Argentina. «El maligno es santo»

«Il maligno è santo», «Javier Milei, ai piedi di papa Francesco», «Da maligno a benigno»: sono alcuni dei titoli con cui il sito di «Página|12» apriva i servizi sull’incontro tra il presidente Javier Milei e papa Francesco, avvenuto in Vaticano domenica 11 (durante la canonizzazione di Mama Antula, la prima santa argentina) e lunedì 12 febbraio (in forma privata). L’ironia del quotidiano argentino era giustificata, forse addirittura doverosa.

Nei mesi precedenti la sua elezione, il presidente argentino era stato, infatti, prodigo di insulti verso l’illustre connazionale. Papa Francesco era stato definito da Milei, tra l’altro, «il rappresentante del diavolo sulla Terra», mentre ora è diventato «l’argentino più importante del mondo».

Pur non avendo (ancora) visitato il suo Paese, papa Francesco ha sempre ricevuto i vari presidenti argentini: da Cristina Kirchner a Mauricio Macri fino ad Alberto Fernández. L’incontro di lunedì con Milei – senza la presenza di altri – si è protratto per 70 minuti, ben più del previsto. È stato definito cordiale, ma non è chiaro come le loro (opposte) visioni sull’economia e sul capitalismo abbiano trovato punti in comune.

Javier Milei – libertario e anarcocapitalista come lui ama autodefinirsi – è arrivato a Roma dopo una visita in Israele e proprio nei giorni in cui la sua (ambiziosissima) Ley ómnibus veniva affossata. La legge omnibus era la legge d’esordio del suo governo, un unico progetto di 664 articoli che includeva varie riforme in materia economica, fiscale, amministrativa, con una base ideologica fondata su liberalizzazioni e privatizzazioni. Si prevedeva, per esempio, di togliere le limitazioni attualmente in vigore sull’acquisto delle (preziosissime) terre agricole argentine da parte degli stranieri.

La «legge omnibus» del governo Milei prevedeva (tra l’altro) di eliminare i limiti alla vendita delle (preziosissime) terre argentine a soggetti stranieri. (Foto visiondailleurs1 – Pixabay)

Ospite più che apprezzato a una trasmissione di «Retequattro» (Nicola Porro) e sul quotidiano «Libero» (Mario Sechi), Milei ha rilasciato interviste che dipingono il personaggio. «Milei – ha scritto un entusiasta Sechi – ha l’aria di chi sta tessendo una tela, non solo per dare corpo e sostegno al suo piano per l’Argentina. La sua rivoluzione è quella di un uomo di pensiero che conduce una battaglia delle idee […]». Una di esse riguarda la concezione dello Stato: «Filosoficamente – ha spiegato il presidente – sono un anarcocapitalista e quindi nutro un profondo disprezzo per lo Stato. Credo che il nemico sia lo Stato, un’associazione per delinquere».

Sarebbe bello sapere se Milei abbia fatto le stesse osservazioni al cospetto del papa. Più personale ma comunque sorprendente un’altra affermazione fatta davanti alle telecamere di Retequattro: «Sono cattolico e pratico anche un po’ di ebraismo».

L’Argentina, potenzialmente molto ricca, è abbonata alle crisi economiche, che si ripresentano con la stessa puntualità con cui il paese sforna campioni di calcio, che poi costituisce la vera religione del paese. Peccato che il calcio non basti a risollevare le sorti dei 46 milioni di argentini. Vedremo se ci riuscirà Javier Milei, nuovo pifferaio magico del paese latinoamericano.

Paolo Moiola

 




El Salvador. Bukele, presidente e dittatore

Il nome di Nayib Bukele, appena rieletto presidente a furor di popolo (82 per cento dei suffragi), è molto popolare anche fuori del Salvador. È giovane (42 anni), ma non tanto quanto i suoi omologhi del Cile (Gabriel Boric ha 38 anni) e, ancora più, dell’Ecuador (Daniel Noboa, 36). Si è guadagnato fama e popolarità soprattutto per una cosa: l’aver sconfitto le «maras» (Mara salvatrucha e Barrio 18), le bande criminali che, fino a pochi anni fa, dominavano il piccolo paese centroamericano.

Per ottenere questo risultato Bukele non è andato per il sottile. Nel marzo del 2022 il presidente ha decretato lo stato d’emergenza (régimen de excepción), che consente di sospendere i diritti fondamentali della persona, una condizione che il prossimo mese compirà due anni. I risultati ottenuti sono stati eclatanti, in un verso e nell’altro. Secondo i dati governativi, il 2023 è stato l’anno più sicuro nella storia del paese: se nel 2015 il tasso di omicidi raggiungeva la cifra di 106,3 ogni centomila abitanti, oggi è caduto al 2,4. Un tasso questo che collocherebbe El Salvador al primo posto tra i paesi più sicuri in America Latina e al secondo nelle Americhe (subito dopo il Canada). L’altra faccia della medaglia racconta che, sotto lo stato d’emergenza, il governo ha arrestato circa 75mila persone, ovvero oltre l’uno per cento dell’intera popolazione (6,4 milioni). Le immagini dei detenuti seminudi e in catene hanno fatto il giro del mondo. Come quelle del Cecot (Centro de confinamiento del terrorismo), la mega prigione da 40mila posti, inaugurata dal presidente in persona nel gennaio 2023.

Un’impressionante immagine dei detenuti all’interno del mega carcere Cecot, inaugurato dal presidente Bukele nel gennaio 2023. (Foto Oficina de Prensa – Presidencia de la República de El Salvador)

Se la gestione della sicurezza ha dato risultati, la situazione economica rimane estremamente precaria, a cominciare dalla moneta in circolazione nel paese. Nel 2001 il colón è stato sostituito dal dollaro statunitense e, nel settembre 2021, questo è stato affiancato dal bitcoin, criptovaluta tutt’altro che stabile. Altro dato significativo è l’entità delle rimesse degli emigrati salvadoregni (oltre 1,4 milioni soltanto negli Stati Uniti) che raggiunge il 24,5 per cento (2023) del Prodotto interno lordo del paese, una percentuale tra le più alte del continente. Nel frattempo, si sono fatti sempre più stretti i rapporti con la Cina che sta finanziando molti progetti come l’avvenieristica Biblioteca nazionale, inaugurata nella capitale lo scorso novembre.

Tra le tante possibili domande, una in particolare risulta ostica: Nayib Bukele è un presidente populista o un dittatore populista? L’aggettivo è un dato di fatto, mentre il passaggio da presidente a dittatore è dibattuto. Certamente, la strada intrapresa pare quella. Ne è sicuro «El Faro», fondato nel 1998 a San Salvador, primo giornale su internet dell’America Latina, trasferitosi in Costa Rica nell’aprile 2023 a causa dello «smantellamento della nostra democrazia». D’altra parte, lo stesso Bukele in un post sui propri canali social si è autodefinito «El dictador más cool del mundo mundial» (Il dittatore più figo del mondo): la sua risposta – ironica ma non troppo – alla circostanza che la Costituzione del paese vieterebbe un secondo mandato consecutivo.

Paolo Moiola




Contro la tratta di persone

Si è tenuta ieri, 8 febbraio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, alla sua decima edizione dopo essere stata indetta da Papa Francesco nel 2015.

«Aleksandr proveniva da una città dell’Europa orientale – viene raccontato nel Global Report on Trafficking in Persons 2022, pubblicato dall’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime, l’ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) -. La morte della moglie, il suo recente rilascio dal carcere e la disoccupazione lo avevano spinto a recarsi nella capitale in cerca di lavoro. È stato avvicinato da un uomo in una stazione ferroviaria, dopo che gli erano stati rubati i documenti e il denaro. L’uomo gli ha offerto un pasto e ha ascoltato la sua storia. Dopo aver mangiato, Aleksandr si è sentito disorientato, e si è accorto che nel suo cibo erano stati messi dei sedativi. È stato trasportato, privo di sensi, in auto in una regione lontana con altri tre cui era stato promesso un lavoro. I trafficanti ricevono per ogni persona trafficata circa 200-250 dollari Usa.
All’arrivo, ad Aleksandr è stato detto che doveva pagare il reclutatore per il trasporto e, non avendo soldi, la sua unica opzione era lavorare. Dopo un mese senza paga, gli è stato detto che aveva accumulato altro debito per il cibo e le sigarette.
Aleksandr non è mai riuscito a saldare il suo debito ed è stato sfruttato per cinque anni durante i quali ha tentato di scappare diverse volte senza successo ed è stato rivenduto diverse volte per svolgere varie forme di lavoro forzato, dalla produzione di mattoni alla cura del bestiame. Ha lavorato per turni di 16 ore, vivendo in pessime condizioni, subendo violenze, privazione del sonno e malnutrizione.
Durante la sua ultima fuga, ha evitato le strade grandi e si è spostato di notte. Una notte è scivolato in uno stagno procurandosi un grave infortunio alle gambe. È strisciato fino a una stazione, dove alcuni sconosciuti hanno chiamato un’ambulanza. Entrambe le sue gambe gli sono state amputate. Una Ong lo ha aiutato a tornare a casa, ma non è sopravvissuto alle complicazioni post-operatorie ed è morto poco dopo».

I dati della tratta

Secondo gli ultimi dati disponibili, le vittime accertate di traffico di esseri umani a livello mondiale nel 2020 sono state 53.800 in 141 paesi. Un dato che mostra solo la punta di un iceberg che coinvolge diversi milioni di persone: il Global Report on Trafficking in Persons 2022 conta, infatti, solo i casi accertati e registrati di un fenomeno difficile da quantificare (le stime dell’Organizzazione mondiale del lavoro, ad esempio, contano circa 50 milioni le persone ridotte in stato di schiavitù nel mondo).

Per quanto possano essere limitati, i dati diffusi dall’Unodc offrono comunque un quadro che aiuta a capire il fenomeno: delle vittime registrate, il 42% erano donne, il 23% uomini, il 18% ragazze e bambine, il 17% ragazzi e bambini. I motivi del loro essere trafficati sono stati soprattutto il lavoro forzato (38,8%), lo sfruttamento sessuale (il 38,7%) e le attività criminali forzate (il 10,2%). Tra le altre forme di sfruttamento, anche i matrimoni forzati (0,9%), l’accattonaggio (0,7%), le adozioni illegali (0,3%) e la rimozione di organi (0,2%).
I trafficanti prendono di mira i più vulnerabili: donne, bambini e uomini privi di opportunità, protezione sociale e altro sostegno, coloro che, in ogni parte del mondo, fuggono da conflitti o disastri ambientali. Lo sfruttamento può avvenire nel paese d’origine della vittima, durante la migrazione o in un paese straniero.
Secondo il report, le ragazze e le donne hanno una probabilità di subire violenze, anche estreme, tre volte superiore rispetto ai ragazzi e agli uomini; i bambini in generale hanno il doppio delle probabilità di subire violenza rispetto agli adulti.

Le giornate internazionali

La tratta di esseri umani è stata definita nel 2000 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato, nel Protocollo addizionale sulla tratta: «La “tratta di persone” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, dando oppure ricevendo somme di denaro o benefici al fine di ottenere il consenso di un soggetto che ha il controllo su un’altra persona, per fini di sfruttamento. Per sfruttamento si intende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, l’asservimento o l’espianto di organi».
Mentre la giornata internazionale contro la tratta, istituita dall’Onu nel 2013, si celebra il 30 luglio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone è stata istituita da papa Francesco nel 2015, e si celebra l’8 febbraio, memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, la suora, nata in Sudan nel 1869 e morta in provincia di Vicenza nel 1947, che aveva vissuto da vittima l’esperienza della tratta.
Nell’ultimo Angelus del 4 febbraio scorso, papa Francesco ha detto: «Anche oggi tanti fratelli e sorelle vengono ingannati con false promesse e poi sottoposti a sfruttamenti e abusi. Uniamoci tutti per contrastare il drammatico fenomeno globale della tratta di persone umane».

Luca Lorusso

Sul tema Tratta, rimandiamo anche a:




Israele. L’avanzata dell’estremismo ultraortodosso

Due giovani ebrei ultraortodossi hanno inveito e sputato contro il monaco benedettino Nikodemus Schnabel, abate dell’Abbazia della Dormizione. Il fatto è avvenuto nella città vecchia di Gerusalemme lo scorso 3 febbraio.

Sputi e insulti verso i cristiani non sono una novità, ma sono ulteriore testimonianza dell’aggressività e dell’estremismo fondamentalista degli ultraortodossi (Haredi) d’Israele. Una questione seria, anche in considerazione dell’aumento di numero (e, conseguentemente, d’influenza politica) di questa parte della popolazione israeliana.

Il loro tasso di crescita è pari a circa il 4% annuo. I fattori alla base di un incremento così alto – spiega il sito del The Israel democracy institute – sono gli elevati tassi di fertilità, un’età media al matrimonio bassa e un gran numero di figli per famiglia. Di conseguenza, la popolazione ultraortodossa in Israele è molto giovane, circa il 60% ha meno di 20 anni, rispetto al 31% della popolazione generale del paese. Nel 2023, gli Haredi contavano circa 1.335.000 persone (rispetto alle 750mila del 2009) e costituivano il 13,6% del totale dei cittadini israeliani. Secondo le previsioni dell’Ufficio centrale di statistica (Cbs), la percentuale degli ultraortodossi dovrebbe raggiungere il 16% già nel 2030.

Linea blu, gli Haredi; linea verde, gli altri ebrei; linea rosa, gli arabi: in Israele, la rapida crescita del numero e dell’influenza degli ultraortodossi costituisce un altro grave problema per la soluzione della questione palestinese. (Grafico da The Israel democracy institute)

Oggi gli ultraortodossi rappresentano (almeno) un terzo dei 650mila coloni israeliani che occupano la Cisgiordania palestinese (West Bank), da essi chiamata con il nome biblico di Giudea e Samaria. La colonizzazione da parte di Tel Aviv è iniziata nel 1967 e si è estesa e rafforzata con i governi di destra guidati dal Likud e, successivamente, integrati dai partiti ultraortodossi. Il conflitto con i 2,8 milioni di palestinesi è costante. A nulla sono valse le risoluzioni dell’Onu contro l’occupazione israeliana. In particolare, la numero 446 del 22 marzo 1979: in essa il Consiglio di sicurezza dell’Onu afferma che la politica e le pratiche di Israele di creare insediamenti nei territori palestinesi e in altri territori arabi occupati dal 1967 non hanno validità legale e costituiscono un serio ostacolo al raggiungimento di una pace globale, giusta e duratura in Medio Oriente. La risoluzione numero 452 del 20 luglio 1979 ribadisce il concetto ed esprime grande preoccupazione per il perseverare del comportamento illegale delle autorità israeliane.

Gli stessi Stati Uniti, principale alleato d’Israele, vedono con crescente fastidio le azioni dei coloni. Tanto che lo scorso 1 febbraio il presidente Joe Biden ha emesso un «ordine esecutivo» (un provvedimento presidenziale con forza di legge) che prende di mira i coloni israeliani in Cisgiordania accusati di aver attaccato palestinesi e attivisti pacifisti israeliani nei territori occupati. L’ordine riguarda un numero limitato di coloni, ma ha un significato politico e simbolico rilevante come si evince dalle parole utilizzate nella sua premessa dove si legge: «La situazione in Cisgiordania – in particolare gli alti livelli di violenza estremista dei coloni, lo sfollamento forzato di persone e villaggi e la distruzione di proprietà – ha raggiunto livelli intollerabili e costituisce una seria minaccia alla pace, alla sicurezza e alla stabilità della Cisgiordania e di Gaza, di Israele e della più ampia regione del Medio Oriente».

Paolo Moiola




Sahel. Le mosse dei golpisti (e della Russia)

Lo scorso 28 gennaio, le televisioni di Mali, Burkina Faso e Niger hanno trasmesso simultaneamente una dichiarazione congiunta con la quale i leader militari dei tre Paesi – saliti al potere tra il 2021 e il 2023 grazie a colpi di stato – hanno annunciato l’intenzione di abbandonare la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/ Ecowas). I tre Paesi hanno giustificato la decisione sostenendo che l’organizzazione fosse ormai uno strumento nelle mani dell’Occidente e avesse tradito gli ideali dei padri fondatori e lo spirito del panafricanismo.

La Cedeao
La Cedeao è stata fondata nel 1975 con l’obiettivo di rafforzare la cooperazione economica tra i quindici Stati membri. Successivamente, di fronte alla diffusa instabilità nella regione a causa di conflitti e tensioni politiche, le sue prerogative sono state ampliate. Tra i suoi obiettivi sono stati inclusi il mantenimento di pace e sicurezza e le è stata attribuita la possibilità di dispiegare forze militari.
Nel 2001, la Cedeao ha adottato il Protocollo supplementare su democrazia e buon governo, un documento che sancisce i principi democratici che i Paesi membri devono rispettare. Su tutti, il non coinvolgimento dei militari nella vita politica e il rispetto dei limiti costituzionali dei mandati presidenziali.
Tuttavia, l’atteggiamento della Cedeao di fronte alle numerose crisi dell’Africa occidentale è stato ambivalente. In alcuni casi, ha mobilitato le sue forze militari, intervenendo militarmente per ripristinare la pace e la sicurezza (come durante le guerre civili in Liberia e Sierra Leone). In altri casi, non si è opposta a evidenti violazioni della democrazia, come nel 2020 in Guinea in occasione della contestata terza rielezione di Alpha Condé.

L’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger
La decisione di Mali, Burkina Faso e Niger di lasciare la Cedeao non giunge inaspettata. Da quando i militari hanno preso il potere accusando i governi civili di essere incapaci di contrastare l’insicurezza causata dalla diffusione del jihadismo, si è assistito a un crescendo di tensioni tra i tre regimi e l’organizzazione.
Di fronte al timore di un’ulteriore diffusione dei colpi di stato in Africa occidentale, la Cedeao ha reagito chiedendo il rispetto dei principi democratici. Se nel caso dei golpe a Bamako e Ouagadougou, l’organizzazione aveva imposto sanzioni e sospeso i Paesi, dopo quello a Niamey (luglio 2023), ha minacciato l’intervento militare. Accusando la Cedeao di essere uno strumento nelle mani dell’Occidente, Mali e Burkina Faso hanno annunciato il loro supporto al Niger e dichiarato che un’azione dell’organizzazione sul suolo nigerino sarebbe stata un attacco anche nei loro confronti.
Dunque, si è acuita la frattura con i tre Paesi golpisti che, a settembre 2023, hanno annunciato la creazione di un loro blocco militare, politico ed economico – l’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes) – prima di dichiarare anche l’intenzione di uscire dalla Cedeao. Una dimostrazione dell’esistenza di profonde fratture all’interno dell’organizzazione e dell’apertura di spazi per lo sviluppo di nuovi schemi di alleanza che guardano ad altri partner come la Russia.

Le debolezze della CedeaoLa nascita dell’Aes e l’annuncio dell’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger dalla Cedeao mostrano la debolezza politica e militare del blocco dell’Africa occidentale, spesso incapace di agire per assicurare la stabilità della regione.
Dal 2012, con la diffusione del jihadismo, si è registrato il fallimento della maggior parte delle missioni occidentali di contrasto al terrorismo e la Cedeao stessa non è riuscita a garantire pace, sicurezza e democrazia nell’area. Ha così contribuito a creare terreno fertile per i colpi di stato in Mali, Burkina Faso e Niger e a spingere questi regimi verso nuovi alleati come i mercenari Wagner.

C’è spesso la percezione che l’organizzazione – che non dispone di strutture finanziarie e militari indipendenti – non abbia una reale strategia unitaria, ma prenda o meno posizione a seconda degli interessi e della volontà di coinvolgimento dei Paesi leader (in particolare, la Nigeria).
Perché l’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger dalla Cedeao diventi effettiva è necessario un anno, ma intanto la loro decisione è un altro duro colpo a un’organizzazione sempre più fragile e dimostra quanto la Cedeao sia in difficoltà.

Aurora Guainazzi




Nicaragua. Daniel, Rosario e figli

Daniel Ortega e Rosario Murillo sono una coppia consolidata. Non sappiamo se lo siano come famiglia, ma sicuramente lo sono come dittatori del piccolo paese centroamericano. Inamovibili anche sulle pagine e sugli schermi dei media nazionali. Su «El 19 Digital» i loro volti sorridenti sono sulla testata del sito, accanto allo slogan «Tiempos de victorias, por gracia de Dios!». La famiglia Ortega Murillo è molto unita: la signora Murillo, vicepresidente del Nicaragua, è ospitata frequentemente al notiziario di «Canal 4», la rete televisiva di proprietà di due dei suoi sette figli. Sul sito del canale si trovano svariate notizie sulla Russia di Putin, grande alleato del paese. Ad esempio, a gennaio è stato dato grande risalto alla visita di una delegazione della Crimea, la penisola ucraina invasa e annessa alla Russia nel febbraio del 2014.

La testata de «El 19 Digital», sito d’informazione governativo. Si noti la frase in alto a sinistra: «Tiempos de victorias, por gracia de Dios!».

Lo scorso novembre il paese ha ufficialmente abbandonato l’Organizzazione degli stati americani (Osa), allineandosi a Venezuela e Cuba. Managua contestava l’ingerenza dell’organizzazione continentale negli affari interni del paese, in particolare nei processi elettorali e nel campo dei diritti umani. Per converso, il paese ha stretto legami sempre più stretti con la Russia, appoggiando anche la sua aggressione all’Ucraina. A ottobre 2023, si è tenuta a Mosca la prima riunione della Commissione di cooperazione tra la Duma russa e l’Assemblea nazionale del Nicaragua. A guidare la delegazione di Managua c’era Laureano Facundo Ortega Murillo, il figlio maggiore della coppia presidenziale. Questi ha espresso a chiare lettere la posizione del proprio paese: «Possiamo assicurarvi, fratelli, che il Nicaragua non è neutrale, il Nicaragua è con la Russia, perché è la cosa corretta, è la cosa giusta».

Laureano Facundo Ortega Murillo (a sinistra), figlio maggiore di Daniel Ortega, in un recente incontro a Mosca. La Russia è un grande alleato del Nicaragua. Foto duma.gov.ru.

Meno pubblicità è stata invece data alla notizia dell’espulsione, avvenuta domenica 14 gennaio, del vescovo Rolando Álvarez, che si trovava in carcere per scontare una condanna di 26 anni a causa del suo appoggio alle proteste del 2018. Con lui sono stati espulsi un altro vescovo, due seminaristi e quindici sacerdoti.

Da anni il governo Ortega-Murillo combatte la Chiesa cattolica del paese. Lo scorso agosto aveva confiscato l’Università centroamericana, nota con il nome di Uca, di proprietà della Compagnia di Gesù (i gesuiti) che l’aveva fondata nel 1960. L’ateneo, uno dei più prestigiosi dell’intera America Latina, è stato accusato di essere una «centrale del terrorismo».

La Uca è soltanto l’ultima vittima del regime Ortega-Murillo. Da dicembre 2021, in Nicaragua sono state chiuse 26 università (sette delle quali straniere), oltre a migliaia di associazioni e Ong. Inoltre, a fine 2023, anche la Croce rossa internazionale ha dovuto chiudere i battenti.

Paolo Moiola

 




Burkina Faso. Le stragi della giunta

 

«L’esercito del Burkina Faso ha utilizzato armi sofisticate e di precisione per sparare su assembramenti di civili. Tra agosto e novembre scorsi, in tre raid eseguiti da droni forniti dalla Turchia, sono stati attaccati due mercati e un funerale, con il risultato di oltre 60 civili morti e decine di feriti». La denuncia, ben documentata e verificata è di Human rights watch (Hrw), l’organizzazione per la difesa dei diritti umani con base a New York.

Con un rapporto uscito il 25 gennaio, Hrw descrive i particolari di questi eventi, accaduti il 3 agosto a Bouro (attacco al mercato settimanale di zona frequentato da centinaia di persone), il 21 settembre a Bidi (missili su un funerale) e il 18 novembre nei pressi di Boulkuessi, villaggio del Mali vicino alla frontiera del Burkina (mercato di zona). Hrw ha condotto inchieste basandosi su testimonianze di persone presenti, foto e video inviati dai siti degli attacchi, foto satellitari. I testimoni raccontano di decine di corpi straziati dopo la caduta dei missili. Queste aree, tutte nel Nord del Paese, sono controllate da gruppi armati jihadisti del Gsim (Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani), legato ad Al Qaeda, i cui uomini si spostano normalmente in moto. Alcuni di loro erano presenti nei mercati, e hanno poi organizzato i primi soccorsi.

Hrw insiste sul fatto che: «L’uso di droni con bombe ad alta precisione a guida laser, fa pensare che i due mercati e il funerale fossero gli obiettivi prescelti».

Quindi: «Gli attacchi […] hanno violato le leggi di guerra che proibiscono operazioni che non fanno distinzione tra obiettivi civili e militari, e costituiscono dei crimini di guerra apparenti». L’organizzazione chiede quindi al governo del Burkina Faso di operare inchieste indipendenti, imparziali e trasparenti per ognuno dei casi, portare in tribunale i responsabili e indennizzare le vittime.

La propaganda della giunta militare, sui media controllati, descrive questi eventi, come attacchi con i droni a forze jihadiste, senza alcuna menzione alle vittime civili.

Una guerra che continua

Il governo putschista di Ibrahim Traoré è al potere dal 30 settembre 2022, in seguito a un golpe ai danni della precedente giunta militare, al potere dal 24 gennaio dello stesso anno.

La guerra in corso in Burkina Faso tra esercito e gruppi armati è iniziata nel 2016 dopo i primi attacchi dei miliziani jihadisti. Nell’ultimo periodo Hrw ha documentato gravi abusi perpetrati dalle forze di sicurezza e dalle milizie pro governative. Si tratta di esecuzioni sommarie, tortura e sparizioni forzate. I gruppi islamisti sono pure responsabili di distruzioni, saccheggi, esecuzioni e rapimenti. Secondo l’Africa Center for strategic studies, la violenza e l’instabilità sono aumentate dopo i due colpi di stato del 2022.

All’inizio, la narrazione antifrancese e anticolonialista in generale, aveva fatto accogliere favorevolmente il golpe da larghe fasce di popolazione, soprattutto giovane.

Sparizioni politiche

Oggi, rapimenti di uomini politici, alti graduati dell’esercito o di chiunque abbia espresso dissenso nei confronti della giunta guidata da Ibrahim Traoré, sono all’ordine del giorno.

L’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto la sera del 24 gennaio, quando l’avvocato Guy Hervé Kam (già portavoce del gruppo Le balais citoyen e attuale coordinatore del movimento politico Sens), è stato fermato e fatto sparire da uomini senza identificazioni, al suo arrivo all’aeroporto di Ouagadougou. L’avvocato Kam aveva criticato, in una intervista al quotidiano burkinabè Le Pays, la mancanza di legalità nel paese.

Il presidente dell’Ordine degli avvocati, dopo una rapida indagine, ha scoperto che Kam è detenuto nei locali della polizia della capitale. Ha quindi protestato tramite un comunicato ufficiale, mentre una petizione per la liberazione dell’attivista è stata lanciata.

Un cittadino burkinabè ci ha dato la sua visione sulla situazione attuale: «Tutti vivono nella paura. Ma potrebbe finire male, ovvero del sangue potrebbe scorrere. La popolazione inizia a essere esausta e vuole liberarsi. Non si può più dire nulla. Ad esempio sul costo della vita: tutto aumenta senza ragione ma il primo ministro proibisce che lo si dica. Stiamo anche contribuendo allo sforzo di guerra: a tutti è prelevato l’1% del salario, a partire dal primo gennaio».

Oltre a questo, il 28 gennaio, i governi di Burkina Faso, Mali e Niger hanno dichiarato di uscire dall’organizzazione economica regionale, la Cedeao, il che comporterà problematiche di tipo doganale, di transito di merci e persone. Per questo, per tre paesi, senza sbocco sul mare, che si devono appoggiare ai paesi costieri per qualsiasi tipo di commercio, la decisione potrebbe avere un effetto boomerang.

Marco Bello




Svizzera. A Davos, guerre ed economia

Davos è una località turistica situata nelle Alpi svizzere. È conosciuta per le montagne innevate e le piste da sci, ma la sua notorietà è nata perché, dal 1971, ospita il Forum economico mondiale (World economic forum) durante il quale politici, uomini d’affari, esperti e rappresentanti della società civile s’incontrano per confrontarsi sulle tematiche di un mondo sempre più complesso. A questa 54esima edizione (dal 15 al 19 gennaio) si sono presentati sessanta capi di stato e trecento ministri per trattare di geopolitica, crescita economica, politiche sanitarie, questione climatica, scienza, tecnologia, intelligenza artificiale.

In tempi di «terza guerra mondiale a pezzi», come ripete di continuo papa Francesco, anche un incontro internazionale come quello di Davos è il benvenuto, nonostante la scarsità di risultati concreti, confermata anche nell’edizione di quest’anno.

Nel proprio messaggio ai partecipanti, Francesco ha parlato di «un mondo sempre più lacerato, dove milioni di persone – uomini, donne, padri, madri, bambini -, i cui volti in gran parte non conosciamo, continuano a soffrire, non ultimo per gli effetti di conflitti prolungati e guerre presenti. […] In un contesto in cui sembra non essere osservato più il discernimento tra obiettivi militari e civili». Il riferimento alle guerre in Ucraina e Palestina è parso evidente.

Aerei militari. Da tempo, papa Francesco parla di «terza guerra mondiale a pezzi». Foto UxGun – Unsplash.

Il pontefice si è poi soffermato sulla ricerca della pace che non può esserci se non si affrontano «le ingiustizie che sono le cause alla radice del conflitto». E ha ricordato lo scandalo delle «persone che muoiono di fame, sfruttate, condannate all’analfabetismo, prive di assistenza sanitaria di base e lasciate senza un riparo».

Entrando più nell’ambito economico, Francesco ha chiesto alle imprese che «siano sempre più guidate non semplicemente dalla ricerca di un giusto profitto, ma anche da standard etici elevati». Rispetto alle entità pubbliche il papa ha invece chiesto che «le strutture intergovernative possano svolgere con efficacia le loro funzioni di controllo e guida nel settore economico, poiché il conseguimento del bene comune è un obiettivo al di là della portata dei singoli Stati».

Il papa ha concluso il proprio messaggio ricordando un passaggio della sua Laudate Deum: «Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno».

Molti dei temi di Davos 2024 torneranno a essere discussi nel Summit del Gruppo dei sette (G7) che si terrà il prossimo giugno in Puglia. Dal primo gennaio, l’Italia è il presidente di turno.

Paolo Moiola




Ecuador. I narcos all’attacco di Quito

Diana Salazar Méndez, afrodiscendente di 43 anni, è la procuratrice generale (fiscal general, in spagnolo) dell’Ecuador, posizione delicatissima in un paese attraversato da una guerra interna scatenata dagli eserciti dei narcos. L’ultimo assassinato in ordine di tempo è stato César Suárez, magistrato specializzato in corruzione e crimine organizzato, ucciso in un agguato a Guayaquil lo scorso 17 gennaio. Suárez era anche il responsabile del processo contro le 13 persone che, il 9 gennaio, avevano assaltato gli studi dell’emittente TC Televisión.

Subito dopo quell’evento, Daniel Noboa, il giovane presidente del paese andino eletto da pochi mesi, aveva dichiarato lo stato d’emergenza interno. Il presidente accusa gruppi di narcoterroristi collegati a cartelli della droga stranieri. Secondo Noboa, gli affiliati sarebbero almeno 30mila e molti di essi continuerebbero a operare anche dall’interno delle carceri ecuadoriane, finite nelle mani dei criminali.

Fino a pochi anni fa l’Ecuador era un paese tranquillo, senza la violenza che caratterizza praticamente tutti i paesi latinoamericani. La situazione è cambiata da quando esso è diventato una specie di corridoio della droga (cocaina, in primis) prodotta nei paesi confinanti, Colombia e Perù.

Nel paese agiscono una quindicina di gruppi criminali. I principali sono due: «los Choneros» con una disponibilità di 12mila-20mila uomini e «los Lobos», con circa 8mila. Reclutare personale non è difficile considerando la presenza di grandi sacche di povertà e la debolezza di uno stato corrotto e senza risorse.

I soggetti e la rete del commercio internazionale della droga sono cambiati radicalmente dopo la smobilitazione delle Farc colombiane, avvenuta a partire dal 2016. I gruppi ecuadoriani sarebbero legati ai cartelli messicani (Sinaloa, in primis) e a quelli balcanici (albanesi, in particolare). Tuttavia, scrive Primicias, un rispettato sito giornalistico ecuadoriano, «le prove esistenti sull’infiltrazione della criminalità organizzata nella Polizia nazionale, nelle Forze armate, nella magistratura o nella Procura ci portano inevitabilmente a dire che è difficile credere che i criminali siano arrivati lì senza il sostegno e l’intermediazione di coloro che hanno influenza politica nel paese». Di questi legami tra gang criminali e istituzioni pubbliche aveva parlato anche Fernando Villavicencio, il candidato presidenziale assassinato nell’agosto 2023.

Per Daniel Noboa, il più giovane presidente dell’America Latina, la gioia per la vittoria elettorale è durata poco. Oggi il paese attraversa una crisi molto complicata.

Oggi molti si chiedono se, per fronteggiare la gravissima situazione, il presidente Noboa finirà con l’adottare misure estreme (la cosiddetta «mano dura») come quelle adottate da Nayib Armando Bukele, il presidente di El Salvador. Infine, la situazione in Ecuador solleva l’eterno dubbio sull’efficacia del proibizionismo nella guerra alle droghe, la cui produzione – stando all’ultimo rapporto Unodc (United nations office on drugs and crime) – è in continua crescita.

Paolo Moiola




Rdc. Allagamenti in tutto il Paese

A inizio anno la piena del fiume Congo ha toccato 14 province sulle 26 totali. Il livello del fiume ha superato i 6 metri, quando 6,26 è il record assoluto. Il fiume è straripato in seguito alle piogge torrenziali del 4 gennaio scorso. Diverse strade e abitazioni di Kinshasa sono state colpite.

Le inondazioni sono state significative, soprattutto nei comuni che si affacciano sul fiume. Si tratta, in particolare, di Ngaliema, Bumbu, Limete e Maluku. Nel comune di Ngaliema, le acque hanno sommerso tutto, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita già difficili della popolazione.

Nei comuni di Limete e Bumbu, dove le strade sono diventate impraticabili, le attività commerciali stanno affrontando molte sfide. Gli ambulanti sono i più colpiti da questa calamità. Inoltre, la maggior parte dei negozi non è più accessibile.

Vie e strade allagate, le persone usano le barche tradizionali o vanno a piedi per accedere alle loro attività quotidiane o ai loro affari, con il rischio di contrarre diverse malattie dalle acque inquinate.

Un magazzino divelto ha liberato il suo contenuto (bottiglie di bibite) nelle acque. Foto Archivio MC.

La popolazione cerca di costruire muri protettivi che possano aiutarla a prevenire il danneggiamento delle case: è l’unico modo per mettere in salvo le proprietà. Ma la situazione rimane insostenibile. La gente attende disperatamente che le autorità municipali intervengano in loro aiuto.

Kinshasa non è l’unica città colpita da queste piogge torrenziali. Anche molte altre province sono state coinvolte. Tra queste, la provincia del Kivu nella parte orientale del Congo, Boma, nella zona occidentale e Kananga nel centro. Tutte hanno dovuto affrontare gravi inondazioni e frane.

Trecento persone hanno perso la vita, circa 43mila case sono crollate. Inoltre, 1.325 scuole, 269 dispensari e 85 strade sono stati distrutti, e persiste un alto rischio di epidemie causate dalle acque.

Con la stagione delle piogge in corso, le popolazioni congolesi potrebbero affrontare ulteriori problemi di questo tipo, a meno che non vengano prese precauzioni urgenti. Kinshasa, come altre province, ha bisogno di un’adeguata pianificazione urbana per evitare disastri analoghi nel futuro.

Nel frattempo, le popolazioni colpite hanno bisogno di aiuto immediato.

Jean Kamuanga

In moto “sulle” acque, nei pressi di Kinshasa. Foto Archivio MC.