra le quali Reid Hoffman, nasce LinkedIn; il lancio ufficiale avviene il 5 maggio 2003. È uno dei primissimi social; impiegato principalmente nello sviluppo di contatti professionali e nella diffusione di contenuti specifici relativi al mercato del lavoro, nel 2016 verrà acquistato da Microsoft.
Nello stesso periodo si afferma il rivoluzionario Google News, un servizio di aggregazione di notizie offerto da Google che raccoglie contenuti da migliaia di fonti in tutto il mondo. A cadenza biennale Google introdurrà una serie di servizi di grande successo: Gmail nel 2004 (che presto diventerà il servizio di posta elettronica più usato al mondo), Google Maps nel 2006, Google Chrome nel 2008, il social network Google+ nel 2011.
2004. Il 4 febbraio Mark Zuckerberg, studente di Harvard, vara The Facebook, che nell’agosto 2005 diventa semplicemente Facebook. Ha così inizio l’era dei social. Nello stesso anno Google sbarca a Wall Street: quello che all’inizio era un semplice motore di ricerca è diventata un’azienda tra le più grandi al mondo.
2005. Il 23 aprile viene pubblicato il primo video su YouTube, dal titolo «Me at the zoo». L’ideatore è Jawed Karim, allora ventisettenne. La piattaforma verrà acquistata da Google nel 2006, per 1,65 miliardi di dollari.
2006. È un anno chiave. Il 21 marzo Jack Dorsey fonda Twitter, un nuovo social che si caratterizza per la brevità dei messaggi (140 caratteri che poi passeranno a 280). A settembre Facebook lancia il News Feed, il flusso di aggiornamenti dai profili degli amici; partono anche le prime critiche sulla tutela della privacy. Negli Usa solo l’11% delle persone usa i social, nel 2014 saranno già i due terzi del totale. Nel medesimo anno Yahoo prova ad acquistare Facebook, allora con «soli» 8 milioni di utenti, offrendo un miliardo di dollari, ma Zuckerberg lascia cadere la proposta.
2007. Nasce iPhone di Apple, che combina, in un piccolo e leggero dispositivo portatile, tre prodotti: un telefono cellulare, un iPod con touch control e un rivoluzionario dispositivo di comunicazione. Lo slogan promozionale – che sintetizza il segreto del futuro successo degli smartphone – suona: «Do everything in one place».
Il 19 novembre 2007 Amazon – già affermatosi il più importante store online – introduce Kindle, che nell’arco di poco tempo si impone come l’e-book reader più popolare del mondo.
2008. Facebook è ormai un fenomeno globale (è l’anno del boom di iscrizioni in Italia). L’azienda vale oltre 15 miliardi di dollari. Nasce il sistema operativo per dispositivi mobili Android di Google, che poi diventerà uno standard per i prodotti non Apple. Un anno dopo nasce WhatsApp.
2010.Il 27 gennaio sul mercato approda l’iPad, il tablet di Apple: un dispositivo multi touch in grado di riprodurre contenuti multimediali e con la possibilità di accedere a internet. Nello stesso anno Apple acquista Siri per 200 milioni di dollari, rendendola l’assistente virtuale presente negli iPhone e negli altri dispositivi. Il 6 ottobre Kevin Systrom e Mike Krieger lanciano Instagram.
2011. In gennaio nasce quella che diventerà la piattaforma sociale per eccellenza in Cina: WeChat. È un sistema di messaggistica e social network (come WathsApp). Su iniziativa di Justin Kan ed Emmet Shear, il 6 giugno decolla un nuovo social: Twitch. Piattaforma di condivisione di videogiochi che verrà acquisita nel 2014 da Amazon per 970 milioni di dollari.
2013. Facebook acquista Instagram per un miliardo di dollari; nello stesso anno si quota in Borsa.
2014. Il 19 febbraio Facebook compra WhatsApp per 19 miliardi di dollari. Un mese dopo, per un miliardo di dollari, acquista Oculus, un’azienda che produce visori per la realtà virtuale.
2015. L’ultimo nato nella casa di Cupertino, il 24 aprile, è l’Apple Watch: un orologio da polso con funzioni da iPhone. Ottobre segna una tappa decisiva nella storia di Google: viene fondata Alphabet, la holding cui fanno riferimento tutte le società controllate del gruppo fondato da Larry Page. Ormai lo spettro di attività si è ampliato molto e comprende tecnologie nel campo della robotica e dei droni, la guida autonoma di veicoli, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale (con DeepMind) e ricerche nel campo delle scienze della vita (grazie a Verily).
2016. In giugno Microsoft si conferma uno dei colossi delle Big tech, acquistando LinkedIn per 26,2 miliardi di dollari. Il 2016 – con il referendum sulla Brexit e le elezioni Usa vinte da Trump – passerà alla storia soprattutto per l’influsso dei social sulla politica. Le piattaforme di proprietà di Facebook vengono usate quasi dal 70% degli americani, ciascuno dei quali in media ci passa circa 50 minuti al giorno. Nel frattempo, un rapporto documenta i danni (polarizzazione estrema, discorsi di odio…) che la piattaforma sta producendo in Myanmar, dove ormai la quota di utenti che riceve news solo da Facebook si sta avvicinando al 40%.
2017. Il 16 giugno, acquistando la catena di supermercati bio Whole Foods Market, Amazon realizza la più grande acquisizione della sua storia: oltre 13 miliardi di dollari. Il 20 settembre sbarca sul web un nuovo social, prodotto dalla società cinese ByteDance: TikTok. È un social per la condivisione video, molto usato dai teenagers che conoscerà, in pochi anni, un’enorme diffusione.
2018. Il 17 marzo scoppia lo scandalo Cambridge Analytica: Facebook viene accusata dal New York Times di aver utilizzato in modo illegale i
dati di decine di milioni di utenti a scopo elettorale. Un mese dopo Zuckerberg finisce davanti al Congresso Usa. Alla società viene comminata una super multa da 5 miliardi di dollari. In novembre un nuovo reportage del New York Times denuncia il coinvolgimento del social di Zuckerberg nelle ingerenze e violazioni di privacy legate alle elezioni russe.
2019. Kindle (di Amazon) arriva a coprire l’80% del mercato dei dispositivi per la lettura dei libri digitali.
2021. In febbraio l’Australia vara una legge che obbliga Google e Facebook a pagare una licenza agli editori per l’impiego dei loro contenuti. In ottobre Facebook cambia nome, diventando Meta; il riferimento è al Metaverso, la nuova tecnologia dove la presenza virtuale – promette Zuckerberg – sarà equivalente e parallela a quella fisica, grazie a un dispositivo di realtà virtuale.
20222. Gli utenti di Facebook arrivano a quota 1,9 miliardi. Ma, per la prima volta, il numero cala rispetto all’anno precedente. Dopo un lungo periodo di espansione e assunzioni, Meta licenzia 11mila dipendenti. In ottobre Elon Musk acquista, per ben 44 miliardi di dollari, Twitter, poi ribattezzato come X. A gennaio 2024 la nuova piattaforma registrerà un crollo del valore di oltre il 70%.
2023. In estate l’intera famiglia Meta (che include Facebook, Instagram, WhatsApp, Threads e altri) arriva a contare 3,88 miliardi di utenti attivi mensili, quasi la metà degli abitanti del pianeta. La rivista Economist commenta: «Facebook e i suoi imitatori non hanno fatto solo soldi. I social media sono diventati il modo principale con cui si usa internet e una parte importante della vita delle persone». In ottobre Microsoft – che produce Xbox – completa la più grande acquisizione della storia dei videogiochi, assumendo il controllo di Activision Blizzard al prezzo di 69 miliardi di dollari. Intanto Gmail arriva a contare quasi 2 miliardi di indirizzi.
2024. Gli Usa approvano una legge che, in nome della sicurezza nazionale, impone a TikTok di separarsi dalla società ByteDance per poter operare negli Stati Uniti (il timore è che sia controllata dal governo cinese). 30 aprile: la Commissione europea apre un’inchiesta su Facebook e Instagram, sospettati di non aver rispettato i loro obblighi in tema di lotta alla disinformazione in vista delle elezioni europee di giugno. Il 16 maggio: Bruxelles mette nuovamente nel mirino le due piattaforme, accusate di alimentare comportamenti di dipendenza nei minori. Dal 29 maggio, grazie a Tap to Pay, anche in Italia chi ha un’attività commerciale può accettare pagamenti contactless via iPhone.
Gerolamo Fazzini
Apple come esperienza «religiosa».
Strategie di marketing
Il grande studioso Umberto Eco, una trentina di anni fa, scrisse: «È mia profonda persuasione che il Macintosh sia cattolico e il Dos protestante; anzi, il Macintosh è cattolico controriformista, e risente della ratio studiorum dei gesuiti. Perché è festoso, amichevole, conciliante, dice al fedele come deve procedere passo per passo per raggiungere – se non il regno dei cieli – il momento della stampa finale del documento» (la citazione si trova in Come viaggiare con un salmone, La nave di Teseo, 2016).
Potrà stupire questo riferimento religioso al mondo dell’informatica, ma, in realtà, i guru del digitale – a cominciare da Steve Jobs – hanno fatto di tutto per sfruttare il desiderio degli utenti di appartenere a un gruppo di «eletti», caratterizzato dalla conoscenza di una «verità nascosta ai più». Emblematica la presentazione del libro di Antonio Guerrieri che uscì per Mimesis nel 2013 con il titolo Apple come esperienza religiosa: «Apple rappresenta per molti suoi appassionati qualcosa in più di una corporation dell’informatica: nella maniera di presentarsi al pubblico e nei sentimenti suscitati nei Mac-user, mostra somiglianze con quanto viene tradizionalmente attribuito alle religioni. Dalla scelta della mela, simbolo del peccato e della conoscenza, alla volontà di differenziarsi in modo eretico-rivoluzionario dall’ortodossia di Ibm e Microsoft: c’è un che di realmente religioso nel culto di Apple e nell’ammirazione, e quasi devozione, di tanti per la figura di Jobs».
Non vi basta? C’è un aneddoto illuminante. In un documentario Bbc Three del 2011 dal titolo Secrets of superbrands vengono descritte le strategie di marketing di Apple. Uno dei registi assistette all’inaugurazione di un Apple store a Covent Garden (il famoso quartiere di Londra) e le scene cui si trovò davanti somigliavano «più a un incontro di preghiera evangelical che non all’occasione per comprare un telefono o un computer portatile». Qualcosa del genere non è accaduto anche da noi ogni volta in cui ha aperto un nuovo punto vendita del colosso di Cupertino?
G.F.
Cosa succede in Cina.
Gafam versus Batx
L’oligopolio delle Big Tech non è solo un fenomeno «made in Usa». C’è, come sappiamo, un grande Paese in cui non solo i Gafam non hanno accesso, ma nel quale nessuno sente la mancanza né di Facebook né di Google: la Cina. Tuttavia, ciò non significa che nella Repubblica popolare non esistano posizioni di fatto dominanti. L’acronimo per definire queste aziende è Batx che indica Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi.
Baidu è il motore di ricerca più diffuso in Cina, l’equivalente di Google. Come Amazon, Alibaba opera invece nel segmento dell’e-commerce. Tencent è l’azienda che ha sviluppato WeChat, una piattaforma di instant messaging che unisce al suo interno funzioni per lo shopping. Xiaomi, infine, è leader mondiale nel campo della telefonia 5G. Come spiegava Vittoria Mamerti in un pezzo sulla rivista «Valori» del giugno 2021, il giro di affari di queste aziende non ha niente da invidiare ai colossi della Silicon Valley.
G.F.
Per approfondire.
Bibliografia essenziale
Per una buona introduzione generale all’argomento Gafam si possono leggere I nuovi poteri forti. Come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi di Franklin Foer (uscito negli Usa nel 2017 e l’anno dopo tradotto in Italia da Longanesi) oppure The four. I padroni. Il Dna segreto di Amazon, Apple, Facebook e Google (Hoepli, 2018), a firma di Scott Galloway, imprenditore e docente universitario statunitense. Assai più recente, focalizzato sulla rete, ma con molteplici e preziosi riferimenti al ruolo delle piattaforme, è il volume di Valerio Bassan, giornalista e digital strategist, dal titolo Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla, uscito pochi mesi fa per Chiarelettere (vedi intervista pag. 38).
Molto ricco di informazioni, impegnativo, particolarmente adatto ai giornalisti o a chi si interessa di comunicazione, è La macchina del caos. Così i social media hanno ricablato il nostro cervello, la nostra cultura e il nostro mondo. L’autore è Max Fisher, giornalista del New York Times. Uscito negli Usa nel 2022, è stato pubblicato in Italia l’anno scorso da Linkiesta Books. Infine, Il capitalismo della sorveglianza di Sushana Zuboff è uno dei testi di assoluto riferimento a livello mondiale. Apparso negli Usa nel 2019, Luiss University Press l’ha pubblicato nel 2023 con una nuova edizione. Chi vuole avventurarsi nella lettura di questo testo tenga presente che è documentatissimo ma non alla portata di un lettore comune. In risposta a quest’ultimo è uscito da poco il provocatorio Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, di Cory Doctorow, per Mimesis.
G.F.
Hanno firmato il dossier:
Gerolamo Fazzini
Nato a Verona nel 1962, dopo aver diretto il settimanale locale Il Resegone, è stato inviato e poi caporedattore delle pagine di Catholica di Avvenire dal 1997 al 2001. Ha diretto Mondo e missione, mensile del Pime (Pontificio istituto missioni estere) per 12 anni. Dal 2014 lavora per il gruppo editoriale San Paolo come consulente di direzione per il settimanale Credere e il mensile Jesus. È docente a contratto di «Media e informazione» al Dams dell’Università Cattolica (sede di Brescia). È autore di numerosi libri, alcuni dei quali tradotti all’estero.
A cura di:
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.
Atomica. L’umanità al bivio
In soli 45 minuti di guerra nucleare morirebbero 85 milioni di persone. L’atomica non è un elemento tra gli altri della politica mondiale. È quello centrale. E rende la guerra obsoleta. Ricordare Hiroshima e Nagasaki per impedire la «soluzione finale» dell’umanità.
Nel 2019 un gruppo di ricercatori dell’Università di Princeton, guidati dal professor Alex Glaser, svolse una simulazione sugli effetti di una guerra nucleare tra Russia e Nato.
Il modello era basato sulla reale dotazione nucleare delle potenze in campo e sui rispettivi obiettivi strategici. Aveva come ipotesi di avvio un primo colpo «tattico» nucleare inviato dall’esclave russa di Kaliningrad – l’antica Königsberg, città di Immanuel Kant, autore, tra l’altro, del progetto Per la pace perpetua – con l’obiettivo di fermare l’avanzata della Nato verso i confini russi, e la conseguente risposta nucleare Usa-Nato.
La previsione fu che in soli 45 minuti si sarebbero causati 85,3 milioni di morti, senza contare le vittime legate agli effetti successivi delle radiazioni.
Un’immane e repentina ecatombe. La morte dell’umanità e della civiltà. Quella distruzione di mondi della Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, evocata da Robert Oppenheimer («sono diventato morte, distruttore di mondi»), il fisico a capo del progetto Manhattan, quando assistette all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo dopo il quale il presidente degli Usa Harry Truman diede il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto del 1945. Come abilmente narrato nel film di Cristopher Nolan (vedi MC 6/2024).
Hiroshima e Nagasaki
Ricordiamo brevemente i fatti. Gli storici che hanno potuto esaminare i documenti Usa desecretati, affermano sempre più convintamente che il governo giapponese era pronto ad arrendersi già da un mese quando piovve le prima bomba atomica il 6 agosto 1945 e, sicuramente, prima che arrivasse la seconda.
Il presidente Truman, però, che era da poco succeduto a Roosevelt, non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Manhattan, e diede ugualmente il via libera allo sganciamento dei due ordigni atomici.
«La vera posta in gioco – ha scritto Zygmunt Baumann su quella decisione ne Le sorgenti del male, 2021 – può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: “Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!”».
Tre giorni dopo, il 9 agosto, la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki.
Furono 220mila le vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa 150mila quelle successive: persone morte per le conseguenze delle radiazioni. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.
La guerra è obsoleta
Mentre si chiudeva la Seconda guerra mondiale, si inaugurava la cosiddetta Guerra fredda con la sua corsa agli armamenti. Iniziava un’era inedita nella quale l’umanità aveva la possibilità dell’autodistruzione.
Non passarono neanche dieci mesi da quel cambio di paradigma nella guerra moderna, avvenuto a spese degli inermi abitanti delle due città giapponesi, quando in Italia cominciarono i lavori dell’Assemblea costituente. Essa aveva perfettamente chiaro che la guerra non era ormai più utilizzabile, non solo «come strumento di offesa della libertà degli altri popoli», ma neanche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Dopo gli oltre sessanta milioni di morti causati dalla guerra appena conclusa, le armi nucleari avrebbero dovuto rendere definitivamente obsoleta la guerra, una realtà da archiviare tra i ferri vecchi della storia.
L’articolo 11, posto tra i Principi fondamentali della Costituzione, dice proprio questo, e obbliga, implicitamente, a ricercare e costruire le alternative alla violenza bellica («pace con mezzi pacifici», recita la Carta delle Nazioni Unite). Alternative compatibili con la continuazione della specie umana sulla terra. È l’etica della responsabilità che innerva la Costituzione e attraversa la parte migliore del pensiero politico del Novecento.
Sul filo del rasoio
Un esempio luminoso di questo pensiero è il Manifesto per il disarmo nucleare, composto nel 1955 da Albert Einstein e Bertrand Russell. Sottoscritto da illustri scienziati del tempo, da Max Born a Linus Pauling, è di una disarmante attualità: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».
Secondo Einstein e Russell l’alternativa ormai è radicale: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». Un quesito che, per noi, qui e ora, è più attuale che mai.
Vale la pena aggiungere che nel 1955, uno dei momenti di maggiore crisi durante la Guerra fredda, le lancette del Doomsday clock – l’orologio dell’Apocalisse, il simbolico indicatore del pericolo nucleare per l’umanità messo a punto dal «Bollettino degli scienziati atomici» fin dal 1947 a Chiacago – era fissato pericolosamente a due minuti dalla mezzanotte, l’ora della fine dell’umanità.
Oggi la situazione è peggiorata: nel gennaio 2023, a quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la nuova posizione delle lancette era a 90 secondi dalla mezzanotte, il punto più pericoloso mai raggiunto per la sicurezza dell’umanità. Stessa situazione confermata nel gennaio di quest’anno.
«L’umanità è sul filo del rasoio – ha ribadito Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, lo scorso 8 giugno -: il rischio che venga usata un’arma nucleare ha raggiunto livelli mai visti dai tempi della Guerra fredda».
Responsabilità e realismo. Bandire le armi atomiche
Eppure, salvo alcuni «grandi vecchi» come papa Francesco ed Edgar Morin, entrambi intervenuti all’Arena di Pace di Verona del 18 maggio scorso (seppure il secondo con un video messaggio registrato), decisori, intellettuali e media sembrano, in grande maggioranza, non avere la percezione del pericolo che stiamo correndo, in questo varco della storia, con la continua escalation della guerra tra potenze nucleari in corso in Europa, dimenticando colpevolmente la lezione di filosofi come Günther Anders che avevano messo al centro della propria riflessione esattamente la situazione dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’autodistruzione atomica. Secondo Anders, nella nostra epoca, qualunque azione politica, in particolare all’interno di un conflitto internazionale, non può non tenere conto della «situazione atomica».
La tesi secondo la quale le armi atomiche sarebbero solo uno degli elementi in gioco nello scenario politico è un inganno. È vero piuttosto che lo scenario atomico è il contesto nel quale avvengono le cosiddette azioni politiche (Tesi sull’età atomica, in Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki).
L’agire politico, dunque, per essere dotato di responsabilità e realismo deve tenere conto dell’esistenza delle armi nucleari. Deve ritrovare «il coraggio di aver paura». La paura, infatti, è segno di consapevolezza e ha un valore euristico, cioè di strumento per conoscere la realtà, oltre che di sprone alla mobilitazione.
Ricordare, dunque, lo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non è – non può essere – la celebrazione di un irripetibile evento storico passato, ma rappresenta – deve rappresentare – la presa di coscienza dello stato presente del mondo. Della sua attuale riproducibilità: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima – scrive Anders – è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima».
Se questa possibilità è ormai irreversibile sul piano delle competenze tecnologiche – e appare sempre più vicina -, è tuttavia modificabile attraverso l’acquisizione dei saperi etici che consentano di imboccare l’unica uscita di sicurezza esistente: la cancellazione delle armi nucleari dalla faccia della terra, con la loro definitiva proibizione, e il superamento della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.
Si tratta di colmare ciò che Anders chiama lo «scarto prometeico», ossia la frattura che passa tra l’infinita capacità produttiva di distruzione e la nostra capacità immaginativa delle conseguenze.
In un pianeta nel quale, mentre la crisi sistemica globale moltiplica i conflitti, i governi moltiplicano le armi e le guerre, è necessario declinare il piano etico del dover essere sul piano politico della possibilità di essere ancora: dando un’ulteriore chance all’umanità attraverso precise scelte di disarmo, a partire dall’adesione al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari.
Parliamo del Trattato Onu voluto dall’azione dal basso dei popoli attraverso la campagna Ican, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2017. In vigore dal 22 gennaio 2021, esso mette fuori legge le testate atomiche, ma non è stato sottoscritto né dai nove governi dei paesi atomici (Usa, Russia, Cina, India, Pakistan, Gran Bretagna, Francia, Israele, Corea del Nord), né dai governi dei paesi che «ospitano» testate altrui. Come l’Italia che «custodisce» tra le basi militari di Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone) diverse decine di testate atomiche statunitensi, facendo così della Pianura Padana il primario obiettivo di un possibile attacco nucleare su territorio europeo. Preparandone «il non essere più», come nella realistica simulazione di Princeton.
Bomba e soluzione finale
Mentre scrivo queste righe, i popoli europei stanno votando per le elezioni del Parlamento di Strasburgo. Questo mi fa tornare in mente le note preparatorie, probabilmente dell’87, per il testo di un intervento mai svolto di Alberto Moravia al Parlamento europeo, dove l’intellettuale italiano era stato eletto nel 1984 (oggi inserito in appendice al suo L’inverno nucleare): «Nei primi anni del dopoguerra, la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba […]. Al processo di Norimberga – continua lucidamente Moravia -, la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della Seconda guerra mondiale».
Saprà l’Europa, questa volta, impedire il dispiegamento della soluzione finale dell’umanità, con la resistenza attiva e nonviolenta contro la Terza guerra mondiale, che, se sarà, sarà nucleare? A ciascuno il compito urgente di fare la sua parte.
Pasquale Pugliese
Nel mondo, in Europa, in Italia
Secondo l’ultimo rapporto Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), nel 2023, i nove Stati dotati di armi atomiche hanno speso complessivamente 10,7 miliardi di dollari in più rispetto al 2022 per i loro arsenali nucleari, raggiungendo la cifra di 91,4 miliardi.
Lo scorso 17 giugno il Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sul numero di testate nucleari presenti nel mondo. Scrive: «All’inizio del 2024, nove Stati – Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele – possedevano circa 12.121 armi nucleari, di cui 9.585 potenzialmente disponibili a livello operativo. Si stima che circa 3.904 di queste testate siano state schierate con le forze operative, di cui circa 2.100 mantenute in uno stato di alta allerta operativa, circa 100 in più rispetto all’anno precedente».
Riguardo alla presenza di testate nucleari Usa sul territorio italiano, più avanti, nel rapporto si stima che a inizio 2024 ci fossero circa 100 bombe non strategiche schierate in Europa per un potenziale utilizzo da parte di aerei da combattimento statunitensi e alleati. Le bombe, controllate dall’aeronautica americana, sono presenti in sei basi aeree in cinque stati membri della Nato: Kleine Brogel in Belgio; Büchel in Germania; Aviano e Ghedi in Italia; Volkel nei Paesi Bassi; e İncirlik in Turchia.
Luca Lorusso
Transizione, miti e realtà
Abbandonare i combustibili fossili è un’impresa complicata e costosissima. Trovare le materie prime sostitutive lo è altrettanto. Con queste premesse, non ci sono dubbi che la transizione «verde» sarà un’impresa.
Prima il carbone, poi il petrolio, dopo il gas, fatto sta che, più o meno, da 250 anni utilizziamo combustibili fossili per produrre energia. Il risultato è che abbiamo emesso così tanta anidride carbonica da avere provocato l’innalzamento medio della temperatura terrestre di oltre un grado centigrado. Con inevitabili ricadute sul clima che ormai ha perso la regolarità di qualche decennio fa come testimoniano lo scongelamento dei ghiacciai, i lunghi periodi di siccità, le piogge torrenziali che devastano agricoltura e territori. Quando ormai il danno è già stato fatto, i centri di potere stanno meditando di fare qualcosa per mettere un freno alla produzione di anidride carbonica. L’obiettivo universalmente dichiarato è il raggiungimento di emissioni nette uguale allo zero per il 2050. Come dire che per quella data la CO2 prodotta dovrà essere ridotta di circa due terzi rispetto a quella prodotta oggi in modo da riportarla nei limiti di capacità di assorbimento del sistema vegetale presente sul pianeta.
La transizione energetica
Per riuscirci bisogna cambiare radicalmente modo di produrre energia e la parola d’ordine a livello planetario è diventata «transizione energetica» che significa un altro modo di produrre energia elettrica, di produrre calore in ambito industriale e domestico, di alimentare i mezzi di trasporto.
In ambito elettrico le nuove strategie sono il solare, l’eolico, l’idroelettrico. Ma c’è anche chi insiste nel rilancio di tecniche azzardate come le centrali nucleari, mentre si stanno conducendo ricerche nel campo della fusione nucleare, che poi significa riproduzione sulla Terra di quanto avviene all’interno del sole. Quanto alla mobilità, la nuova frontiera è rappresentata dai mezzi elettrici alimentati a batteria o celle a idrogeno.
Tra il dire e il fare: chi paga il passaggio?
La transizione energetica (o green) è tanto facile a dirsi, quanto difficile da attuarsi perché si tratta di un’operazione mastodontica con ripercussioni enormi sia sul piano finanziario che ambientale. Ad esempio, rispetto al primo aspetto, quello finanziario, la European round table, l’associazione delle principali multinazionali europee, valuta che, da qui al 2030, solo in Europa servirebbero 700 miliardi di euro per rinnovare e ammodernare il sistema di produzione e trasmissione elettrica. Fino al 2050 il costo previsto a tale scopo è di 2.300 miliardi di euro. E siamo appena all’ambito elettrico. Nel contempo vanno rinnovati anche gli altri comparti energetici: i riscaldamenti interni alle abitazioni, le fornaci interne alle aziende, la propulsione dei mezzi di trasporto che devono passare dai motori a scoppio ai sistemi alimentati da batterie elettriche o da batterie a idrogeno. Il tutto, poi, va esteso a livello mondiale, considerando anche che ci sono continenti, come quello africano, dove centinaia di milioni di persone non godono ancora di alcun tipo di fornitura elettrica.
In conclusione, secondo i calcoli effettuati dalla banca d’investimento britannica Barclays Bank, da qui al 2050 servono fra i 100mila e i 300mila miliardi di dollari, a livello mondiale, per sostituire il parco energetico oggi basato sui combustibili fossili. Come termine di paragone, si tenga conto che 100mila miliardi corrispondono all’intera ricchezza prodotta in un anno a livello mondiale.
I soldi sono un problema e il primo nodo della transizione energetica è: chi deve sobbarcarsi la spesa? La risposta dipende dall’orientamento politico, ma è verosimile che, chi più chi meno, tutti dovranno fare la propria parte: governi, imprese e famiglie, sapendo che ai governi tocca anche l’attività di regolamentazione e di indirizzo. Tutte iniziative che presentano la propria complessità, ma che sono ampiamente superabili se sostenute da un’adeguata volontà politica. Ciò che invece è di difficile soluzione riguarda gli effetti sociali e ambientali che la transizione green è destinata a sollevare.
Il materiale dell’immateriale
L’affermarsi dell’informatica ci ha fatto credere di essere entrati nell’era dell’immateriale, il tempo in cui si riesce a operare a distanza senza bisogno di alcun mezzo di trasporto né di energia per il loro movimento. Ma si tratta di un’illusione. A questo mondo, d’immateriale non c’è niente, neanche il pensiero, perché, per funzionare, il cervello ha bisogno di nutrimento, ossia di materia. E così pure i nostri congegni elettronici: per funzionare richiedono non solo energia, ma anche materia per dare forma alla tecnologia da cui dipendono. Né tragga in inganno la leggerezza dei microchip, emblema della moderna tecnologia informatica. I microcircuiti all’interno dei nostri computer e dei nostri cellulari sono distillati di processi produttivi che hanno impiegato una quantità di materiale assai più elevato del risultato finale.
Più esattamente per ottenere un microchip di appena due grammi servono 1,5 chilogrammi di combustibili fossili, 0,073 chilogrammi di composti chimici, 31,9 litri d’acqua e 0,7 chilogrammi di gas (in particolare azoto). Come dire che per produrre un microchip ci vuole una quantità di risorse materiali 17mila volte più alta del suo peso finale. Risorse entrate nel ciclo produttivo, ma poi rimosse una volta assolta la propria funzione. E, si noti bene, rimosse, ma non dissolte, bensì gettate in qualche angolo del pianeta sotto forma di rifiuto. Ogni prodotto che usiamo nasconde da qualche parte la zavorra degli scarti di produzione che gli esperti chiamano «zaino ecologico».
I nuovi materiali sono «critici»
I rifiuti nascosti sono solo uno dei problemi che accompagnano i nuovi materiali su cui si basa la transizione energetica. Altrettanto preoccupante è la nuova dipendenza che si sta profilando: il vecchio sistema energetico dipendeva dai combustibili fossili, il nuovo dipende da pochi minerali su cui è già lotta aperta per il loro accaparramento. L’Unione europea ha stilato una lista di 34 minerali strategici ai fini della transizione energetica, di cui alcuni già ampiamente inseriti nella tradizione industriale, altri solo marginalmente. Fra i primi possiamo citare il rame, l’alluminio, il nickel, che nel nuovo corso diventeranno ancora più importanti per il posto occupato nei dispositivi utili alla produzione e alla trasmissione di corrente elettrica. Fra i secondi risaltano il litio, il cobalto, la grafite, ma anche le terre rare, un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, tra cui cerio, lantanio, scandio (vedi MC giugno 2024). Un insieme di materiali che trovano un’ampia applicazione in tutti i settori della tecnologia avanzata e delle energie rinnovabili. Fondamentali per costruire magneti, fibre ottiche, batterie ricaricabili, turbine eoliche, pannelli solari, sono elementi imprescindibili di apparecchiature di medicina avanzata, di computer, smartphone e tecnologia aerospaziale, compresa quella a fini militari.
I nuovi minerali a fini energetici sono intriganti anche per il lessico che li accompagna. Potevano essere presentati come salvifici, sostenibili, verdi o in qualsiasi altra versione positiva. Invece, sono etichettati da tutti come «critici». Valga come esempio l’Unione europea che in tutti i documenti dedicati all’argomento ne parla come «materie prime critiche». Altrettanto negativamente sono rappresentate dalle associazioni a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ma per ragioni opposte: la società civile teme i rischi per la natura e le popolazioni locali; l’Unione europea teme quelli per la supremazia delle sue imprese. Un timore, quest’ultimo, dettato da due fattori: la scarsità dei minerali e la loro concentrazione in pochi paesi.
Per la verità il capitalismo non si è mai preoccupato della disponibilità di risorse. Ha eletto come zona di crescita economica una porzione ridotta di mondo: soltanto questa aveva il diritto di fare razzia per ogni dove. In altre parole, i paesi occidentali si sono sempre arrogati il diritto di perseguire la crescita infinita, certi che i limiti del pianeta non sarebbero mai stati un ostacolo. Ma oggi che molte altre aree geografiche si sono avviate lungo la strada della crescita economica, il vecchio capitalismo occidentale ha cominciato a capire che la crescita infinita non può esistere.
Materie prime: chi le ha e chi le sa lavorare
A suonare il campanello d’allarme è perfino l’Ocse, l’ufficio studi dei paesi più ricchi incaricato di elaborare strategie di crescita economica per loro conto. Secondo le sue previsioni, da qui al 2060 la domanda mondiale di materie prime crescerà più del doppio, passando dagli attuali 79 miliardi di tonnellate a 169. Del resto, la pressione sui minerali è già evidente attraverso i prezzi.
Il litio carbonato, solo per citare un esempio, è passato da 20mila dollari a tonnellata nel 2018 a 80mila dollari nel gennaio 2023. Certo, i prezzi hanno sempre un andamento altalenante perché risentono della speculazione finanziaria, ma le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia rispetto alla domanda di minerali a fini energetici non ammettono dubbi. Secondo i suoi calcoli, nel 2040 la domanda di nichel sarà due volte più alta rispetto al 2010, mentre quella di cobalto cinque volte più alta. Quanto al litio, nel 2030 la sua richiesta sarà quattro volte più alta rispetto a oggi. Di conseguenza un quesito si pone con forza: nel futuro ci saranno minerali a sufficienza per tutti? E se non dovessero essercene, chi deciderà chi può averne? Sicuramente un grande decisore sarà il prezzo di vendita, destinato ad aumentare per tutti i minerali: chi potrà comprarli a qualsiasi prezzo sarà il vincitore, gli altri dovranno leccarsi le ferite. A fare da discrimine, insomma, sarà la ricchezza. Ma anche la nazionalità perché saranno avvantaggiati i paesi con riserve nel proprio sottosuolo e con capacità di raffinazione. Una situazione ad oggi molto sbilanciata.
Parlando di estrazione, ad esempio, si scopre che pochi paesi sono produttori di minerali critici. Spicca la Repubblica democratica del Congo per cobalto e tantalio, il Sudafrica per il manganese, la Cina per le terre rare, l’Australia e il Cile per il litio. E se passiamo all’attività di lavorazione e raffinazione delle materie prime, scopriamo che il livello di concenrazione è ancora più marcato.
Da questo punto di vista il primato spetta alla Cina rispetto a una grande quantità di metalli. La sua quota di raffinazione si aggira intorno al 35% per il nichel, al 50% per l’alluminio, al 60% per litio e cobalto, addirittura al 100% per le terre rare pesanti. Uno scenario che spaventa in particolare l’Unione europea, che fra tutte le potenze economiche è quella più sguarnita di minerali e di imprese siderurgiche.
Dalla globalizzazione all’autarchia
Ormai il tempo della globalizzazione, del consideriamoci tutti amici e lasciamo che il mondo sia un unico grande mercato dove ognuno va a comprare dove è più conveniente, è passato. Le imprese non fanno soldi solo per sé, ma sono anche garanzia di introiti per le casse statali e fonte di stabilità occupazionale. Di conseguenza, la politica ha scoperto che troppa globalizzazione fa male agli interessi interni e ha cominciato a tirare il freno. Anche su richiesta di tutte quelle imprese nazionali che dalla globalizzazione ci stavano rimettendo, tutte le grandi potenze economiche stanno virando verso un maggior senso di casa per ridurre la dipendenza dall’estero rispetto alle risorse strategiche. Hanno iniziato gli Stati Uniti ed è seguita a ruota l’Unione europea che, nel marzo 2023, ha varato un regolamento per rilanciare l’apertura di miniere dismesse e siti industriali utili a produrre metalli strategici per la transizione energetica. L’obiettivo dichiarato è che per il 2030 si estragga internamente almeno il 10% dei minerali strategici e si lavori nei paesi europei il 40% dei minerali utilizzati. È anche previsto che il 25% provenga da materie prime riciclate. In ogni caso, il regolamento più che obblighi per i governi, prevede facilitazioni finanziarie e normative per favorire il nuovo corso autarchico. Che, però, non tutti vedono con favore perché l’estrazione si accompagna spesso a processi di alterazione ambientale che inquinano il territorio, compromettono le falde acquifere, pongono a rischio la salute degli abitanti. Di questo tema, però, ci occuperemo nel prossimo articolo.
Francesco Gesualdi
Turismo: si è imparato poco dalla pandemia
Quest’anno segnerà probabilmente il ritorno dei flussi turistici ai volumi precedenti la pandemia. Le speranze che la pausa forzata potesse contribuire a un ripensamento del turismo e alla correzione di alcuni errori sembrano essere in gran parte deluse.
Gli introiti del turismo in Uganda sono cresciuti nel 2023 di quasi il 50%, superando il miliardo di dollari per la prima volta dall’inizio della pandemia da Covid-19. Lo riportava lo scorso marzo il sito di news Semafor@, aggiungendo che il settore dà lavoro a più di 600mila persone nel Paese ed è uno dei maggiori motori dell’economia. Sempre Semafor ad aprile riportava il dato, riferito da W. hospitality group, una società di consulenze con sede a Lagos, Nigeria, secondo il quale le catene alberghiere internazionali avevano in progetto di costruire 524 hotel con oltre 92mila camere in 41 Paesi africani. Due su tre di questi hotel erano progetti delle cinque maggiori catene del mondo: le multinazionali statunitensi Marriott, Hilton, Radisson, la francese Accor e la britannica Ihg Hotels@.
Ritorno ai livelli pre-pandemia
Questi dati di espansione del settore in Africa trovano conferma nelle statistiche ufficiali, in particolare nel Un turism barometer dell’organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite che esce quattro volte l’anno@. Secondo Unwto, il turismo internazionale ha raggiunto il 97% dei livelli precedenti la pandemia da Covid-19 nel primo trimestre 2024; si prevede che eguaglierà e forse supererà quei livelli nel corso di quest’anno.
Il dato si riferisce agli arrivi internazionali, cioè alle visite da parte di viaggiatori che passano almeno una notte in un Paese diverso da quello di residenza, ed è una media fra i dati di tutti i Paesi del mondo.
Il Medio Oriente, segnala lo stesso Un turism barometer, ha registrato nel primo trimestre del 2024 la crescita relativa più sostenuta, con un aumento del 36% rispetto allo stesso periodo del 2019 (dato che probabilmente non riguarda però Israele, Libano e Palestina, ndr), mentre Africa ed Europa hanno già superato il livello pre pandemia del 5% e dell’1%. Per il resto dell’anno in corso, la previsione a maggio era di un possibile crescita del 2% rispetto ai livelli del 2019, trainata dallo sblocco della domanda accumulata a causa delle passate restrizioni e non ancora soddisfatta, dall’aumento dei collegamenti aerei e da una più forte ripresa delle destinazioni asiatiche, nonostante l’aumento globale dei costi.
Nel 2023, a livello generale, il recupero rispetto all’epoca pre Covid era già stato dell’88%, con poco meno di 1.286 milioni di arrivi internazionali a fronte dei 1.464 del 2019. In termini economici, invece, i dati preliminari indicavano che la meta era già raggiunta l’anno scorso: il prodotto interno lordo diretto del turismo, quello cioè legato alle industrie direttamente in contatto con i visitatori, era infatti stimato a 3.300 miliardi di dollari, cioè il 3% del Pil mondiale: lo stesso del 2019.
L’Unwto a fine giugno non aveva dati più recenti del 2022 circa il numero di lavoratori, ma World travel & tourism council (Wttc), forum degli operatori privati del settore turistico a livello mondiale, quantificava ad aprile in 348 milioni i posti di lavoro legati al settore del turismo e dei viaggi, con un incremento di quasi 14 milioni rispetto al 2019@.
La ripresa del settore turistico è dunque ormai nei fatti. Meno chiari, invece, sono i progressi verso il rispetto dei principi proposti ad esempio dal Global sustainable tourism council (Gstc) nel 2021@ con l’intento di approfittare della battuta d’arresto della pandemia per correggere alcune storture del settore.
Turismo e clima
A violare almeno la metà di questi principi è, ad esempio, il cosiddetto last chance tourism, il turismo dell’ultima possibilità. Su Futura network, il sito di dibattito promosso dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (AsviS), Flavio Natale commentava qualche mese fa un articolo del New York Times che descriveva questo fenomeno come un tipo di turismo nel quale i viaggiatori pagano cifre spesso molto alte per vedere luoghi che presto potrebbero non esistere più a causa dei cambiamenti climatici: ghiacciai, isole, barriere coralline. Un esempio di questi luoghi è la Mer de glace, cioè il ghiacciaio del Monte Bianco: un turista intervistato dal New York Times racconta che alla sua prima visita, 40 anni fa, il ghiacciaio arrivava appena sotto la piattaforma panoramica, mentre oggi è circa 240 metri più in basso. Natale cita anche un articolo del Guardian su Pond Inlet, un villaggio a maggioranza etnica Inuit nell’Artico canadese dove le principali attività di sussistenza sono la pesca e la caccia di mammiferi marini. A Pond Inlet i turisti vanno a osservare un paesaggio e una fauna in rapido cambiamento: l’Artico, infatti, sta scaldandosi quattro volte più velocemente della media globale, gli orsi polari stanno spostandosi e si prevede che nel 2050 il territorio sarà completamente privo di ghiaccio durante l’estate. Il paradosso di questo turismo è che se da un lato può contribuire ad aumentare la sensibilità delle persone rispetto ai cambiamenti climatici, dall’altro però rischia di accelerare i processi che stanno portando alla scomparsa di quegli stessi ecosistemi. A Pond Inlet il dibattito oppone chi ricava un reddito dalle attività di accoglienza a chi pensa che le navi di turisti spaventino la fauna marina, rendendo più difficile la caccia e aumentando così la dipendenza dell’economia locale dal turismo@.
Il settore del turismo e dei viaggi rappresentavano, in uno studio del Wttc pubblicato a fine 2023 su dati degli anni precedenti, una quota di emissioni di gas serra pari all’8,1% del totale globale nel 2019, diminuita poi a 4,2% nel 2020 e a 4,6 nel 2021. Oggi, con il ritorno degli arrivi internazionali ai livelli pre pandemici, è verosimile che la quota sia di nuovo vicina dal dato del 2019@.
Uno dei danni del treno, segnalava Semafor citando il sito messicano Animal Politico, è che il suo passaggio modificherà il sistema di cenotes (grotte) e canali sotterranei, sacri al popolo Maya e necessari per l’approvvigionamento idrico delle comunità dello Yucatán.
Come le piante, anche gli animali subiscono gli effetti del turismo: in Uganda, riportava la rivista Nature a febbraio scorso@, il 59% degli scimpanzé morti negli ultimi 35 anni nel parco nazionale di Kibale sono stati uccisi da agenti patogeni come il metapneumovirus umano, che si manifesta negli esseri umani con sintomi simili al raffreddore ma è spesso letale per gli scimpanzé.
Va meglio agli squali balena, la più grande specie di pesci esistente: ogni anno ci sono 25 milioni di persone in 23 Paesi del mondo che vogliono nuotare con loro. Questo alimenta un giro d’affari da 1,9 miliardi di dollari, ma fa anche crescere i timori riguardo all’impatto negativo che questa esposizione agli umani può avere sugli squali. Fortunatamente, un recente studio pubblicato sul Journal of sustainable tourism realizzato a Ningaloo Reef, nell’Australia occidentale, ha monitorato i movimenti dei pesci dopo aver applicato loro dispositivi biometrici e ha mostrato che gli impatti sono minimi. Lo studio conclude che il turismo legato alla fauna selvatica, se ben gestito – evitando di attirare gli squali con del cibo e di esporli per lungo tempo a grandi quantità di turisti – può essere sostenibile sia per le persone che per gli animali@.
Quello del lago è un ecosistema che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha definito fragile ed esposto a un alto rischio idrogeologico. Si tratta di un territorio selvaggio e impervio, sconosciuto al turismo di massa fino all’inizio degli anni Duemila, quando l’attore statunitense George Clooney ha comprato casa nella zona. Da quel momento, il territorio si è trasformato in una meta di lusso, con la ristrutturazione di ville d’epoca e la costruzione di nuove case per i personaggi famosi e di grandi strutture di accoglienza per ospitare turisti da tutto il mondo: nel 2023 il lago ha sfiorato i 5 milioni di pernottamenti.
Tutto questo ha sottoposto il territorio a stress, perché la cementificazione ha peggiorato la tenuta del terreno facendo aumentare le già frequenti frane. Inoltre, molti abitanti sono stati costretti ad andarsene a causa dell’aumento dei prezzi degli immobili e per via dello stesso fenomeno che è all’opera da oltre un decennio in tante città del mondo, cioè quello degli affitti brevi per turisti, che i proprietari degli immobili preferiscono ai meno redditizi affitti a lungo termine per persone intenzionate a vivere in modo stabile nel luogo.
A sua volta, lo spopolamento ha fatto diminuire gli interventi di manutenzione e messa in sicurezza del lago e delle montagne che lo circondano, creando ulteriori difficoltà quando le piogge, rese meno frequenti ma torrenziali dal cambiamento climatico, si abbattono con violenza su un territorio ormai provato.
Il lago di Como è già saturo, spiega Mastrodonato riportando le parole del sociologo Agop Manoukian, come una bottiglia piena che ci si ostini a voler riempire ancora. Eppure, le amministrazioni locali valutano tuttora progetti per la costruzione di un ulteriore complesso da 29mila metri quadrati con hotel, spa, darsene private, e per la creazione di una stazione sciistica a mille metri con neve artificiale sul vicino monte San Primo, così da estendere la stagione turistica anche all’inverno.
Convivenza difficile
La convivenza con le attrazioni turistiche è complicata anche altrove: in Tanzania, che deve all’industria del turismo il 5,7% del suo Pil, pari a 2,6 miliardi di dollari, una parte significativa delle attività riguarda i parchi nazionali e la fauna selvatica. Dal 2022 una legge stabilisce compensazioni economiche e materiali per le persone danneggiate da episodi di conflitto tra fauna selvatica e comunità umane. Ma, sosteneva ad agosto dell’anno scorso Laura Hood sul sito The Conversation@, questo conflitto e i suoi effetti sono gestiti in modo inadeguato e il cambiamento climatico sta peggiorando la situazione, come risulta dalle interviste fatte con alcuni abitanti dei villaggi di Kiduhi e Mbamba, al confine con il Parco nazionale Mikumi, il quarto più grande della Tanzania.
Lo scorso aprile Stephanie McCrummen, giornalista vincitrice del premio Pulitzer nel 2018, ha raccontato ai microfoni dell’emittente radiofonica Usa Npr, che la presidente del Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha un approccio molto aggressivo nello sviluppo turistico e prevede il trasferimento forzato di circa centomila Maasai dall’area protetta di Ngorongoro ad altre parti del Paese e la creazione di una riserva di caccia di 600 miglia quadrate a uso esclusivo della famiglia reale di Dubai@.
Turismo e pace
Il tema della giornata mondiale del turismo, che cade il 27 settembre, quest’anno sarà «Turismo e pace» e a ospitare le celebrazioni sarà Tblisi, capitale della Georgia. Il turismo, si legge nella presentazione della giornata mondiale sul sito del Unwto, può svolgere un ruolo vitale come catalizzatore per promuovere la pace e la comprensione tra nazioni e culture e nel sostenere i processi di riconciliazione. Viceversa, che la guerra arrechi grosse perdite al settore turistico lo ha sottolineato a febbraio scorso l’Unesco in uno studio, che ha quantificato in 19,6 miliardi di dollari i mancati ricavi e in 3,5 miliardi i danni causati dalla guerra alle risorse culturali e turistiche di un Paese come l’Ucraina@.
La vostra santità deve essere speciale, anche eroica e,
all’occasione, straordinaria da fare miracoli.
Ci vuole santità, grande santità.
(Giuseppe Allamano)
È arrivato il giorno tanto atteso, che i nostri cuori aspettavano da tempo: Giuseppe Allamano sarà canonizzato da papa Francesco. L’iter per il riconoscimento del miracolo in favore di Sorino Yanomami si è concluso e ora attendiamo solo la celebrazione di questo evento così luminoso per la nostra famiglia Consolata, il prossimo 20 ottobre, Giornata missionaria mondiale!
Il Bollettino della Santa Sede del 23 maggio scorso annunciava che: «Durante l’udienza
concessa a sua eminenza reverendissima il signor cardinale Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle cause dei santi, il Sommo Pontefice ha autorizzato il medesimo Dicastero a promulgare i decreti riguardanti il miracolo attribuito all’intercessione del beato Giuseppe Allamano, sacerdote fondatore dell’Istituto delle missioni della Consolata; nato a Castelnuovo Don Bosco (Italia) il 21 gennaio 1851 e morto a Torino (Italia) il 16 febbraio 1926».
Il beato Giuseppe Allamano, nostro padre fondatore, colui che ci ha dato lo spirito consolatino, è sempre stato una luce per noi. Al termine della vita scrisse con sicurezza: «Mi consola che cercai sempre di fare la volontà di Dio» (Lettera ai missionari e missionarie, 1° ottobre 1923); ecco il suo cammino di santità!
E a noi, suoi figli e figlie, indica che il primo fine dei nostri Istituti è la santificazione dei suoi membri, santità che illumina anche il cammino della vita laicale. Il padre fondatore sempre insisteva: «Prima santi e poi missionari».
Ora che anche la Chiesa lo riconosce proclamandolo santo, questa luce si diffonde in tutti i luoghi, e diventa sempre più un faro per noi, sulle strade della missione.
Ringraziamo il Signore per questo dono fatto a noi e alla Chiesa. Questo tempo benedetto sia un’occasione per sentirlo sempre più «padre» e godere della sua presenza viva in mezzo a noi.
suor Lucia Bortolomasi, Mc, Superiora generale padre James Bhola Lengarin, Imc, Superiore generale
Murang’a 2 – prima parte
Dall’uno al tre marzo 1904, a soli due anni dal loro arrivo in Kenya, i primi missionari della Consolata si riunirono nella missione di Murang’a per discutere del loro lavoro di evangelizzazione. I missionari e le missionarie della Consolata hanno celebrato quell’episodio con un evento intitolato: Murang’a 2. Monsignor Giovanni Crippa, missionario della Consolata, vescovo di Ilheùs, in Brasile, storico di formazione, ha spiegato le premesse che hanno determinato quell’incontro dei missionari e gli effetti che ha generato nella pratica della loro azione evangelizzatrice.
Giuseppe Allamano disse che quando era in seminario gli era sorta la vocazione missionaria, ma i problemi di salute glielo impedirono e fu sconsigliato dal padre spirituale, per cui ha voluto la fondazione dell’Istituto come il suo modo di realizzare la missione. Non potendolo fare direttamente lo ha fatto indirettamente dando ai sacerdoti del clero piemontese, che desideravano andare in missione, la possibilità di partire. Il fondatore, quindi, si è messo in un piano secondario rispetto alla missione; lui aiutava ma i veri protagonisti della missione erano coloro che sarebbero partiti e che l’avrebbero realizzata.
L’Allamano, inoltre, osservava che il clero della diocesi era numeroso e che molti giovani sacerdoti avrebbero potuto fare un servizio alla missione. Da questa constatazione si capisce che egli pensava di fondare un istituto a servizio del suo clero.
L’esplorazione del territorio
L’8 maggio 1902 avvenne la partenza dei primi quattro missionari: padre Tommaso Gays (28), padre Filippo Perlo (26), fratel Luigi Falda (21), fratel Celeste Lusso (18).
Padre Filippo Perlo cominciò una perlustrazione sistematica del territorio per vedere tutte le località dove si sarebbe potuta aprire una stazione missionaria con questo criterio: presenza della ferrovia, distanza dalla stazione principale di Limuru, nella regione del Kikuyu alle falde del monte Kenya, a non più di una giornata di cammino una dall’altra. L’intento era di occupare la zona.
La grandezza di padre Perlo è stata di aver inventato una metodologia missionaria.
Il numero elevato di stazioni e le edificazioni necessarie richiedevano un gruppo consistente di personale e grandi capitali. Ciò che Perlo non aveva. Allora fece sì che fossero i missionari ad andare verso la gente. La cosa più importante non era la struttura della missione ma il contatto con la popolazione locale. Le sue missioni erano baracche di fango e terra battuta, piccolissime, sufficienti per poter dormire una notte. Quelli che dovevano essere grandi erano i magazzini per stipare il materiale proveniente dall’Italia.
Alla fine del 1902 le missioni erano: Limuru (procura), Tuthu (2), Murang’a, Tetu (che diventerà la missione di Nyeri). Non più una sola missione importante, ma piccole missioni. Alla fine del 1903 si potevano contare sette stazioni di missione (l’ultima: Gekondi), una segheria (Tuthu), una fattoria (Tetu-Nyeri) e un collegio dei catechisti (Limuru).
A febbraio del 1904 arrivò il quarto gruppo di missionari dall’Italia, quello che portava anche padre Barlassina (tre padri, due fratelli coadiutori e 12 suore). Tale sistemazione aveva richiesto un ingente sforzo di lavoro materiale, che costituiva un contributo solo indiretto all’evangelizzazione mediante contatti saltuari e occasionali con la popolazione.
L’inizio del 1904 segnò una pausa relativa nell’opera di costruzione. In questo clima maturò l’idea di un incontro di tutti i sacerdoti per un corso di esercizi spirituali e una serie di conferenze in cui tracciare le linee orientative comuni di una metodologia missionaria.
Lavorare era sì essenziale, ma bisognava farlo insieme per salvaguardare l’unità di prospettive e azione che l’Allamano desiderava. Il fondatore, ancor prima della realizzazione delle conferenze, considerò questa iniziativa «ottima cosa e necessaria d’ora in poi ogni anno e, secondo la possibilità, anche più frequente».
Le conferenze di Murang’a
Tutti i missionari della Consolata, sacerdoti e fratelli, si incontrarono a Murang’a dal 1 al 3 marzo del 1904: il mattino era dedicato alla meditazione e preghiera, il pomeriggio alle conferenze.
L’esperienza fu valutata positivamente dai missionari in quanto poterono rinsaldare i legami di fraternità, ricaricarsi spiritualmente e ricevere orientamenti pratici.
Le conclusioni furono inviate a Torino e, in attesa dell’approvazione dell’Allamano, una copia venne inviata a tutte le stazioni di missione.
Il 6 maggio ricevettero l’approvazione dell’Allamano: «Approvo tutte le conclusioni senza eccezione, e desidero che si eseguiscano in ogni loro parte».
Quanto in esse veniva proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto tra la missione vissuta, i principi appresi in Italia e i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di «principianti» del Kikuyu sviluppò un proprio metodo di evangelizzazione. Essi avvertirono che la via della conversione dei Kikuyu era assai più lunga di quanto potesse apparire in Italia e compresero che i buoni rapporti con gli indigeni e le autorità locali erano solo la premessa di un lavoro a lunga scadenza.