Mondo. L’Onu ci prova (ma prevalgono le divisioni)
Il nome scelto è ambizioso: «Patto per il futuro» è stato, infatti, chiamato. È l’accordo globale più rilevante discusso e adottato nella 79.ma Assemblea delle Nazioni Unite (Unga), tenutasi a New York dal 24 al 30 settembre, alla presenza dei rappresentanti di 193 paesi. Come spesso accade (ad esempio, per l’«Agenda 2030» varata nel 2015), il testo è meritorio e suadente, ma è nato in tempi grami per i rapporti tra i paesi del mondo con una divisione profonda tra un Occidente in crisi e un’alternativa autocratica capeggiata da Russia e Cina.
L’incipit dell’accordo è solenne: «Noi, capi di Stato e di Governo, in rappresentanza dei popoli del mondo, ci siamo riuniti presso la sede delle Nazioni Unite per proteggere le esigenze e gli interessi delle generazioni presenti e future attraverso le azioni previste da questo Patto per il futuro». Il Patto si articola in 5 aree principali e 56 azioni: sviluppo sostenibile e suo finanziamento; pace e sicurezza internazionale; scienza, tecnologia e innovazione e cooperazione digitale; gioventù e generazioni future; trasformazione della governance globale. Include anche due documenti aggiuntivi: uno dedicato al superamento del divario digitale e uno relativo alle generazioni future.
Davanti a un mondo dove le controversie tra i paesi sfociano sempre più spesso in conflitti, viene affermato che «il sistema multilaterale e le sue istituzioni, con le Nazioni Unite e la sua Carta al centro, devono essere rafforzati». Questo rafforzamento dovrebbe passare anche attraverso una riforma del Consiglio di sicurezza: «Riformeremo – si legge nell’azione 39 – il Consiglio di sicurezza, riconoscendo l’urgente necessità di renderlo più rappresentativo, inclusivo, trasparente, efficiente, efficace, democratico e responsabile». Fin dall’inizio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu (Unsc) è stato bloccato dai veti incrociati dei suoi membri permanenti.
Il Patto – inoltre – conferma in più passaggi l’impegno per l’Agenda 2030 e per il raggiungimento dei suoi obiettivi, la gran parte dei quali rimangono lontani.
«Questo Patto per il futuro – ha detto Charles Michel, presidente del Consiglio europeo – invia un forte segnale di fiducia che, nonostante le nostre differenze, nonostante le sfide che affrontiamo, possiamo lavorare insieme e vogliamo lavorare insieme. Potete contare sull’Ue come partner forte e affidabile per rendere questo Patto un successo». Peccato che l’Unione europea (indebolita dai partiti della destra populista) sia, da tempo, il grande assente dal panorama geopolitico internazionale, con una rilevanza ridotta ai minimi termini e un’assoluta povertà d’idee condivise.
L’accordo per il futuro, che – va ricordato – non è vincolante, ha avuto un iter travagliato. Alla fine, è stato adottato, nonostante i tentativi della Russia di far saltare il banco. La votazione sugli emendamenti russi ha visto, infatti, 143 voti favorevoli al Patto, 7 contrari e 15 astensioni. A votare contro sono stati la Russia e alcuni dei suoi principali alleati (Bielorussia, Corea del Nord, Iran, Nicaragua, Sudan e Siria), mentre tra gli astenuti troviamo Cina, Cuba, Arabia Saudita e Irak. I restanti paesi – tra cui l’Argentina dell’anarco capitalista Javier Milei – hanno deciso di non partecipare.
Tutti numeri, questi, che fanno intuire quanto difficile sarà l’effettiva messa in atto del Patto per il futuro oltre al recupero di un ruolo centrale per le Nazioni Unite.
Paolo Moiola
Giappone. Nuovo premier a sorpresa
«Ho gravato enormemente sui miei sostenitori e non sono riuscito a soddisfare le aspettative. È un fallimento». Shigeru Ishiba pronunciava queste parole di fronte a una manciata di giornalisti il 23 ottobre del 2020, dopo essere arrivato ultimo alle elezioni per la leadership del Partito Liberaldemocratico, la forza politica che governa il Giappone quasi ininterrottamente dal secondo dopoguerra.
Era la sua quarta sconfitta, la più umiliante, perché non avvenuta contro il suo storico e potente arcirivale Shinzo Abe, ma contro il grigio Yoshihide Suga. Appariva finita, i giorni migliori di Ishiba sembravano alle sue spalle. Quando nell’agosto scorso si è candidato per la quinta volta, subito dopo l’annuncio delle dimissioni di Fumio Kishida, in pochi prevedevano che stavolta la storia avrebbe potuto avere un finale diverso. E, invece, quella che lui stesso ha definito la «battaglia finale» è stata quella giusta. Venerdì 27 settembre Ishiba ha vinto le elezioni interne al partito, ricevendo automaticamente l’investitura a 102esimo premier del Giappone dal Parlamento nella seduta del 1° ottobre.
Ishiba ha un passato da banchiere, prima dell’ingresso in politica nell’ormai lontano 1986. Attestatosi su posizioni moderatamente riformiste, negli anni Novanta trascorre un periodo all’esterno di un partito che ritiene troppo conservatore. Salvo rientrare all’alba del terzo millennio, per ricoprire i ruoli di ministro della Difesa prima e di ministro dell’Agricoltura poi. In tanti prevedono per lui l’ascesa a posizioni apicali. Previsioni stoppate dal dominio di Abe, con cui Ishiba entra ripetutamente in rotta di collisione. Le sue posizioni critiche lo rendono un personaggio scomodo all’interno del partito, ma parecchio popolare nell’opinione pubblica.
Eppure, i maggiori favoriti alle elezioni della scorsa settimana sembravano altri. Secondo diverse previsioni dell’inizio della campagna elettorale, in pole position parevano in particolare Shunjiro Koizumi e Sanae Takaichi. Il primo, figlio dell’ex premier Junichiro, pareva il più apprezzato dal campo allargato al di fuori degli iscritti al partito. Coi suoi 43 anni e la sua aperta ostilità verso il sistema delle fazioni, i sondaggi lo davano come referente della voglia di cambiamento, fattasi più forte anche dopo il grande scandalo sui finanziamenti che ha costretto Kishida a sciogliere la maggior parte delle correnti interne. Nonostante le diverse dissoluzioni, la logica delle fazioni (vero pilastro della politica nipponica) non è scomparsa del tutto. L’inesperienza di Koizumi gli è costata il terzo posto al primo turno di votazioni, aperte a parlamentari e in egual numero a una parte degli iscritti.
Giunto secondo, Ishiba partiva sfavorito al ballottaggio contro Takaichi, aperto solo a parlamentari e gruppi partitici locali delle diverse prefetture. La ministra della Sicurezza economica uscente, che puntava a diventare la prima premier donna di sempre, aveva d’altronde l’appoggio di tutti gli ex adepti di Abe. Ma anche la fazione dell’ex premier Taro Aso, l’unica rimasta ufficialmente in piedi, aveva optato per lei. Alla fine, però, Ishiba ha prevalso per soli 21 voti. Uno scarto minimo per la tradizione del voto interno al Partito liberaldemocratico. A premiarlo i dubbi del cuore moderato del partito, guidato da Kishida, per le posizioni ultranazionaliste di Takaichi, assidua frequentatrice del santuario Yasukuni, luogo a dir poco controverso dove tra centinaia di caduti si commemorano anche 14 criminali di guerra dell’era coloniale nipponica. Una sua vittoria avrebbe rischiato di far saltare il delicato disgelo con la Corea del Sud, acuito le tensioni con la Cina e portato molte incognite anche sul fronte interno. Le sue posizioni radicali sono state viste come un serio rischio di esposizione alle critiche dell’opposizione, che nelle scorse settimane è peraltro riuscita a riorganizzarsi intorno all’influente figura dell’ex premier Yoshihiko Noda.
Ed ecco allora che la scelta è caduta su Ishiba, nonostante lui stesso non garantisca una continuità assoluta con le politiche di Kishida. Anzi, sul fronte interno il neo premier si oppone all’utilizzo del nucleare nel processo di transizione energetica, al contrario del suo predecessore. In politica estera, manterrà senz’altro l’alleanza con gli Stati Uniti ma ha il dichiarato obiettivo di ridefinirla. Secondo Ishiba, i rapporti sono troppo squilibrati. Per questo, mira a rivedere l’accordo sullo status delle forze armate e a ottenere una condivisione del deterrente nucleare. Non solo. In campagna elettorale ha dichiarato più volte che vorrebbe la costituzione di una Nato asiatica. Alla base del suo desiderio, non c’è solo la necessità di elevare la sicurezza regionale di fronte alle turbolenze con Cina, Russia e Corea del Nord, ma anche quella di mettere a punto un meccanismo militare in grado di fare parzialmente a meno degli Usa. Ishiba (e non solo lui) ha infatti dei dubbi sulla tenuta dell’impegno americano in Asia-Pacifico, soprattutto qualora alla Casa Bianca dovesse tornare Donald Trump. In una parola, Ishiba mira a un certo grado di autonomia strategica. Obiettivo che non piace a Washington e che potrebbe causare qualche attrito nel futuro prossimo tra i due alleati.
Intanto, la prima sfida di Ishiba saranno le elezioni generali del 27 ottobre. In una mossa a sorpresa, il neo premier ha infatti dichiarato che intende sciogliere le camere e procedere al voto anticipato, nonostante in campagna elettorale avesse assicurato il contrario. L’opposizione si è arrabbiata, ricordando che Ishiba aveva stabilito che il voto si sarebbe fatto solo dopo aver «consentito agli elettori di giudicare il suo operato». Ma il Partito Liberaldemocratico ha consigliato a Ishiba di provare a far fruttare subito il gradimento dell’opinione pubblica, prima di dover mettere mano agli spinosi dossier economici, i più urgenti da aprire e risolvere. E prima che Noda riesca a strutturare l’opposizione.
Mancando solo poche settimane, l’esito delle elezioni generali potrebbe apparire scontato. Ma il Giappone sta insegnando che anche a Tokyo e dintorni di scontato c’è ormai ben poco.
Lorenzo Lamperti, da Taipei
L’ecologia profonda
Il filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss è il padre della riflessione ecologista del Novecento. Ha contribuito a comprendere che «tutto è collegato» e che ciascuno, con il proprio stile di vita, può affrontare la crisi ecologica e, allo stesso tempo, vivere meglio.
«Introduzione all’ecologia» è un’antologia di scritti del noto filosofo (e alpinista) norvegese Arne Dekke Eide Næss (Oslo, 1912-2009).
«Arne Næss – si legge sul sito delle edizioni Ets – è stato il fondatore del movimento dell’ecologia profonda e il padre della filosofia dell’ecologia, ed è riconosciuto come il più importante filosofo norvegese. […] Personaggio eccentrico e geniale, ha alternato la sua attività accademica all’alpinismo (ha guidato la prima ascensione al Tirich Mir, 7708 metri slm in Pakistan) e alla passione per il pianoforte. Già membro del Circolo di Vienna, ha approfondito diversi ambiti filosofici, dall’epistemologia, alla psicologia, all’etica, alla metafisica, alla filosofia del linguaggio, sviluppando un’originale filosofia della vita («ecosofia T») ispirata ad un tempo alla tradizione occidentale (Spinoza, in particolare) e orientale (Gandhi e il buddismo)».
La visione di Næss s’identifica con l’ontologia della Gestalt, per la quale «tutto è collegato» (traduzione dell’inglese «everything hangs together»), «tutto dipende da tutto»: il primo principio dell’ecologia.
Næss invita il lettore a considerare le connessioni tra il pensiero del filosofo olandese del XVII secolo, Baruch Spinoza, e quello ecologico. Lo fa per 36 pagine fitte fitte, dalla 127 alla 163.
Ci aiutano un utile Indice analitico, l’Elenco delle fonti e una specie di condensato dei fondamenti dell’ecologia profonda proposto in otto punti a pagina 46 nel capitolo intitolato I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda.
La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umana è indipendente dall’utilità del mondo non umano.
La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch’esse valori in se stessi.
Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni reali.
L’attuale interferenza umana nei confronti del mondo non-umano è eccessiva.
Le politiche devono essere modificate.
La situazione risultante sarà profondamente differente da quella odierna e renderà possibile un’esperienza più gioiosa della connessione di tutte le cose.
Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che cercare un tenore di vita sempre più alto.
Ci sarà una consapevolezza profonda della differenza tra il grande e l’intenso.
L’uomo Arne
Il filosofo è ben raccontato nella sua dimensione umana in un’intervista del 10 febbraio 2015 a Kit-Fai Næss, la sua terza moglie.
Sull’amore di Arne Næss per la montagna e per la musica: «Era un grande pianista», dice la moglie, e quando dovette scegliere se proseguire con la musica o con la filosofia, da giovane esclamò: «Non posso portare ovunque il pianoforte. Mentre, se faccio il filosofo, posso continuare a fare alpinismo».
Per quanto riguarda il futuro dell’ecologia, Arne ricordava spesso che ci sono tre tematiche da approfondire, che fanno capo a tre grandi movimenti: il movimento della giustizia sociale, il movimento dell’ecologia profonda e il movimento pacifista.
In riferimento all’ecologia profonda, per Arne è necessario modificare i nostri comportamenti, per poter cambiare il mondo. Una volta modificati, sarà più facile – quasi naturale – cambiare anche stile di vita. L’ecologia profonda si rivolge più a noi e a come viviamo che ai mezzi tecnologici che usiamo.
In merito alla crisi ecologica, Arne Næss, in alcuni suoi scritti, sembra essere alquanto pessimista sulle possibilità umane di affrontarla e risolverla. Sicuramente, però, per lui l’umanità non è il cancro del pianeta. Probabilmente la sua idea di uomo si avvicina a quella di Aldo Leopold per il quale siamo destinati a essere i custodi della Terra.
Di fondo, però, il filosofo era una persona generalmente molto ottimista: sosteneva che nel XXII secolo l’uomo avrebbe cambiato i propri comportamenti.
Tuttavia, per ora, le cose vanno male, e devono andare male, affinché l’umanità possa modificare il suo modo di vivere.
Essere positivi
L’invito di Næss all’ottimismo emerge anche dalle parole dell’amico Alan Drengson, la cui intervista del 2015 si trova in appendice dopo quella già citata alla moglie. Dal momento che il filosofo norvegese si esprimeva spesso tramite slogan, l’intervistatore domanda all’amico come sintetizzare in una frase, in una sorta di «messaggio in bottiglia», l’eredità filosofica e culturale di Næss.
«Sii positivo in ogni circostanza – è la risposta -; riconosci la tua innata capacità creativa, quella dei tuoi amici e di ogni altra persona, in tutti gli esseri viventi e nella natura. Ama il contatto con la natura e con le sue forme di vita: dedicale del tempo. Allontana ogni mezzo tecnologico e riposati nella natura. Rispetta ogni persona e ogni essere vivente che incontri sul tuo cammino».
Cinzia Picchioni
Piccola bibliografia
Bruno Bignami, Terra, aria, acqua e fuoco. Riscrivere l’etica ecologica, EDB, Edizioni Dehoniane Bologna 2012, pp. 214, 20,50 €.
Franco Nasi e Luca Valera (a cura di), Arne Næss, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 376, 24 €.
Fritjof Capra et al., La cura della casa comune, Fondazione italiana di bioarchitettura (a cura di), Libreria editrice Fiorentina, Firenze 2020, pp. 258, 18 €.
Leo Hickman, La vita ridotta all’osso. Un anno senza sprechi: le disavventure di un consumatore coscienzioso, Ponte alle Grazie, Milano 2007, pp. 268, 12 €.
Bill Devall e George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Nanni Salio (a cura di), Castelvecchi, Roma 2022, pp. 354, 20 €.
Gary Snyder, La grana delle cose, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 270.
Mathis Wackernagel e Bert Beyers, Impronta ecologica. Usare la biocapacità del pianeta senza distruggerla, Edizioni Ambiente, Milano 2020, pp. 312, 20 €.
Un banchetto di nozze
C’è una festa oggi. Un banchetto di nozze. Dio si è invaghito dell’umanità e la chiama per condividere ciò che è suo, ciò che è.
Ha sentito il grido delle sue creature levarsi dalla Terra. Le ha guardate e le ha amate.
E ha mandato i suoi testimoni attraverso i secoli e i confini, per parlare al loro cuore e cambiare il pianto in danza, mostrare che la morte ha perduto il suo veleno, e la vita è viva per sempre.
Giuseppe Allamano è uno di loro. Ha sentito il Signore stare alla porta e bussare. Bussava da dentro perché gli si aprisse per uscire incontro ai popoli*. E quando Giuseppe ha aperto, molti uomini e donne si sono sparsi fino ai confini della Terra per invitare tutti alle nozze, e dire che Egli è con noi ogni giorno, fino alla fine del mondo.
Quei missionari sono andati in Africa, Americhe, Asia, Europa e, con Maria Consolata, ancora oggi rinnovano il segno dell’acqua mutata in vino.
Sono giunti fin nel cuore dell’Amazzonia, dove hanno incontrato e affiancato i popoli nativi che si oppongono al male della storia che li travolge.
Anche lì, come in tutti gli altri luoghi geografici ed esistenziali nei quali vivono, hanno portato la notizia delle nozze, e hanno celebrando la cena del Signore che realizza «il radunarsi escatologico del popolo di Dio»*.
Anche lì, dove la guarigione di un uomo in fin di vita ha mostrato in modo tangibile che la morte non ha l’ultima parola, che la vita non muore, l’umanità oggi può sentire di non essere abbandonata, ma consolata, sposata.
C’è una festa oggi. Una festa che non legge le sofferenze individuali e di interi popoli come incidenti da tralasciare, la croce come una parentesi da scordare. Ma come vita amata da trasfigurare, già qui e ora.
Grati per le opere che il Signore ha compiuto e compie,
buon mese missionario in questo ottobre che celebra Giuseppe Allamano santo
L’intelligenza artificiale potrebbe aiutarci a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 e a contrastare il cambiamento climatico. A patto, però, che l’energia e l’acqua necessarie per farla funzionare non peggiorino il problema più di quanto lo risolvano.
L’intelligenza artificiale (Ia) può aiutare a prevedere carestie e inondazioni, a usare l’acqua in modo più efficiente, a monitorare e tagliare le emissioni di gas serra, a ridurre la mortalità materna e infantile e le disparità di genere, a colmare le lacune nella raccolta dei dati a livello globale e a fare molte altre cose utili al raggiungimento degli obiettivi si sviluppo sostenibile (acronimo inglese: Sdg) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
A patto, però, di trovare modi efficaci per renderla sicura, inclusiva e sostenibile.
Lo hanno affermato lo scorso maggio a Ginevra al vertice mondiale Ai for Good@ sia il segretario generale Onu António Guterres – l’intelligenza artificiale può «mettere il turbo allo sviluppo sostenibile» -, sia Doreen Bogdan-Martin, la segretaria generale dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu, nell’acronimo inglese), l’agenzia Onu per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Bogdan-Martin ha riconosciuto il ruolo potenziale dell’Ia nel «salvare gli Sdg», ma ha anche ricordato che un terzo degli abitanti del mondo, cioè 2,6 miliardi di persone, rimane privo di connessione ed «escluso dalla rivoluzione dell’Ia».
L’intelligenza artificiale è affamata di elettricità e assetata di acqua, ha poi spiegato nel suo intervento Tomas Lamanauskas, il vice di Bogdan-Martin: quando si parla di clima, si è chiesto Lamanauskas, le tecnologie basate sull’intelligenza artificiale sono parte del problema o ci aiuteranno a trovare una soluzione?@
L’Ia per clima e sviluppo
Queste tecnologie, ha detto Lamanauskas, hanno un potenziale evidente nel contribuire a identificare soluzioni per affrontare la crisi climatica: possono, ad esempio, rilevare e analizzare cambiamenti anche minimi degli ecosistemi, e aiutare a pianificare le attività per la loro conservazione, monitorare le aree danneggiate dalla deforestazione, aumentare l’efficienza energetica e ridurre gli sprechi.
Secondo uno studio del Boston consulting group, società di consulenza con sede a Boston, Usa, l’uso dell’Ia potrebbe aiutare a realizzare un taglio delle emissioni di anidride carbonica fra il 5 e il 10%. Per dare una misura, si tratta di una quota non lontana da quella prodotta oggi dall’Unione europea. Anche nell’adattamento ai cambiamenti climatici le tecnologie basate sull’Ia potrebbero aiutare le città a individuare meglio le aree vulnerabili e a fornire stime realistiche sui costi che le amministrazioni cittadine dovrebbero affrontare se non agiscono in tempo.
Ad esempio, lo scorso aprile Preventionweb, un servizio dell’Ufficio Onu per la riduzione del rischio di disastri, riportava@ i risultati promettenti ottenuti da alcuni studiosi del California institute of technology nel prevedere con un anticipo fra i 10 e i 30 giorni le piogge monsoniche dell’Asia meridionale. I ricercatori hanno affiancato l’apprendimento automatico alla più tradizionale modellistica numerica (l’uso cioè di modelli matematici per simulare ciò che avviene nell’atmosfera), ottenendo un modello che si è mostrato più preciso e attendibile. Capire e prevedere meglio il comportamento dei monsoni è importante per i contadini di Paesi come India, Pakistan, Bangladesh, che devono programmare il raccolto, e per le autorità locali, che possono prepararsi per tempo a eventuali inondazioni. Ma anche per chi studia i fenomeni climatici a livello globale, poiché i monsoni hanno un’influenza sul clima del pianeta. Quanto al contributo potenziale dell’intelligenza artificiale allo sviluppo sostenibile, proprio l’Unione internazionale delle telecomunicazioni ha pubblicato di recente una lista di casi d’uso in cui l’Ia viene testata per capire quanto efficace può essere nel raggiungere gli Sdg. La selezione finale – 53 casi da 19 Paesi, scelti fra 219 casi da 38 Paesi – include progetti che usano l’Ia per fornire servizi di telemedicina in Cambogia, ottimizzare l’uso dell’acqua in agricoltura e ridurre la corruzione negli appalti pubblici in Tanzania, migliorare la salute e il benessere degli animali negli allevamenti avicoli in Rwanda e prevenire gli incendi nei terreni torbosi della Malaysia.
L’Ia ha fame di energia
Il consumo di energia da parte di centri dati (data centre) per l’Ia e il settore delle criptovalute potrebbe raddoppiare entro il 2026, passando dai circa 460 terawattora (TWh) nel 2022 a oltre mille. È un consumo di elettricità che equivale più o meno a quello del Giappone. Lo scrive nel rapporto Electricity 2024@ la Iea, Agenzia internazionale dell’energia, che riferisce anche che ci sono oggi circa 8mila centri dati nel mondo, di cui un terzo negli Stati Uniti, il 16% in Europa e il 10% in Cina. Negli Usa, 15 Stati ne ospitano l’80%, mentre in Europa si fa notare il caso dell’Irlanda che, anche grazie a un regime fiscale molto favorevole per le imprese, ha visto il settore espandersi rapidamente e oggi i centri dati hanno un consumo di energia pari a quello di tutti gli edifici residenziali urbani del Paese.
Ma che cos’è un centro dati? È uno spazio fisico dove vengono collocati i computer e i dispositivi hardware che servono per elaborare, archiviare e comunicare dati. L’intelligenza artificiale funziona e si «allena» proprio grazie alla enorme mole di dati elaborati in questi entri (necessari per internet a prescindere della Ia, che però ne aumenterà il numero, ndr). Il 40% dell’energia che usano, continua il rapporto Iea, serve per l’elaborazione dei dati, un altro 40% per il raffreddamento degli impianti e il 20% fa funzionare altre apparecchiature.
Ma, ricordava a marzo sul Financial Times@ la giornalista, politica e consulente della Commissione europea, Marietje Schaake, molti esperti del settore, a cominciare dall’amministratore delegato del laboratorio di ricerca OpenAI, Sam Altman, sono convinti che il futuro dell’intelligenza artificiale dipenda da una svolta energetica. Anche per questo, continua Schaake, le aziende tecnologiche sono diventate grandi investitrici nel settore dell’energia: «Meta scommette sulle batterie, Google punta sulle fonti di energia geotermica, Microsoft afferma di poter mantenere il suo impegno a raggiungere emissioni zero e diventare autosufficiente dal punto di vista idrico entro la fine del decennio». Tuttavia, conclude la giornalista citando Christopher Wellise, vicepresidente dell’azienda di data center Equinix, la tecnologia si sta muovendo più velocemente di quanto si sia evoluta la nostra infrastruttura.
È presto per dire quale strada prenderà il settore tecnologico per garantirsi l’energia che gli serve, ma, sottolinea il rapporto Iea, per contenere il consumo dei centri dati sarà fondamentale sia migliorare l’efficienza energetica sia promuovere una legislazione che vincoli lo sviluppo tecnologico agli obiettivi climatici.
Il dibattito oggi sembra muoversi intorno a questi aspetti: le fonti rinnovabili possono dare un grande contributo alla produzione dell’energia necessaria, ma fonti come il sole e il vento hanno il limite di essere intermittenti e di non poter garantire da sole la continuità che i centri dati richiedono. Per garantire questa continuità servono soluzioni nuove che evitino di gravare sulle reti elettriche locali e di ricorrere alle fonti fossili, e c’è anche chi, come la Svezia, ipotizza la costruzione di centri dati alimentati a energia nucleare. L’Ia, poi, può e deve avere un ruolo sia nel migliorare l’efficienza dei centri dati da cui dipende sia nel trovare soluzioni utili alla decarbonizzazione globale.
La sete dell’Ia
L’intelligenza artificiale, riferivano tre studiosi dell’Università di Amsterdam sul sito The Conversation a marzo scorso@, consuma anche molta acqua. Questa serve sia per raffreddare i server che ne sostengono la potenza di calcolo sia per produrre l’energia che li alimenta. Una stima che è circolata molto negli ultimi mesi è quella indicata nello studio di Shaloei Ren, professore di Ingegneria elettrica e informatica presso l’Università della California, Riverside, e dei suoi colleghi@, secondo cui Gpt-3 – il modello computazionale alla base del software ChatGpt – deve «bere» (cioè consumare) una bottiglia d’acqua da mezzo litro per un numero di risposte che varia fra le 10 e le 50 a seconda delle condizioni: una tradizionale ricerca su Google consuma circa mezzo millilitro di acqua.
Sempre secondo Ren, il consumo idrico nei centri dati di Google nel 2022 è aumentato del 20% rispetto all’anno precedente, mentre quelli di Microsoft hanno registrato un incremento del 34% nello stesso periodo ed è molto probabile che sia proprio l’intelligenza artificiale la causa di questi aumenti.
Il prelievo complessivo di acqua da parte di Google, Microsoft e Meta, si legge nello studio, è stimato in 2,2 miliardi di metri cubi nel 2022, equivalente a due volte il prelievo totale annuo di acqua della Danimarca e, nel 2027, potrebbe collocarsi fra i 4,2 e i 6,6 miliardi di metri cubi, pari a metà del prelievo del Regno Unito. Un altro dato che colpisce nel rapporto è quello secondo cui circa 0,18 miliardi di metri cubi sono stati persi a causa dell’evaporazione: una quantità che supera il totale prelevato in un anno dalla Liberia per i suoi 5,3 milioni di abitanti.
Proteste di chi ha sete
Diversi investitori si stanno orientando proprio verso l’Africa subsahariana@: in Kenya, ad esempio, si prevede una espansione del settore dei centri dati dai 190 milioni di dollari di valore del 2021 ai 434 milioni previsti per il 2027. L’Africa, ricorda il rapporto 2024 delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche, è però anche il continente in cui circa mezzo miliardo di persone vive in condizioni di insicurezza idrica@.
In America Latina, poi, il progetto di Google di costruire un data center in Uruguay ha scatenato forti proteste: il consumo di acqua per raffreddare i server sarebbe di 7,6 milioni di litri di acqua al giorno, pari all’uso domestico quotidiano di 55mila persone. Nel 2023 il Paese ha avuto la peggiore siccità degli ultimi 74 anni. Le autorità pubbliche hanno cercato di affrontarla prelevando acqua dall’estuario del Rio de la Plata, acqua che però ha un sapore salato ed è sconsigliata a donne incinte e persone fragili. In un’intervista al Guardian, Carmen Sosa, della Commissione uruguaiana per la difesa dell’acqua e della vita, ha detto che la siccità ha evidenziato i limiti di un modello economico dove l’80% dell’acqua va all’industria e le risorse sono concentrate in poche mani.
Non stupisce che il progetto di Google non sia stato accolto con grande entusiasmo.
Il primo rischio è che le infrastrutture inadeguate e le minori competenze nei Paesi del Sud globale portino a un ulteriore aumento del divario digitale con il Nord del mondo. Vi è poi il problema dei pregiudizi che l’intelligenza artificiale potrebbe contribuire a propagare: gli algoritmi alla base dei modelli di Ia, infatti, «imparano» e si «allenano» su dati che spesso riflettono le diseguaglianze e gli stereotipi della società e tendono a riprodurli quando vengono utilizzati, ad esempio, per la selezione del personale o per assegnare priorità nell’assistenza ai pazienti in una struttura sanitaria.
Vi sono infine i rischi legati alla violazione della privacy e dei diritti umani, come nel caso dell’uso di droni per la raccolta di immagini o delle app di riconoscimento facciale.
Da qualche anno, però, c’è una nuova catena che commercia online, la cinese Shein, che aggiunge 60mila nuovi articoli al mese e nel 2023 ha generato circa 32,5 miliardi di dollari di fatturato. Shein sembra a sua volta destinata a essere superata da Temu, piattaforma cinese di e-commerce nata a settembre 2022 e capace di generare, già nel 2023, 27 miliardi di fatturato. Shein e Temu, ha detto Lenier, sono ciò che accade quando lasciamo che l’intelligenza artificiale sia applicata a settori che stanno già distruggendo il pianeta e sfruttando le persone nelle loro catene di produzione: l’Ia permette a queste aziende di analizzare rapidamente le tendenze della moda e le preferenze dei consumatori, creare strategie di marketing iper-personalizzate e ottimizzare cicli di produzione accelerati.
Queste aziende non potrebbero produrre a un ritmo così veloce e a basso costo senza lo sfruttamento del lavoro, incluso il lavoro minorile e quello assimilabile alla schiavitù. La pressione resa possibile dall’intelligenza artificiale acuisce queste condizioni di sfruttamento.
Chiara Giovetti
Immagini che parlano – Le foto di San Giuseppe Allamano
Negli archivi dell’Imc ci sono oltre cento lastre di vetro e alcune stampe d’epoca che ritraggono il fondatore. La canonizzazione è l’occasione per rivisitare questo materiale e capire quali sono gli originali, quali le copie e controllarne la qualità o provvedere ai necessari restauri. Un lavoro sfidante, ma anche ricco di stimoli e sorprese.
Difficile dire se Giuseppe Allamano fosse allergico alle foto o no, visto che a quei tempi non si scattavano con la facilità a cui siamo abituati oggi e, soprattutto, richiedevano molto più tempo per ognuna. È certo, però, che fosse molto interessato all’uso della fotografia, tanto che, quando con il canonico Giacomo Camisassa nel 1899 fondò la rivista «La Consolata» (da cui nel marzo 1928 nacque la nostra Missioni Consolata), si rivolse ai migliori specialisti, allora a Vienna, per far fare i cliché di piombo e ottenere una qualità di stampa tanto alta da rendere la bellezza delle immagini in maniera superba.
Le fotografie erano poi una parte essenziale dei resoconti che lui chiedeva ai missionari dal Kenya.
Una breve storia
La prima foto che ritrae Giuseppe Allamano risale a prima del 1873, anno della sua ordinazione sacerdotale. Lo si intravede nella foto di gruppo con i suoi compagni di corso. C’è poi una fototessera di lui giovane sacerdote. Il suo formato ovale è un indizio interessante, visto che anche il suo amico e collaboratore don Giacomo Camisassa è ritratto in una di formato simile che porta il timbro dell’Esposizione generale italiana tenutasi di Torino del 1884. Che siano andati insieme all’esposizione dove, tra le molte meraviglie, venivano presentate anche le ultime novità fotografiche? È poi per amore dello zio, don Giuseppe Cafasso (1811-1860), che nel 1895 Allamano si sottopone a una serie di foto per presentarne il nuovo ritratto dipinto da Enrico Reffo (1831-1917). In quel momento aveva una terribile cefalea che gli faceva chiudere l’occhio sinistro (fatto che si vede poi in molte foto). Dei primi anni della sua vita sacerdotale abbiamo solo alcune fotografie generiche in cui lui è presente in mezzo ad altri. Ad esempio una foto lo ritrae con alcuni uomini che avevano partecipato agli esercizi spirituali al santuario di sant’Ignazio e lo avevano convito a fare una passeggiata con loro sui monti vicini.
Ci volle la partenza dei primi missionari nel 1902 per farlo posare insieme ai partenti di maggio in due foto, una da solo con il volto pieno di gioia (particolare foto qui sopra), e una con Camisassa ormai suo stretto collaboratore nel santuario della Consolata e confondatore del nuovo istituto. Un’altra foto è con il gruppo partente a dicembre.
Poi posò diverse altre volte. Uso il verbo «posare» pensando ai lunghi tempi di esposizione e all’immobilità allora necessaria per ottenere buone foto. Due di esse sono particolarmente significative. La prima risale al 1906-1907, quando nel suo studio a Rivoli si fece fotografare mentre compilava il «Direttorio» di vita dell’Istituto. La seconda è del 1923 quando gli fecero fare una serie di foto per la celebrazione del suo 50° di sacerdozio.
Allamano si era anche fatto fotografare nel 1911 al santuario di sant’Ignazio vicino al pilone dedicato alla Consolata che lui aveva appena fatto costruire. E nel 1914, quando un gruppo di seminaristi andarono a visitarlo nella sua casa di Rivoli, durante una delle loro passeggiate del giovedì (che allora era vacanza da scuola), e lo convinsero a posare per loro. Nel 1916 l’occasione per una bella foto di gruppo fu la visita del cardinale Cagliero alla Casa Madre. Ci sono poi alcune altre pose di cui non conosciamo la ragione e il tempo preciso.
Un incontro speciale
Non è, però, questa cronologia delle foto che ritraggono Giuseppe Allamano il cuore di quanto desidero condividere con voi. In questi tempi prima della canonizzazione ho speso molte ore a rivedere, studiare e restaurare tutte le foto del nostro santo che abbiamo in archivio. È stata un’esperienza sfidante dal punto di vista professionale, ma forse, e molto di più, è stata anche un’occasione unica per un incontro ravvicinato molto profondo con lui.
Guardarsi negli occhi
Parto dalla foto che è stata scelta come immagine ufficiale per la canonizzazione. È quella che fu usata nel 1923 per il 50° anniversario di sacerdozio di Giuseppe Allamano.
Ho tra le mani una bella lastra di vetro da 13×18 cm. Con lo scanner posso fare la scansione anche solo del dettaglio del volto, dimenticando il resto della figura. Guardo il risultato, e con mia grande sorpresa scopro che l’occhio sinistro è pesantemente ritoccato e la pelle del viso piena di rigacce. Una maschera, non un bel volto. I ritocchi sulla lastra furono fatti per risolvere due problemi: nascondere lo strabismo causato da una delle sue solite emicranie e rendere il volto più luminoso nella stampa. Il ritocco sul volto fu fatto con tratti di matita, mentre un graffio puntiforme nell’occhio raddrizzava la pupilla.
Non vi dico quante ore ho lavorato per liberare quel volto dai segni di matita e ripristinare l’occhio, ma il momento più bello ed emozionante è stato quello in cui ho ingrandito il lavoro finito e ho guardato dritto nei suoi occhi, anzi lui ha guardato dritto nei miei. È stato come averlo lì davanti a me, faccia a faccia, occhi negli occhi. Non servivano parole. Mi sono sentito amato da lui.
E poi vedere quel volto così pulito, è stato come potergli dare una carezza e un abbraccio, sentendo il calore della sua guancia sulla mia (foto qui sotto).
Guardare a destra
C’è un particolare che ricorre in quasi tutte le foto che ritraggono Allamano: il suo sguardo è rivolto sistematicamente a destra. Mi sono detto che quella probabilmente era un’abitudine del tempo, forse per non distrarsi e non sbattere le palpebre durante i lunghi tempi di esposizione. Ricordo che anche mio padre, nato nel 1910, aveva l’abitudine di mettersi in posa così. Ma forse, per Allamano c’era qualche ragione in più.
Nelle otto foto del suo 50° si nota una costante: lui è sempre rivolto verso la statuetta della Consolata (foto qui accanto) che sta alla sua destra. Come non pensare alla richiesta dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra di Gesù? Normalmente la destra era il posto del primo ministro, della persona più importante dopo il re.
E forse qui, in questo insistente guardare di Giuseppe Allamano a Maria, stando seduto o in piedi alla sua sinistra, è rappresentata la sua relazione con lei. Da una parte il suo sguardo dice quanto Maria sia centrale nella sua vita, dall’altra dice a Lei che lui è il suo servo fedele, un umile servo, come lei è stata umile serva del Signore.
Ma forse c’è anche un altro significato nel suo porsi alla destra di Maria, dalla parte del suo cuore. È l’atteggiamento del bambino in braccio alla Madre, il bambino che sa di essere amato. Servo sì, ma anche figlio di una Madre amorosa, in cui riporre totale fiducia. Una Madre che ha a cuore ogni persona del mondo, in particolare i più piccoli e i più poveri.
Abito semplice
Un altro messaggio ce lo danno gli abiti. Ci sono alcune foto dove Allamano indossa di dovere gli abiti da cerimonia, come durante le processioni. Altre volte veste l’abito formale del canonico della cattedrale di Torino, con tricorno e tutto il resto, come nelle foto della partenza dei primi missionari. Con quell’abito che lo identifica con la sua Chiesa di Torino, forse vuole dirci che non è tanto lui che manda i missionari, ma la tutta Chiesa. Ancora una volta, è nelle foto «ufficiali» del suo 50° di sacerdozio che ho colto un messaggio potente sulla sua umiltà e semplicità.
In quell’occasione, non si presentò dopo essersi rivestito con i suoi abiti migliori, quelli che avrebbero meglio espresso il suo rango nella Chiesa di Torino: rettore del principale santuario della città, canonico della cattedrale, responsabile del convitto ecclesiastico, e anche fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata. No, si presentò con una talare di tutti i giorni, come uno che è stato chiamato per le foto senza preavviso, mentre era indaffarato nel lavoro (foto qui accanto). La talare è lisa, evidentemente stropicciata, e forse anche un po’ stretta, tanto che si intravedono i segni delle bretelle che indossa sotto. E lui non pare a disagio, imbarazzato, sminuito nella sua dignità. Anzi. Sembra sentirsi proprio bene come il servo di Maria, l’ultimo servo, onorato solo proprio dal poterla servire in umiltà. Un uomo che davvero non si cura dell’apparenza, ma punta alla sostanza.
Paternità e tenerezza
San Giuseppe Allamano non era certo smanioso di farsi fotografare, ma conosceva bene il valore della fotografia. Per questo nel seminario volle anche il laboratorio fotografico (sopravvissuto fino agli anni Settanta) dove i futuri missionari avrebbero studiato e praticato la fotografia aiutati da professionisti della città. In questo contesto accettò diverse volte di posare proprio per far piacere ai suoi amati chierici. Basta guardare alla foto del 17 agosto 1911 al pilone della Consolata presso il santuario di sant’Ignazio. Dal suo occhio chiuso si capisce che stava avendo uno dei suoi attacchi di emicrania, ma non si tirò indietro e accettò anche la birbonata del giovane Vittorio Merlo Pich che volle farsi fotografare con lui intrufolandosi nella foto (ragazzo in primo piano foto accanto).
La sua disponibilità a lasciarsi fotografare si vede poi nel suo volto rilassato della foto del 1914 con gli studenti sotto il grande cedro della villa di Rivoli, oppure in quella del 1915, quando cede alle insistenze del chierico Mario Borello, oppure, infine, nella simpatica foto di lui, ormai anziano, che sorride divertito al fotografo, ancora una volta nel giardino di Rivoli.
Lo spirito ve lo do io
C’è poi un ultimo elemento che le foto mi suggeriscono. Diverse volte Allamano diceva ai suoi missionari: «Lo spirito ve lo do io», per sottolineare come dovessero avere uno stile missionario specifico e non agire di istinto secondo i gusti di ciascuno o seguire modelli presi a prestito da altri. Ci sono diverse foto che sottolineano questo e che dicono ai suoi missionari: «Non siete gente qualsiasi, ma Missionari della Consolata».
Nella foto della partenza del primo gruppo, ad esempio, lui ha saldamente in mano il Regolamento dell’Istituto. Significative poi sono le due foto che lo riprendono allo scrittoio a Rivoli, dove non sta scrivendo un testo qualsiasi, ma il Direttorio dell’Istituto, un documento che vuole precisare l’identità e lo stile dei suoi missionari. In più, nelle foto del 50° di messa il Regolamento è sempre in evidenza.
Statuetta della Consolata e testo del Regolamento: i suoi due amori, la Madre di Gesù e la Missione, gli stessi che devono plasmare la vita dei suoi missionari e di ogni sacerdote.
Mentre l’umanità è sull’orlo di una nuova guerra mondiale, decisori e grandi media ripetono: «Se vuoi la pace prepara la guerra». Un pensiero magico che occorre contrastare con strumenti razionali e nonviolenti.
Nel 2007 le Nazioni Unite, su proposta del governo indiano, dichiararono Giornata internazionale della nonviolenza il 2 ottobre, anniversario della nascita di Mohandas
Karamchand Gandhi.
Allora, quasi nessuno immaginava che nel giro di tre lustri l’umanità si sarebbe trovata sul punto di precipitare nel baratro di una nuova guerra mondiale.
La Seconda guerra fredda
Scrivo quasi nessuno, perché nel 2008 venne pubblicato in italiano il volume Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, firmato da Johan Galtung, fondatore dei Peace studies, gli studi internazionali per la pace ispirati dall’opera di Gandhi.
In quelle pagine, lo studioso norvegese svolgeva un’operazione di diagnosi-prognosi-terapia riferita ai molti conflitti di quegli anni e agli scenari futuri sulle diverse scale (micro, meso, macro e mega), soffermandosi anche su quello della «Seconda guerra fredda», imputata all’agenda geopolitica degli Usa. «L’espansione globale a Est con la Nato, e a Ovest con l’Anpo, il Trattato di sicurezza Usa-Giappone», diagnosticava Galtung, aveva interesse a portare le alleanze «a linee di rottura radicali ed esplosive», tra Usa-Anpo-Nato da un lato e Russia-India-Cina dall’altro. Ma ciò, ed ecco la prognosi, non sarebbe durato a lungo: prevedeva Galtung, infatti, che sarebbe bastato «un incidente minore lungo il confine tra Polonia ed Ucraina, […], e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con potenze nucleari dappertutto e senza alcun Paese neutrale in mezzo a fare da cuscinetto, come lo furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la “Prima guerra fredda”».
«Si vis pacem para bellum»
Oggi, finita la «Seconda guerra fredda», siamo dentro alla guerra calda globale. Questa si svolge contemporaneamente su molti fronti, dal Mediterraneo al Mar Rosso al confine russo-ucraino. Fronti che potrebbero rapidamente saldarsi, con seri rischi di carattere nucleare.
Di fronte a questo terrificante scenario, mentre Galtung con il suo lavoro propone precisi passi di disarmo e una radicale rifondazione dell’Onu – avendo anche elaborato e sperimentato manuali di «trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici» per i mediatori -, i decisori e i media spingono per una nuova corsa agli armamenti.
Una corsa sempre più folle, fondata sulla menzogna originaria, una vera e propria formula magica, che recita «si vis pacem para bellum», se vuoi la pace prepara la guerra.
Un esempio su tutti è quello della lettera mandata a molti quotidiani europei da Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, al suo secondo mandato in scadenza il prossimo 30 novembre, che anticipava l’esito dell’assemblea dello scorso marzo chiudendosi proprio con queste parole: «Se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla guerra». Per non parlare del vertice Nato svoltosi a Washington il 10 e 11 luglio scorsi per i 75 anni dalla sua fondazione, che ha rilanciato la già massiccia corsa globale agli armamenti, cosa, quest’ultima, che per il nostro Paese comporta l’impegno a raggiungere velocemente una spesa militare pari al 2% del Pil, ossia a trasferire altri 10-12 miliardi all’anno di risorse pubbliche da scuola, università, sanità e welfare all’acquisto di nuovi armamenti, in aggiunta a quelli che già si spendono.
Il pensiero magico e guerra
Eppure, non è difficile dimostrare che preparare la guerra per avere la pace è un’illusione fondata sul pensiero magico, tenuta ancora in circolo per giustificare il trasferimento alle spese militari, e dunque all’industria bellica, di risorse pubbliche sottratte agli investimenti sociali e civili.
I governi di tutto il mondo non hanno mai speso così tanto per preparare la guerra (2.443 miliardi di dollari nel 2023, dati Sipri) e questo non ha impedito ai conflitti armati di dilagare ovunque (169 sul pianeta nel 2023, di cui 59 coinvolgono Stati, dati Uppsala conflict data program), facendo impennare il numero di vittime civili (il 72% in più nel 2023 rispetto al 2022, dati Onu), con il conseguente aumento di profughi e rifugiati (117 milioni nel 2023, giunti a 120 milioni nei primi sei mesi del 2024, dati Unhcr).
Preparando le guerre, dunque, non si ottiene – ovviamente – la pace, ma più guerre e più vittime, in un perverso circolo vizioso nel quale la prossima tappa – annunciata lo scorso 24 luglio dal nuovo Capo di stato maggiore britannico Roly Walker – prevede la Terza guerra mondiale entro il 2027.
Economia di guerra
In questa nuova corsa agli armamenti è pienamente coinvolto, da tempo, anche il nostro Paese: nel periodo 2013-2023 la spesa militare in Italia – rileva il Rapporto «Economia a mano armata» della campagna Sbilanciamoci – è aumentata del 30% e quella per i soli nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi a 5,9 miliardi di euro (+132%). Mentre, nello stesso periodo, l’investimento per la sanità è aumentato solo dell’11%, la spesa per la protezione ambientale del 6% e la spesa per l’istruzione appena del 3%.
Inoltre, specifica la Rete italiana pace e disarmo, la spesa militare italiana complessiva per il 2024 sarà di circa 28,1 miliardi di euro, con un aumento di oltre 1.400 milioni rispetto al 2023. Una crescita derivante soprattutto dagli investimenti in nuovi sistemi d’arma.
Ancora, come se non bastasse la spesa annuale, il milex.org, l’Osservatorio che monitora la dinamica delle spese militari italiane, informa che dall’inizio dell’attuale legislatura e fino a ora, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha trasmesso alle commissioni Difesa del Parlamento per avere il loro parere, sempre favorevole, ventisette nuovi programmi militari per un onere finanziario pluriennale di 34,6 miliardi di euro.
Insomma, mentre l’Istat segnala la crescente povertà assoluta nel nostro Paese, che colpisce ormai il 14% dei minori (il valore più alto della serie storica dal 2014), sul sito web di Leonardo, azienda di cui il Governo italiano è il principale azionista, che per il 75% produce armamenti, si legge: «Nei primi tre mesi del 2024 prosegue l’ottima performance del Gruppo già registrata nel 2023, con una solida redditività in tutti i segmenti di business, in ulteriore sensibile crescita rispetto al periodo precedente», con un +18,2% di ordini e un +20,8% di ricavi.
Una vera e propria economia di guerra.
Essere contro la guerra non è sufficiente
Quale uscita di sicurezza può esserci, dunque, da questo scenario nazionale e internazionale che si avvita perversamente nella logica bellica?
È di nuovo Galtung che ci viene incontro: «Essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione», scriveva in Pace con mezzi pacifici (Esperia, 1996). Ossia, occorre ricercare, formare e agire rispetto a tutta la filiera della violenza.
La violenza non si esprime solo nella dimensione manifestamente dispiegata ed esplicitamente distruttiva, come accade nei conflitti armati, ma ha delle componenti più profonde che, pur essendo implicite e nascoste, sono necessarie affinché la punta dell’iceberg della violenza propriamente detta emerga.
In un ideale «triangolo della violenza», se il vertice in alto è rappresentato dalla «violenza diretta», i due vertici della base sono la violenza strutturale e quella culturale.
La violenza strutturale è una violenza in sé – per esempio nelle forme dello sfruttamento economico o della repressione del dissenso -, ma anche la predisposizione delle strutture organizzative ed economiche che consentono la violenza e, in riferimento ai conflitti armati, le guerre: dagli eserciti alle spese militari, dagli armamenti alle cosiddette «banche armate».
La violenza culturale è quella forma pervasiva di giustificazione della guerra diffusa attraverso gli apparati formativi, i dispositivi mediatici, le curvature linguistiche che rendono la preparazione della guerra – e il suo impiego, variamente aggettivato – un fatto ovvio, da non mettere in discussione. Alimentando anzi, al bisogno, il bellicismo e l’odio verso il «nemico», ossia la propaganda di guerra.
E spesso chi produce e vende strumenti di guerra, produce e vende anche i media che la promuovono.
Trascendere i conflitti
Per queste ragioni l’impegno nonviolento, a differenza di quello genericamente pacifista, è indirizzato a decostruire tutto il sistema di violenza – non solo a contrastare questa o quella specifica guerra – e a costruire alternative nonviolente in riferimento a tutti i livelli esaminati. A cominciare dalla messa in campo della capacità di «trascendimento dei conflitti» (Galtung), ossia della loro trasformazione nonviolenta.
Ciò significa che non è il conflitto in sé a dover essere eradicato, in quanto i conflitti sono fisiologicamente generati dai differenti bisogni, ma la modalità violenta – e dunque patologica – della loro conduzione.
«Il maggior numero delle parti in conflitto», scriveva ancora Galtung, «ha qualche posizione valida: il lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e sostenibile a partire dal quel “qualcosa di valido”, per quanto minuscolo possa essere». È necessario, dunque, aiutare le parti a uscire dalla polarizzazione e dalla reciproca deumanizzazione.
Le tre caratteristiche necessarie, i tre saperi, per lavorare seriamente alla trasformazione de-polarizzante e umanizzante dei conflitti, sono l’empatia, ossia la capacità di vedere le cose anche dal punto di vista dell’avversario, la creatività, in quanto ricerca di soluzioni non scontate e prevedibili, e la nonviolenza, in quanto metodo che porta oltre il conflitto violento, lo trascende, appunto. Questi saperi sono indispensabili per stare al mondo in maniera non reciprocamente distruttiva, all’interno di sistemi complessi naturalmente generatori di conflitti. Agli antipodi di quelli messi in campo oggi da tutti gli apprendisti stregoni che alimentano le guerre anziché impegnarsi a spegnerle risolvendone i conflitti alla base.
Mezzi nonviolenti
Di fronte al bellicismo dei governi, ogni livello di violenza ha bisogno di essere dunque contrastato dal basso con adeguati strumenti e mezzi di nonviolenza, che interagiscono in modalità complessa e coerente.
Per esempio, rispetto alla violenza diretta delle guerre, è in corso la campagna nazionale e internazionale di «Obiezione alla guerra» del Movimento Nonviolento. Chi la sottoscrive, sostiene i tanti obiettori di coscienza, disertori e renitenti alla leva di tutte le parti coinvolte nei conflitti armati, e, allo stesso tempo, dichiara la propria personale obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione, esplicitando l’indisponibilità a qualunque «chiamata alle armi».
Rispetto alla violenza strutturale dell’accumulo degli strumenti di guerra, inoltre, è necessario intensificare l’impegno per il disarmo, a cominciare da quello nucleare, imponendo l’adesione anche del nostro Paese al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari – come prevede la campagna «Italia ripensaci» – e per la riconversione sociale delle spese militari e quella civile delle industrie belliche, oltre a interrompere l’invio di armi e le collaborazioni militari con tutti i Paesi in guerra.
Rispetto alla violenza culturale, infine, la più difficile da decostruire, è necessario, prima di ogni altra cosa, contrastare il doppio standard etico che viene generalmente utilizzato per affrontare la violenza nei conflitti interpersonali e in quelli internazionali.
Per i conflitti interpersonali, infatti, è comune l’idea che si possano affrontare e risolvere in modo nonviolento anche tramite dispositivi formativi e giuridici di regolazione pacifica e sanzionamento della violenza. Per quelli armati, nazionali o internazionali, invece, è prevalente il pensiero magico dei vertici politico mediatici secondo il quale si ottiene più pace preparando più guerra, «etificando» la violenza, quando voluta dallo Stato, e sanzionando il suo rifiuto.
Il superamento di questo doppio standard morale, che promuove l’etica nonviolenta nei conflitti interpersonali ma il suo repentino «disapprendimento» e l’etica della violenza nei conflitti internazionali, metterebbe in crisi l’intero sistema della violenza: «Immagina che fanno la guerra e che nessuno ci va», scrisse Wolfgang Ness.
Qui si gioca, in ultima analisi, l’impegno formativo nonviolento, che deve contaminare i dispositivi culturali, mediatici ed educativi.
Pasquale Pugliese
Giordania. Nel paese di Rania
Pur senza vere risorse, la monarchia hashemita è vitale per l’area mediorientale. Da sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra mondo arabo e Occidente, ospita circa tre milioni di palestinesi.
Umm Qays (Gadara). Infuocate dalla luce del sole del tramonto, le antiche facciate di Petra raccontano storie di un tempo passato, mentre le caotiche strade della capitale Amman pulsano di una vita vibrante e moderna. La Giordania è un crocevia di culture e tradizioni, un luogo dove il passato incontra il presente in una danza armoniosa che si interrompe subito al di là del fiume Giordano e del Mar Morto.
I territori di Israele e della Palestina sono sempre ben visibili a chi percorre la strada che da Umm Qays, nell’estremo Nord del Paese, raggiunge Aqaba, quattrocento chilometri più a Sud. Sullo sfondo delle proprie foto, i turisti vedono il lago di Tiberiade, il sito del battesimo di Gesù, la sponda palestinese del Mar Morto, le luci di Gerusalemme. Tutti dovrebbero ricordare che questa terra, spesso trascurata dai pellegrinaggi, è parte integrante di quella che i cristiani chiamano Terra Santa.
I luoghi che rimandano a storie bibliche ed evangeliche, si intrecciano con destinazioni turistiche alla moda, ma anche con castelli arroccati su aride alture che celebrano le gesta degli ordini monastici crociati che, in queste aree, sono nati e hanno scritto la loro storia.
Per i giordani, invece, osservare le Alture del Golan occupate da Israele (dal 1981), la città di Gerico, i grattacieli di Gerusalemme, la recinzione che delimita il confine con Israele ad As Safi, significa ricordare quanto sia precaria la pace sociale e politica che il regno hashemita – dal 1999 guidato da re Adb Allah II e dalla regina Rania – è riuscito a ottenere negli anni Novanta. E questo dopo il conflitto con Israele del 1967 (nota come «Guerra dei sei giorni»), ma anche i massacri e la guerra tra la stessa Giordania e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) del settembre 1970 (passata alla storia come «Settembre nero»).
Tra Israele e Palestina
Se la contrapposizione con Tel Aviv pulsa ancora nel cuore della popolazione giordana, i drammatici fatti del Settembre nero sembra siano stati dimenticati, almeno dalla gente comune. I giordani sono teoricamente solidali con il popolo palestinese (anche se, in realtà, molti palestinesi residenti nel Paese continuano a essere relegati ai margini della società), mentre il governo, conscio della potenziale destabilizzazione che potrebbero portare frange estremiste, è più cauto nell’esprimere il proprio appoggio, anche se la voce più autorevole per la difesa dei diritti dei palestinesi proviene dall’interno della stessa casa reale.
La voce della regina
Nata in Kuwait da genitori palestinesi, la regina Rania, amatissima dai giordani, all’indomani dell’invasione di Gaza, ha sempre criticato la narrazione occidentale affermando che «la maggior parte delle reti televisive sta coprendo la storia con il titolo di “Israele in guerra”, ma per molti palestinesi dall’altra parte del muro di separazione e del filo spinato, la guerra non se n’è mai andata. Questa è una storia vecchia di 75 anni; una storia di morte e di sfollamento per il popolo palestinese. Il contesto di una superpotenza regionale dotata di armi nucleari che occupa, opprime e commette quotidianamente crimini documentati contro i palestinesi è assente dai racconti fatti in Occidente».
Il suo accorato appello, assieme alle posizioni progressiste a favore dell’emancipazione femminile e alle sue campagne per garantire l’istruzione capillare a tutta la popolazione giordana, è un ammonimento che però non ha pieno riscontro nella politica di Amman, sempre attenta a rispettare un equilibrio tra le istanze filoarabe e quelle filoccidentali.
La Giordania è Palestina?
La narrazione secondo cui il piano a medio termine del governo di Netanyahu sarebbe quello di costringere tutta la popolazione di Gaza a trasferirsi nel Sinai egiziano e quella della Cisgiordania (o West Bank) nella Transgiordania (o East Bank) giordana, trova moltissimi sostenitori in Giordania ed è uno dei temi più caldi che oggi il governo di Amman si trova ad affrontare.
Storicamente si basa sulla teoria in voga sin dagli anni Settanta nella destra israeliana, secondo cui «la Giordania è Palestina». Teoria che, agli occhi dei nazionalisti, giustificava la politica di espansione di Israele verso i territori appartenenti ai palestinesi a occidente del Giordano.
Nonostante la regina Rania sia palestinese e la Giordania sia l’unico Stato arabo a concedere la cittadinanza ai palestinesi, la Casa reale non vuole che il regno si trasformi in uno Stato palestinese. Non lo vogliono soprattutto i transgiordani, gli abitanti della vecchia Transgiordania, la parte a est del Mar Morto e del fiume Giordano, che si reputano i legittimi rappresentanti della cultura giordana e, come tali, i legali amministratori politici ed economici della nazione.
Da qui il risentimento dei giordani di cultura palestinese che dal 1970 (dopo Settembre nero), si sono sentiti esclusi dalla vita politica. Mentre i transgiordani dominano il settore pubblico, agricolo e rurale, i cisgiordani palestinesi prevalgono in quello privato e religioso, contribuendo in maniera consistente alle entrate della West Bank e penetrando in modo massiccio i movimenti islamici.
Questa polarizzazione caratterizza la vita sociale giordana.
Da una parte i transgiordani accusano i grandi proprietari privati di alimentare la corruzione che le riforme introdotte dal governo su richiesta del re non sono riuscite a mitigare. Dall’altra, i giordani palestinesi e i rifugiati palestinesi accusano la casa reale di impotenza nella gestione dei luoghi santi di Gerusalemme.
Lo «Status quo», un accordo informale redatto nel 1967 a conclusione della guerra dei Sei giorni che vede il Waqf islamico giordano amministrare la Spianata delle moschee mentre Israele ne controlla la sicurezza e l’accesso, è stato più volte infranto dalle forze israeliane e da gruppi di ebrei che, in violazione dell’accordo, entrano nella spianata a pregare, a volte anche a voce alta. Questo ha causato non solo scontri a Gerusalemme e in Palestina, ma ha minato il prestigio stesso della casa hashemita, impotente di fronte a queste trasgressioni, attirando le critiche dei gruppi palestinesi più radicali.
Per la stabilità del Regno
Nonostante le enormi divergenze ideologiche e politiche, re Adb Allah II e Netanyahu condividono l’idea che rapporti pacifici fra i due Stati siano indispensabili per mantenere la stabilità della Giordania (e, quindi, della dinastia hashemita) e contenere le minacce iraniane e siriane.
Questo ruolo di mediatore ha trasformato una terra composta da miriadi di tasselli tribali, difficile da governare ed economicamente priva di interesse, in uno dei fulcri nevralgici per la pace in Medio Oriente. «È il miracolo della dinastia hashemita di Giordania che, dopo la Grande rivolta araba, l’assassinio di re Adbullah I da parte di un palestinese, le disastrose guerre con Israele, è comunque riuscita a sopravvivere alle faide tribali diventando un solido punto d’appoggio per gli Stati Uniti nell’area», ci dice Rawan Rawa- shdeh, studentessa alla Irbid national university.
Secondo l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente, in Giordania vivrebbero 2,2 milioni di palestinesi, ma in realtà, il loro numero raggiungerebbe i tre milioni. In più si aggiungono i 717mila rifugiati, principalmente siriani (643mila) e iracheni (52mila), ma anche sudanesi, yemeniti, somali che fuggono dalle guerre in atto nei loro Paesi e 80mila lavoratrici domestiche, per lo più filippine, srilankesi, indonesiane.
In totale, il governo di Amman deve garantire acqua, cibo, alloggio, servizi essenziali ad altri quattro milioni di persone, oltre agli 11,3 milioni di cittadini giordani. Una percentuale enorme che pesa come un macigno sulla già non florida economia dello Stato arabo e che sarebbe insostenibile senza gli aiuti che provengono dalla comunità internazionale, in particolare da Stati Uniti e Unione europea.
Il Jordan Compact, l’accordo che nel 2016 il governo ha stipulato con i Paesi donatori per garantire l’integrazione nel mondo del lavoro e dell’istruzione ai rifugiati siriani, ha permesso a 252mila di loro di trovare un’occupazione, ma solo al 25% dei rifugiati in età scolare di frequentare una scuola. La maggior parte dei 230mila profughi potenzialmente in diritto di avere un’istruzione, ne è impedito per motivi culturali, logistici (mancano le infrastrutture e i trasporti) ed economici.
Il lavoro minorile è ormai una costante tra le file non solo dei rifugiati, ma tra gli stessi giordani, soprattutto nelle zone rurali.
Il problema parte dalla scuola primaria e dalla differenza di genere. I dati, ricavati dai rapporti della Banca mondiale e delle varie agenzie dell’Onu, sono preoccupanti: solo il 37% degli studenti che affrontano il secondo e terzo grado della scuola primaria sono in grado di leggere e comprendere un testo semplice e se è vero che la carriera lavorativa della donna si prepara sin dalla adolescenza, quando la famiglia deve investire nella scolarizzazione, il 38% della popolazione femminile non è iscritta ad alcun programma scolastico, liste di disoccupazione o di addestramento professionale.
Solo il 13,8% della forza lavoro è composta da donne nonostante esse rappresentino il 50,4% dei giordani in età di lavoro, mentre la disoccupazione femminile è il doppio rispetto a quella maschile. Il 90% delle donne che non ha un diploma di scuola secondaria rimane disoccupata, percentuale che cala al 61% per le donne che ha un diploma di scuola media secondaria o universitario.
Tutto questo pone la Giordania al 126° posto su 146 Paesi nella classifica del Global gender gap index report.
Sebbene questo sia dovuto principalmente a una tradizione discriminante verso la donna, l’emancipazione femminile è in parte frenata anche dai recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese.
Nonostante la Giordania sia un Paese sicuro, il turismo, settore in cui le donne ricoprivano il 20% della forza lavoro pre Covid, ha subito una battuta d’arresto. Nei primi due mesi del conflitto di Gaza, le presenze alberghiere in Giordania sono crollate del 50-75% e il turismo proveniente da Israele, che nel 2023 rappresentava il 17% degli arrivi totali, si è azzerato.
Negli alberghi e nei ristoranti, fatta eccezione per le grandi catene internazionali, il personale è per la quasi totalità maschile, così come le guide che accompagnano i turisti nei luoghi più frequentati come Petra, Wadi Rum, i siti archeologici.
Piergiorgio Pescali
In visita al Sesame
I miracoli (a metà) della scienza
Assieme all’Egitto, Israele è il principale fornitore energetico della Giordania. Tel Aviv invia gas naturale al Paese dal giacimento offshore «Leviathan». Se questo dovesse mancare, la Giordania sarebbe costretta a importare gas attraverso il porto di Aqaba a prezzi decisamente superiori a quelli israeliani.
«Quando parliamo di Paesi del Medio Oriente, pensiamo che siano ricchi di petrolio e non abbiano problemi energetici», mi dice Khaled Toukan, già ministro dell’istruzione, ingegnere nucleare. «In realtà la Giordania è una nazione senza grandi risorse energetiche e ha bisogno di importare quasi tutto il suo fabbisogno dall’estero. È per questo che stiamo progettando di costruire una centrale nucleare, in particolare installando reattori Smr (reattori di piccole dimensioni, installabili nel giro di 2-3 anni dall’approvazione, possono alimentare una città di medie dimensioni e producono poche scorie, ndr). Il nucleare ci aiuterebbe anche ad aumentare la disponibilità idrica desalinizzando l’acqua marina».
Oltre a essere una personalità di spicco nel mondo politico e scientifico giordano, Khaled Toukan è soprattutto il direttore di Sesame (Synchrotron-light for experimental science and application in the Middle East), un fiore all’occhiello della ricerca applicata non solo in Giordania, ma in tutto il Medio Oriente. In questo centro, situato a pochi chilometri da Amman, fondato alla fine del secolo scorso con il decisivo supporto dell’Europa e del Cern, si trova l’unico sincrotrone (acceleratore di particelle che produce radiazione elettromagnetica collimata che serve per analizzare la struttura dei materiali in diversi campi, ndr) dell’intera regione araba, ma la sua importanza trascende il valore scientifico.
Sesame è, infatti, un esempio di «diplomazia scientifica». Oltre alla Giordania e l’Egitto, tra gli otto Stati membri, vi sono nazioni che non hanno relazioni diplomatiche tra loro: Turchia e Cipro, ma anche Israele, Iran, Palestina, Pakistan. «Sin dalla nascita di Sesame, tutti gli Stati membri hanno partecipato alle riunioni semestrali, nonostante i conflitti che attanagliano la nostra regione – ci spiega Toukan -. Sesame è un posto in cui veramente regna la pace». «Sesame è nato prima di tutto nell’ottica del miglioramento dei rapporti tra Israele ed Egitto e il sincrotrone che oggi è l’anima del centro proveniva da Berlino su proposta di Herman Winick, il padre degli ondulatori», spiega il direttore scientifico, l’italiano Andrea Lausi. «È una storia bellissima: una macchina che da una città divisa, Berlino, va a unire due Paesi come Egitto e Israele che, all’epoca, erano ai ferri corti. Dal punto di vista politico era una storia accattivante che, all’epoca, generò titoli suggestivi sui giornali».
Tra tante difficoltà, non solo finanziarie, Sesame è un progetto di cooperazione che continua ancora oggi. Tuttavia, a dimostrazione di quanto sia difficile superare le barriere culturali anche nella scienza, Khaled Toukan confessa che «non abbiamo progetti di ricerca misti che coinvolgano, per esempio, scienziati turchi con scienziati egiziani o scienziati israeliani con quelli iraniani. Eppure – conclude il direttore -, il valore politico di questa cooperazione è di grande importanza per il futuro del Medio Oriente».
P.P.
Tutti per la missione
«Per la Giornata missionaria mondiale (20 ottobre, ndr) di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr. Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze” (v. 9). Riflettendo su questa parola chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo».
Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (Gmm) 2024, sottolineando tre aspetti strettamente correlati tra loro: l’andare e invitare tutti alla festa, la festa che è espressione della vocazione alla gioia e alla fraternità, celebrata al banchetto della vita, il banchetto che deve coinvolgere tutti come protagonisti.
La Gmm di quest’anno vedrà, tra l’altro, la canonizzazione di Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, di due suore (una canadese e un italiana), di otto frati minori (sette spagnoli e uno austriaco) e tre fratelli siriani trucidati a Damasco nel 1860. Una celebrazione di universalità che ricorda come tutta la Chiesa è missionaria.
Se oggi celebriamo la Giornata missionaria mondiale, lo dobbiamo anche a GiuseppeAllamano che nel 1912 promosse una petizione prendendo spunto dal Pime (Pontificio istituto missioni estere, all’epoca Seminario lombardo per le missioni estere) che, a Milano, già dal 1910 viveva la «domenica missionaria» annuale. A quel tempo la missione era sentita come qualcosa che sottraeva persone ed energie alle Chiese locali, per cui tanti vescovi ostacolavano chi voleva partire come missionario. Per Allamano, sacerdote diocesano lungo tutto l’arco della vita, però, la missione non era qualcosa che impoveriva, ma parte fondante la Chiesa stessa, qualcosa che doveva coinvolgere ogni cristiano proprio perché battezzato. Sarebbe poi arrivato il Concilio Vaticano II con il documento Ad gentes, a ratificare questa verità.
Tornando a una sottolineatura di papa Bergoglio nel messaggio citato, si osserva che anche la Gmm si inserisce nel percorso del Sinodo. Non potrebbe che essere così. Il «rilancio» della Chiesa – della sua sorgiva e fondante vocazione a portare il Vangelo nelle strade del mondo – passa proprio attraverso il suo profilo missionario. Francesco consegna dunque alla Chiesa universale domande ineludibili: come essere Chiesa sinodale in missione? Come rinnovare l’impegno missionario di tutti? Questo «tutti» si rivela elemento centrale.
Il «cambiamento d’epoca» che stiamo vivendo, con profonde sollecitazioni antropologiche e nuove sfide per il senso religioso, richiede il coinvolgimento e la risposta – matura, generosa, gioiosa e, appunto, missionaria – di ogni cristiano, uomo o donna, per trovare modalità nuove e creative di annunciare il Vangelo all’umanità del terzo millennio.
«La missione per tutti richiede l’impegno di tutti», scrive ancora Francesco. «Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie opere missionarie, che costituiscono i mezzi primari sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna». Un invito, quello del Papa, che ridà senso e coraggio e concreta prospettiva alla missione oggi.
Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)
Noi e Voi, dialogo lettori – missionari
Sererit, grazie a padre Aldo
Caro padre Aldo (Giuliani),
vorrei esprimere il mio sincero apprezzamento per il tuo servizio a noi, la comunità Sererit della sotto contea di Samburu Nord. Tu ci hai dato uno dei servizi regolari più affidabili. Da quando la Chiesa cattolica ha inaugurato Sererit nel 1999 nell’area dello Ndoto (sulle Ndoto Mountains – le Montagne del sogno, ndr), sotto la tua guida come parroco, ha offerto servizi di altissima qualità e anche di sostegno umanitario alla comunità di Sererit e dello Ndoto in generale.
Scrivo per esprimere la mia sincera gratitudine per il grande impegno, la devozione e la leadership che hai dimostrato per le nostre comunità attraverso la tua guida spirituale e i tuoi insegnamenti. Hai condiviso la parola di Dio con i membri della nostra comunità. Grazie per la tua umiltà, integrità e dedizione che hanno creato un ambiente amorevole e costruttivo per tutti, specialmente per i giovani.
Io e il governo della contea Samburu abbiamo riconosciuto con apprezzamento la cura, l’amore e il sostegno offerti ogni giorno dalla parrocchia cattolica di Sererit attraverso i servizi di assistenza sanitaria nel dispensario grazie alla tua iniziativa personale. Riconosciamo i programmi sanitari della chiesa, compresi il trasporto gratuito di malati fino all’ospedale di livello quattro della sotto contea di Baragoi (da due a tre ore di macchina su una pista tra le montagne, ndr) e le cliniche gratuite per la salute delle madri e dei neonati.
L’istruzione è davvero uno degli strumenti più potenti per ridurre la povertà e la disuguaglianza nelle nostre società. L’istruzione allevia ulteriormente la povertà in quanto produce manodopera qualificata e crea un atteggiamento giusto per il lavoro e lo sviluppo.
In qualità di rappresentante della popolazione dell’area dello Ndoto, sono grato per gli investimenti che hai fatto nelle infrastrutture educative, tra cui l’illuminazione della scuola di Sererit e due dormitori per la scuola primaria, le due aule per la scuola secondaria di Lekeri, le due scuole materne per le comunità di Sererit e Lekeri. Apprezzo sinceramente anche il trasporto degli studenti delle scuole superiori da e per Baragoi durante l’apertura e la chiusura della scuola. Le borse di studio a oltre 200 studenti che studiano in vari college e università (a Nairobi o altri centi, ndr) sono riconosciute e molto apprezzate.
Normalmente si dice che «l’acqua è vita». Sono grato ai progetti idrici che hai avviato nello Ndoto. Questi progetti hanno migliorato gli standard di vita delle comunità locali promuovendo la buona salute e l’approvvigionamento di acqua potabile a distanza ravvicinata, (con grandi vantaggi) soprattutto per le donne e i bambini che vanno a scuola. Grazie per i progetti di approvvigionamento idrico a Maragi, Lkitagesi, Naisunyru e Sererit.
Durante le gravi siccità, sei venuto in aiuto delle comunità dello Ndoto per restituire la dignità umana a coloro che soffrivano. Apprezziamo il cibo che hai fornito attraverso il sostegno della parrocchia. Hai anche facilitato i beneficiari del programma governativo nazionale «Inua Jamii» («solleva i vicini», ndr) che si sono trovati ad affrontare sfide per raggiungere (con sei e più ore di viaggio, ndr) la Kenya commercial bank (Kcb) a Maralal. Grazie infinite, reverendo padre Giuliani.
Esprimo anche gratitudine per aver impiegato una decina di persone per il lavoro della parrocchia. Questo ha migliorato direttamente lo status economico delle loro famiglie e indirettamente quello dei loro parenti. Apprezziamo anche la manutenzione delle strade (che hai fatto) con l’impiego di manodopera locale.
Guardando in avanti prometto la mia continua collaborazione e quella di sua eccellenza, il governatore della contea di Samburu, S.E. Lati Lelelit, in progetti di sviluppo per migliorare i mezzi di sussistenza delle persone.
Mi impegno a sostenere la parrocchia di Sererit nelle sfide che deve affrontare, in particolare nel settore sanitario. La nostra collaborazione avrà l’obiettivo di valorizzare i progetti di approvvigionamento idrico. Nel bilancio finanziario 2024/2025, il progetto di manutenzione Loikumkum è stato approvato, ci consulteremo e ci appoggeremo sulla vostra competenza tecnica durante l’attuazione di questo progetto.
Ancora una volta, grazie mille per la tua assistenza. Apprezzo molto la tua presenza e l’aiuto dato alle comunità dello Ndoto.
Onorevole Ali Lealmusia Contea Samburu, Kenya, 19/06/2024
Un libro avvincente che racconta storie di vita. Un affresco corale dove trovano posto le vicende dell’esistenza umana in relazione all’amore e al valore della vita. L’amore per Dio e per il mondo come quello della quotidianità vissuta nella missione di suore in Perù, che accoglie minori abbandonati. L’amore per la vita dei protagonisti Marta e Joaquin, due giovani alla ricerca di se stessi che si incontrano in un viaggio al Machu Picchu, senza sapere di dover poi condividere la medesima sorte inaspettata e vertiginosa.
Sono molti i personaggi e le storie che si intrecciano nel racconto, da Marta e Joaquin con le loro famiglie, a Bianca e Greta, le giovani ospiti della missione di suore in Perù. Sullo sfondo le due città europee di Milano e Madrid da dove vengono i protagonisti, entrambi poco più che ventenni, alle prese con la voglia di vivere e la sofferenza per quella figura paterna evanescente presentata loro dalle rispettive madri. Due i mondi a confronto: quello della moderna civiltà occidentale e quello tradizionale delle popolazioni indigene dell’America Latina.
Nel romanzo l’autrice riesce a cogliere e raccontare bene l’essenza delle istanze che appartengono ad ogni vita umana: l’importanza dell’elaborazione identitaria per la persona, la necessità di conoscere il volto della mamma e del papà che colmano naturalmente il desiderio di sentirsi amati e parte della famiglia umana. Di contro, l’avanzare veloce della società contemporanea che minaccia il senso identitario delle persone lasciandole in balia di un’odiosa sensazione di vuoto e disperazione che disorienta. Si smarriscono così il senso della misura e l’amore per la vita che educa ad accettare anche la sofferenza.
Luisa Rota
Se il racconto è di fantasia, non lo sono però le problematiche sollevate che penetrano nella solitudine e negli interrogativi che potrebbero sorgere in futuro tra i figli nati da fecondazione eterologa. Tema questo più che mai attuale ma volutamente ignorato o trattato con superficialità. […]
Con questo libro, che per ragioni personali è rimasto a lungo nel cassetto, ho voluto sollecitare alcune riflessioni. […] È difficile sviscerare motivazioni che hanno a che fare con sensibilità differenti, soprattutto quando il contesto va in una certa direzione, seguendo leggi ormai presenti in molti Stati europei e non. Ma c’è dell’altro che potrebbe succedere con queste tecniche di fecondazione, di cui non si parla e che solo un romanzo può mettere in evidenza, trattandosi ancora di una rarissima probabilità. A voi lettori scoprire di che cosa si tratta. Buona lettura.
Faccio notare che validi consulenti per la traccia logistica del libro sono stati diversi articoli della rivista «Missioni Consolata».