Perù. Il dittatore che non chiese perdono

«Ci ha lasciato il miglior presidente che il Perù abbia mai avuto. Grazie a lui è scomparso il terrorismo, ha costruito scuole, ha aiutato tanta povera gente. Vola molto in alto, presidente». È uno dei tanti commenti celebrativi apparsi sui social dopo la morte di Alberto Fujimori, avvenuta a Lima lo scorso 11 settembre, all’età di 86 anni.

Equiparandolo a un padre della Patria, il governo di Lima ha indetto tre giorni di lutto nazionale (12, 13 e 14 settembre), l’esposizione del corpo al Museo della Nazione e i funerali di Stato. Decisioni discutibili per una persona altamente divisiva e condannata a 25 anni (16 dei quali scontati in carcere), ma forse inevitabili considerata la debolezza dell’attuale presidente, Dina Boluarte (prima donna alla guida del Paese). Secondo una recente inchiesta di Datum, la presidente è molto impopolare avendo una percentuale di approvazione di appena il 5%, la più bassa degli ultimi 44 anni. Né va molto meglio Gustavo Adrianzén, il suo primo ministro, che non raggiunge le due cifre (è all’8%).

Nato nel 1938 da una famiglia di immigrati giapponesi (però, curiosamente, soprannominato «el Chino»), ingegnere agrario, genitore di quattro figli (Keiko Sofía, Hiro Alberto, Sachi Marcela e Kenji Gerardo), Alberto Fujimori è stato presidente del Paese andino dal 1990 fino all’aprile del 1992 quando, dopo un autogolpe attuato con l’aiuto dell’esercito (Fujimorazo), scelse la via dell’autoritarismo. Nelle vesti di dittatore rimase al potere fino a novembre del 2000, anno in cui, travolto da uno scandalo di corruzione, si dimise dal Giappone dove era fuggito.

A Fujimori vanno riconosciuti due meriti, uno in campo economico e uno nell’ordine pubblico. Nel primo caso, applicando un modello neoliberista di lacrime e sangue (noto come Fujishock), riuscì a riportare sotto controllo un’inflazione che era arrivata a toccare il settemila per cento. Nel secondo caso, debellò i due principali gruppi guerriglieri che insanguinavano il Paese, il Movimiento revolucionario túpac amaru (Mrta) e, soprattutto, Sendero luminoso (Pcp-Sl). Quest’ultimo viene considerato responsabile della metà dei 69mila morti accertati, stando ai dati della Commissione per la verità e la riconciliazione (Cvr), istituita nel 2001. Abimael Guzmán, líder máximo dell’organizzazione terroristica, fu catturato nel settembre del 1992.

Per raggiungere i suoi obiettivi politici, el Chino non si fermò davanti a nulla. Per esempio, sterilizzò – mediante la legatura delle tube – migliaia di donne (la cifra ufficiale è di 272.028) delle comunità rurali andine tra il 1990 e il 1999. Altra misura fu la costituzione di una organizzazione paramilitare con compiti di antiterrorismo denominata Grupo Colina. Il gruppo fu responsabile di almeno due massacri di civili innocenti, quello di Barrios Altos (15 persone assassinate) e quello de La Cantuta (con l’uccisione di un professore universitario e nove studenti).

Keiko Fujimori, figlia di Alberto e politica navigata, è l’erede principale del fujimorismo. È stata candidata presidenziale per tre volte e, con tutta probabilità, lo sarà anche in futuro.

Nel Paese andino la comunità giapponese (conosciuta come «comunidad nikkei») si è costituita a partire da fine Ottocento e oggi conta circa 200mila persone e sei generazioni. Di essa Alberto Fujimori è stato il rappresentante più noto ma anche – come abbiamo sommariamente spiegato – il più controverso. «Il dittatore e assassino – ha commentato la giovane congressista Sigrid Bazán – è morto senza pagare un solo sol di risarcimento [alle vittime]. La sua eredità di corruzione e violazioni dei diritti umani non viene cancellata con la sua morte». Né va dimenticato – aggiungiamo noi – che la figlia Keiko (candidata presidenziale nel 2011, 2016 e 2021) rimane una leader politica con molto seguito. Per questo è facile prevedere che, anche dopo la morte del suo fondatore, il fujimorismo influenzerà ancora a lungo la società peruviana.

Paolo Moiola




I Rohingya del Myanmar, ancora sfollati e rifugiati

 

A sette anni dallo scoppio della crisi che interessò il popolo dei Rohingya, gruppo etnico di religione musulmana stanziato nella parte occidentale del Myanmar, la comunità internazionale è ancora alle prese con una questione di difficile soluzione.

Sette anni fa, avvenne il primo esodo a seguito dello sfollamento forzato su larga scala di 750mila Rohingya che, sotto la pressione dell’esercito birmano, per sfuggire alla pulizia etnica, varcarono il confine e si stabilirono in Bangladesh, in particolare nella località di Cox’s Bazar.

La loro vita in campi profughi, organizzati in quell’area di confine grazie al governo di Dacca e agli aiuti della comunità internazionale, apparve fin dal principio molto critica.

Difficile la distribuzione di beni di prima necessità per il sostentamento. Per non parlare di istruzione, sviluppo, reinserimento sociale o occupazione per offrire un futuro agli sfollati che risultano apolidi, dunque privi di ogni diritto e riconoscimento.

Inoltre, negli anni, «nuovi problemi di sicurezza e le incertezze sui finanziamenti compromettono tutti gli aiuti», ha avvisato di recente l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur).

Sconsigliato anche il piano di rimpatrio nell’ex Birmania: nello Stato di Rakhine, in Myanmar, l’escalation del conflitto ha peggiorato le condizioni dei Rohingya rimasti nei distretti originari.

Data la guerra civile in corso nel Paese, lo sfollamento interno è ai massimi storici, oltre 3,3 milioni di sfollati all’interno del Paese. Tra questi, circa 130mila sono Rohingya che si trovano nel Rakhine settentrionale e vivono in mezzo al fuoco incrociato, vittime dei combattimenti tra l’esercito regolare e i miliziani dell’Arakan army, organizzazione militare locale tra quelle che sfidano la giunta birmana al potere.

«I civili di etnia Rohingya in Rakhine stanno sopportando il peso delle atrocità commesse dall’esercito del Myanmar e dall’opposizione dell’Arakan Army», ha spiegato Elaine Pearson, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, presentando l’ultimo rapporto sugli abusi nell’area.

In Bangladesh, a sua volta attraversato dalla crisi politica culminata con la fuga dell’ex presidente Sheikh Hasina, il governo provvisorio di Muhammad Yunus ha mostrato una certa solidarietà auspicando che i rifugiati Rohingya possano rientrare in Myanmar in piena sicurezza, dignità e diritti. Sebbene, dunque, un ritorno dignitoso, volontario e sostenibile in Myanmar resti la soluzione ricercata dalle autorità, mancano le condizioni sul terreno per renderla possibile.

In attesa di una soluzione, la vita per i Rohingya in Bangladesh resta sospesa. I rifugiati hanno bisogno di assistenza immediata e di aiuto per costruire il loro futuro: il 52% di loro ha meno di 18 anni e molti sono nati in esilio o hanno trascorso i primi anni di vita nei campi profughi.

Nel 2024, le agenzie umanitarie hanno richiesto 852 milioni di dollari per assistere circa 1,3 milioni di persone, ma i finanziamenti internazionali per coprire quella necessità sono insufficienti. Per questo le razioni alimentari sono state ridotte, i centri sanitari devono far fronte alla carenza di personale medico e di medicinali, la bassa qualità dell’acqua causa epidemie di colera ed epatite; le opportunità di formazione professionale sono ridotte.

La nazione, poi, affronta inondazioni catastrofiche che colpiscono milioni di cittadini e anche comunità che ospitano i rifugiati, aggravando la situazione che, nota l’Acnur, richiede allora «un sostegno globale ampio e sistematico».

Paolo Affatato

 




Mauritania. Crescono le migrazioni verso le Canarie

 

Raggiungere le Canarie vuol dire entrare in Europa. Una speranza che accomuna tanti giovani africani che decidono di lasciare il proprio Paese alla ricerca di migliori condizioni di vita. Per farlo, negli ultimi anni, un numero sempre più crescente di loro sta volgendo il proprio sguardo verso questo piccolo arcipelago, una comunità autonoma spagnola al largo della costa nordoccidentale africana.

Una rotta letale, ma frequentata
Qui, la distanza tra Africa ed Europa è relativamente limitata: Fuerteventura, l’isola più vicina alla terraferma, dista solo 95 chilometri dalla costa marocchina. Ma il viaggio per arrivarci nasconde profonde insidie.
Secondo Caminando fronteras (un’organizzazione per la protezione dei diritti dei migranti), la rotta per le Canarie è la più pericolosa tra tutte quelle percorribili per raggiungere la Spagna. Ciò a causa di condizioni meteorologiche spesso avverse e della mancanza sistematica di operazioni di ricerca e salvataggio rapide ed efficaci. Non è un caso infatti che, solo nei primi cinque mesi del 2024, in questo lembo di mare, siano morte 4.808 persone (il 95% di tutte le vittime registrate tra gennaio e maggio lungo tutte le rotte per la Spagna).
Nonostante ciò, negli ultimi mesi, gli arrivi alle Canarie hanno registrato un’impennata. Ad esempio, a gennaio 2024, nell’arcipelago sono sbarcati 7.270 migranti: un aumento del 1.184% rispetto allo stesso mese del 2023. E la tendenza, nel periodo successivo, non ha accennato a diminuire.

Nuove rotte in risposta alle politiche europee
La crescita degli sbarchi alle Canarie è direttamente riconducibile alle politiche migratorie dell’Unione europea (Ue) o dei singoli Stati membri. Recentemente, infatti, raggiungere l’Europa (e, in questo caso specifico, la Spagna) attraverso il Mar Mediterraneo o le enclave di Ceuta e Melilla è diventato sempre più complicato, a causa dell’esternalizzazione europea delle frontiere e delle politiche repressive dei Paesi nordafricani.
Con molti di essi (tra cui Egitto, Libia, Tunisia e Marocco) l’Ue ha siglato accordi che prevedono la concessione di fondi per contenere i flussi. In Nordafrica, spesso, le risorse sono utilizzate per potenziare la guardia costiera e i centri di detenzione: il risultato è che abusi e violazioni dei diritti umani sono diventati sempre più frequenti.
Addirittura, secondo una recente inchiesta giornalistica, il denaro europeo finanzia (e l’Ue ne è consapevole) operazioni per cui decine di migliaia di migranti intercettati in mare sono riportati indietro e abbandonati nel deserto o in aree remote. Quella che per l’Ue è semplice «gestione dei flussi», nell’indagine assume il nome di «desert dumps», letteralmente «discariche nel deserto».
Dunque, raggiungere l’Europa attraverso la rotta mediterranea è diventato sempre più difficile. E, perciò, numeri sempre maggiori di migranti optano per strade alternative, anche se più pericolose, come quella atlantica. I cui punti di partenza principali sono il sud del Marocco, il Senegal e la Mauritania.

Dal Senegal alla Mauritania
Fino alla fine del 2023, la maggioranza di coloro che sbarcavano alle Canarie proveniva dal Senegal. Con l’inizio del 2024, invece, c’è stata un’impennata delle partenze dalla Mauritania. Dalle sue coste, ad esempio, arrivava l’83% dei migranti giunti a gennaio 2024. A determinare questo spostamento del luogo privilegiato di partenza sono state soprattutto le politiche migratorie spagnole, supportate dall’Ue.
Lo scorso ottobre, di fronte a un picco di arrivi alle Canarie, la Spagna ha reagito in modo repentino. Il ministro dell’Interno Fernando Grande-Marlaska si è recato in Senegal con l’intento di affrontare la questione migratoria in modo drastico. Ha ottenuto dalla controparte senegalese controlli più serrati lungo la costa e maggiori rimpatri. Nel mentre, Frontex (l’agenzia europea di frontiera) e la Guardia civil (la gendarmeria spagnola) hanno iniziato a pattugliare le acque territoriali senegalesi. La polizia militare spagnola ha anche realizzato operazioni nelle principali città lungo la costa, sia in Senegal che in Gambia.
Mentre gli spazi di partenza dal Senegal si restringevano sempre di più, i migranti hanno iniziato a spostarsi nella vicina Mauritania. Le reti criminali per il traffico di esseri umani, già presenti nel Paese, hanno rapidamente sfruttato l’occasione, iniziando ad ammassare numeri sempre maggiori di persone su piccole barche fatiscenti, i cayucos.
Ancora una volta, l’Ue ha reagito siglando un accordo da 210 milioni di euro con la Mauritania finalizzato a contenere i flussi. L’ennesimo tassello di una politica repressiva che ha già ampiamente dimostrato di non funzionare. E che, anzi, continua a provocare sistematiche violazioni dei diritti umani nei Paesi di partenza e innumerevoli morti in mare.

Aurora Guainazzi




Kenya. Mons. Muheria sulle proteste dei giovani

Monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya, parla delle proteste della «generazione Z» nel Paese. «La violenza non va bene ma gridano contro la corruzione e per avere un futuro».

«Le leadership non vogliono ascoltare il grido dei giovani ma loro chiedono solo un futuro, un lavoro e la fine della corruzione». A parlare delle proteste che negli ultimi mesi hanno visto in Kenya migliaia di giovani in piazza è monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya.

A Roma per la visita ad limina in Vaticano e per l’incontro con Papa Francesco, il vescovo parla del suo Paese che «è arrivato davvero vicino alla rivoluzione. I ragazzi hanno assaltato il Parlamento… sono arrivati fino al Parlamento», scandisce con il volto ancora preoccupato. Un’ondata, quella della «generazione Z» del Kenya, che «era cominciata pacificamente e che poi purtroppo è sfociata nella violenza».

Il vescovo condanna questa deriva e anche il fatto che «i giovani sembrano come chiusi nei loro circoli, soprattutto sui social», ma allo stesso tempo chiede al governo e alle istituzioni di ascoltare il loro «grido».

La storia del Kenya, d’altronde, è simile a quella di molti Paesi dell’Africa dove la povertà, ma anche la corruzione nella gestione delle risorse, tolgono il futuro alle nuove generazioni.

Molti tentano il lungo viaggio per arrivare in Europa, ma altri protestano fino al sangue. «Il governo è arrivato con la milizia – racconta monsignor Muheria -, e molti giovani sono stati uccisi. Ragazzi nella maggior parte dei casi laureati, ma che non hanno un lavoro e non vedono il futuro».

La corruzione è uno dei problemi più sentiti: «Le autorità devono essere trasparenti, dare conto dei soldi che spendono. Il costo della vita e le tasse aumentano ma non le entrate delle famiglie».

Alla gente del suo Paese il vescovo però dice di non seguire la logica del male minore quando, per esempio, si va a votare. «Noi, come Chiesa, siamo molto preoccupati, perché è sempre più difficile instaurare un dialogo con questi ragazzi. Il problema è grande: come arrivare a formare e incoraggiare questa generazione? Quando c’è la disperazione deve esserci un aiuto».

Con coraggio i vescovi hanno allora avviato corsi di formazione sociale e politica con la speranza che «nel giro di dieci anni creaca una leadership che possa essere un punto di riferimento per la società».

Di fronte a un’Europa nella quale il dibattito sui migranti è sempre più acceso, il vescovo fa presente che in Africa ci sono «da oltre vent’anni milioni di sfollati interni. In Etiopia 900mila, in Uganda un milione e 700mila, da noi in Kenya i rifugiati sono 700mila. È un problema grande perché non ci sono le risorse per consentire loro di uscire dai campi. Ci sono giovani nati nei campi profughi che non sono mai usciti di lì. È come se non ci fosse una via d’uscita».

La Chiesa africana dunque lancia un appello, anche alla comunità internazionale, perché «possa essere garantita a queste persone condizioni di vita dignitose». Sono per lo più persone che scappano dalle guerre in Congo, Rwanda, Sudan, Nigeria, «e queste guerre vanno avanti da anni e la situazione politica non aiuta il loro rientro nei Paesi di origine».

C’è anche il problema degli attentati degli islamisti: «In Kenya, grazie a Dio, sono anni che non si verificano. Ma i terroristi di al-Shabaab sono sempre un pericolo anche per noi. In altri Paesi», prosegue il vescovo facendo riferimento ai recenti attacchi terroristici in Burkina Faso soprattutto contro i cristiani, «anche se i fondamentalisti sono una piccola minoranza, fanno molto rumore». Con i loro attentati minano infatti quel dialogo tra diverse fedi che «è invece molto buono», sottolinea monsignor Muheria.

C’è anche un altro «estremismo religioso», come lo definisce il vescovo Keniano: quello dei leader delle sette religiose che «pretendono di essere cristiani ma pensano solo ai soldi e fondano il loro potere sulla disperazione e sulla credulità della gente».

In questo quadro difficile c’è però una fede cristiana gioiosa e in crescita: «In Africa c’è una vera e propria esplosione delle vocazioni. Quest’anno nella mia diocesi sono entrati in seminario centocinquanta ragazzi. Ma per altrettanti non è stato possibile entrare perché non abbiamo abbastanza fondi economici per aprire le porte a tutti coloro che lo chiedono».

Manuela Tulli




Mongolia. Un ospite imbarazzante

 

Vladimir Putin, presidente russo e criminale di guerra, è arrivato a Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, il 3 settembre, formalmente per una commemorazione storica. Accolto nella grande piazza Sükhbaatar da un picchetto di guardie in eleganti uniformi rosse e blu (a somiglianza di quelle indossate ai tempi di Genghis Khan, il fondatore dell’impero mongolo), il leader russo è apparso impettito e tirato a lucido come la propaganda richiede.

Si è trattato del suo primo viaggio in un paese aderente alla Corte penale internazionale. In quanto tale, la Mongolia avrebbe dovuto procedere all’arresto dell’ospite, considerato che, da marzo 2023, sul capo di Putin pende un mandato di cattura per crimini di guerra emesso dalla Corte. Circostanza che, come ampiamente prevedibile (e, a onor del vero, comprensibile), non si è verificata.

Comunista per quasi settant’anni, dal 1990 la Mongolia è uno stato democratico con regolari elezioni (le ultime si sono tenute a fine giugno) e un’economia di mercato. Tuttavia, dal punto di vista economico, Ulaanbaatar dipende per larga parte dai due regimi autoritari che lo schiacciano come un sandwich: a Nord la Russia, a Sud ed Est la Cina.

Mappa della Mongolia, paese asiatico senza sbocco al mare e schiacciato tra due regimi autoritari, a Nord la Russia, a Sud e ad Est la Cina.

Stando all’agenzia mongola Montsame, Putin ha incontrato nell’ordine il presidente Khurelsukh Ukhnaa, il primo ministro Oyun-Erdene Luvsannamsrai e Amarbayasgalan Dashzegve, responsabile del Parlamento (il cosiddetto Grande Khural). Gli incontri – si legge – sono serviti per rafforzare i rapporti di cooperazione economica tra i due stati. Occorre ricordare che Mosca fornisce al Paese (ricco di risorse minerarie, ma privo di uno sbocco al mare) la maggior parte del suo carburante e una notevole quantità di elettricità. Esiste, inoltre, un altro elemento che favorisce le relazioni tra i due stati: dal 1940, la Mongolia ha adottato l’alfabeto cirillico russo.

Due sono le indicazioni generali che la visita di Putin nel Paese asiatico ha posto in evidenzia: la prima è la conferma della volontà russa di insistere senza soluzione di continuità sulla polarizzazione della politica mondiale, la seconda è l’intrinseca debolezza di un’istituzione quale la Corte penale internazionale la cui efficacia è, al momento, praticamente pari a zero.

Paolo Moiola




Corea del Sud. Voglia di armi nucleari

 

«Gli Stati Uniti sarebbero disposti a favorire un programma in grado di dotare la Corea del Sud di sottomarini a propulsione nucleare come fatto con l’Australia?». Primi giorni di giugno, Shangri-La dialogue di Singapore, il massimo vertice sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico. Un delegato di Seul pone questa domanda a Lloyd Austin, il capo del Pentagono, che risponde in maniera evasiva. È il segnale di qualcosa di molto piu ampio: la Corea del Sud sta accarezzando l’idea di dotarsi di armi nucleari.

Un tema tabù, anche per la volontà dichiarata da sempre di Washington di perseguire la denuclearizzazione della penisola. Eppure, dopo anni di continuo innalzamento delle tensioni con la Corea del Nord, l’opinione pubblica e la posizione del governo in materia sta rapidamente mutando. Soprattutto dopo il recente accordo di mutua difesa siglato a Pyongyang tra Kim Jong-un e Vladimir Putin, che preoccupa non poco Seul.
Un recente sondaggio condotto dal potente think-tank Korea Institute for National Unification, un’entità statale, ha rilevato che il 66% degli intervistati ha espresso «sostegno» o «forte sostegno» per un deterrente nucleare indipendente, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Alla richiesta di scegliere, il numero di intervistati che ha espresso una preferenza per il possesso di armi nucleari proprie da parte di Seul rispetto al ricorso alle truppe statunitensi è aumentato di quasi 11 punti percentuali rispetto al 2023, superando per la prima volta il sostegno alla presenza militare di Washington.

Storicamente, la Corea del Sud si affida all’alleato statunitense per la «deterrenza estesa», con la consapevolezza che Washington è disposta a dispiegare i propri mezzi militari, comprese se necessario le armi nucleari, in difesa di Seul. E gli Stati Uniti si sono sempre opposti fermamente allo sviluppo di un proprio arsenale nucleare da parte della Corea del Sud, per il timore che questo possa far naufragare gli sforzi di non proliferazione globale e dare una scusa alla Corea del Nord (ma anche alla Cina) per giustificare l’accelerazione del rafforzamento del proprio arsenale. Ma molti sudcoreani sono convinti che i tempi siano cambiati e l’approccio classico non basti più a garantire la sicurezza.
Dopo gli incontri di Singapore e Hanoi tra Kim e Donald Trump, dal 2019 il dialogo è naufragato. Nella primavera del 2020 la Corea del Nord ha fatto saltare in aria il centro di collegamento intercoreano di Kaesong e dal 2022 ha aumentato esponenzialmente il ritmo dei test missilistici. Sempre nella primavera del 2022, le tensioni sono aumentate dopo la vittoria alle elezioni presidenziali sudcoreane del conservatore Yoon Suk-yeol, che ha abbandonato la linea dialogante del predecessore Moon Jae-in per adottare una retorica della risposta «colpo su colpo».
Anche a causa della guerra in Ucraina e del timore di un crescente allineamento tra Cina e Russia, Seul ha rafforzato drasticamente la propria alleanza militare con gli Usa e ha avviato una partnership con la Nato.

Da qualche mese, è stato anche cancellato l’accordo intercoreano del 2018 che aveva ridotto le manovre militari lungo la frontiera. Il tutto in seguito al lancio del primo satellite spia nordcoreano, che secondo la Corea del Sud sarebbe avvenuto con il sostegno di Mosca. Pyongyang ha ricominciato a muoversi nei pressi della zona demilitarizzata, con brevi sconfinamenti di truppe e la costruzione di nuove strutture. Seul ha risposto con una serie di esercitazioni estese con gli Usa. Le due Coree hanno anche dato una svolta a livello politico-retorico. Kim ha fatto emendare la Costituzione per etichettare il Sud come «nemico principale e immutabile». Yoon ha presentato un piano di unificazione che non prevede alcun ruolo per Kim e il sistema politico nordcoreano. Insomma, Nord e Sud iniziano a pensare che la riunificazione possa avvenire solo cancellando l’altra metà.

Rispetto al passato, le capacità sempre più avanzate della Corea del Nord e la revisione della dottrina nucleare del regime per consentire attacchi preventivi in un’ampia gamma di scenari stanno spingendo diversi deputati sudcoreani a chiedere una rivalutazione della politica in materia di armi. Le voci in tal senso potrebbero aumentare di tono qualora Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. In Corea del Sud ricordano bene cosa è successo durante il suo primo mandato, con la richiesta di aumenti monstre delle spese militari per mantenere i circa 29mila militari statunitensi sul territorio del Paese asiatico. Pretese talmente esose da provocare una sospensione delle trattative. Con l’arrivo di Joe Biden, si è invece trovato rapidamente l’accordo per un aumento ridotto al 4% delle spese. Non solo. L’amministrazione democratica ha rafforzato la rete di alleanze in Asia-Pacifico, favorendo il disgelo tra Corea del Sud e Giappone e fornendo nuove e ampliate garanzie sull’ombrello nucleare americano in caso di crisi.
Non a caso, Seul sta provando, sottotraccia, a trattare con la Casa Bianca il rinnovo dell’accordo prima delle elezioni o comunque del cambio della guardia tra Biden e il suo successore, nonostante la scadenza sia nel 2025. La mossa è pensata per evitare di dover trattare nuovamente con Trump, il cui ritorno, al di là degli effetti concreti, potrebbe causare conseguenze psicologiche, con i sudcoreani che presumibilmente si convincerebbero ancora di più che è necessario fare da soli. E che forse è meglio avere un proprio «ombrello», piuttosto che fare affidamento su quello altrui.

Lorenzo Lamperti




Tempo del creato. Sperare e agire

 

Domenica 1 settembre 2024, i cristiani di tutto il mondo si uniranno in preghiera e riflessione in occasione della diciannovesima Giornata mondiale per la custodia del creato, un momento importante per riconoscere il dono della nostra «casa comune» e impegnarsi nella sua salvaguardia.

Questa giornata rappresenta, come ogni anno, l’inizio del «Tempo del Creato», un periodo di cinque settimane, dal 1 settembre al 4 ottobre, dedicato alla preghiera, alla riflessione e sensibilizzazione sull’importanza di prendersi cura dell’ambiente e delle risorse naturali e all’azione concreta.

Ecumenismo per la «casa comune»

Il Tempo del Creato, che quest’anno ha come motto «Sperare e agire con la Creazione», è un’iniziativa ecumenica che coinvolge i cristiani di tutte le denominazioni. È promosso da un vasto gruppo di organizzazioni cristiane a livello globale, inclusa la Chiesa cattolica, la Chiesa ortodossa, le Chiese protestanti e molte altre comunità cristiane.

Nata nel 1989 per volontà del Patriarca ecumenico Dimitrios I di Costantinopoli, è cresciuta negli anni grazie al Consiglio mondiale delle Chiese e alla sua assunzione ufficiale nella Chiesa cattolica da parte di papa Francesco nel 2015, oggi è un vero e proprio movimento ecumenico globale. La collaborazione tra diverse confessioni rappresenta un segno tangibile dell’impegno comune verso la cura del creato, superando le differenze dottrinali per concentrarsi sull’urgenza di proteggere il pianeta.

Contro i combustibili fossili

Quest’anno una delle iniziative centrali sarà la campagna per la firma del Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, un trattato, sostenuto da numerose organizzazioni religiose e movimenti ambientalisti, che mira a fermare l’espansione dell’industria dei combustibili fossili e a promuovere una transizione giusta verso energie rinnovabili.

La Chiesa cattolica, attraverso le sue organizzazioni sociali e pastorali, ha espresso il suo sostegno a questa iniziativa, vedendola come un passo necessario per affrontare la crisi climatica e proteggere il creato.

Eventi in tutto il mondo

I quattro eventi ufficiali organizzati dal Tempo del creato saranno un incontro di preghiera il 1 settembre; un webinar di alto livello sul Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili il 10 settembre; la Giornata globale di azione per il Trattato sui combustibili fossili il 21 settembre; e la preghiera di chiusura del Tempo del creato il 4 ottobre, festa di San Francesco di Assisi, patrono dell’ecologia.

Le firme raccolte in appoggio al Trattato sui combustibili fossili, saranno
utilizzate per influenzare i decisori alla prossima conferenza delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici, la Cop29, prevista per il novembre 2024 in Azerbaigian.

A queste iniziative del Tempo del creato, si aggiungono poi quelle ufficiali delle diverse conferenze episcopali e delle singole diocesi, e le iniziative spontanee di singole parrocchie, gruppi, movimenti.

In molte città si terranno momenti di preghiera, celebrazioni liturgiche, incontri di riflessione, e iniziative di sensibilizzazione. In Italia, ad esempio, diverse diocesi hanno programmato camminate ecologiche e celebrazioni all’aperto. Negli Stati Uniti, alcune chiese organizzano veglie di preghiera all’alba per sottolineare l’importanza della luce e dell’energia come doni di Dio. In Kenya, la Chiesa anglicana sta promuovendo la piantumazione di alberi nelle comunità locali come atto simbolico di rinnovamento e speranza. In Brasile si terranno marce per la giustizia climatica.

Il messaggio di Francesco

In occasione della giornata del 1 settembre, papa Francesco ha diffuso il messaggio «Spera e agisci con il creato» nel quale ribadisce l’urgenza di un cambiamento radicale nel nostro stile di vita per proteggere il pianeta dal degrado ambientale. «Nell’attesa speranzosa e perseverante del ritorno glorioso di Gesù – afferma tra le altre cose il Papa -, lo Spirito Santo tiene vigile la comunità credente e la istruisce continuamente, la chiama a conversione negli stili di vita, per resistere al degrado umano dell’ambiente e manifestare quella critica sociale che è anzitutto testimonianza della possibilità di cambiare. Questa conversione consiste nel passare dall’arroganza di chi vuole dominare sugli altri e sulla natura – ridotta a oggetto da manipolare -, all’umiltà di chi si prende cura degli altri e del creato». E prosegue: «Sperare e agire con il creato significa anzitutto unire le forze e, camminando insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, contribuire a “ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti […]” (Laudate Deum, 28)».

Un invito all’azione

La Giornata mondiale di preghiera per il creato e il Tempo del creato rappresentano un appello alla coscienza di ogni cristiano. È un invito a riconoscere la gravità della crisi ambientale e ad agire con urgenza. Che si tratti di pregare, di partecipare a eventi locali o di sostenere iniziative globali come il Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili, ognuno è invitato a fare la differenza.

Luca Lorusso

Infografica sul messaggio del papa

Guida alla celebrazione del Tempo del creato

Altre risorse




Giappone. Addio «Costituzione pacifista»?

 

Si chiama, o meglio si chiamava, Douglas MacArthur. Il suo nome non era solamente quello del più celebre generale dell’esercito degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma viene usato ancora oggi per etichettare la costituzione del Giappone, il grande ex rivale di Washington, ora invece suo più stretto alleato sul fronte orientale. Il motivo è semplice. La costituzione introdotta nel secondo dopoguerra da Tokyo fu appunto imposta dagli Usa e ora il governo nipponico vuole provare a riformarla dopo decenni di dibattito.

Prima ancora della resa dopo il lancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, proprio MacArthur aveva ricevuto l’incarico di comandante supremo delle forze alleate in Giappone. Non solo. Il generale fu anche dotato di potere di controllo assoluto sulle istituzioni, imperatore Hirohito compreso. Evitò l’abdicazione del sovrano non toccando le antiche tradizioni, in cambio però di profonde garanzie sul fatto che il Paese asiatico non sarebbe mai più stato una minaccia militare per gli Stati Uniti e i suoi vicini asiatici. Ed ecco allora l’entrata in vigore di una Costituzione che viene definita «pacifista».

L’articolo chiave è il numero 9, che stabilisce che «Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». A tal fine, l’articolo prevede che «le forze terrestri, marittime e aeree, così come un altro potenziale bellico, non saranno mai mantenute». Formalmente, il Giappone non ha un vero e proprio esercito, bensì delle Forze di autodifesa. Si tratta sostanzialmente di una forza militare de facto che dal 1954 sostituisce le forze armate prebelliche. Nel corso degli anni, alcuni tribunali nipponici hanno persino ritenuto incostituzionali le Forze di autodifesa, anche se la Corte Suprema non si è mai pronunciata sulla questione.
Ora, però, il Giappone si sta muovendo per rivedere o abolire del tutto le restrizioni dell’articolo 9. Un tema quasi tabù, menzionato diverse volte nel corso degli anni ma mai affrontato in modo profondo. L’esigenza è divenuta più impellente contestualmente all’ascesa militare della Cina. Dopo le tensioni sulle isole contese Senkaku/Diaoyu, nel 2014 il governo dell’allora premier Shinzo Abe ha approvato una reinterpretazione dell’articolo 9 per consentire al Giappone di impegnarsi in una «autodifesa collettiva».
Ma anche questo non è più abbastanza. Nelle scorse settimane, il premier Fumio Kishida ha rotto gli indugi chiedendo al Partito liberaldemocratico (al potere quasi ininterrottamente da decenni) di accelerare il dibattito sulla revisione costituzionale. «L’era in cui ci si limitava a parlare della Costituzione è finita. Ora è il momento di camminare e iniziare a pensare a come realizzarla», ha dichiarato Kishida, che ha sottolineato la necessità di menzionare esplicitamente le Forze di autodifesa nella Carta e di stabilire una clausola che consenta di estendere i mandati dei deputati in caso di emergenza nazionale.

La linea non cambia nemmeno dopo l’annuncio delle dimissioni di Kishida, anzi in vista delle elezioni per la presidenza del partito, che il 27 settembre decreteranno anche chi sarà il prossimo premier, il dibattito pare destinato a rafforzarsi. Diversi aspiranti alla carica di primo ministro, dalla donna di riferimento dell’ala ultraconservatrice Sanae Takaichi alle l’ex ministro della Difesa Shigeru Ishiba fino all’ex ministro della Sicurezza economica Takayuki Kobayashi, praticamente tutti i candidati hanno dichiarato che la riforma costituzionale è una delle loro priorità.
Secondo un recente sondaggio di Kyodo News, il 65% dell’opinione pubblica giapponese ritiene in realtà che non sia necessario affrettare il dibattito sulla revisione costituzionale, ma il governo la pensa diversamente. La guerra in Ucraina ha accelerato una serie di processi già in atto e il Giappone è il Paese che più di tutti teme un potenziale coordinamento tra Cina, Russia e Corea del Nord. Di più. Il Giappone è il Paese più direttamente coinvolto dalle tensioni su Taiwan. Basti pensare che durante le vaste esercitazioni militari cinesi dell’agosto 2022, condotte in risposta alla visita di Nancy Pelosi a Taipei, quattro degli 11 missili lanciati dalle forze armate di Pechino sono finiti nelle acque della zona economica speciale giapponese.
Kishida è stato il primo (e più convinto) leader a connettere il fronte occidentale con quello orientale, sostenendo già dal maggio 2022 che l’Asia orientale rischia di diventare la «prossima Ucraina». Tokyo ha rafforzato in modo drastico l’alleanza militare con gli Stati Uniti e ha partecipato per la prima storica volta al summit Nato di due anni fa. Ancora: Kishida ha riavviato i rapporti con la Corea del Sud dopo anni di tensioni commerciali e diplomatiche, disgelo suggellato dal summit di Camp David di agosto 2023 con Joe Biden e il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol. Kishida è poi tornato a Washington la scorsa primavera, firmando accordi trilaterali che hanno coinvolto per la prima volta anche le Filippine. Per non parlare del rafforzamento dei rapporti di difesa con India e Australia. Insomma, il Giappone è diventato l’epicentro di una rete di sicurezza asiatica che in qualche modo potrebbe anche attutire un eventuale parziale disimpegno statunitense, da non escludere nel caso di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre.
Ecco perché il Giappone sente di dover rivedere la sua costituzione. Pechino si lamenta e mette in guardia il vicino dal non rievocare il suo «passato militarista». Ma a Tokyo sono convinti che i tempi siano cambiati e che avere meno vincoli sul fronte militare sia necessario per sostenere la propria sicurezza. Lecito attendersi nuovi sviluppi, e altrettante tensioni, nel futuro prossimo.

Lorenzo Lamperti




Africa australe. Mancano acqua, cibo ed energia

 

I campi sono gialli. Secchi. Da febbraio non piove. Neanche una goccia sull’Africa australe. La siccità si è diffusa lentamente. I raccolti sono stati bruciati. I bacini idrici si sono svuotati e anche le centrali idroelettriche sono ferme o viaggiano a ritmo ridotto. La siccità in Zambia, Zimbabwe e Malawi, i Paesi più colpiti, è un problema ricorrente, ma quest’anno le tre nazioni si sono trovate a far fronte a condizioni particolarmente dure, le più dure da 40 anni.

Le cause principali della siccità sono legate a fenomeni climatici globali come El Niño, che altera i modelli di pioggia, e al cambiamento climatico, che sta aumentando la frequenza e la gravità delle siccità. L’insicurezza alimentare è una delle conseguenze più gravi, con milioni di persone che si trovano a fronteggiare la fame e la malnutrizione. Inoltre, l’impatto economico è significativo, con perdite agricole, aumento dei prezzi degli alimenti e pressioni sulle risorse idriche che aggravano le già fragili economie.

In Zambia, la siccità, secondo i dati forniti dall’autorità governativa, ha colpito più di 6 milioni di persone, di cui la metà bambini. La carenza di piogge ha avuto un impatto significativo sulla produzione agricola, soprattutto nelle regioni meridionali, in particolare sulla coltivazione del mais, che è un alimento base per gran parte della popolazione. La mancanza di acqua ha anche influito sulla produzione di energia, poiché il Paese dipende fortemente dall’energia idroelettrica. La diga di Kariba, una delle principali fonti energetiche del Paese, ha visto un drastico calo dei livelli d’acqua, portando a interruzioni di corrente e razionamenti. L’azienda elettrica nazionale ha chiesto all’autorità dell’energia di poter aumentare le bollette del 156%.

Anche lo Zimbabwe è stato duramente colpito, con conseguenze devastanti sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare. Il Paese, già afflitto da una decennale crisi economica, ha visto un ulteriore peggioramento della situazione a causa della scarsità di acqua. La siccità ha colpito duramente la produzione agricola, in particolare le coltivazioni di mais, portando a carenze alimentari diffuse. Ciò ha causato un forte aumento dei prezzi alimentari che ha spinto l’inflazione alimentare sopra al 60%. Circa 2,7 milioni di persone nelle aree rurali sono minacciate dalla fame. Anche in Zimbabwe la scarsità d’acqua ha anche compromesso la produzione di energia idroelettrica rendendo più cara la bolletta.

Pure in Malawi, la siccità ha compromesso la produzione di mais, che è la principale fonte di cibo e reddito per la maggior parte della popolazione. Ciò ha portato a un aumento della fame e della malnutrizione, soprattutto nelle aree rurali. Inoltre, la siccità ha colpito la disponibilità di acqua potabile e la capacità del Paese di generare energia elettrica, poiché gran parte della sua elettricità proviene da impianti idroelettrici. Circa 9 milioni di persone necessitano ora di assistenza, la metà sono bambini.

I governi di Zambia, Zimbabwe e Malawi, insieme alle organizzazioni internazionali, stanno cercando di affrontare la crisi con varie strategie. Il Programma alimentare mondiale e l’Unicef stanno intervenendo con aiuti alimentari e supporto nutrizionale, soprattutto per i bambini più vulnerabili. Tuttavia, la frequenza crescente di questi eventi climatici estremi suggerisce che la siccità diventerà una sfida sempre più ricorrente, richiedendo soluzioni a lungo termine e un supporto internazionale più consistente per rafforzare la resilienza delle comunità locali.

Enrico Casale




Sudan. Oltre 16 milioni a rischio fame

 

Da aprile 2023, il Sudan è dilaniato da una sanguinosa guerra civile. A scontrarsi sono l’esercito governativo guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan – leader ufficiale del Paese – e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, rivale di al-Burhan.

Mentre i due si contendono il controllo del Sudan – il più delle volte ignorando i tentativi di dialogo portati avanti dalla comunità internazionale – i civili sudanesi pagano le conseguenze di un conflitto sempre più violento. Gli sfollati interni sono oltre dieci milioni, mentre più di due milioni di persone si sono rifugiate negli Stati vicini. Gli aiuti umanitari faticano a entrare nel Paese: entrambe le fazioni in conflitto ostacolano l’accesso di operatori e organizzazioni internazionali. Tant’è che, negli ultimi mesi, tra coloro che non avevano cibo a sufficienza, solo una persona su dieci ha ricevuto l’assistenza necessaria. Secondo le Nazioni Unite, quindi, il Sudan sta vivendo la peggiore crisi alimentare della sua storia.
Per valutare le condizioni alimentari di un Paese, a livello internazionale è stato introdotto un sistema condiviso di monitoraggio, l’Integrated food security phase classification (Ipc). Un meccanismo che si articola su cinque livelli, dove il primo descrive una condizione di sufficiente disponibilità di cibo mentre l’ultimo corrisponde alla carestia. Passando per situazioni di «stress alimentare» (livello 2), «crisi» (livello 3) ed «emergenza» (livello 4).

Nel caso del Sudan, le ultime rilevazioni (pubblicate a luglio) mostrano che, tra giugno e settembre 2024, oltre 25 milioni di persone (su una popolazione di quasi 50 milioni) si sono trovate, o saranno, in una condizione di «crisi», se non peggio. E la situazione è in rapido deterioramento. Infatti, rispetto alle precedenti stime di dicembre 2023, il numero di sudanesi in situazione di «crisi» è cresciuto del 45%, raggiungendo i 16,3 milioni. Mentre il livello successivo, quello emergenziale, riguarda ormai 8,5 milioni di persone (con un incremento del 74%).
A preoccupare, però, sono soprattutto i dati relativi all’ultima fase, la carestia. Se a dicembre 2023 nessun sudanese era a rischio, ora 755mila persone – sparse in dieci località del Paese – soffrono di insicurezza alimentare estrema. Cioè un’insufficienza severa, prolungata e diffusa di cibo, tale da causare malnutrizione, fame ed elevata mortalità tra la popolazione. Già a febbraio, le Nazioni Unite avevano avvertito che nei mesi successivi sarebbero potuti morire fino a 220mila bambini per la mancanza di generi alimentari. Più recentemente, il Clingendael institute, un ente di ricerca olandese, ha stimato che entro ottobre 2,5 milioni di sudanesi potrebbero perdere la vita a causa dell’insicurezza alimentare.
Attualmente, le aree del Paese più a rischio di carestia sono 14 tra province (Greater Darfur, Greater Kordofan e Al Jazirah) e località che accolgono sfollati e rifugiati (soprattutto a Khartoum, la capitale). Ufficialmente, le Nazioni Unite non hanno ancora dichiarato uno stato di carestia ma, allo stato attuale, l’intersecarsi di diversi fattori – conflitto, ciclici disastri naturali e devastazione economica – rende la prospettiva sempre più possibile e vicina.

Secondo l’Ipc infatti, se gli scontri non cesseranno – o quantomeno non allenteranno la propria presa sui civili -, l’insicurezza alimentare si diffonderà sempre di più nel Paese. La violenza ha costretto molti sudanesi a lasciare abitazioni e attività economiche per rifugiarsi nei campi di sfollati. Dove però gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a causa dei blocchi e dei saccheggi degli attori armati.
Diverse reti stradali e vie commerciali sono diventate impercorribili. La produzione agricola è crollata: campi, mezzi di produzione e catene di approvvigionamento sono andati distrutti. Quindi i prezzi dei generi alimentari – sia di produzione interna sia d’importazione (diventata sempre più difficile) – sono schizzati alle stelle. L’Unocha (l’agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) ad esempio stima che i prezzi delle commodities siano aumentati dell’83% rispetto all’inizio del conflitto.
I disastri naturali – come le recenti inondazioni – si vanno a sommare a un contesto socioeconomico già estremamente fragile e non fanno altro che acuire la vulnerabilità della popolazione. Soprattutto nel caso di sfollati e rifugiati che spesso vivono in campi di fortuna.
Il Sudan – dilaniato da una guerra di potere – è sempre più vicino al baratro.

Aurora Guainazzi