Canada. Acero di fuoco


Sommario

La sommità della torre di Calgary, simbolo della ricca città dell’Alberta che, nel 1988, ospitò le Olimpiadi invernali. Foto Paolo Moiola.

L’ambiente. Anche in «paradiso» fa troppo caldo

Nel paese nordamericano, abitato da 37 milioni di persone, ci sono ottomila alberi per abitante. Tuttavia, i problemi ambientali non mancano. Dal rapido innalzamento delle temperature allo scioglimento dei ghiacciai, dagli incendi (oltre 18 milioni di ettari di foreste distrutti nel 2023) fino all’invadenza delle compagnie minerarie nazionali, che spesso non godono di una buona reputazione.

Calgary (Alberta). Dalla sommità della torre il panorama lascia senza fiato. Le incredibili vetrate consentono una visione a 360 gradi della città dell’Alberta, nata come centro di allevatori (ancora oggi è soprannominata «Cowtown», città delle vacche) ma poi arricchitasi con il petrolio. Davanti e sotto di noi (ci sono vetrate anche a terra, formando un suggestivo pavimento trasparente) l’avveniristica Downtown, il fiume Bow, la rete ferroviaria e anche lo Saddledome, l’arena con tetto a forma di sella inaugurata pochi anni prima che Calgary ospitasse le Olimpiadi invernali del 1988. In lontananza, il panorama è meno chiaro: la catena delle Montagne Rocciose non si vede, nonostante la giornata sia favorevole.

Accanto a noi c’è un visitatore con un elegante turbante (essendo – con molta probabilità – uno dei tanti sikh residenti nel paese). «Nelle scorse settimane – ci dice – tutta l’area qui attorno era oscurata dal fumo degli incendi».

Purtroppo, dobbiamo credergli. Da maggio 2023 (cioè molto presto) e fino all’autunno (cioè molto tardi), il paese è stato devastato da un numero impressionante di incendi: 6.517. Alla fine di ottobre, avevano bruciato 18,5 milioni di ettari (185mila chilometri quadrati, cioè più della metà della superficie dell’Italia), circa il 5% dell’intera area forestale del paese e più di dieci volte la quantità dell’anno scorso. A parte all’estremo nord (dove non ci sono alberi), tutto il Canada è stato colpito e, in particolare, la British Columbia, i Northwest Territories, lo Yukon, l’Alberta e l’Ontario. Decine di migliaia di persone sono state costrette a evacuare (come anche noi avremo modo di constatare nel corso del viaggio).

Doug Prentice, ambientalista di «Extinction rebellion», in una strada di Victoria.. Foto Paolo Moiola.

Incendi e indigeni sfollati

In Canada, il problema degli incendi pare aggravarsi di anno in anno. L’innalzarsi delle temperature e i lunghi periodi siccitosi aumentano i rischi. Secondo gli esperti, la maggior parte degli incendi (77 per cento) sono stati provocati da fulmini1. A loro volta, gli incendi immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas serra2 che aggravano il cambiamento climatico.

I boschi devastati sono cimiteri di alberi scheletriti e anneriti: vederli produce una fitta al cuore. Ma anche le conseguenze a livello umano sono tangibili. In varie piccole cittadine lungo il nostro tragitto automobilistico notiamo molte persone dai tratti indigeni riunite attorno a (piccole) strutture alberghiere. «Non abbiamo stanze perché sono arrivate famiglie indigene evacuate dai loro villaggi a causa degli incendi», ci spiega la gerente di un piccolo motel di Hay River, cittadina nei Territori del Nordovest (Northwest Territories).

Veniamo così a scoprire che, tra le migliaia di persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, ci sono molti indigeni che abitano in zone remote dove un eventuale incendio viene subito dichiarato fuori controllo dalle autorità nazionali.

Chiediamo i nomi delle etnie ospitate, ma la donna non è sicura e va a informarsi. Torna poco dopo con la risposta. Si chiamano: K’atl’Odeeche e West Point. Si tratta di due delle 634 popolazioni appartenenti al grande gruppo indigeno noto come First nations.

Mappa con le dieci province e i tre territori che compongono il Canada; questo dossier si concentra su British Columbia, Alberta, Northwest Territories e Yukon.

A Victoria qualcuno si ribella

Molto critico verso le politiche del proprio governo è Doug Prentice, un ambientalista (noto con il nome di battaglia di Captain Painfully Obvius) che conosciamo a Victoria, città posta sull’isola di Vancouver e capitale della provincia della Columbia Britannica. Alto, baffi bianchi legati a treccia, bombetta nera in testa, lo incontriamo mentre è seduto nel suo «ufficio» in una via a traffico ridotto del centro cittadino. È circondato da cartelloni ecologisti homemade. A lato è parcheggiata la sua auto elettrica con appiccicati, in bella vista, alcuni adesivi con il logo di Extinction rebellion, il combattivo movimento ambientalista di cui Doug fa parte.

Lui è un fiume in piena. Due sono i progetti più contestati, ma ormai in dirittura d’arrivo: il gasdotto noto come Coastal gaslink pipeline che attraversa vari territori indigeni e i tagli di alberi secolari nella foresta pluviale di Fairy Creek nel territorio indigeno della Pacheedaht first nation, sull’isola di Vancouver. Per il gasdotto la compagnia TC Energy afferma di essersi ormai accordata con quasi tutte le comunità indigene coinvolte.

Quanto alle proteste di Fairy Creek, esse sono iniziate nell’agosto 2020 dopo il permesso di disboscamento concesso alla Teal cedar products. Gli ambientalisti hanno allestito i loro campi nella foresta iniziando un logorante confronto con le forze dell’ordine. A giudicare dal numero di persone arrestate in due anni di lotte (oltre mille), la protesta di Fairy Creek – oggi molto debilitata – è stato il più grande atto di disobbedienza civile nella storia del Canada.

Il paese è il secondo per estensione al mondo, poco abitato e ricco di risorse. Ospita il 9 per cento delle foreste mondiali e ci sono ottomila alberi per ogni suo cittadino (contro una media mondiale di 422)3. Probabilmente questa condizione privilegiata ha condizionato le sue scelte in campo ambientale.

Su questo punto nuove conferme ci arriveranno addentrandoci nello Yukon e in British Columbia, verso il confine con l’Alaska. Tra metà Ottocento e inizio Novecento, queste regioni furono protagoniste della cosiddetta «corsa all’oro». A suo modo epica e – volendo – anche romantica.

Canalone del Salmon Glacier, ghiacciaio canadese sul confine di Hyder, Alaska. Foto Paolo Moiola.

Meno ghiacciai, più miniere

Watson Lake è una cittadina dello Yukon, situata al miglio 635 dell’Alaska Highway, vicino al confine con la Columbia Britannica. È stata un centro di servizi per l’industria mineraria, in particolare per l’amianto e il tungsteno. Vi pernottiamo prima di dirigerci a Stewart, a Sud ovest di Watson Lake.

Seicentocinquanta chilometri dopo, ecco Stewart. Se non fosse per l’asfaltatura la sua via centrale sembrerebbe la strada di un villaggio western. Le case ai lati – semplici costruzioni in legno colorato (molte delle quali chiuse) – danno quest’impressione. Stewart è stata una città mineraria, mentre oggi i suoi cinquecento abitanti ruotano soprattutto attorno al turismo.

Il suo periodo di auge fu tra il 1902 e il 1910. Le cronache dell’epoca raccontano che diecimila persone vivevano e lavoravano qui e nel vicino Triangolo dell’oro (Golden triangle). Stewart era essenziale per le comunicazioni visto che è cresciuta al culmine inferiore del Portland Canal, un fiordo lungo circa 114 chilometri che s’incunea tra l’Alaska (Stati Uniti) e la Columbia Britannica (Canada).

A pochi chilometri da Stewart, appena superato il confine statunitense (privo di controlli), c’è Hyder (già Portland City), per lungo tempo legata allo stesso destino minerario. Oggi è un villaggio fantasma dove quasi tutto pare abbandonato. Per questo, viaggiatori e turisti che non abbiano un camper o una tenda di solito si fermano a Stewart dove sopravvivono alcuni piccoli alberghi e servizi (posto di salute, ufficio postale, chiesa, anche un museo). Ultimamente, nella zona sono riprese le attività minerarie4, ma questa non è una buona notizia. Il ritiro dei ghiacciai come effetto del cambiamento climatico offre l’opportunità di estrarre dalla terra minerali che, per migliaia di anni, sono rimasti protetti sotto uno scudo impenetrabile di ghiaccio e neve.

L’industria mineraria è un settore importante dell’economia canadese. Secondo la Mining association of Canada (Mac), contribuisce con il 7,9% al Prodotto interno lordo nazionale ed è responsabile del 22% delle esportazioni nazionali totali del Canada. Il settore minerario canadese impiega – direttamente e indirettamente – 665mila persone in tutto il paese. L’industria – secondo la Mac – è in proporzione il più grande datore di lavoro del settore privato per le popolazioni indigene canadesi e uno dei principali clienti delle imprese di proprietà degli indigeni. È dato confermato che oltre mille compagnie minerarie canadesi operino in circa cento paesi, costituendo il 60-75 per cento delle società minerarie del mondo. È altrettanto confermato che circa il 34 per cento di esse siano accusate di violare i diritti ambientali e quelli umani, soprattutto in America Latina. Varie organizzazioni civili, tra cui Mining watch Canada e il Jcap (The justice and corporate accountability project), segnalano – ad esempio – gli abusi della Barrick gold corporation, la più grande società di estrazione dell’oro al mondo, della Nevsun resources, della Hudbay minerals, tanto per citarne alcune.

Risalendo la strada sterrata che da Hyder si snoda a lato del canyon del Salmon glacier (ghiacciaio del salmone), proprio a cavallo del confine, iniziamo a incontrare camion ed escavatori di enormi dimensioni. Sono i mezzi che lavorano all’apertura di una nuova miniera. Un’attività che ha già prodotto migliaia di alberi abbattuti e montagne sventrate: un ambiente e un panorama completamente stravolti. Come praticamente tutti i ghiacciai, in questi ultimi decenni anche il Salmon si è progressivamente ristretto perdendo lunghezza e volume. È certo che una nuova miniera non potrà che portare altre conseguenze negative. E i primi a risentirne saranno i salmoni che popolano il Salmon river (il fiume formato dalle acque di fusione dello stesso ghiacciaio) e gli orsi dei boschi.

Sbancamento per l’apertura di una miniera a fianco del ghiacciaio Salmon, come gli altri da tempo in ritirata. Foto Paolo Moiola.

La questione dell’estrattivismo

Nulla di nuovo – dunque – anche nel paese nordamericano: salvaguardia dell’ambiente ed estrattivismo rimangono in contrasto inconciliabile. Lo sta raccontando da anni Naomi Klein, probabilmente la più nota scrittrice canadese contemporanea e militante del movimento globale per il clima, oggi condirettore del Centro per la giustizia climatica dell’Università della Columbia britannica (Ubc), a Vancouver.

Intervistata sulla giustizia climatica per Ubc Faculty of Arts nel marzo scorso, con riferimento al proprio paese la Klein ha affermato: «La giustizia climatica è inseparabile dalle richieste degli indigeni per la restituzione della terra e per il risarcimento dei danni arrecati. Perché il motivo principale per cui la terra è stata occupata è l’estra-  zione, compresa l’estrazione di combustibili fossili. Un’estrazione e un furto che continuano ancora oggi».

Paolo Moiola

Note

  • (1) In «Nature», Extratropical forests increasingly at risk due to lightning fires, 9 novembre 2023.
  • (2) Gli incendi possono immettere nell’aria circa 200 composti (tra essi metano, idrocarburi, monossido e biossido di carbonio, ossidi di azoto e particolato). Queste sostanze derivano dai processi di combustione della cellulosa, della lignina, ma anche delle resine e olii presenti nella vegetazione e nel suolo.
  • (3) In «Nature», Mapping tree density at global scale, 2 settembre 2015.
  • (4) Attualmente, sono operative due compagnie minerarie, entrambe canadesi: la «Blackwolf copper and gold Ltd» e la «Ascot resources company».

Mosaico canadese: un’opera dell’artista Tim Van Hom, nell’ambito del «The Canadian Mosaic Project».

L’immigrazione

Il multiculturalismo e il mosaico canadese

Nel corso della sua storia, il Canada è passato dall’etnocentrismo europeo attuato ai danni delle popolazioni native a un multiculturalismo spinto e codificato dalla legge. I dati dell’ultimo censimento (del 2021) suggeriscono molte considerazioni. Con riferimento a una popolazione complessiva di 37 milioni di persone ci sono 8,3 milioni di immigrati, pari a quasi un quarto del totale (23 per cento, la percentuale più alta tra i paesi del G7). Per fare un raffronto, in Italia ci sono attualmente oltre cinque milioni di migranti (di cui 3,6 non comunitari), pari all’8,6 per cento della popolazione totale, ai quali vanno sommati poco più di 500mila migranti senza permesso (dati Istat, 2023). Fino agli anni Settanta la maggior parte dei migranti verso il Canada proveniva dai paesi europei. Da allora in poi, l’immigrazione è diventata asiatica (con gli indiani in testa). A differenza degli stati nazionali europei o dei confinanti Stati Uniti, la filosofia del Canada su come incorporare gli immigrati non è il melting pot (crogiolo) ma il mosaico: tessere diverse per etnia, cultura, religione e lingua inserite fianco a fianco nel tessuto nazionale.

Il multiculturalismo come fondamento giuridico del Canada si è affermato negli ultimi cinquant’anni. Nel 1971, il governo di Pierre Trudeau – padre di Justin, attuale primo ministro del paese – adottò una politica multiculturale (sicuramente anche per frenare il crescente nazionalismo francofono del Québec). Nel 1982, il multiculturalismo fu confermato nella sezione 27 della Charter of rights and freedoms (Carta dei diritti e delle libertà) in cui si afferma: «La presente Carta dovrà essere interpretata in modo coerente con la preservazione e la valorizzazione del patrimonio multiculturale dei canadesi». Infine, nel 1988, fu approvato il Canadian multiculturalism act, una legge unica al mondo con la quale veniva sancito l’impegno del governo federale a promuovere e mantenere una società diversificata e multiculturale. «Si dichiara – recita il primo comma dell’articolo 3 – che la politica del governo del Canada è quella di riconoscere e promuovere la consapevolezza che il multiculturalismo riflette la diversità culturale e razziale della società canadese e riconosce la libertà di tutti i membri della società canadese di preservare, valorizzare e condividere il proprio patrimonio culturale».

Pa.Mo.

Un orso nel Salmon river, corso d’acqua formato dalle acque di fusione del ghiacciaio Salmon, posto sul confine con l’Alaska. Foto Paolo Moiola.

I popoli indigeni
Una storia di totem e bufali

Particolari di un totem indigeno a Kitwanga, nella British Columbia. Foto Paolo Moiola.

Gli indigeni sono 1,8 milioni, pari al 5 per cento della popolazione. La Costituzione canadese del 1982 li distingue in tre gruppi: First nations, Métis e Inuit. Tra i simboli indigeni più noti ci sono i totem e i bufali. Entrambi sono testimonianza del difficile incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori europei.

Kitwanga – Gitwangak (British Columbia). A voler essere sinceri, il luogo lascia un po’ delusi. I totem – una decina – sono allineati lungo una stradina secondaria poco fuori il villaggio di Kitwanga. Tutt’attorno è un prato con poche casette in legno, alcune in stato di apparente abbandono. C’è posto anche per un solitario campanile, anch’esso in legno (che – scopriremo poi – essere appartenuto a una chiesa anglicana bruciata nel 2021). Smaltita la sorpresa per il luogo, ci avviciniamo ai pali totemici e veniamo subito rincuorati nello scoprire che essi sono finemente intagliati, vere miniere di arte e storia.

Vi si riconoscono grandi mani, occhi e bocche giganti, animali (rane, orsi, aquile). I totem sono sculture in legno (di cedro rosso, di solito) a forma di pali (alti fino a dieci metri), create dai popoli indigeni della costa nordoccidentale. Sono scolpite per raccontare storie: di una nazione, di una famiglia, di un individuo. All’epoca della conquista non piacquero ai colonizzatori europei. Nel loro progetto di assimilazione i totem non erano contemplati. Anche i missionari cristiani incoraggiarono l’eliminazione dei totem, che consideravano ostacoli alla conversione delle popolazioni indigene.

Kitwanga è sulla terra dei Gitxsan, popolo indigeno delle First nations che vive lungo il fiume Skeena. Mentre siamo intenti a fotografare il luogo nella luce incerta della giornata, notiamo un giovane che ci osserva dalla veranda di una modesta abitazione a lato della stradina. Ci avviciniamo e lui ci accoglie con un ampio sorriso.

«Il luogo verrà sistemato», ci spiega senza attendere domande. Dice di chiamarsi Justice Moore e di avere 27 anni. È un agricoltore. «No, io non parlo la lingua indigena. Come nemmeno la parlano i miei genitori, visto che hanno frequentato le scuole residenziali nelle quali l’idioma nativo era bandito».

Lo sterminio dei bufali

Se i totem sono simbolo delle popolazioni indigene delle coste nordoccidentali, i bufali (termine improprio ma popolare rispetto a quello corretto di bisonti) sono il simbolo degli indiani delle praterie, quelli stanziati ai piedi delle Montagne Rocciose.

Prima dell’arrivo degli europei, questi grandi mammiferi (appartenenti alla famiglia dei bovidi) fornivano ai popoli delle pianure ogni tipo di risorsa: carne per cibarsi, pelli per vestirsi e coprire le tende, corna e ossa per costruire strumenti di ogni sorta.

Banff, cittadina dell’Alberta che dà il nome al famoso parco nazionale, ospita il Buffalo nations museum, una piccola gemma multimediale che celebra l’animale e i nativi (Blackfoot, Tsuut’ina, Nakoda, Nëhiyaw-Cree) che regolavano le loro esistenze su quelle mandrie. Su una parete del museo, è esposta una pelle dipinta con figure di bufali e indiani. Sotto di essa una targa offre al visitatore una lunga spiegazione in cui, tra l’altro, si legge: «Per generazioni il bufalo è stato un nostro parente, il bufalo è parte di noi e noi siamo parte del bufalo culturalmente, materialmente e spiritualmente».

Con l’arrivo dei colonizzatori questi animali furono sterminati (soprattutto per le loro pelli), passando da milioni (trenta, secondo alcune stime) alla quasi estinzione di fine Ottocento. Oggi sono tornati a circa 350-400mila esemplari, divisi tra Canada e Stati Uniti.

Una mandria di bufali (bisonti) pascola liberamente ai bordi di una strada. Foto Paolo Moiolla.

Il peso della storia e della legge

Sia i totem che i bufali testimoniano quanto difficile e denso di conseguenze sia stato l’incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori venuti dall’Europa.

Prima dell’arrivo dei norvegesi (alla fine del X secolo) e, soprattutto, degli esploratori francesi e britannici (dal 1534 in poi), le popolazioni indigene erano le sole ad abitare il territorio che forma l’attuale Canada. Invasione e persecuzioni coloniali, malattie importate (vaiolo, tubercolosi, influenza), fame, confisca delle terre, genocidio culturale, ne ridussero grandemente il numero (le stime al riguardo non sono però univoche)1.

Dopo i danni prodotti dall’Indian act del 1876 (in seguito emendato nelle parti più discriminatorie), la Costituzione canadese del 1982, nella sezione 35, riconosce l’esistenza dei diritti indigeni (e dei relativi trattati)2 ma senza entrare nei dettagli: non si parla né di autodeterminazione (self determination) né di autogoverno (self government). Nella stessa sezione 35 si distinguono i popoli indigeni in Inuit e First nations (Prime nazioni), più un terzo gruppo rappresentato dai Métis (meticci, in francese), nati dall’incontro tra coloni europei e membri delle Prime nazioni.

Nel settembre del 2007, l’assemblea delle Nazioni Unite adotta la «Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni». I suoi 46 articoli parlano di autodeterminazione e autogoverno (art.3 e art.4), uguaglianza e non discriminazione, cultura, lingua e identità, terre (art.10), territori e risorse, istituzioni e sistemi giuridici indigeni. Il Canada la recepisce 14 anni dopo: il 21 giugno 2021. Dopo altri due anni, il 21 giugno 2023, viene pubblicato il Piano d’azione della stessa, dopo una consultazione con le First nations, gli Inuit e i Métis.

«L’attuazione del Piano d’azione e della Dichiarazione delle Nazioni Unite contribuirà – si legge sui siti governativi – ai continui sforzi del governo canadese per abbattere le barriere, combattere il razzismo e la discriminazione sistemici, colmare i divari socioeconomici e promuovere una maggiore uguaglianza e prosperità per le popolazioni indigene».

«L’indiano scomodo»

Bufalo Nations Museum: una donna indigena con il proprio piccolo in una foto esposta al «Buffalo Nations Luxton Museum» a Banff, Alberta.

In Canada, il numero dei nativi è, da tempo, in costante crescita, come confermano anche i numeri (tabella).

Stando all’ultimo censimento, la popolazione indigena è cresciuta dell’8 per cento tra il 2016 e il 2021, arrivando a oltre 1,8 milioni di persone. Le province con i numeri più alti sono, nell’ordine, Ontario, British Columbia e Alberta. Smentendo fantasie e luoghi comuni, la maggioranza degli indiani oggi vive in aree urbane, fuori cioè delle riserve, dove ne rimane soltanto circa un terzo.

Per esempio, a Calgary – secondo le cifre fornite dal governo cittadino – ci sono 35.195 indigeni (2,9 per cento della popolazione nel 2016), la gran parte appartenenti alle First nations.

Proprio in una libreria di questa città andiamo a cercare qualche testo sul tema indigeno. Una commessa ci accompagna al reparto dedicato. «Questo è il più venduto», ci dice prendendo da un ripiano The inconvenient indian, titolo traducibile – più o meno – con «L’indiano scomodo».

L’autore, Thomas King – un bianco californiano -, scrive un saggio dai toni ironici ma senza sconti sul trattamento riservato fin dal primo contatto dai bianchi ai nativi del Nord America (Canada e Stati Uniti). Scomodità e inconvenienti che – nota lo scrittore – iniziano dalla stessa definizione. I conquistatori (di ieri e di oggi) hanno – infatti – sempre faticato a trovare un termine collettivo per definire i conquistati. Dall’eterno «indiani» (legato all’errore di Colombo) ad aborigeni, nativi, prime popolazioni, prime nazioni, insistendo sempre su un termine collettivo invece che sul nome proprio del singolo gruppo: Cree, Blackfoot, Navajo, Lakota e centinaia di altri.

L’entrata del piccolo ma interessante museo di Banff. Foto Paolo Moiola.

Ultimi della classe

In Canada, le popolazioni indigene godono di una teorica autonomia ma, in generale, la strada da percorrere per una effettiva parità con le popolazioni non indigene è ancora molto lunga. Il divario esistente si può misurare. Infatti, tutti i parametri sociali ed economici dei popoli indigeni risultano deficitari: alimentazione, situazione abitativa, condizioni di salute e aspettativa di vita, situazione lavorativa, livello d’istruzione.

Inoltre, come spiega anche The canadian encyclopedia, «i tassi di suicidio tra i giovani delle Prime nazioni sono circa 5-6 volte superiori alla media nazionale, mentre i tassi tra i giovani Inuit sono circa 10 volte superiori alla media nazionale». Sempre secondo la stessa fonte, «nel sistema giudiziario penale le popolazioni indigene sono sovra rappresentate come delinquenti e detenuti, e sottorappresentate come funzionari, operatori giudiziari o avvocati», mentre «tra la popolazione indigena i tassi di incarcerazione continuano ad aumentare».

Tutte conferme che, anche nella possibile presenza di volontà politica e consenso sociale, riparare i danni della colonizzazione è un’impresa che richiede tempo, molto tempo, probabilmente generazioni. E tuttavia, la storica e vittoriosa ribellione sul tema delle scuole residenziali indigene (di cui parliamo nelle pagine successive) ci fa concordare con un’affermazione che si legge nelle pagine conclusive de The inconvenient indian: «In cinquecento anni di occupazione europea, le culture native hanno già dimostrato a se stesse di essere tenaci e resilienti».

Paolo Moiola

Note

  • (1) Le stime vanno da un minimo di 350mila a un massimo di 2 milioni di indigeni. Si veda: «International Journal of Environmental Research and Public Health», Canada’s Colonial Genocide of Indigenous Peoples: A Review of the Psychosocial and Neurobiological Processes Linking Trauma and Intergenerational Outcomes, giugno 2022.
  • (2) Sono vigenti 11 trattati numerati (The numbered treaties). Sono stati sottoscritti tra il 1871 e il 1921 da governo federale (formalmente Corona britannica) e alcuni popoli nativi per la cessione di terre indigene in cambio di benefici (spesso più teorici che reali).

La fila dei totem a Kitwanga, terra dei Gitxsan. Foto Paolo Moiola.

La Chiesa e i popoli indigeni.
Il lungo cammino verso il perdono

Tra Chiesa cattolica e popoli indigeni canadesi c’è una tappa storica dolorosa: quella delle cosiddette «scuole residenziali». Una ferita profonda che ha segnato le re- lazioni tra l’istituzione e gli indigeni. Ai popoli originari si rivolse papa Giovanni Paolo II in occasione delle sue due prime visite al paese nordamericano (nel 1984 e nel 1987). Tuttavia, è stato papa Francesco – nel suo viaggio del 2022 – a chiedere perdono per quel grave passo falso.

Fort Simpson (Northwest Territories). Sulla spianata verde spira un vento fresco. Pochi metri più in là ci sono un’ampia spiaggia di terriccio grigio e, da ultimo, il corso del fiume Mackenzie. Un cartello di colore giallo, in inglese e francese, avverte: «Attenzione. Orso in zona». Mentre stiamo scattando una foto alla segnalazione, un uomo (probabilmente uno dei 1.291 membri della comunità) ci passa accanto con un cane al guinzaglio e ci avvisa: «C’è un orso che si aggira. È un tipo tranquillo, abitudinario della zona, ma state comunque attenti».

Il luogo è il fulcro storico (conosciuto come Ehdaa) di Fort Simpson (Łíídlıı Kųę, in lingua indigena), piccolo villaggio posto su un’isoletta, porta d’ingresso al parco nazionale Nahanni, che ospita le famose cascate Virginia. Sulla spianata di Ehdaa ci sono una grande struttura a forma di tenda indigena (teepee) costruita con tronchi d’albero e, soprattutto, un piccolo anfiteatro circolare, tutto in legno, dove si tengono cerimonie, assemblee e manifestazioni dei Dene, il principale gruppo indigeno della zona.

Una stele spiega, in tre lingue, cosa sia Ehdaa. Nelle righe finali si legge che, in questo luogo, i Dene diedero il benvenuto a papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita del 1987, una visita da lui fortemente voluta.

Fort Simpson 1987: si prepara la spianata per la visita di Giovanni Paolo II. Foto NWT Archives:Rene Fumoleau:N-1995-002-7619.

La cecità dei nuovi arrivati

Il pontefice sarebbe dovuto arrivare nel settembre del 1984, ma fu fermato dal maltempo. Allora, dall’aeroporto di Yellowknife, capoluogo dei Territori del Nordovest (Northwest Territories), mandò via radio un messaggio alle popolazioni autoctone, promettendo nel contempo che sarebbe tornato.

«La storia – disse nel corso del suo messaggio – ci documenta con chiarezza come nei secoli la vostra gente sia stata ripetutamente vittima dell’ingiustizia ad opera dei nuovi arrivati i quali, nella loro cecità, spesso considerarono inferiore la vostra cultura. Oggi, fortunatamente, questa situazione si è ampiamente ribaltata, e la gente sta imparando ad apprezzare la grande ricchezza che c’è nella vostra cultura, e a dimostrare nei vostri riguardi un grande rispetto. […] Voi siete chiamati a porre tutti i vostri talenti al servizio degli altri e a contribuire all’edificazione, per il bene comune del Canada, di una sempre più autentica civiltà della giustizia e dell’amore. Siete chiamati a un compito di grande responsabilità e ad essere un dinamico esempio dell’uso appropriato della natura, specialmente in un tempo in cui l’inquinamento e il deterioramento ambientale minacciano la terra».

Il papa tenne fede alla promessa fatta visitando Fort Simpson tre anni dopo, il 20 settembre del 1987. «Ancora una volta – disse sulla spianata di Fort Simpson – affermo il diritto a una giusta ed equa misura di autogoverno, assieme a un terreno proprio, e a risorse adeguate e necessarie per lo sviluppo di un’economia vitale, adeguata alle necessità della generazione presente e di quelle future».

In entrambe le occasioni, il papa parlò molto dei missionari. Nel 1984, disse: «Per quante colpe e per quante imperfezioni essi [i missionari] abbiano avuto, per quanti errori essi abbiano commesso, per quanti danni involontariamente abbiano provocato, si danno ora pena di riparare. […] I missionari rimangono tra i vostri migliori amici, dedicano la loro vita al vostro servizio […]. La meravigliosa rinascita della vostra cultura e delle vostre tradizioni che voi state sperimentando oggi deve molto agli sforzi continui e pionieristici dei missionari in campo linguistico, etnografico e antropologico». Nel 1987, nel corso della seconda visita, aggiunse: «[I missionari] hanno imparato ad amare voi e i tesori spirituali e culturali del vostro modo di vivere. Hanno mostrato rispetto per il vostro patrimonio, le vostre lingue e i vostri costumi».

In quelle due occasioni Giovanni Paolo II non toccò il tema più controverso, quello delle cosiddette «scuole residenziali» per i bambini dei popoli indigeni (Indian residential schools), anche perché la questione non era ancora deflagrata.

Scuole indigene residenziali: alunni indigeni della «Port Harrison School», Quebec. Foto H.J. Woodside – Library and Archives Canada.

Le scuole «per civilizzare»

Secondo The canadian encyclopedia, le scuole residenziali «erano scuole religiose, sponsorizzate dal governo, istituite per assimilare i bambini indigeni nella cultura euro canadese». Le Chiese coinvolte nella loro gestione furono soprattutto la Chiesa cattolica e, in misura più contenuta, quelle anglicana, presbiteriana e metodista.

Il sistema scolastico residenziale aveva il dichiarato obiettivo di «civilizzare» gli alunni indiani per assimilarli alla società dominante. «[Se] vogliamo fare qualcosa con l’indiano – si legge in un documento del 1879 -, dobbiamo prenderlo molto giovane. I bambini devono essere mantenuti costantemente nell’ambito delle condizioni civili». Gli alunni erano costretti ad abbandonare la loro lingua, le loro convinzioni culturali, il loro stile di vita e dovevano adottare le lingue europee (inglese o francese) e aderire al cristianesimo.

Le scuole residenziali sono state 139. Sono state attive dal 1884 (introdotte dall’Indian act) al 1996, ma i primi esempi risalgono al 1831. In totale, circa 150mila bambini dei popoli indigeni – Prime nazioni, Inuit e Métis – le hanno frequentate in un’età compresa tra i 4 e i 16 anni. Gli studenti risiedevano nelle scuole per almeno dieci mesi all’anno. Si stima che in esse siano morti – per svariate cause – tra i quattro e i seimila bambini. I ritrovamenti dei loro corpi sono aumentati in questi ultimi anni anche grazie all’utilizzo di moderne attrezzature di ricerca.

Uno dei casi più recenti e clamorosi è datato 25 giugno 2021. Quel giorno la Cowessess First nation ha annunciato il ritrovamento di 751 tombe senza nome in un cimitero vicino all’ex Marieval indian residential school. La scuola Marieval operò dal 1899 al 1997 e fu amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1968. Si trovava in un’area indigena a circa 140 chilometri a est di Regina, capoluogo della provincia del Saskatchewan.

Venuti alla luce gli abusi del sistema delle scuole residenziali, nei primi anni Duemila sono iniziate le azioni per arrivare alla verità, alla riconciliazione e alla compensazione delle vittime dei popoli indigeni. Nel 2001 è stato creato un ufficio per raccogliere e risolvere le denunce degli ex studenti, nel 2006 è stato approvato l’Accordo transattivo per le scuole residenziali indiane (Indian residential schools settlement agreement, Irssa), nel giugno del 2008 è stata lanciata la Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation commission, Trc), nel dicembre del 2015 la Trc ha rilasciato il suo rapporto finale (sei volumi).

Nel rapporto – molto pesante – si legge, tra l’altro: «[I bambini] hanno subito abusi, fisicamente e sessualmente, e sono morti nelle scuole in un numero che non sarebbe stato tollerato in nessun sistema scolastico […]». Le scuole residenziali non erano state progettate per educare i bambini indigeni, «ma soprattutto – è scritto – per spezzare il loro legame con la loro cultura e identità».

A fine giugno 2021, subito dopo il ritrovamento dei resti delle 751 sepolture anonime presso la Marieval school, il primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato che i canadesi erano «inorriditi e pieni di vergogna».

Giovanni Paolo II stringe le mani a un capo indigeno durante la sua visita del 1987 a Fort Simpson. Foto Vatican News.

Le scuse di Francesco

Nel luglio del 2022, è toccato a papa Francesco affrontare il tema delle scuole residenziali nel corso del suo viaggio in Canada, da lui definito «pellegrinaggio penitenziale».

A Maskawacis, Alberta, nel territorio delle popolazioni Cree, non lontano dal luogo che, dal 1895 al 1975, ospitò la Ermineskin indian residential school,

la foto più significativa del papa non è stata quella in cui egli indossa un copricapo di piume. No. È stata quella che lo vede da solo, assorto in preghiera, davanti alle tombe del cimitero.

Il pontefice si è rivolto alle popolazioni indigene e ha chiesto scusa: «I am deeply sorry». «Ripenso al dramma subito da tanti di voi, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità – ha detto Francesco -; a ciò che avete condiviso con me sulle sofferenze patite nelle scuole residenziali. […] Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali ci colpisce, ci indigna, ci addolora, ma è necessario. È necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto. E mi tornano alla mente i vostri racconti: di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue, le vostre culture sono state denigrate e soppresse; e di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti».

Le scuse e la richiesta di perdono di papa Francesco sono state apprezzate dai più. Tuttavia, non sono mancate alcune critiche sia dal lato indigeno che da quello governativo. In particolare, è stato criticato il mancato riferimento agli abusi sessuali e l’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa cattolica intesa come istituzione.

Scuole indigene residenziali: alunni della «Red Deer School», Alberta. Foto United Church of Canada Archives.

Ricordando

Percorrendo la Mackenzie Highway (Waterfalls Route), all’incrocio stradale che porta alla cascate Lady Evelyn sul fiume Kakisa, notiamo sul prato un’installazione particolare.

È un cartellone con la scritta «Remembering the children» (Ricordando i bambini) e, accanto, la riproduzione di un cuore trafitto da una freccia con segnato un numero: 215. Tutt’attorno, appesi o posti a terra, decine di orsetti e bambolotti. Non è difficile trovare una spiegazione.

Quel numero indica i resti dei bambini indigeni trovati nell’ex Kamloops indian residential school, la più grande scuola residenziale del Canada, aperta nel 1890 e amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1969. La comunità indigena del luogo – Tk’emlúps te Secwépemc First nation, questo il suo nome – li ha portati alla luce nel maggio del 2021 e li ha voluti ricordare anche in questo modo.

Paolo Moiola

Un assorto papa Francesco davanti alle tombe senza nome del cimitero Ermineskin del popolo Cree a Maskwacis (già Hobbema), nell’Alberta, il 25 giugno del 2022, durante il suo viaggio «penitenziale» in Canada. Foto Vatican Media – AFP.

 




Vedere il Padre


«Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). È la preghiera, quasi lo sfogo, di Filippo, uno dei Dodici discepoli, rivolta a Gesù. Dopo aver tanto sentito parlare del Padre, sembra quasi che il discepolo si spazientisca e chieda al suo Signore una risposta chiara e definitiva. Non è una preghiera molto diversa da quella di Mosè: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ossia il volto di Dio (Es 33,20).

È una richiesta comprensibile: passiamo un’intera vita a cercare di cogliere il senso profondo di ciò che facciamo, viviamo, patiamo. I fedeli hanno creduto alla promessa che quel senso sta in una persona. Una persona che però non vedono, benché sappiano che sta loro di fronte, a fianco, alle spalle, come un sostegno (cfr. Salmo 139). E si può comprendere che, soprattutto in momenti di maggiore tensione (Mosè ha appena punito il popolo reo di essersi costruito un vitello d’oro, Filippo ha appena vissuto l’ultima cena con Gesù), si voglia avere una sentenza definitiva, uno sguardo ultimo, una risposta. La risposta di Dio a Mosè è parzialmente negativa: «Non puoi vedere il mio volto senza essere morto, ma passerò davanti a te e vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Quella di Gesù a Filippo è apparentemente molto più positiva, benché in forma di domanda: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Guardare a Gesù

Anche noi vogliamo vedere il volto di Dio, dobbiamo, allora, lasciarci condurre da Gesù che ci invita a guardare a lui. Senza fretta però. Ci predisponiamo ad accogliere l’invito avendo presente una domanda sempre più viva: in questi tempi confusi, duri, troppo spesso pessimisti, come possiamo vedere il volto di Dio, il senso di ciò che facciamo e subiamo?

Se Gesù ci invita a guardare a lui, noi proveremo a farlo in un percorso non breve, ma probabilmente affascinante, tramite il Vangelo di Giovanni, quello in cui con più costanza si parla del Padre, di cui il Figlio è l’immagine. Attraverso le parole e l’esempio di Gesù, secondo Giovanni, impareremo quindi, a scoprire e amare il vero volto di Dio Padre.

«Dio nessuno lo hai mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Il Battista

Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di imprese straordinarie, eroiche, se soltanto capiscono che queste sono utili, servono a qualcosa, hanno senso. Abbiamo bisogno di un senso quando guardiamo al nostro futuro, e abbiamo bisogno di sciogliere i nodi irrisolti, se guardiamo al nostro passato. Altrimenti non viviamo più, ma ci limitiamo a sopravvivere comodamente.

Le religioni si concentrano spesso su questo aspetto: sulla risoluzione della disarmonia che l’uomo sente con la propria vita, con le persone, con ciò che lo circonda, con l’orizzonte ultimo della sua vita che fatica a cogliere.

Anche il Battista si concentra su questo. Egli è venuto ad annunciare un battesimo per il perdono dei peccati. La saggezza religiosa ebraica aveva colto un aspetto psicologico profondo esprimendolo in termini rituali e simbolici. Aveva capito che una persona può anche essere pentita dei propri errori, averne chiesto e ottenuto il perdono, ma sentire che questo non basta, che il nodo resta e il peso non svanisce.

Nella tradizione e liturgia ebraica per sciogliere quel nodo, per espiare i peccati, era necessario un sacrificio nel tempio, un rito per dire che non poteva bastare il pentimento, pur indispensabile, ma era necessario un intervento divino.

Un incontro oltre i riti

Giovanni il Battista viene ad annunciare un modo diverso di ottenere quell’espiazione, non con i riti ben codificati e sanciti dalla Parola di Dio e dalle tradizioni rabbiniche, ma con un gesto nuovo, antico nell’aspetto (le abluzioni erano ben note nel mondo ebraico) ma originale nel senso. Un rito che il Battista non può giustificare con testi biblici, ma solo, profeticamente, con la sua intuizione della volontà divina. Le persone che vanno a farsi battezzare, così, incontrano un Dio fuori dagli schemi, dalle sicurezze legali, dai riti consolidati. Un incontro giocato tutto sulla fiducia: in Dio, ma anche nel profeta, e nell’affidabilità dell’intenzione.

Che si tratti di una strada promettente e sensata lo attestano tutti i vangeli: Gesù va a farsi battezzare da lui (Mt 3,1-6), lo dichiara il più grande tra «i nati da donna» (Lc 7,28) e, stando al vangelo di Giovanni, inizia a battezzare anche lui, o almeno i suoi discepoli (Gv 4,1-2). In linea molto generale, l’intuizione del Battista sarà una parte dell’orientamento suggerito da Gesù stesso, che si mostra sempre più attento al rapporto intimo e personale con Dio che alle norme e ai riti.

È un primo tocco di pennello sul ritratto del Padre, che, all’inizio, è dipinto non direttamente da Gesù (che pure lo confermerà) ma dal Battista: il Padre ama farsi trovare fuori dagli schemi, fuori dai percorsi già segnati e delineati, sicuri, garantiti.

Il Battista, però, sa anche con certezza di non essere lui la parola definitiva di Dio. «Io battezzo con acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È una tentazione totalmente umana, presente persino in tutti i fondatori di grandi movimenti, quello di richiamare l’attenzione su di sé. Il Battista sa di dover resistere, e lo dice da subito: lui è (solo) un dito che indica il regno, non è il regno.

L’agnello di Dio (Gv 1,29-36)

È passato solo un giorno dal battesimo di Gesù per mano del Battista, ci dice il Vangelo (Gv 1,29), quando Giovanni vede passare Gesù e lo indica: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».

Il sacrificio di un agnello, animale mite e docile, promessa di lana e di carne per il futuro, era sempre parso, e non solo al mondo ebraico, l’offerta più gradita a Dio, più trasparente e generosa. Non era l’unico animale che si poteva offrire per ottenere l’espiazione dei peccati, ma era quello più utilizzato, più significativo e legato peraltro alla festa di Pasqua.

L’accenno del Battista è simbolico, poetico, ma chiarissimo. L’espiazione piena dei peccati passa non da lui o dal battesimo, ma da Gesù. Giovanni indica il Signore come colui di cui ha detto che è più importante di lui (Gv 1,30-31), rimarca di aver visto lo Spirito Santo posarsi come una colomba su di lui (1,32-33) e addirittura lo definisce, in modo solenne, il «figlio di Dio» (1,34).

Dai figli ai genitori

La nostra cultura sottolinea l’importanza delle scelte e delle esperienze dei singoli e prova a sganciarsi dall’idea che i figli siano i continuatori dell’opera dei padri. Anche nel nostro mondo, però, chi nasce da un re sa già, fin da quando comincia a capire qualcosa, che sarà destinato a succedergli, e continuiamo spontaneamente a pensare che i figli riprendano la sensibilità e le attitudini dei genitori. Di certo, siamo consapevoli che quel legame non può essere sciolto mai, neppure se lo si rinnega.

Il mondo antico legava ancora di più genitori e figli, i quali non potevano immaginarsi su strade diverse da quelle del loro padre senza una grave crisi. Il mondo arcaico, addirittura, pensava che un figlio che non corrispondesse al padre potesse subire la pena di morte (Dt 21,18-21).

Additare Gesù come figlio di Dio, non implica descrivere con precisione che cosa possa fare, ma lo segnala come colui che potrà proseguire l’opera del Padre, anche nell’espiazione dei peccati, come è suggerito dalla vicinanza con la formula di «agnello di Dio».

Gesù, però, è innanzitutto un essere umano. E l’indicazione del Battista, tramite il battesimo di Gesù e le parole dette a suo riguardo, ci fa intuire qualcosa sul Padre: Egli non si lascia incontrare direttamente, in estasi mistiche o in rituali astrusi, ma vuole essere conosciuto e accolto tramite altri.

Il Padre ci invita a coglierlo così, nella nostra vita ordinaria, senza l’eccezionalità di un’esperienza stupefacente e unica. Ci stimola a cogliere lo straordinario nel quotidiano. Proprio perché il volto del Padre potrebbe svelarsi nel volto di chiunque incontriamo, siamo chiamati a mantenerci attenti, aperti, disponibili a farci da lui stupire. Come sono stupiti i primi discepoli di Gesù, così sono già stati discepoli del Battista.

Venite e vedrete (Gv 1,37-39)

Due dei discepoli del Battista, infatti, sono presenti quando Giovanni vede di nuovo passare Gesù e lo indica come «agnello di Dio» (1,37), allora si avvicinano a Gesù e, forse per l’imbarazzo, alla sua richiesta di chiarimenti, rispondono con una delle domande più superficiali e fuori luogo che potevano immaginare: «Dove abiti?» (1,38). Gesù aveva opportunamente chiesto loro che cosa cercassero, e questa non è la risposta corretta. Ma anche di fronte a questa reazione, colui che è stato salutato come «rabbì», ossia come «maestro», sa a che cosa chiamarli: «Venite e vedrete».

Non dà loro indicazioni teoriche, non suggerisce che cosa dovrebbero indagare o meditare. Li invita invece a mettersi in gioco, a entrare in relazione, a giudicare in prima persona.

È un’altra delle prime caratteristiche del Padre che il vangelo di Giovanni ci fa scoprire tramite Gesù e, in questo inizio, anche attraverso il Battista: il Padre si fa incontrare fuori dagli schemi, per mezzo di persone inserite nel mondo e, coerentemente, chiede di entrare in una relazione personale. I nostri rapporti significativi non nascono in un momento né senza fatica. Anche il «colpo di fulmine», se esiste, è soltanto il primo istante di un percorso di crescita, di conoscenza reciproca, di approfondimento, di scoperta, che, nelle cose umane, ha bisogno di un’apertura progressiva, di imparare a capirsi, ad ascoltarsi, ad accogliersi.

Il Padre non si muove fuori dalle dinamiche umane più profonde. Non chiede di fare delle cose, di sapere delle formule, ma di conoscerlo, gradualmente, progressivamente, come facciamo con tutte le persone per noi più significative. Chiede di stare con lui, per imparare come ragiona, come pensa, come ama, come soffre. Ci domanda di lasciarci coinvolgere, di tirare noi le conclusioni, di interpretarne noi il volto.

E quel Figlio, che mostra il Padre anche a noi oggi, non suggerisce di comportarci in un certo modo (con ascesi, esercizi o discipline iniziatiche speciali) o di credere certe verità (conosciute tramite iniziazione), ma di conoscerlo: «Vieni e vedi».

Angelo Fracchia
(Il volto di Dio 01 – continua)


Un cammino di due anni

  • √ marzo 2024, Gv 2, 1-11,
    Il Padre amante della gioia
  • √ aprile 2024, Gv 2, 13-25,
    Il Padre autentico
  • √ maggio 2024, Gv 3,
      Il Padre datore della vita
  • √ giugno 2024, Gv 4,
      Il Padre che disseta
  • √ luglio 2024, Gv 5,
    Il Padre che fa vivere
  • √ ago-sett 2024, Gv 6, 1-59,
    Il Padre che sfama
  • √ ottobre 2024, Gv 6, 60-71,
       Il Padre che dona senso
  • √ novembre 2024, Gv 7,
       Il Padre che è casa
  • √ dicembre 2024, Gv 8, 12-59,
    Il Padre che genera
  • √ gen-feb 2025, Gv 9,
      Il Padre che è libertà
  • √ marzo 2025, Gv 10, 1-21,
    Il Padre signore del gregge
  • √ aprile 2025, Gv 10, 22-42,
      Il Padre che opera il bene
  • √ maggio 2025, Gv 11,
       Il Padre che riporta in vita
  • √ giugno 2025, Gv 12,
      Il Padre che glorifica il Figlio
  • √ luglio 2025, Gv 13,
    Il Padre che dona l’amato
  • √ ago-sett 2025, Gv 14,
      Il Padre ospite
  • √ ottobre 2025, Gv 15,
      Il Padre vignaiolo
  • √ novembre 2025, Gv 16,
       Il Padre che accoglie
  • √ dicembre 2025, Gv 17,
      Il Padre (s)conosciuto



La terra spremuta


Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.

Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.

Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.

Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.

Il paradigma tecnocratico

Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.

Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.

Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».

Presunzione di onnipotenza

Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.

Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».

Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.

Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.

Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».

Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Il cinismo del sistema

Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.

L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.

Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.

Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.

Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».

Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».

Ricchi e poveri

Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.

Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.

Parole, fondi e danni

Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.

In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.

Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».

Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.

Francesco Gesualdi

 

Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.




Guatemaltechi trascinati a casa


Gli stranieri senza documenti validi fermati negli Usa sono immediatamente arrestati, e poi rimpatriati su voli speciali. Alcuni di loro sono presi subito alla frontiera, mentre altri dopo anni vissuti nel Paese. La loro vita cambia bruscamente e in poche ore si ritrovano nella terra di origine. Senza risorse.

Città del Guatemala. È mezzogiorno di un mercoledì qualsiasi davanti al cancello principale della Forza aerea guatemalteca, l’aeroporto militare della capitale, alle spalle di quello civile. Un gruppo di persone è seduto su alcune panchine e sta chiacchierando animatamente, mentre una musica ripetitiva e riconoscibile annuncia l’arrivo del carretto dei gelati. Un bambino implora la madre di dargli una moneta per comprarsi un ghiacciolo, intanto la sorella lo osserva seduta ai piedi della nonna, che le intreccia i capelli.

Bambini, anziani e donne si affollano sull’avenida Hincapié, una delle arterie principali che attraversano la capitale, in attesa del volo charter dell’Ice (Immigration and customs enforcement), l’agenzia statunitense di controllo delle frontiere e dell’immigrazione, con circa 120 persone guatemalteche appena espulse dagli Usa.

Improvvisamente la porta si apre e una folla si riversa nella strada con in mano un sacchetto contenente pochi effetti personali, tra cui scarpe, libri, acqua e snack. Vengono consegnati dagli agenti dei centri di detenzione per migranti il giorno dell’espulsione. Negli sguardi di chi esce si percepisce spaesamento, ma anche la mobilità di chi cerca di intercettare il sorriso di qualcuno conosciuto e amato. Risate e lacrime si mischiano e riflettono emozioni contrastanti, perché se la gioia di rivedersi dopo tanto tempo è palpabile, è altrettanto forte il dolore per un incontro non programmato ha poco a che fare con un ritorno volontario.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

«Ho fallito»

Un ragazzo appena deportato vede suo padre da lontano e gli si butta tra le braccia piangendo. «Perdonami. Ho fallito», gli dice con vergogna, mentre il padre gli asciuga le lacrime e risponde: «L’importante è che tu sia vivo. Ora vedremo cosa fare con il debito, ma prima ci prenderemo cura della tua salute per essere sicuri che tu stia bene». Poi attraversano la strada, salgono su un taxi e spariscono nel traffico, come quasi tutti gli altri, mentre la polizia guatemalteca fa salire su un pick-up gli ultimi quattro deportati, i quali a differenza degli altri, hanno crimini in sospeso nel Paese di origine che ora dovranno scontare.

Questa è una scena molto più che quotidiana. Infatti, ogni settimana atterrano in Guatemala tra gli otto e i nove voli di deportazione dagli Stati Uniti, per un totale di circa mille persone espulse. Dal primo gennaio al 13 di novembre sono state trasferite 45.022 persone in 386 voli, secondo l’Istituto guatemalteco per le migrazioni. Circa l’85% di esse è stato sorpreso dalla polizia statunitense quando provava ad attraversare il confine, mentre il restante 15% è costituito da guatemaltechi che avevano costruito una vita negli Stati Uniti dove vivevano da tempo, secondo i dati della «Casa del migrante», gestita dai missionari scalabriniani a Città del Guatemala, che fornisce assistenza alla popolazione mobile.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Giardiniere in Florida

Pedro (nome fittizio) è appena stato rimpatriato ed è in piedi di fronte al cancello della Forza aerea con lo sguardo fisso di fronte a sé. Sta aspettando che sua cugina lo vada a prendere per riportarlo nella comunità in cui è nato. Originario di San Marcos, nel sud ovest del Guatemala, Pedro ha 28 anni, otto dei quali trascorsi negli Stati Uniti: «In Florida lavoravo come giardiniere e questi che indosso oggi sono gli stivali che avevo quando la polizia mi ha fermato mentre tornavo a casa con un collega in macchina. Ci hanno chiesto i documenti e visto che non li avevo, mi hanno immediatamente portato in prigione, senza darmi neppure il permesso di andare a casa per cambiarmi. Dopo nove mesi, rinchiuso in carcere, sono stato espulso. Negli Stati Uniti avevo il mio lavoro, i miei amici e la mia ragazza. Cosa farò ora? Sono sotto shock. Non ho fatto nulla di male. Non me la sento di dire altro». Poi si gira, ritorna con lo sguardo verso un punto immaginario di fronte a sé e sprofonda in silenzio.

Secondo la Transactional records access clearinghouse dell’Università di Syracuse (stato di New York), il 62,2% delle persone detenute dall’Ice a luglio 2023 non aveva nessun tipo di precedente penale, proprio come Pedro. Questo significa che sono state espulse solamente per la mancanza del permesso di soggiorno. In realtà, in alcuni stati degli Usa questo è illegale, in quanto è necessario che la persona trovata senza documento abbia commesso un reato per avviare la pratica di deportazione. Il 37,8% delle restanti persone invece ha un crimine a suo carico, nella maggior parte considerato minore, come per esempio un’infrazione del codice della strada.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Straniero in patria

Proprio per il fatto di aver guidato senza patente, è stato espulso Bernabé Andrés Martin, 31 anni, di San Antonio Huista, Huehuetenango, Guatemala occidentale. Dopo il rimpatrio forzato, si è presentato alla Casa del migrante, dove chi come lui è stato appena espulso può ricevere assistenza medica, psicologica, materiale e orientamento per provare a reintegrarsi nel suo paese di origine. «Sono andato negli Stati Uniti a 18 anni. Prima vivevo in Messico, dove la mia famiglia mi ha portato quando avevo 2 anni. A 10 anni ho iniziato a lavorare vendendo cibo per la strada, mentre i miei genitori sono tornati in Guatemala dopo la morte di una delle mie sorelline. Sono emigrato negli Stati Uniti perché la mia famiglia era poverissima. I miei fratelli non avevano neppure le scarpe e io volevo aiutarli a studiare e vivere meglio – ricorda Bernabé – Se negli Stati Uniti inizi a lavorare a cottimo, nessuno ti chiede i documenti e riesci a guadagnare abbastanza. Io ho fatto un po’ di tutto, dal raccogliere di blueberries (mirtilli) al roofing (costruzione di tetti). So che non avrei dovuto guidare, ma le distanze negli Stati Uniti sono enormi e senza un’auto non riuscivo neanche ad andare al lavoro. Ho comprato un’auto per tremila dollari. Lì tutto è business e nessuno ti chiede la patente prima di vendertela».

Bernabé parla uno spagnolo tutto suo, mischiato a parole inglesi. Si sente più messicano che guatemalteco e, dopo una vita senza documenti, solamente ora, per la prima volta, ha la possibilità di richiederli.

«Quando la polizia statunitense mi ha portato in carcere, mi ha chiesto la nazionalità e mi ha deportato qui. Però anche le autorità guatemalteche hanno fatto fatica a trovarmi nel database dell’anagrafe perché io non ho mai vissuto in questo Paese. Ho appena richiesto la carta di identità e quando me l’avranno fatta, andrò a Huehuetenango da mia madre, dove sono nato, anche se non mi ricordo nulla di quella città. Per me è un luogo nuovo e sconosciuto», racconta Bernabé, disorientato.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Espulsioni di massa

Nella prima metà dell’anno fiscale 2023, il Dipartimento di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha espulso dai suoi confini nazionali oltre 1,2 milioni di persone straniere senza documenti regolari.

Bernabé e Pedro sono stati deportati secondo il «titolo 8» del codice degli Stati Uniti, così come tutte le persone espulse a partire dall’11 maggio, data in cui è stato abrogato il «titolo 42», una disposizione sanitaria reintrodotta dall’ex presidente Donald Trump nel marzo 2020 che autorizzava le espulsioni immediate dal confine in teoria per ridurre il contagio del covid 19, ma di fatto per non permettere ai richiedenti asilo di fare domanda nel Paese.

Da maggio, gli Stati Uniti sono ritornati ad applicare il titolo 8 che, da ben prima della pandemia, ha sempre normato la materia dell’immigrazione. Il titolo 8, pur consentendo le richieste di asilo politico, permette le famose «espulsioni express», che possono avvenire in appena 48 ore, e inasprisce le sanzioni penali verso chi prova ripetutamente ad attraversare il confine in maniera irregolare.

Lo sa bene Edwin Omar Rabanales Ochoa, 26 anni, originario di un villaggio della regione di Quetzaltenango, nella zona ovest del Guatemala. Seduto accanto a Bernabé, inizia a parlare: «Sono andato negli Stati Uniti a tredici anni con mio zio. Volevo raggiungere mia madre, che era già lì con i miei fratelli. Nel 2018 l’Ice mi ha fermato a causa di un incidente stradale in cui sono stato coinvolto. Il mio amico che guidava è scappato e quando è arrivata la polizia sono stato incolpato del reato. Sono stato in prigione due anni e l’ultimo giorno di detenzione mi hanno deportato. Sono tornato in Guatemala nel 2020 e ho lavorato nei campi con mia nonna, ma a fare questo lavoro non si guadagna davvero niente qui. Nel 2021 ho provato a tornare negli Stati Uniti, pagando circa 8mila dollari a un coyote. Ma la polizia mi ha arrestato mentre cercavo di superare la frontiera e mi ha condannato ad altri due anni di carcere, perché era la seconda volta che mi fermavano senza documenti. Ora mia madre vorrebbe che emigrassi di nuovo, ma se la polizia mi ferma, mi possono dare anche quattro anni di prigione, perché sarebbe la terza volta», conclude Edwin.

Secondo le nuove disposizioni del titolo 8 a partire da maggio 2023, attraversare irregolarmente la frontiera comporta un divieto di ingresso negli Stati Uniti per cinque anni. A questo veto si aggiunge la detenzione che un migrante dovrà sempre affrontare prima dell’espulsione, con una durata che varia da caso a caso. «Quando la polizia statunitense mi ha fermato in frontiera, mi ha portato in un luogo che chiamiamo la hielera (ghiacciaia). È una stanza fredda con l’aria condizionata al massimo dove bisogna aspettare prima delle pratiche di identificazione.  Lì dentro si muore di freddo e sembra una tortura. Anche la mia prima detenzione negli Stati Uniti è stata difficile. Ero in una enorme gabbia di metallo con altri prigionieri che avevano commesso ogni tipo di reato. In estate il caldo è terribile perché non c’è un buon sistema di ventilazione e mi sentivo soffocare».

«Stai zitto…»

Per chi vive negli Stati Uniti da molti anni senza documenti, essere catturati dalla polizia migratoria è un momento terribilmente drammatico, perché spesso avviene quando meno se lo aspetta, per esempio all’uscita dal lavoro, o mentre si guida per tornare a casa o si beve qualcosa in un bar. La vita cambia improvvisamente.

«Quando sono andato in tribunale, il giudice mi ha detto che avevo violato la legge statunitense e che sarei stato espulso. Il processo è durato circa un’ora e poi la polizia migratoria mi ha portato in prigione. Non sono mai tornato a casa. Ho lasciato tutto lì, vestiti, cibo, mobili. Chissà che fine avranno fatto – racconta Bernabé -. È tutto molto veloce, sono arrivato qui con gli stessi pantaloni che avevo il giorno del processo. Inoltre, le autorità di immigrazione ti maltrattano e ti insultano tutto il tempo. Ti dicono: “Stai zitto, messicano di merda [Cállate fucking mexican]”. Dopo un mese di detenzione, mi hanno messo le manette, caricato sull’aereo e deportato. Questa situazione mi ha ferito parecchio, perché mi sono sentito un criminale. La polizia ti toglie le manette cinque minuti prima di arrivare in Guatemala. Inoltre, ti prendono tutto. Sono arrivato qui senza telefono né soldi».

Il senso di fallimento, la paura provata durante la cattura, l’angoscia per dover ricominciare da capo, la depressione e la tristezza di fronte ai sogni non realizzati sono alcune delle emozioni riportate dalla maggior parte delle persone espulse dagli Stati Uniti.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Senza speranza

«L’esperienza della deportazione cancella la speranza – spiega Francisco Pellizzari, missionario scalabriniano e direttore della Casa del migrante -. E senza speranza, ricostruirsi un futuro è impossibile. Dopo aver vissuto 20 o 25 anni negli Stati Uniti, guadagnando tra i 20 e i 30 dollari all’ora, le persone deportate non vogliono stare in un Paese dove per lo stesso lavoro si viene pagati a malapena un dollaro all’ora. A volte hanno sulle proprie spalle anche il peso del debito con il coyote che ora si fa pagare 15mila dollari per un viaggio. Quindi, la maggior parte dei deportati in realtà aspetta un’opportunità per ritornare negli Stati Uniti».

Nel 2023, il salario minimo non agricolo in Guatemala è di 434 dollari al mese. Sebbene il Pil sia cresciuto del 4% nel 2022, il Paese presenta alcuni dei più alti livelli di disuguaglianza dell’America Latina. Il Guatemala sta vivendo una grave crisi istituzionale e un ritorno all’autoritarismo capitanato dai grandi interessi economici e dai partiti sostenuti dal potere militare che stanno provando a ostacolare in ogni modo il presidente Bernardo Arévalo del partito social democratico Semilla, eletto con una grande maggioranza di voti il 20 agosto e che dovrebbe iniziare il suo mandato il 14 gennaio 2024.

«Negli Stati Uniti guadagnavo tra i 300 e i 400 dollari a settimana. Ho lavorato duramente per dodici anni della mia vita e con i miei risparmi mia madre è riuscita a costruirsi una piccola casa. Se non guadagnerò abbastanza qui, dovrò ripartire», conclude Bernabé con tristezza.

Simona Carnino




Senegal. La democrazia può attendere


Oppositori politici incarcerati, manifestazioni represse, arresti arbitrari, restrizioni delle libertà. Il Paese vetrina dell’Africa occidentale perde colpi sul piano di diritti e democrazia. Mentre cerca di emergere come economia. Il gruppo al potere non sembra pronto a cederlo. Anche perché la torta da dividere sta aumentando.

Juliette è una giovane donna della Casamance, regione nel sud del Senegal. È un’attiva sostenitrice dell’oppositore politico Ousmane Sonko, impegnata sui social media e non solo. A metà marzo scorso era presente a una manifestazione a Dakar, nei pressi della casa del politico. La polizia aveva circondato l’abitazione e impediva a Sonko di uscire. A un certo punto gli agenti hanno caricato l’assembramento di manifestanti e lanciato lacrimogeni. Molti partecipanti, perlopiù giovani, sono stati arrestati. Anche Juliette è finita in prigione. Non ha avuto alcun processo, ma a ottobre, il presidente Macky Sall ha graziato un migliaio di detenuti e così anche lei è potuta tornare a casa dalla sua bimba di cinque anni e al suo lavoro.

Episodi di questo tipo, iniziati nel 2021, sono sempre più frequenti in un Senegal, vetrina dell’Africa dell’Ovest, che si avvicina alle elezioni presidenziali del 24 febbraio.

L’attuale presidente, Macky Sall, al potere dal 2012 (già primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale), ha inizialmente tentato di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale) ma, in seguito alle manifestazioni e alla pressione della Francia, ha desistito, e il partito al potere presenterà come candidato l’attuale primo ministro Amadou Ba.

Il Senegal di Macky Sall

Negli ultimi dieci anni il paese è cambiato, soprattutto nella capitale Dakar.

Gli investimenti della gestione Macky Sall si sono concentrati sulle infrastrutture: sono state costruite nuove strade, asfaltate alcune di quelle vecchie, costruiti impianti sportivi e il nuovo aeroporto Blaise Diange, ultimata l’autostrada Dakar-Tuba, elettrificate zone del Paese.

«Nel suo discorso di insediamento il presidente Macky Sall disse che il suo obiettivo principale sarebbe stato soddisfare i bisogni dei senegalesi ed elevare il loro livello di vita. Inoltre, le infrastrutture non funzionavano», ci racconta il giornalista senegalese Ama Dieng, contattato telefonicamente.

E continua: «Così Sall ha lavorato molto sulle infrastrutture. È stato anche realizzato il treno espresso dalla nuova città di Diamniadio a Dakar e una rete di bus rapidi. Ha molto investito nelle vie di comunicazione e risposto alle richieste del mondo sportivo. Questo occorre riconoscerlo». Diamniadio è diventato un polo urbano ed economico, ha tutti i moderni servizi, lo stadio, il nuovo aeroporto. Vi si sono trasferiti alcuni uffici amministrativi e ministeriali. Anche a Dakar ci sono molti cantieri, ma la città è concentrata sullo spazio limitato di una penisola per cui sta esplodendo.

Nel 2013 è stato lanciato il Plan Sénégal emergent (Pse, Piano Senegal emergente), ovvero una strategia decennale (2014-2024) che ha come obiettivo di portare il paese saheliano tra i paesi cosiddetti «emergenti» entro il 2035. È un programma che prevede grossi finanziamenti, anche da parte di multinazionali straniere, che ha spinto soprattutto sull’economia e sull’impresa privata.

«L’imprenditoria è molto favorita in città, ma anche a livello rurale. È chiaro che il contesto non è ricco. Ho visto tanta attività economica. Però lavoro non ce n’è abbastanza, così come la formazione. C’è molta precarietà e lavoro informale», ci dice Federico Perotti, ingegnere esperto di cooperazione e conoscitore del Paese.

Senegal, agro-cooperative, CISV

Il sogno del benessere

Continua il giornalista: «Per quanto riguarda il livello di vita della popolazione, possiamo dire che il presidente non ha rispettato i suoi impegni. Aveva promesso di fare in modo che i senegalesi avessero il benessere. La povertà, invece, è aumentata e molte famiglie hanno difficoltà a comperare i beni di base.

Sall non è riuscito nella politica dell’impiego per la gioventù. Ha tentato di realizzare alcune strutture, ma i progetti non sono andati avanti. Così c’è stato un aumento del tasso di disoccupazione. Il che spiega la continua emigrazione dei giovani senegalesi». In Senegal circa la metà della popolazione ha meno di vent’anni.

«Le industrie senegalesi – agiunge Dieng – non hanno sentito l’appoggio dello stato, rispetto alla concorrenza del mercato mondiale. Le nostre industrie hanno una capacità di produzione debole e non c’è stata una protezione, per cui molte di loro hanno dovuto chiudere a causa della concorrenza estera». Un altro motivo per l’aumento della disoccupazione.

Parliamo di agricoltura con un esperto italiano (che ha chiesto l’anonimato) con un’esperienza ventennale nel Paese. «Dal punto di vista globale possiamo dire che il Senegal è avanzato, però non su basi solide. Infatti, tutto dipende dalla capitale, che concentra i servizi e l’economia. Il mondo rurale si spopola e la produttività agricola è sempre molto bassa. Secondo un recente studio, in un anno, quindi nel tempo di una campagna agricola, si arriva a guadagnare l’equivalente di circa 30 euro al mese. Questo nonostante ci siano progetti e miliardi di franchi cfa (milioni di euro) investiti nel settore ogni anno. Ma sono soldi mal gestiti, o usati per questioni politiche (fini elettorali, ndr)». Il Senegal è un paese prevalentemente rurale, dove coltivazione della terra e allevamento fanno parte della tradizione e dell’economia famigliare. «Ci sarebbero le potenzialità per sviluppare l’agricoltura, ma ci vorrebbe più organizzazione e infrastrutture migliori. Anche la congiuntura internazionale favorirebbe, perché il prezzo dei cereali sul mercato mondiale è aumentato». Così, ci spiega l’esperto, «i giovani rurali vanno a Dakar a fare lavori informali e guadagnano di più, mentre le campagne restano popolate da anziani. Occorrerebbe investire per rendere l’agricoltura un’attività interessante anche per i giovani. I modelli oramai sono quelli occidentali, non più i tradizionali, e i ragazzi non tornano in campagna se non vedono un interesse economico». E conclude: «Tutto questo ha portato molta frustrazione nei giovani, e ha spinto il fenomeno populista Ousmane Sonko».

Proteste del 19 agosto 2023. (Photo by Kiran RIDLEY / AFP)

L’oppositore

Ousmane Sonko, 49 anni, sindaco di Ziguinshor, capitale della Casamance, è di un’etnia della zona.

Da alcuni anni ha iniziato a presentare un discorso antifrancese (come molti nell’area dei paesi ex colonie della Francia), contro la casta al potere, «un approccio più distruttivo che propositivo», ci dicono.

Inizialmente si è opposto al terzo mandato di Macky Sall, e già nel 2021 le manifestazioni dei suoi sostenitori sono state violentemente represse. Ma da quando ha iniziato a diventare popolare, il regime ha montato una serie di accuse contro di lui, a partire da una condanna per abusi sessuali a una massaggiatrice, fino all’accusa di aver diffamato un ministro, e di aver istigato all’insurrezione. Sonko è oggi in prigione con una condanna a due anni.

«Abbiamo l’impressione che il presidente Macky Sall non sopporti l’opposizione – ci dice il giornalista – la tecnica delle incriminazioni giudiziarie era già stata usata con altri candidati, come Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade. Con il caso Sonko, si è visto che la volontà di non farlo partecipare alle elezioni è concreta».

Ma perché? Ci chiediamo. «Perché, bisogna riconoscerlo, Sonko è l’uomo politico più popolare del Senegal in questo momento, perfino più dello stesso presidente». Alcuni sondaggi lo danno addirittura al 58%. Di fatto la sua presa sui giovani e sulla loro frustrazione è elevata, ed essi lo vedono come il loro leader.

In ballo non c’è solo il potere, che questo gruppo è abituato ad avere da oltre un decennio, ma anche i nuovi giacimenti di petrolio offshore, al confine con la Mauritania, che inizieranno a essere sfruttati proprio quest’anno.

Repressione

Le manifestazioni del marzo 2023 sono state violentemente represse. Poi, i primi giorni di giugno, ci sono state altre manifestazioni contro la condanna di Sonko per «corruzione di giovani», in diverse città (Dakar, Ziguinchor, Kaolak) con arresti ma anche con numerosi morti. Secondo Amnesty International, durante due giorni sono stati almeno 23 i morti, tra i quali tre bambini, e 390 i feriti causati dalle forze di sicurezza. L’Ong chiede inoltre di fare luce sulla presenza di «uomini armati in abiti civili in appoggio alle forze di sicurezza, ampiamente documentata dalle immagini filmate». Inoltre, «nei giorni delle proteste e in quelli successivi, le autorità hanno sospeso l’accesso a internet e alle piattaforme social. È stato interrotto il segnale dell’emittente Walf Tv e il suo canale YouTube».

A causa della condanna, Sonko è stato rimosso dalle liste elettorali, e questo lo renderebbe non candidabile alle prossime elezioni. Usiamo il condizionale, perché ci dicono che il dossier giudiziario non ha finito il suo percorso.

Nel frattempo, il 23 novembre, il suo partito, il Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità) ha presentato un altro possibile candidato, il vice Bassirou Diomaye Faye. Pure lui in carcere, ma non essendo giudicato, è candidabile.

Il partito stesso è stato sciolto per decreto il 31 luglio scorso. La motivazione data dal ministro dell’Interno, Antoine Diome, è l’accusa di frequenti chiamate all’insurrezione. Comportamento non consono a un partito politico. Lo stesso giorno Sonko era stato condannato per insurrezione e complotto, e nuovamente arrestato. Il fatto è stato seguito da manifestazioni a Dakar Ziguinchor, represse violentemente, con alcuni morti.

Diritti in bilico

Un militante dei diritti umani senegalese (che chiede l’anonimato) ci dice: «Le repressioni delle manifestazioni, che hanno provocato diversi morti, sono fatti che i senegalesi deplorano. Si è assistito a una grande violenza poliziesca. Il governo dice che ci sono infiltrazioni di terroristi, ma si tratta di senegalesi che manifestano per dire che non sono contenti del presidente, e questo fa parte della democrazia. Ma le dimostrazioni dell’opposizione sono sistematicamente proibite e la repressione è forte. Oggi le prigioni sono piene di questi giovani. Mentre il ministro dell’Interno dice che non ci sono prigionieri politici.

Oggi assistiamo a una regressione della democrazia in Senegal. Quello che il presidente Abdoulaye Wade ha accettato, il presidente Macky Sall non lo accetta».

Come abbiamo visto per Juliette, anche per quanto riguarda i diritti civili in generale, gli osservatori notano un certo arretramento. A livello della libertà di stampa ci sono molte pressioni, e sovente i giornalisti sono convocati o arrestati, soprattutto se scrivono sul presidente. Pratica che prima non era comune. Si contesta loro il reato di «offesa al capo dello stato» o quello di «false notizie». Inoltre il potere è riuscito ad avere molti giornali a lui favorevoli e ne ha creati di nuovi.

Il Senegal, che punta a raggiungere il club dei paesi emergenti entro il 2035, sta rischiando di uscire da quello dei paesi democratici e rispettosi dei diritti umani. Mentre la pagina delle elezioni di febbraio è tutta da scrivere.

Marco Bello

Senegal, agro-cooperative, CISV


Il progetto

L’Ong Cisv di Torino, presente dal 1988 in Senegal, vi realizza oggi il progetto Provives, di promozione del lavoro e della piccola imprenditoria «verde». Si tratta di un’esperienza pilota di appoggio all’imprenditoria locale impegnata nella transizione ecologica e intende contribuire alla riduzione della povertà attraverso il sostegno di piccole e medie imprese sociali e ambientali nelle regioni di Dakar, Thiès, Louga e Saint-Louis. A tale scopo utilizza gli approcci della green economy, dell’innovazione digitale e dell’economia circolare (raccolta, riciclo, riutilizzo di rifiuti e scarti).

Il progetto risponde agli obiettivi 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 2 (fame zero) e 12 (produzione e consumo responsabile) dell’Agenda 2030. Sono partner del progetto anche le Ong Lvia e Rete, e le attività sono cofinanziate dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.

Questo progetto rientra in un approccio strategico dell’Ong Cisv su accompagnamento e appoggio delle micro imprese giovanili in Africa dell’Ovest.

www.cisvto.org

 




Zimbabwe. Dittatura legalizzata


Il presidente Emmerson Mnangagwa è stato riconfermato senza sorprese. Aveva sostituito Robert Mugabe dopo quarant’anni di «regno». Ma le regole non sono cambiate, anzi, leggi liberticide sono state promulgate, e la «democrazia matura» è sempre più un regime autoritario.

Il 21 novembre 2017, gli abitanti di Harare, la capitale dello Zimbabwe, erano scesi in strada per festeggiare la fine del regno di Robert Mugabe. In un Paese stremato da quasi quarant’anni di dominio dispotico, dove diritti umani, libertà di espressione e democrazia erano stati costantemente violati e l’economia devastata, si facevano strada speranza ed entusiasmo. Il nuovo presidente, Emmerson Mnangagwa, appartenente allo stesso partito del suo predecessore, l’Unione nazionale africana dello Zimbabwe-Fronte patriottico (Zanu-Pf), nel salire al potere prometteva l’inizio di un nuovo corso, quella che lui chiamava la «seconda Repubblica», dove democrazia e diritti umani sarebbero stati rafforzati e rispettati.

Tuttavia, le speranze e le promesse di uno Zimbabwe più democratico e libero sono rapidamente venute meno. Il predominio violento della Zanu-Pf non è cessato e, nel giro di pochi anni, Mnangagwa ha avviato una stretta sempre più forte nei confronti di libertà e diritti, colpendo in particolare associazionismo, informazione e opposizione politica. Il leader è cambiato, ma il sistema è rimasto lo stesso.

Il presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa il 4 settembre 2023. (Photo by Zinyange Auntony / AFP)

Nulla di nuovo dal 2018

L’entusiasmo di non vedere per la prima volta dopo 38 anni il nome di Mugabe sulla scheda elettorale è durato ben poco. Secondo i dati rilasciati dalla Commissione elettorale dello Zimbabwe (Zec), al voto del 2018, Mnangagwa aveva ottenuto il 50,8% dei consensi. Di poco sopra la soglia della maggioranza assoluta necessaria per aggiudicarsi la presidenza al primo turno, tanto da scatenare accuse di brogli da parte dell’allora principale partito di opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico, il cui leader, Nelson Chamisa, ufficialmente si era fermato al 44,3%.

Come in passato, non erano mancate intimidazioni e minacce agli abitanti delle aree rurali affinché votassero per la parte «giusta», mentre l’esercito aveva sparato sui manifestanti che chiedevano la pubblicazione tempestiva dei risultati, causando morti e feriti. Il modus operandi della Zanu-Pf e delle forze dell’ordine non era cambiato. Il partito, al potere dall’indipendenza del 1980, ancora una volta non aveva disatteso la sua lunga tradizione di violenza e violazioni dei diritti umani che, soprattutto in prossimità delle elezioni, si intensifica con arresti e detenzioni arbitrari, uccisioni e intimidazioni.

Negli anni, ogni forma di opposizione è stata repressa. A partire dal primo rivale della Zanu-Pf, l’Unione popolare africana dello Zimbabwe, che, dopo essere stata attaccata, nel 1987 era stata costretta a fondersi con il partito al potere. Successivamente, anche se alle elezioni, in apparenza, partecipavano più partiti, la vittoria della Zanu-Pf non era mai in discussione. Attraverso esecuzioni extragiudiziali, torture, pestaggi e rapimenti, documentati da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, ogni forma di opposizione veniva silenziata.

Con la salita al potere di Mnangagwa, nulla è cambiato. Ancora una volta, arresti e detenzioni arbitrari, limitazioni alla diffusione di informazioni, intimidazioni e brogli hanno permesso di reprimere ogni forma di dissenso. Una stretta che si è progressivamente intensificata con l’avvicinarsi delle elezioni del 23 agosto 2023.

Libertà sotto attacco

Libertà di associazione e informazione sono state le prime a essere colpite, nonostante siano tutelate dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli di cui lo Zimbabwe è firmatario.

Il 2023 si è aperto con l’applicazione del Private voluntary organizations act del 2021 grazie al quale l’esecutivo ha deregistrato 291 Ong, accusate di gestione non trasparente dei finanziamenti e di minare la sicurezza nazionale. Questa mossa – insieme all’emendamento approvato pochi giorni dopo per impedire a questi enti di prendere parte a qualsiasi attività politica – ha permesso al governo di mettere fuori gioco le organizzazioni più critiche, che avrebbero potuto rivestire un ruolo importante nell’educazione al voto dei cittadini e nel monitoraggio delle elezioni.

Sul versante dell’informazione, invece, a causa del Cyber and data protection act (2021), sono cresciuti intimidazioni, arresti e condanne tra i giornalisti, spesso accusati di pubblicare dati e informazioni falsi finalizzati a danneggiare figure legate al governo. Una misura, comunque, non sufficiente a silenziare le voci critiche e rafforzare il predominio dei media statali. Tanto che nella primavera del 2023 il direttore dell’informazione della Zanu-Pf, Tafadzwa Mugawadi, ha minacciato di scollegare le antenne paraboliche di chi guardava stazioni informative straniere. Tra di esse, Al Jazeera – rea di aver appena pubblicato Gold Mafia, un’inchiesta su traffico d’oro, corruzione e riciclaggio di denaro da parte dell’élite politica zimbabweana -, Cnn, Bbc, France 24 ed Euronews.

Poco spazio per l’opposizione

Alle elezioni l’opposizione parte sempre in una condizione di svantaggio. La Zanu-Pf controlla strutture politiche, forze dell’ordine, Zec e mass media. La possibilità dell’opposizione di fare campagna elettorale è costantemente messa in discussione dall’introduzione di provvedimenti apparentemente destinati a tutelare la sicurezza nazionale, ma che in realtà mirano a limitare il più possibile manifestazioni di dissenso.

In vista delle elezioni dello scorso agosto, il nuovo movimento di Chamisa, la Coalizione dei cittadini per il cambiamento (Ccc), è stato attaccato su più livelli. Le sue reali possibilità di fare campagna elettorale e mobilitare gli elettori sono state notevolmente limitate. Con l’applicazione selettiva del Maintenance of peace and order act del 2019 (che impedisce incontri pubblici se non viene avvertita la polizia con una nota scritta), all’opposizione è stato spesso impedito di tenere raduni e mobilitare i suoi sostenitori. Secondo Tendai Biti, parlamentare della Ccc, nella prima metà del 2023 sono stati vietati ben 63 incontri del suo partito.

Quando poi le manifestazioni si tengono, sono spesso interrotte dalle forze dell’ordine che accusano i partecipanti di minare la sicurezza nazionale. In un’escalation di arresti, nel corso del 2023, numerosi sostenitori e membri del partito sono stati fermati con l’accusa di mettere a repentaglio l’ordine pubblico.

Ma non solo. Molte zone rurali sono state dichiarate «no-go areas», località in cui la Ccc non poteva recarsi, impedendole così di fare campagna elettorale in vaste parti del Paese. Un divieto che non si applicava alla Zanu-Pf, libera di intimidire gli elettori. Ugualmente, la Ccc non ha potuto accedere alle liste degli elettori registrati, nonostante la Zec sia obbligata a fornirle a tutti coloro che ne fanno richiesta e pagano la quota stabilita. Anche in questo caso, la Zanu-Pf ha fatto eccezione: le ha ottenute e se ne è servita per mobilitare i votanti e mandare sms intimidatori.

Ma ancora prima di riuscire a fare campagna elettorale, i membri dei partiti di opposizione hanno faticato addirittura a candidarsi. Il rialzo della tassa per partecipare alla corsa presidenziale, passata dai 16mila dollari del 2018 ai 20mila di oggi, ha contribuito a dimezzare le candidature a capo dello Stato, scese da 23 a 11. Allo stesso modo, è cresciuta la quota per concorrere a un seggio parlamentare (da 800 a mille dollari), rendendo difficile per l’opposizione, le cui risorse finanziarie sono minori rispetto alla Zanu-Pf, di competere alla pari.

È evidente come le richieste che la Zimbabwe election support network (Zesn) avanza dal 2018 siano finora rimaste completamente inascoltate. Le riforme elettorali non hanno mai portato alla creazione di un ambiente libero da violenze, intimidazioni e minacce, dove tutti i partiti possano fare campagna liberamente e la popolazione manifestare il proprio supporto all’una o all’altra parte.

Contro ogni forma di dissenso

Le misure degli ultimi anni hanno non solo colpito l’opposizione politica, ma limitato qualsiasi forma di disaccordo. Le forze dell’ordine non hanno fatto distinzioni nel sedare manifestazioni di studenti, medici o sostenitori dell’opposizione. Il messaggio era sempre lo stesso: qualsiasi forma di dissenso non è ammessa.

I medici zimbabweani scendono frequentemente in strada per chiedere migliori condizioni di lavoro e maggiori salari, venendo dispersi dalle forze dell’ordine. La stessa sorte tocca agli studenti dell’Università che, oltre a manifestare contro l’élite politica, protestano per le crescenti tasse universitarie che stanno rendendo il diritto allo studio ancora più esclusivo in un Paese dove, secondo l’Unicef, quasi la metà dei giovani non ha accesso all’istruzione.

Senza dimenticare i frequenti blocchi di internet che affiancano la dura reazione delle forze dell’ordine durante manifestazioni e proteste. Rendere difficile l’accesso alla rete è infatti uno strumento repressivo adottato per limitare la capacità dei manifestanti di organizzarsi e mobilitarsi.

Non va meglio a esponenti del mondo della cultura critici nei confronti del governo. La scrittrice Tsitsi Dangarembga è stata condannata a sei mesi con condizionale per aver partecipato a proteste contro la difficile situazione economica, mentre il musicista Wallace Chirumiko, dopo aver espresso il proprio malcontento nei confronti della classe politica, è stato minacciato e costretto a cessare la propria attività.

La legge patriottica

Il culmine nell’adozione di strumenti repressivi è stato raggiunto un mese prima del voto con la Criminal law (Codification and reform) amendment bill. Meglio conosciuta come Patriotic bill, la «Legge patriottica» criminalizza chi deliberatamente mina la sovranità e l’interesse nazionale dello Zimbabwe.

Tuttavia, il tono vago della disposizione, denunciato da Amnesty International, ne facilita la manipolazione e applicazione a piacimento da parte del governo. È infatti a discrezione dell’élite politica decidere se, quando e nei confronti di chi applicare condanne che vanno dalla perdita della cittadinanza, all’incarcerazione a vita, fino alla pena di morte. In violazione della Costituzione, che prevede la pena capitale solo in caso di assassinio con circostanze aggravate.

Esprimere il proprio dissenso diventa sempre più complesso e rischioso e, ancora una volta, sono colpite tutte le forme di opposizione: dalla politica, alla società civile, all’informazione. La libertà di espressione è stata ormai completamente messa al bando nel Paese.

Tanto che la portavoce della Ccc, Fadzayi Mahere, subito dopo l’approvazione della legge, ha affermato che Mnangagwa è addirittura peggiore di Mugabe e che ormai lo Zimbabwe si trova sotto piena dittatura. Il fatto che il provvedimento sia stato varato poco prima delle elezioni non è una casualità. Assieme agli strumenti repressivi già introdotti e alla onnipresente violenza elettorale, la Legge patriottica è un altro mezzo con cui la Zanu-Pf può mettere fuori gioco gli sfidanti più pericolosi.

Il paradosso di una «democrazia matura»

È stato in questo clima che lo Zimbabwe si è recato alle urne lo scorso agosto. I risultati comunicati dalla Zec non hanno riservato sorprese. Mnangagwa si è aggiudicato la presidenza per la seconda volta con il 52,6% dei voti, mentre Chamisa si è fermato al 44%. Festeggiando una rielezione scontata, Mnangagwa ha definito lo Zimbabwe una «democrazia matura» e ha detto di essere «orgoglioso che sia una nazione indipendente e sovrana». Tutto ciò nonostante l’opposizione abbia rifiutato il risultato e denunciato diverse irregolarità e brogli.

Prime tra tutte, le incongruenze nella registrazione degli elettori e nella definizione delle circoscrizioni. Alcuni votanti sono stati cancellati dagli elenchi, altri iscritti in sedi lontane chilometri. Alcuni seggi sono stati duplicati, altri posizionati in aree remote del Paese.

Oltre a tentare di scoraggiare la partecipazione elettorale degli zimbabwani residenti sul posto, ancora una volta, non è stata mantenuta la promessa del 2018 di permettere alla diaspora – circa 5 milioni di persone, il 30% della popolazione – di partecipare alle elezioni dall’estero, sostenendo che non fossero previsti collegi nelle sue aree di residenza. Una chiara dimostrazione dell’assenza di volontà politica di concedere diritto di voto a una frangia di popolazione il cui contributo alla fragile economia del Paese è significativo: secondo la Banca mondiale, nel 2021, le rimesse della diaspora erano pari a 2 miliardi di dollari, il 7% del Pil nazionale.

Non è andata meglio la giornata elettorale. Forti ritardi hanno costretto a mantenere aperti i seggi anche il giorno successivo: in alcuni distretti, tra cui Harare, fortezza dell’opposizione, le schede sono arrivate solo nel pomeriggio. Mentre Netblocks (organizzazione che monitora la libertà di accesso a internet) ha denunciato come la connessione internet fosse sensibilmente peggiorata già il 22 agosto, rendendo difficile sia accedere alle informazioni sia permettere alle notizie di uscire dal Paese.

Violenze e intimidazioni nei confronti dell’opposizione, limiti nell’accesso a un’informazione imparziale e pochi giornalisti – soprattutto stranieri – accreditati a seguire il voto sono tra le problematiche denunciate dalla Zesn – di cui 40 membri sono stati arrestati – e dai pochi osservatori stranieri presenti.

Brogli e frodi sono proseguiti anche dopo la conclusione delle procedure elettorali. A inizio ottobre, Jacob Mudenda, portavoce dell’Assemblea nazionale e membro della Zanu-Pf, ha detto di aver ricevuto una lettera dal segretariato generale della Ccc che comunicava che 15 parlamentari non appartenevano al partito. I seggi erano stati immediatamente dichiarati vacanti, nonostante la Ccc avesse preso le distanze dal comunicato e ricordato di non avere un segretariato generale. Si trattava di una frode per tentare di ridurre il numero di parlamentari dell’opposizione e aumentare quelli della Zanu-Pf.

Crisi economica permanente

L’immagine dello Zimbabwe che emerge dopo il 23 agosto è simile – se non peggiore – a quella del Paese dopo una delle tante tornate elettorali manipolate da Mugabe. Uno scenario confermato da Freedom House (Ong Usa), che, analizzando lo stato della democrazia nel mondo, colloca lo Zimbabwe tra i paesi «non liberi».

Da decenni in una spirale di crisi economica e monetaria, disoccupazione e iperinflazione, il Paese ha accumulato un ingente debito con creditori esteri – nel 2022 pari a 14 miliardi di dollari, secondo la Banca africana di sviluppo – ed è prostrato dalle sanzioni occidentali varate all’epoca di Mugabe a causa delle violazioni dei diritti umani e in vigore ancora oggi.

Di fronte all’assenza di prospettive e alla sempre maggiore restrizione di diritti e libertà, molti giovani fuggono, cercando opportunità migliori negli stati vicini, ma anche in Europa e Stati Uniti. Al contempo, la classe politica corrotta continua a perpetuare il proprio potere, attraverso reti clientelari, senza preoccuparsi delle reali necessità della popolazione. La «seconda Repubblica» promessa da Mnangagwa, non è ancora arrivata.

Aurora Guainazzi




Troppo cibo sprecato


Il cibo perso o sprecato continua a essere troppo mentre guerre  e cambiamento climatico peggiorano la situazione. Ma qualcosa si sta facendo, sia nel Nord che nel Sud del mondo, per contrastare lo spreco. E anche le nostre missioni cercano di ideare soluzioni.

Il 13% del cibo prodotto a livello globale viene perso nella filiera produttiva, nelle fasi intermedie tra raccolto e commercializzazione, mentre un ulteriore 17% viene sprecato da famiglie, servizi di ristorazione e nella vendita al dettaglio: si tratta di una quantità di cibo che sarebbe sufficiente per nutrire oltre un miliardo di esseri umani@.

Secondo le ultime stime, nel mondo le persone affamate sono fra i 691 e i 783 milioni@.

Sono queste le più recenti statistiche fornite dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Nella divisione del lavoro che le agenzie internazionali si sono date per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la Fao è responsabile di misurare le perdite di cibo, mentre all’Unep spetta la misurazione dello spreco.

Misurare lo spreco

Si tratta infatti di due fenomeni diversi, il cui risultato è comunque quello di rendere non disponibile cibo che poteva esserlo.

La perdita avviene nella fase di produzione e trasformazione, mentre lo spreco si colloca nella fase della vendita e del consumo.

Se nelle pubblicazioni più recenti della Fao non si leggono dati che quantifichino i volumi di cibo perso, l’Unep si sbilancia un po’ di più, fornendo nel «Food and waste index report» del 2021 una stima del cibo sprecato, che sarebbe pari a 931 milioni di tonnellate, di cui 569 milioni a causa del consumo nelle famiglie, 244 nei servizi di ristorazione e 118 nella vendita@.

Se si cede alla tentazione di fare un calcolo piuttosto sbrigativo partendo dal presupposto che 931 milioni di tonnellate di cibo sprecato rappresentano il 17% del totale, allora il 13% – cioè il cibo perso – risulta pari a circa 712 milioni di tonnellate, per un totale di 1,6 miliardi fra cibo perso e sprecato. Un dato che trova conferma nelle rielaborazioni fatte dal Boston consulting group, una società di consulenze statunitense, che aggiunge: continuando ai ritmi attuali, nel 2030 arriveremmo a buttare via 2,1 miliardi di tonnellate, pari a un valore stimato di 1.500 miliardi di dollari, contro i 1.200 miliardi attuali@.

Si tratta di stime, ma negli ultimi dieci anni sono state comunque corrette al rialzo, se nel 2011 il cibo sprecato e perduto era quantificato in 1,3 miliardi di tonnellate totali.

La più aggiornata stima delle emissioni di gas serra imputabili a questo fenomeno non si discosta invece dalle precedenti: fra l’8% e il 10% dei gas serra globali sembrano legati al cibo che viene prodotto, trasformato e trasportato ma non consumato. Inoltre, gli alimenti gettati in una discarica e lasciati a decomporsi producono a loro volta metano che si aggiunge agli altri gas serra.

«Se la perdita e lo spreco di cibo fossero un Paese», scrive la direttrice di Unep, Inger Andersen, nella prefazione del Food and waste index report citato sopra, «sarebbe la terza fonte di emissioni di gas serra» del pianeta, dopo Cina e Stati Uniti, e prima dell’India@.

I disastri che «mangiano» il cibo

A far diminuire la disponibilità di cibo ci sono anche le catastrofi. Sempre la Fao, quest’anno, ha voluto dedicare particolare attenzione a questo aspetto con un rapporto dal titolo «The impact of disasters on agriculture and food security»@.

Le catastrofi sono definite come «gravi interruzioni del funzionamento di una comunità o di una società», e il rapporto si concentra su quelle connesse con cinque macrocategorie di rischi cui l’agricoltura è più esposta: rischi meteorologici e idrologici, fra cui siccità e inondazioni; rischi geologici, dai terremoti agli tsunami; rischi ambientali, come gli incendi, rischi biologici, ad esempio le infestazioni da locuste; e rischi sociali, principalmente i conflitti armati.

Gli eventi catastrofici, si legge nel rapporto, sono passati da circa 100 all’anno negli anni Settanta del secolo scorso ai 400 all’anno nel ventennio dal 2000 al 2021. A causa di questi eventi il mondo ha perso il 5% del Pil agricolo annuo globale per un totale di 3.800 miliardi di dollari. La perdita di Pil agricolo sale fino al 10-15% nei paesi a reddito medio basso e basso e al 7% nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo@, che si trovano principalmente nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nel Pacifico.

Esempi di disastri

Gli esempi recenti di catastrofi non mancano: lo scorso maggio Reliefweb, il servizio informazioni dell’ufficio Onu per gli affari umanitari, riportava@ che il Corno d’Africa ha avuto cinque stagioni consecutive di piogge scarse o assenti, cioè un’ondata di siccità che ha superato negli effetti e nella durata quelle del 2016/2017 e del 2010/2011.

Più di 13,2 milioni di capi di bestiame erano già morti in tutta la regione, causando la perdita di oltre 180 milioni di litri di latte dall’inizio della siccità e privando 1,4 milioni di bambini sotto i 5 anni della possibilità di consumare un bicchiere di latte al giorno, con gravi conseguenze per il loro status nutrizionale.

A novembre 2023, la regione si preparava poi a possibili inondazioni dovute fra l’altro al previsto arrivo di El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che interessa in misure diverse quasi tutto il globo e che nel Corno d’Africa tende a provocare precipitazioni più abbondanti fra marzo e maggio.

Quanto poi alle catastrofi legate ai conflitti, un’infografica sui siti del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea@ mostra come la guerra in Ucraina ha ridotto di un terzo la produzione di cereali nel paese e ha duramente colpito quella dell’olio di girasole, di cui l’Ucraina era il primo esportatore mondiale prima dell’invasione russa. «Le esportazioni ucraine, in particolare di frumento», si legge sul sito del Consiglio, «rivestono un’importanza cruciale per alcuni paesi asiatici e africani, che dal 2016 al 2021 hanno ricevuto il 92% del frumento ucraino».

Nairobi, Kenia. Agosto 04/2020. Hogar Familia Ya Ufariji. Huerta en Ngomongo. © Bruno Cerimele

Campagne, app e tecnologia contro lo spreco

Le iniziative per affrontare fame e cambiamento climatico stanno emergendo in tutto il mondo, scriveva nell’ottobre del 2022 Somini Sengupta sul New York Times in articolo dal titolo «Inside the global effort to keep perfectly good food out of the dump»@.

A Seoul, riportava Sengupta, i bidoni della spazzatura pesano automaticamente la quantità di cibo gettato nella spazzatura. A Londra, i negozi di alimentari non mettono più le etichette con la data di scadenza su frutta e verdura per evitare confusione su ciò che è ancora commestibile. La California impone ai supermercati di regalare il cibo invenduto ancora buono da mangiare invece di buttarlo.

E ancora: la Cina aveva lanciato nel 2020 la campagna «Piatto pulito» per ridurre lo spreco di cibo, incoraggiando le persone a evitare di ordinare di più di quello che consumano e invitando i video blogger che si riprendono mentre mangiano grandi quantità di cibo a non farlo più.

Esistono poi diverse applicazioni per cellulari che aiutano a limitare lo spreco: una di queste è Too good to go, azienda fondata in Danimarca nel 2015, che nel suo Impact report del 2022@ sostiene di aver impedito lo spreco di circa 79 milioni di pasti. L’app permette di vedere quali esercizi mettono a disposizione cibo avanzato a un prezzo molto più basso di quello iniziale ed è possibile prenotare il cibo per poi passarlo a ritirare nella fascia oraria indicata. A ottobre 2023, Too good to go ha lanciato la campagna «Salva il pianeta in ogni angolo di Roma» che ha permesso di recuperare nella capitale mezzo milione di pasti, come riferiva ai microfoni di Askanews Mirco Cerisola, il direttore per l’Italia dell’azienda di Copenaghen@.

Nei paesi in via di sviluppo

Anche nei paesi in via di sviluppo ci sono iniziative contro lo spreco e la perdita di cibo: in Kenya, riporta ancora l’articolo di Sengupta, un imprenditore ha costruito frigoriferi a energia solare per aiutare gli agricoltori a conservare i prodotti più a lungo. Si tratta di Dysmus Kisilu, trentunenne keniano che a 27 anni, dopo gli studi all’Università della California, a Davis ha fondato Solar Freeze, l’azienda che ora gestisce insieme a un team composto da una decina di coetanei.

Nel video per Fast Forward, un’organizzazione che promuove aziende startup capaci di combinare tecnologia e sostenibilità, Kisilu racconta che ha capito l’importanza di fornire ai piccoli agricoltori africani un sistema di refrigerazione sostenibile vedendo la nonna, contadina del Kenya orientale, perdere metà del raccolto prima ancora di raggiungere i banchi del mercato a causa della mancanza di un frigo dove conservare i prodotti@.

L’esperienza nelle missioni

Proprio nella capitale del Kenya, Nairobi, su un appezzamento di terreno di 21 acri (circa 8 ettari), i Missionari della Consolata gestiscono una fattoria, la Njathaini farm, che garantisce la sicurezza alimentare alla scuola che si trova sullo stesso terreno, alla casa per ragazzi di strada Familia ya Ufariji e alla comunità della zona.

Le attività agricole, riporta Naomi Nyaki, responsabile dell’ufficio progetti Imc a Nairobi, riguardano la coltivazione di mais, fagioli e diversi tipi di colture orticole come la belladonna africana, o managu in lingua locale, l’amaranto (terere) e una varietà di cavolo che nella lingua locale si chiama sukuma wiki, traducibile, in modo approssimativo, come «spingi settimana» (un cavolo di origine sudafricana che i missionari della Consolata hanno portato in Kenya di ritorno dagli anni di prigionia durante la Seconda guerra mondiale, ndr), cioè il cibo che serve per sopravvivere durante la settimana. Alla fattoria i missionari allevano anche capre, pecore e polli. «Alla Njathaini farm», prosegue Naomi, «le difficoltà principali riguardano lo stoccaggio dei prodotti agricoli dopo la raccolta, in particolare delle verdure deperibili, ma anche le possibili infestazioni da parassiti». A Familia ya Ufariji, invece, l’allevamento di vacche e maiali permette di garantire ai bambini ospitati – che possono arrivare fino a 90 – di avere una dieta adeguata.

Ma, spiega Naomi, stiamo cercando di creare un sistema più razionale per usare i prodotti dell’allevamento, «ad esempio comprando più frigoriferi che ci permettano di tenere separati latte e carne e di conservarli più a lungo. Anche fare lo yoghurt aiuterebbe a sfruttare meglio il latte, ma ancora non abbiamo una macchina a disposizione per produrlo in modo sistematico».

Anche in Tanzania i missionari cercano soluzioni per sfruttare al meglio il cibo. «Il problema qui riguarda più la perdita di cibo che lo spreco», scrive da Iringa Modesta Kagali, la responsabile dell’ufficio progetti dei Missionari della Consolata.

Nelle diverse case dei missionari, soprattutto in quelle che ospitano molte persone, come le case di formazione, si usano diversi modi per proteggere il cibo dal deterioramento: dalla conservazione del pesce sotto sale all’essiccazione, dall’uso del miele per isolare la carne dall’umidità all’utilizzo di celle frigorifere solari. Un metodo interessante è quello del refrigeratore fatto con il carbone (charcoal cooler). «La camera funziona senza bisogno di elettricità, secondo il principio del raffreddamento evaporativo. È costituita da un telaio in legno aperto con i lati riempiti di carbone trattenuto da reti metalliche. Il carbone viene costan- temente inumidito e quando l’aria calda e secca passa attraverso il carbone umido produce un notevole effetto rinfrescante. L’efficacia di conservazione dipende dal tipo di alimento: nel caso della verdura, questo refrigeratore ha mostrato di riuscire ad allungarne la conservazione di circa dieci giorni».

Chiara Giovetti




«Cacciati come bestiame dai coloni»


La Cisgiordania (West Bank) dovrebbe essere palestinese. In realtà, è occupata da Israele con oltre 500mila coloni. Siamo andati a cercare di capire una situazione che è ingiusta ed esplosiva.

Nella mappa si vedono Gaza e la Cisgiordania (West Bank) con gli insediamenti dei coloni israeliani.

Arrivo in Cisgiordania passando dal valico di «King Hussein bridge», in Giordania. Normalmente, la coda per attraversare il confine è chilometrica. Oggi siamo soltanto in tre a entrare. Il confine, di solito, è affollato da cooperanti, palestinesi che vivono all’estero e viaggiatori. Dal 7 ottobre – giorno dell’attacco di Hamas e dell’inizio della nuova guerra – è semideserto. Quello che sta accadendo a Gaza ha fatto lasciare la Cisgiordania a quasi tutte le Ong straniere.

Per entrare bisogna passare molti controlli, il primo check point israeliano è quello più complicato. Rimango in attesa per circa tre ore, prima di essere interrogato. Mi vengono fatte le domande più disparate: da quelle personali, ai dettagli tecnici sulla mia presenza qui.

Passato il posto di frontiera, i controlli non diventano più facili. Nelle ultime settimane i militari hanno chiuso moltissime strade: a volte ci vogliono sei ore per un percorso che, normalmente, si potrebbe fare in un’ora.

La Cisgiordania è sempre stata un punto nevralgico per tutto il Medioriente. Quello che accade qui ha eco anche in tutte le nazioni confinanti o vicine: Giordania, Egitto, Libano.

Gli scontri, soprattutto in contrapposizione all’occupazione e all’espandersi delle colonie israeliane in Palestina (riconosciute illegali dalle Nazioni Unite nel 1979 con la risoluzione n. 446), sono quasi quotidiani. È proprio dopo l’arrivo delle colonie che sono nati alcuni dei movimenti armati che conosciamo oggi: la Pij (la Jihad islamica) nel 1979, Hamas a Gaza nel 1987.

Nel 2000, iniziando da Gerusalemme e poi espandendosi in Cisgiordania, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, è scoppiata la seconda intifada. Una rivolta che sarebbe durata cinque anni. Al termine di quel conflitto, sarebbero state circa 1.300 le vittime israeliane e più di 6.000 quelle palestinesi, la metà di loro civili, annoverate nelle statistiche come «vittime collaterali». In quegli anni di intifada, sono nati altri gruppi armati come le brigate di al-Aqsa, movimento formatosi alla fine del 2000.

Da 75 anni, cioè dalla «Nakba» del 1948, quando oltre 750mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie terre, tra periodi più quieti e picchi di violenze, la tensione in questa parte del mondo non si è mai attenuata.

Cosa accade oggi dopo gli eventi del 7 ottobre? Quali sono le conseguenze dei bombardamenti a Gaza su questa parte della Palestina, soprattutto in quei territori da sempre contesi tra palestinesi e coloni?

Armati e incappucciati, due combattenti della brigata Aqsa di Jenin. Foto Angelo Calianno.

«Cacciati come bestiame»

Abu Hasen all’interno dell’ufficio della «Colonization & wall resistance commission». Foto Angelo Calianno.

A Ramallah ha sede una commissione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata «Colonization & wall resistance commission». Si occupa di fornire assistenza legale e aiuto a tutte quelle persone aggredite dai coloni o che si ritrovano le proprie terre occupate abusivamente. Oltre ai dipendenti governativi, questo gruppo è formato da volontari, anche internazionali, che attuano una resistenza pacifica all’espansione delle colonie. Qui incontro uno dei responsabili: Abu Hasen.

Già tre volte è stato arrestato dai militari israeliani. La detenzione più lunga è stata durante la seconda intifada. Quando gli chiedo il perché dell’arresto, stringe le spalle sorridendo: «Non c’è quasi mai un perché. Li chiamano reati amministrativi. Può essere di tutto: da un post su internet a una parola detta male, a una resistenza a perquisizione. Siamo palestinesi, questo basta per essere arrestati».

Continua raccontandomi: «Devi capire che qui ora è cambiato tutto. Non dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, come molti pensano, ma dal dicembre 2022. L’anno scorso, infatti, Ben Gvir (ministro della sicurezza nazionale israeliano, ndr) ha annesso i coloni nella riserva dell’esercito. I settlers (così come vengono chiamati qui gli abitanti delle colonie) per anni, con il benestare di Israele, hanno preso la nostra terra e perpetrato continui attacchi volti a sfinire la popolazione. Il fine è quello di spingerci ad abbandonare tutto e andare via, un po’ come è successo nel 1948. Accorpando queste persone alle forze armate, hanno praticamente legittimato i coloni ad avere armi e a usarle contro di noi, senza temere nessun tipo di ripercussioni.

A seguito di raid e attacchi, sia da parte dell’Israel defence forces che dei settlers, in Cisgiordania sono state uccise 189 persone, più di 8mila sono stati i feriti. Questo accadeva prima del 7 ottobre. Io non sono mai stato un sostenitore di Hamas, sono membro di Al-Fatah, ma so che quello che ha fatto Hamas è stata la risposta a questa legge e a tutte le morti che ha causato».

Solo un mese fa, Abu Hasen ha subito un nuovo arresto. La detenzione è stata di nove ore durante le quali, però, l’uomo è stato interrogato con metodi di tortura di cui porta ancora i segni addosso.

«Con il nostro gruppo cerchiamo di aiutare e difendere chi continuamente subisce soprusi dai coloni. Mi trovavo vicino a un campo di beduini, da tempo i coloni cercano di espropriarne le terre per continuare l’espansione. Eravamo lì per impedirlo. Sono arrivati i soldati, ci hanno interrogato, hanno trovato un coltello e mi hanno arrestato. Il coltello era un semplice coltello da cucina, ce l’avevamo perché eravamo lì accampati e abbiamo cucinato sul fuoco. Mi hanno portato in una delle tende dei beduini, mi hanno colpito con il calcio del fucile sulla testa, più volte. Mi hanno urinato addosso, preso a calci. Poi mi hanno ordinato di mangiare gli escrementi delle capre. Mi hanno insultato e urlato che ero un terrorista di Hamas. Ho chiesto loro di smetterla tentando di spiegare che io non c’entravo nulla con Hamas, ma loro hanno continuato.

Penso mi abbia salvato solo il fatto che parlo ebraico. Ho cominciato a spiegarmi nella loro lingua e poi, dopo nove ore, mi hanno lasciato andare. Il risultato è che ora non torno più a casa. Sono così traumatizzato che, quando non dormo in quest’ufficio, cambio luogo ogni notte per paura che mi vengano a prendere».

Gli chiedo: che messaggio vorresti dare a chi conosce poco la storia di questi luoghi? «Sembra che, per Israele, l’unica soluzione possibile sia quella di mandarci tutti via da questa terra, mandarci in Egitto, in Giordania, come se fossimo bestiame. Io vorrei dire che siamo esseri umani anche noi, così come gli ucraini. Perché per loro tutta la comunità internazionale si è mobilitata e per noi no? Sto vedendo in tutto il mondo le manifestazioni, in nostro supporto, per denunciare il genocidio che stanno compiendo a Gaza. Questo a noi dà molta forza. Secondo me, il cambiamento si avrà solo quando in Occidente le persone, ognuna nella propria nazione, si faranno valere contro quei governi che appoggiano Israele».

A Taybeh, villaggio cristiano

Per verificare le storie di Abu Hasen, decido di andare nei villaggi da lui menzionati. Mi trovo a circa trenta chilometri da Gerusalemme, nel villaggio di Taybeh. Taybeh è l’unico villaggio, in Palestina, ad essere interamente abitato da cristiani. Oggi ci vivono appena 1.300 persone, sono 8.000 invece i suoi cittadini residenti all’estero. Il nome Taybeh è stato dato al villaggio durante il dominio di Saladino. In antichità invece, la cittadina era conosciuta come Efraim, città della Samaria dove, come riportato nel Vangelo di Giovanni, Gesù dimorò alcuni giorni prima della passione.

In una delle vie del paese, incontro padre Jack Nobel, sacerdote della chiesa cattolica greco-melchita di San Giorgio. Padre Jack ha studiato a Roma e, in un perfetto italiano, mi racconta: «Qui siamo tutti cristiani: melchiti, cattolici latini e ortodossi. Prima della guerra, c’erano tantissimi pellegrini che si fermavano a Taybeh, sulla via o di ritorno da Gerusalemme. Io ho sempre detto a tutti i turisti che passavano: “Pensate, voi qui potete andare e viaggiare ovunque e muovervi liberamente. Io, nonostante sia un sacerdote, nonostante parli diverse lingue correttamente, non sono libero di andare in pellegrinaggio a pregare in Terra Santa. Questo perché sono palestinese”. La situazione ora, ovviamente, è peggiorata. I continui attacchi dei coloni, soprattutto durante la raccolta delle olive, hanno spaventato davvero tantissima gente».

Gli chiedo: perché tanta violenza verso di voi, padre? Chi sono esattamente i coloni e cosa vogliono? «Questa è una storia lunga decenni. I coloni, in Israele, sono conosciuti come: “hilltop youth” (i giovani delle colline). Sono estremisti di destra, gente violenta che Israele non vuole, e quindi li spedisce da noi. Quello che vogliono è semplice: che ce ne andiamo. Per loro questa terra gli spetta di diritto, perché promessa da Dio». L’ideologia degli hilltop youth prende ispirazione dal partito clandestino ebraico del Brit HaBirionim («Alleanza degli uomini forti») e dal cananismo, entrambi movimenti attivi tra gli anni ’30 e ’40. Il pensiero di questi gruppi si ispirava al regime fascista di Benito Mussolini.

Continuando a camminare per il villaggio, la gente del luogo mi indica la casa di Eliana e Khalil, una coppia cristiana recentemente aggredita dai coloni. I due gentili anziani mi accolgono alla porta. Khalil ha 77 anni, Eliana 69. Lei porta una vistosa fasciatura al braccio. Mi offrono del caffè e dei dolci.

La donna racconta: «Il 26 ottobre stavamo raccogliendo le olive. Alle nostre spalle sono arrivati dodici settlers. Hanno cominciato a distruggerci l’attrezzatura e a prenderci a bastonate. Avevano delle lunghe spranghe con delle punte di metallo. Hanno cercato di colpirmi in testa, io mi sono riparata con il braccio e così me lo hanno rotto in due punti. I coloni ci hanno sempre provocato. Spesso troviamo i terreni danneggiati, gli alberi d’ulivo tagliati o bruciati. Ci lanciano sassi e bottiglie contro la casa, ma delle aggressioni con tanta violenza non c’erano ancora state qui. In questa situazione, nemmeno i nostri figli possono raggiungerci perché, con tutti check point e le strade chiuse, viaggiare per i palestinesi è diventato impossibile. Poi però vediamo quello che accade a Gaza, e allora ci riteniamo fortunati».

Coppia cristiana di Taybeh aggredita dai coloni (foto Angelo Calianno).

Le immagini dei martiri

Mentre continuo le interviste attraverso i villaggi di questa zona, mi arriva la notizia che ad Al Am’ari, il campo profughi alla periferia di Ramallah, c’è stato un altro attacco delle forze dell’Idf. Decido di rientrare per documentare la situazione. Al Am’ ari è uno dei campi più piccoli di tutta la Cisgiordania, oggi ci vivono 15mila persone. Questi campi sono soggetti a raid e arresti continui perché, secondo le forze di sicurezza israeliane, sono rifugio di molti combattenti palestinesi.

Entrando in questi luoghi, le prime cose che si notano sono le fotografie. Ci sono immagini ovunque, quasi sempre di giovani ragazzi: foto sui poster, volti disegnati sui muri, fotografie appese alle insegne dei negozi, spille raffiguranti dei volti: sono i martiri. I martiri non sono sempre combattenti, è considerato martire chiunque abbia perso la vita durante gli scontri, i raid e gli arresti da parte di Israele.

Alcuni bambini, sorridendo, mi mostrano la loro medaglietta raffigurante una delle vittime. L’ultima, in ordine cronologico: Mohannad Jad Al-haq, ucciso il 9 di novembre. I bambini mi conducono nella casa dove vive la sua famiglia, invitandomi a bussare.

Qui incontro la madre di Mohannad e il fratello: «Mio fratello non aveva fatto davvero nulla. Non si è mai interessato di politica, non aveva mai avuto a che fare con la resistenza. Stava andando a lavorare quella mattina, erano le sette e trenta, si trovava per strada quando è cominciato il raid. Ha chiamato la moglie per dirle di rimanere a casa, perché i militari israeliani stavano entrando nel campo. È stato raggiunto da un proiettile allo stomaco, è morto in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il medico ci ha detto che era stato colpito da un proiettile “dum dum”». I «dum dum» sono pallottole a espansione. Sono cioè progettate per espandersi all’interno del corpo del bersaglio, aumentando così la gravità delle ferite.

Sua madre Khadija, orgogliosa, mi mostra la medaglietta che ha al collo con la foto del figlio: «È il terzo ragazzo a morire nel gruppo degli amici di Mohannad. Nessuno di loro si è mai interessato alle fazioni politiche. Siamo gente semplice che vuole lavorare. Quando Mohannad è morto tutti piangevano, ma io no, sorridevo. Perché Dio mi ha dato la forza di sopportare tutto questo».

Angelo Calianno

Striscione in onore di Mohannad su una strada del campo di Al Am’ ari. Foto Angelo Calianno.

 

 




Lettori e Missionari in dialogo


Parlami nel silenzio

Padre Giampietro Casiraghi (© AfMC/Gigi Anataloni)

Abituato a parlarti
con troppe parole,
mi rivolgo a Te, Signore,
nel silenzio.
Parole belle e gradevoli,
ma astratte e lontane,
ripetute all’infinito.

Nel frastuono che mi circonda
non sento più la Tua voce.
Parlami, o Signore, nel silenzio.

Ho bisogno del tuo silenzio
che mi penetri dentro
nell’intimità del cuore,
che mi avvolga e mi parli
per ridare slancio
alla mia preghiera.

Ho bisogno del tuo silenzio.
Che possa ascoltarlo a lungo!
Mentre mi immergo
nel mistero del Tuo amore,
parlami nel silenzio.

Che possa sempre ascoltare
la Tua voce, Signore.

Giampietro Casiraghi

Questa preghiera era nella stanza di padre Giampietro Casiraghi, missionario della Consolata che il Signore ha chiamato a sé il 16 novembre scorso. Una preghiera particolarmente intensa per uno come lui che era un maestro della parola.

Nato il 23 aprile 1936 a Osnago, allora provincia di Como, a vent’anni emette i primi voti come missionario della Consolata ed è ordinato sacerdote il 7 aprile 1962. Brillante e preparato, è mandato prima come professore nel seminario minore di Bevera (Como, ora Lecco) fino al 1964, e poi è trasferito a Rivoli (Torino) nella redazione di questa rivista e di altre due che erano pubblicate allora: «La vedetta» (per ragazzi) e «Selezione missionaria». Il suo compito è pubblicare quest’ultima, che vuole essere la versione missionaria di Selezione del Reader’s Digest per far conoscere in Italia il meglio di quanto si pubblica nel mondo sulle riviste missionarie degli altri paesi. La bella avventura si conclude nel 1970 e nel 1971 diventa insegnante di Cristologia (lo studio approfondito della figura di Gesù Cristo) nella scuola di teologia della Fist (Federazione italiana studentati teologici) a Torino dove studiano i seminaristi della Consolata (tra cui lo scrivente) e di altri istituti.

Da quel momento la sua vita è segnata dall’insegnamento e, quando nel 1990 la Fist chiude, passa a insegnare all’Università di Vercelli dove può condividere un’altra delle sue passioni, l’Epigrafia e lo studio della storia medioevale, campo nel quale diventa uno degli esperti più qualificati sulla storia della Sacra di San Michele e delle pievi del Piemonte.

Impegnato a livello della diocesi di Torino nell’ufficio della pastorale, assistente del Movimento Rinascita cristiana, responsabile degli studi nell’Imc, padre Casiraghi vive una vita intensa, pubblicando diversi libri e collaborando attivamente con questa rivista fino al 2015, quando la sua salute è condizionata pesantemente da una malattia cerebrale che gli impedisce di dedicarsi agli studi e alla predicazione come era nel suo stile brillante e profondo.

Nel 2021 deve essere trasferito nella residenza per missionari anziani ad Alpignano (Torino), dove il Signore lo chiama a sé.

Una cosa importante abbiamo imparato da lui, noi che siamo stati suoi studenti, quella di non accontentarci mai delle risposte più ovvie e popolari, ma di mantenere sempre un forte senso critico e continuare ad approfondire la conoscenza a tutto campo. Grazie.

Il testamento di una mamma

Caro padre,
mi faresti un grande regalo se potessi pubblicare questa lettera testamento che mia mamma scrisse nel lontano 1955 prima di andare all’ospedale per l’asportazione di un rene, un’operazione molto rischiosa allora. Grazie a Dio tutto è andato bene e lei è vissuta ancora per molti anni, fino al 1994. Ho sempre conservato gelosamente questa lettera. Allora avevo solo undici anni, ora vivo anch’io nell’attesa di andare in Paradiso a fare festa con lei e mio padre Guido. Grazie

padre Carlo Laguzzi, Imc
Torino, 02/11/2023

 

«Caro Guido e carissimi figli miei,
se per caso non tornassi più (sia fatta la volontà di Dio! Adoriamola) raccomando a voi che siete i miei amatissimi, di avere l’un verso l’altro un grande amore scambievole; ed ai maggiori raccomando anzitutto di sopportare ciascuno col suo carattere, e di aver cura dei più piccoli.

Abbiate tutti voi figli cura di vostro padre, che è sempre stato verso di voi generoso e affettuoso, e pei quali non ha risparmiato sacrifici.

Quel poco che è mio egli lo dividerà equamente fra di voi: abbiate sacri i suoi pareri e i suoi consigli. Vi manifesto i miei ultimi desideri che avrei piacere fossero ottemperati:

Non fate avvisi per la mia morte: se proprio il babbo lo vuole, a funerali avvenuti e senza lutto per mio espresso desiderio. Il funerale deve essere il più umile possibile, e desidero essere sepolta nel campo comune, senza tomba, senza pietra. Quando potete mi porterete qualche fiore di campo, qualche margherita, che io ho sempre prediletto.

Quello che invece caldamente vi raccomando, è che mi facciate dire, e soprattutto che ascoltiate per me, il maggior numero di Messe possibile.

Avrei voluto andarci sovente, per voi non ho potuto; riparate per quel che potete alla mia negligenza. Vestitemi col mio vestito nero solito e bruciate tutti gli scritti miei che troverete in casa, soprattutto quelli (lettere) riuniti in una scatola nella parte inferiore della libreria, e quelli (quaderni) in uno scatolone posto sopra la libreria.

Ho pregato spesso perché a tutti i miei cari fosse concessa la grazia della perseveranza finale: possa essere veramente il nostro viatico comune per l’aldilà. Vi bacio tutti e porto tutti con me nel cuore».

La vostra mamma
Torino, 27/01/1955

 

I racconti di padre Rondina

Camminare nella foresta, di notte…

Storia che ho raccolto dalla bocca del novantaquattrenne padre Aimone Rondina, ospite nella Residenza Allamano ad Alpignano.

«Quella mattina dovevo alzarmi presto per recarmi in un dispensario a qualche chilometro da Matiri (la mia missione, nella regione del Meru in Kenya). Mi avrebbero dato un passaggio ma solo all’andata, il ritorno era affidato alle mie stanche gambe, che conoscevano bene il sentiero attraverso il bush (lett. cespuglio, figurativamente indica una zona disabitata con folti cespugli e piante, ndr). Non avevo però fatto i conti con l’unica e più subdola variabile, le chiacchiere; una tira l’altra e il tempo passò senza che me ne rendessi conto. Fu solo quando osservai l’orologio che tornai alla realtà, erano quasi le sei del pomeriggio e fra un po’ si sarebbe fatto buio, quel buio che qui in Kenya arriva all’improvviso. Mi affrettai a salutare e ripresi la via di casa. Il tramonto mi colse quando ero già sulla piccola strada sterrata. La sicurezza iniziale cominciò a lasciare il posto a un po’ di ansia, mentre sentivo chiaramente i mille rumori della foresta venirmi incontro.

Frugai in tasca alla ricerca della torcia, che sciocco, non l’avevo presa con me tanto sarei tornato presto. Solo, nel buio che più buio non si può, compresso fra due “muri” di vegetazione da dove poteva spuntare qualsiasi cosa da un momento all’altro. Non sapevo quanto avevo camminato (l’orologio non era fosforescente), né quanto mi restasse da camminare, soprattutto se avevo tenuto il sentiero giusto. Unica fonte luminosa che mi dava un po’ di sicurezza: una grande luna sempre di fronte.

Cominciai a pregare per rassicurarmi, ma per fortuna dopo appena qualche minuto intravvidi una flebile luce in lontananza che faceva capolino fra la vegetazione. Era proprio la missione! La raggiunsi abbastanza velocemente, entrai e il missionario mio collega mi accolse con un “era ora, cominciavamo a preoccuparci”.

Da allora andai nei villaggi sempre in auto, andata a e ritorno, anche quando pensavo di rientrare presto».

R.L. Rivelli
Torino, novembre 2023

 

Sete di verità

Spett. Redazione,
grazie mille della vostra preziosa risposta su MC di novembre. Considero il dialogo, anche per email, sempre fonte di crescita, specie se con persone speciali come vi ritengo.

La famosa frase del papa che lei cita «chi sono io per giudicare» forse è stata un po’ strumentalizzata dai sostenitori dell’omosessualità. Non si tratta di giudicare le persone ma lo sbaglio, infatti occorre separare l’errore dall’errante. Drogarsi è sbagliato e da condannare, i drogati sono da accogliere e da guidare verso il superamento dell’errore, liberarli.

Il mio discorso non era un voler giudicare ma una preoccupazione per i giovani. Chi è genitore sa quanto sia difficile crescere i figli in una società che non sa più ciò che è bene e ciò che è male. Siamo in un tempo in cui è di moda il relativismo, il «così è se vi pare».

Invece esiste la verità, abbiamo un grandissimo bisogno di verità, di sapere ciò che è realmente buono e non solo apparentemente. Quando non distinguiamo più ciò che è veramente bene dal falso bene unica ancora di salvezza è la chiesa, il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Conosco la preoccupazione di tanti genitori che vedono i giovani alla deriva specie quelli che sono più soli, per un motivo o per l’altro abbandonati a se stessi e che si trovano senza guida senza sapere più ciò che è bene o ciò che è male.

Non si tratta di essere progressisti o meno, di diritti o meno, ma di salvaguardia della natura umana e di riconoscimento di molti casi di omosessualità come malattia psicologica. Le malattie per guarirle bisogna prima riconoscerle come tali. Malattia causata sovente dalla moda e dal fatto che i media, il libero accesso a internet anche a 9/10 anni spingono i giovani a una sessualità sempre più precoce. Gli insegnanti lamentano preoccupazioni e interessi in età in cui si dovrebbe poter crescere serenamente, giocare, studiare, ecc. ma non essere precocemente spinti alla sessualità. Unica luce è il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Al riguardo ci sono brani contro l’ipocrisia, contro chi vede la pagliuzza nell’occhio altrui e non vede la trave nel proprio, ma ci sono sapientemente altri brani che rappresentano una guida sicura.

I comportamenti dei sodomiti continuano ad essere indicati come errori, considerati tali nella Bibbia ma anche nel Vangelo. Nella lettera di san Paolo ai Romani si legge: «Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo mortale, di uccelli, di quadrupedi e di rettili, invece di adorare Dio glorioso e immortale. Per questo Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fino al punto di comportarsi in modo vergognoso gli uni con gli altri … Dio li ha abbandonati lasciandoli travolgere da passioni vergognose: le loro donne hanno avuto rapporti sessuali contro natura invece di seguire quelli naturali. Anche gli uomini, invece di avere rapporti con le donne, si sono infiammati di passioni gli uni per gli altri. Uomini con uomini commettono azioni turpi, e ricevono così in loro stessi il giusto castigo per questo traviamento…» (Rm 1,20-32).

Nella lettera di Giuda, fratello di Giacomo, si legge: «Ricordate Sodoma e Gomorra e le città vicine: anche i loro abitanti si comportavano male, si abbandonarono ad una vita immorale e seguirono vizi contro natura. Ora subiscono la punizione di un fuoco eterno, e sono un esempio per noi» (Giuda 1,7).

Il Vangelo è veramente luce del mondo e i preti che con fatica e con eroismo annunciano la Parola di Dio sono grandi portatori della luce evangelica. Il mondo ha tantissima sete della verità evangelica.

Con ammirazione per le vostre missioni e per il vostro lavoro porgo cordiali saluti

Enrica B.
11/11/2023

La tentazione era quella di tagliare alcune delle frasi della sua lunga lettera perché possono suscitare reazioni polemiche, in un tempo come il nostro in cui sembra che il dialogo non sia più consentito e sperimentiamo una forte radicalizzazione delle posizioni. Un esempio è l’accesissimo dibattito che stiamo vivendo a proposito della guerra in atto in Palestina, dove chi cerca veramente il dialogo è ostracizzato ed emarginato.

Nello stesso tempo, i temi che lei affronta, così scottanti e conflittivi, trovano conferme terribili quasi ogni giorno. Mentre scrivo, la scena è occupata dall’uccisione di Giulia, centocinquesima nella lista dei femminicidi del 2023 (il cui numero sta tristemente continuando a crescere) è un segnale di allarme che sfida tutti a un ripensamento forte del nostro modo di relazionarci.

Probabilmente l’umanità ha sempre avuto gli stessi problemi che abbiamo oggi. I testi nel libro della Genesi e le tirate di Paolo, ne sono una prova. Certo noi oggi stiamo vivendo le stesse problematiche ma con nuove dimensioni, forse anche perché, soprattutto nella nostra società, l’educazione sembra essere scappata dalle mani della famiglia, della scuola e della comunità cristiana.

Basti pensare alla pervasiva influenza che hanno sui nostri bambini i contenuti da cui sono raggiunti tramite i molteplici schermi e piattaforme, incantati dai cartoni animati e dalla pubblicità consumista (io sono il centro e ho diritto ad avere tutto, se non ce l’ho sono un fallito e un infelice) che subiscono senza possibilità di reagire. Senza poi parlare della realtà dei social, spesso usati acriticamente e soprattutto senza un supporto di relazioni di amicizia sane e concrete.

È un tempo, questo, che non ha bisogno solo di preti testimoni autentici della Parola di Dio, ma soprattutto del risveglio di ogni cristiano, che diventi soggetto vivo e attivo nella comunità, nella società, nella politica. È lo spirito del Sinodo che stiamo celebrando. Nessuno può dire «non tocca a me». Solo così si evita il rischio di dividere il mondo in «buoni e cattivi», in «noi e loro», «padroni e servi» o negli altri mille stereotipi che siamo abilissimi a creare.

L’ascolto della Parola di Dio ci fa allora sperimentare che il vero amore non è possedere l’altro e avere tutto, ma è la felicità dell’altro. La vera felicità è far felici gli altri, è diventare «servi» degli altri e non padroni, custodi del creato e non rapinatori di risorse.

Il giorno in cui davvero impareremo a vivere questo, sarà un mondo nuovo, pur nella diversità e unicità di ogni persona.

Ambiguità

Gentile Sig. Pescali,
ho letto con interesse il dossier del numero 8-9 2023 di MC sull’Islanda. Lei dice che con il sindaco Gnarr la città si arricchita di riferimenti alla pace. Siccome mi incuriosiva mi sono informato e sono rimasto molto deluso nel constatare che le strade della città in realtà sono/erano dipinte con l’arcobaleno… a sei colori (senza l’azzurro). Ma scusi, lei conosce la differenza tra la bandiera arcobaleno a sei colori e quella della pace a sette colori? Credo che confondere le due cose sia molto grave! Non so se pensare ad una ingenuità (grave per chi intende fare giornalismo di buon livello) o voluta ambiguità, che sarebbe ancora peggio. Rischio di fare il sapientone ma ci tengo a evitare queste confusioni nelle quali siamo purtroppo quotidianamente immersi. La bandiera della pace è un arcobaleno a sette colori e il viola è in alto (spesso con la scritta Pace). C’è l’azzurro. La bandiera arcobaleno a sei colori è l’emblema della lobby Lgbtiq+ per rivendicare diritti (secondo me non tutti legittimi e quindi solo presunti) e con la pace non c’entra nulla. Sarebbe auspicabile almeno che sulle riviste cristiane, e comunque sulle riviste serie, questa confusione non venga più fatta. Cordiali saluti

Andrea Sari
14/11/2023

Abbiamo passato la sua lettera all’autore del dossier. Qui il nocciolo della sua risposta.

Gentile sig. Sari,
nell’articolo in questione non ho scritto che «con il sindaco Gnarr, la città (Reykjavik, ndr) si è arricchita di riferimenti alla pace». Ad una più attenta lettura, ciò che invece ho scritto è che «viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore». Il riferimento, quindi, non era limitato alla città di Reykjavik, ma all’Islanda tutta, dove ho visto strade e bandiere (lo ribadisco) arcobaleno.

Arcobaleno perché, se la fisica non ci inganna, i colori dell’arcobaleno sono… sette. Quindi, da uomo di scienza, nessuna ingenuità, nessuna voluta ambiguità, nessuna confusione e, soprattutto, nessun deterioramento della serietà dell’articolo e della rivista. Anzi, semmai questa distinzione razionale e scientifica denota una maggiore autorevolezza della stessa.

Piergiorgio Pescali
04/12/2023

 




Taiwan. Campagna elettorale visitando i templi

 

In tempi di campagna elettorale, a Taiwan ci sono dei luoghi che sono costantemente affollati: i templi buddhisti e taoisti. Può sembrare strano, ma da quando i partiti ufficializzano i loro candidati parte immancabile la «processione».

Ogni giorno, quando i team delle campagne elettorali rilasciano l’agenda del giorno successivo, è un fatto acclarato: i candidati si presentano almeno in un tempio. Tanto per avere un’idea: nella campagna per le elezioni presidenziali del gennaio 2020, la presidente uscente Tsai Ing-wen ha visitato circa 180 templi per ottenere la conferma a un secondo mandato. Lo stesso sta accadendo in questa occasione. Tutti e tre i candidati alle elezioni di sabato 13 gennaio sono apparsi in templi in tutti gli angoli dell’isola principale di Taiwan, persino a quelli delle isole minori.
Il motivo? L’influenza di questi luoghi, che non sono solo un posto dedicato alla preghiera ma anche un polo di attrazione sociale fondamentale per le città e i villaggi di Taiwan, sfocia da quella religiosa e spirituale a quella politica. Anche perché sono praticamente ovunque: 33mila su tutto il territorio, in media quasi uno per ogni chilometro quadrato.

I candidati arrivano e stringono decine, centinaia di mani. Fanno decine, centinaia di selfie. Accendono l’incenso e pregano per la salute, la sicurezza e la pace di Taiwan. Lasciano offerte sugli altari dedicati agli dei locali. Infatti, ce ne sono tanti diversi, nella tradizione taoista, che a Taiwan si è profondamente intrecciata con quella buddhista tanto che alle volte diventa complicato capire dove stanno i confini tra l’una e l’altra. In cambio ricevono spesso grandi mazzi di germogli d’aglio. In dialetto taiwanese questo dono suona come «venire eletto», slogan ripetuto a lungo durante tutti i comizi.
In candidati, in maniera implicita, mirano al favore dei leader dei templi. Si tratta di figure molto spesso coinvolte nella politica locale, ma hanno anche una rilevanza economica. I templi sono infatti un grande ricettacolo di donazioni, fondi e spesso anche interessi economici. Tutti ingredienti che fanno immancabilmente gola a una campagna elettorale e a un candidato che
punta a diventare presidente.
C’è anche una valenza simbolica: per la maggior parte dei taiwanesi recarsi al tempio è più una prassi sociale o un rituale, piuttosto che un modo per esprimere la propria fede. Mostrarsi nei templi, circondati dagli abitanti di quel villaggio o di quel quartiere di una città più grande, significa mostrarsi vicini alla gente comune.
Terry Gou, boss del colosso tecnologico Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi anche in Cina continentale), ha visitato più volte i templi di Cihui e Jieyun a Banqiao, Nuova Taipei, per

I templi sono stati spesso considerati anche un canale di promozione dei rapporti con la Repubblica popolare. Le autorità continentali consentono e incoraggiano i gruppi religiosi taiwanesi a viaggiare oltre lo Stretto. Pechino ritiene infatti che mantenere legami sul fronte religioso e rituale possa contribuire a rallentare la recisione dei rapporti con Taiwan, rafforzando il senso di appartenenza della sua popolazione alla affari di Taiwan) ha chiesto di estendere gli scambi religiosi e ha incontrato Zheng Mingkun, presidente dell’associazione taiwanese dedicata a Mazu, la dea dei mari della mitologia cinese amata soprattutto tra Fujian (Repubblica popolare), Kinmen e Matsu (isole di Taiwan).
Secondo alcune indiscrezioni, diversi templi e organizzazioni religiose riceverebbero fondi da Pechino. Accuse difficili da dimostrare, vista l’opacità dei rendiconti finanziari di questi luoghi, coi partiti che raramente osano sollevare il problema, temendo di mettersi contro una fetta non trascurabile di cittadini, dunque elettori. In passato ci sono state alcune controversie anche sulla Fo Guang Shan, grande organizzazione buddhista con un immenso centro nei pressi della città meridionale di Kaohsiung. Quando lo scorso febbraio il suo fondatore, Hsing Yun, è morto, diverse autorità continentali hanno espresso il desiderio di recarsi in visita a Taiwan.
Verrebbe da pensare che il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), inviso a Pechino, si tenga alla larga dai templi. Non è così. Lai Ching-te ne ha visitati a decine, tanto quanto i rivali Hou Yu-ih del Kuomintang e Ko Wen-je del Partito popolare. Nessuno fa lo schizzinoso, quando si tratta d’imbracciare qualche mazzo di germogli d’aglio.

Leggi il nostro approfondimento su Taiwan qui.

Lorenzo Lamperti, da Taipei