Europa armata. Negoziati invisibili

 

Il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto ucraino sarà sempre maggiore. Ne sono convinti alcuni autorevoli leader europei come il presidente francese Emmanuel Macron – che di recente ha proposto di prepararci a un intervento diretto di Paesi Ue e Nato per difendere l’Ucraina – e la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen – che invita a entrare in una vera economia di guerra, dove la produzione militare diventi prioritaria -.

Alle loro dichiarazioni, si aggiungono quelle di vari esponenti della Nato sull’inevitabilità di una guerra tra l’alleanza atlantica e la Russia nei prossimi anni.

Perché queste prese di posizione?

È possibile che esse siano dei messaggi diretti a qualcuno? A chi?

Un messaggio a Putin

La prima ipotesi è che i messaggi siano degli avvertimenti a Vladimir Putin e alla Russia: nel momento in cui la situazione militare sul campo sembra volgere a suo favore, il Cremlino potrebbe essere tentato di provare di nuovo a realizzare quell’invasione completa dell’Ucraina che gli è fallita due anni fa.

Il messaggio allora è il seguente: se le forze russe sfondassero e arrivassero a Kiev, l’Occidente non lo potrebbe tollerare. Ci sarebbe un suo intervento diretto con conseguente terza guerra mondiale: un’eventualità che né la Russia, né gli Stati Uniti, né, tanto più, i vari Stati europei vorrebbero. Ma l’avvertimento a Putin è quello di non spingersi troppo oltre, non superare una fantomatica linea rossa che però non si capisce dove si trovi, e dunque rende la situazione particolarmente pericolosa.

Un messaggio all’Europa

La seconda ipotesi è che l’avvertimento sia rivolto agli stessi governi e classe dirigente europei. Questi, al di là dei loro proclami roboanti, vogliono fare la guerra per procura e rimanere fuori da un coinvolgimento diretto. Come, infatti, ha incautamente rivelato la nostra presidente del consiglio, c’è molta stanchezza, ci si vuole impegnare di meno, anche perché il sentimento popolare è tutt’altro che favorevole alla guerra.

Allora il messaggio potrebbe essere proprio questo: attenzione che, se la Russia, approfittando di questa situazione, dovesse sfondare e invadere tutta l’Ucraina, ciò non sarà tollerabile, pena la perdita della faccia, e allora sì che bisognerà intervenire direttamente con tanto di mobilitazione, cadaveri che tornano a casa e i rischi di terza guerra mondiale di cui già abbiamo scritto sopra.

Meglio continuare a sostenere l’Ucraina indirettamente che trovarsi in guerra aperta. Non bisogna fare troppo gli schizzinosi, bisogna invece mettere mano al portafogli e continuare a fornire all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno adesso. Per far questo, poiché le scorte sono finite, occorre ristrutturare l’apparato industriale in economia di guerra.

Un messaggio all’opinione pubblica

La terza ipotesi è che i messaggi siano rivolti all’opinione pubblica occidentale, allo scopo di rompere un tabù: poiché presto potremmo dover intervenire, è bene cominciare a parlarne. Tanto più che gli Stati Uniti sembrano meno propensi di un tempo a sostenere il carico della difesa e della sicurezza europea, soprattutto se dovesse diventare presidente Donald Trump.

Come sempre la prima reazione è quasi di scandalo, poi, però, l’argomento diventa oggetto di discussione, di dibattito, e infine diventa un’opzione possibile.

Il coraggio della trattativa

Probabilmente tutte e tre le ipotesi illustrate contengono una parte della verità.

Si sta andando verso la terza guerra mondiale senza che nessuno la voglia veramente, semplicemente perché nessuno dei protagonisti vuole essere il primo a cedere. Esattamente come successe nel 1914, quando all’inizio della Prima Guerra mondiale, l’inutile strage, si pensava a una guerra di pochi mesi.

Occorrerebbe un sussulto di saggezza, soprattutto da parte dei governi europei: avere il coraggio di proporre una trattativa, esattamente come suggerisce papa Francesco, il quale non ha consigliato la resa, al contrario ha affermato che il negoziato non significa arrendersi.

E un negoziato può funzionare se si convince l’altra parte che una trattativa capace di fermare la guerra conviene di più che continuare i combattimenti.

Questo è ancora possibile, anche se oggi la situazione è ben peggiore di quella del marzo 2022, quando la Russia aveva sostanzialmente fallito i suoi piani e l’Occidente era in una posizione di maggiore forza. Sarà ancora più difficile, per non dire impossibile, se Putin riterrà di poter chiudere vittoriosamente la partita.

Putin non è desideroso di trattare: è un criminale e un violento che crede solo nella forza, ed è anche un irresponsabile, altrimenti non avrebbe neanche iniziato una guerra che pensava di chiudere in poche settimane. Trattare con lui, quindi, è possibile solo se si convince che la continuazione della guerra sarebbe per il suo regime più pericolosa e costosa della cessazione.

Invece di preparare guerre che poi non si potranno combattere, sarebbe meglio puntare su una trattativa finché è possibile che essa disinneschi la macchina infernale che rischia di travolgerci tutti.

È probabile che se si riuscisse a fermare la guerra con un compromesso provvisorio, anche in Russia, all’interno del regime, si inizierebbero a contare i morti, le perdite, le distruzioni. Allora nel potere di Putin potrebbe crearsi qualche crepa, cosa che a oggi, perdurando i combattimenti, non sembra realistica.

Paolo Candelari

Questo articolo è frutto di una collaborazione tra il Centro studi Sereno Regis e Missioni Consolata.




Europa e migranti. Le quattro forme di violenza

 

«Non pensavamo di dover continuare a fuggire anche una volta giunti in Europa», dice un migrante agli operatori di Medici senza frontiere (Msf) a Ventimiglia, al confine con la Francia.

Sono parole contenute nell’ultimo rapporto di Msf, Morte e disperazione. Il costo umano delle politiche migratorie dell’UE, uscito a febbraio 2024 per denunciare quanto le politiche europee su migrazione e asilo generino diverse forme di violenza sulle persone.

Una conclusione a cui Msf è giunta grazie a testimonianze raccolte tra i beneficiari di dodici dei suoi progetti in Paesi europei (come Italia, Grecia e Polonia) ed extraeuropei (come Libia, Niger e Serbia).

Dal momento della partenza dai Paesi di origine a quello dell’ingresso nell’Ue, e anche dopo, salute, benessere psicofisico e dignità dei migranti sono messi a repentaglio.

In particolare, l’organizzazione umanitaria individua quattro fasi del percorso migratorio nelle quali la violenza diventa esplicita: la prima è l’intrappolamento nei paesi con i quali l’Ue ha preso accordi di contenimento; la seconda è l’assenza di assistenza e la violenza sui confini; la terza è la detenzione in condizioni spesso degradanti all’interno dei confini dell’Ue; la quarta è l’insicurezza sistematica, l’esclusione e l’indigenza sperimentate nei Paesi di approdo.

Intrappolati nei Paesi extra Ue

Accordi di cooperazione tra Ue e Paesi extra Ue (ad esempio, Libia, Tunisia e Serbia), da cui spesso i migranti transitano per compiere l’ultimo tratto di viaggio, permettono a Bruxelles di esternalizzare le proprie frontiere, intrappolando le persone in Stati non sicuri, dove le condizioni di vita sono difficili e le violenze quotidiane.

La Libia è l’esempio per eccellenza di questa prima forma di violenza fisica e psicologica sui migranti. Tra il 2016 e il 2022, la quantità di persone che dopo aver tentato di lasciare il Paese nordafricano vi sono state riportate a forza è cresciuta fino alla metà del totale delle partenze. Nei primi otto mesi del 2023, più di 11mila persone sono state intercettate e respinte in Libia. Dietro a questo incremento si nascondono i cospicui finanziamenti di Ue e governo italiano per rafforzare la capacità libica di controllare i propri confini.

Muri, barriere, assenza di soccorsi

Nonostante questo, i flussi verso l’Europa continuano. Ed è a questo punto che i migranti si scontrano con una seconda tipologia di violenza. Muri e barriere, dotati delle più moderne tecnologie di sorveglianza, costellano i confini esterni dell’Ue e testimoniano la brutalità dell’approccio securitario europeo alle migrazioni.

Ad esempio, lungo il confine tra Polonia e Bielorussia corre una barriera di filo spinato alta 5,5 metri. Questa crea quella che viene chiamata la «zona della morte»: una terra di nessuno tra i due Paesi alla quale le organizzazioni umanitarie non possono accedere e dove i migranti – esposti alle intemperie e oggetto di violenze e umiliazioni da parte della polizia polacca di frontiera – si trovano bloccati.

Ma non sono solo muri e barriere a tenere fuori i migranti dell’Ue. Anche la decisione, sempre più frequente, dei Centri maltese e italiano per il coordinamento dei salvataggi in mare di ignorare la presenza di barche in difficoltà nelle proprie aree di competenza costituisce una forma di violenza psicofisica sui migranti. Questo mentre le organizzazioni umanitarie che cercano di supplire alla mancanza di operazioni di salvataggio sono criminalizzate e le loro attività osteggiate.

Detenzioni

Giunti nell’Ue, i migranti si scontrano con una terza forma di violenza, la detenzione. Molti si trovano a vivere in strutture di accoglienza che di accogliente hanno ben poco.

Sono gli hotspot, introdotti in Italia e Grecia per velocizzare le operazioni di identificazione dei migranti ed eventuali processi di rimpatrio. Luoghi dove le persone sperimentano privazioni e restrizione di diritti e libertà. Questo genera in loro un senso di coercizione che aumenta le sofferenze fisiche e psicologiche già accumulate durante il viaggio.

Marginalizzazione

Infine, a testimonianza di quanto la violenza sia connaturata alle politiche migratorie europee, in diversi Paesi si verificano forme di rifiuto ed esclusione che impediscono ad adulti e bambini di accedere al sistema di accoglienza. In questo modo, i migranti sono forzati a vivere nella precarietà e non beneficiano, ad esempio, di un’abitazione o di assistenza sanitaria di base.

In più alcuni Paesi destinatari di movimenti secondari, come la Francia, ostacolano i flussi: per i migranti, superare il confine italo-francese a Ventimiglia è diventato molto difficile a causa del ripristino dei controlli alla frontiera.

Violenza connaturata alle politiche Ue

Quelle descritte dal rapporto di Medici senza frontiere sono quattro forme di violenza che generano un costo umano enorme. L’organizzazione umanitaria, infatti, riscontra tra i migranti, oltre a problemi fisici come malnutrizione, disidratazione, malattie della pelle e dell’apparato gastrointestinale, anche un’allarmante crescita di disturbi psicologici: disturbi del sonno, ansia, stato di allerta costante e flashback ricorrenti di momenti traumatici.

Nonostante l’evidenza dei dati, le politiche e le pratiche dell’Ue sulle migrazioni sono state confermate e normalizzate nell’ultima versione del Patto europeo su migrazioni e asilo del dicembre 2023. Lo scopo rimane quello di contenere i flussi, senza considerare però l’impatto su coloro che quei flussi li compongono: persone.

Aurora Guainazzi




In Ucraina: fino a Zaporiza e Nikopol


Padre Luca Bovio, Missionario della Consolata in Polonia, ci racconta il suo ultimo viaggio compiuto in Ucraina dal 2 al 7 marzo 2024, a Zaporiza e Nikopol.

Grazie alle offerte raccolte, nei giorni precedenti al viaggio abbiamo acquistato e spedito dalla Polonia ai frati francescani Albertini a Zaporiza 5 bancali di carne in scatola (18.000 confezioni). Oltre a questo, lì è giunto due giorni prima del nostro arrivo anche l’ultimo carico di aiuti raccolti dalla parrocchia di Villa di Serio (Bergamo) e da tanti altri, portato da Ruggero e gli amici di Cantù (Como) a Sandomierz in Polonia, e da lì con un altro trasporto inviati a Zaporiza.

Per arrivare a Zaporiza da Varsavia occorrono due giorni di viaggio.

Anche in Polonia come nel resto d’Europa ci sono proteste dei contadini. I camion per entrare in Ucraina alle frontiere hanno tempi di attesa medi di circa dieci giorni.

La nostra auto, trasportando aiuti umanitari, riceve il permesso di passare e così agevolmente varchiamo la frontiera.

Zaporiza è una grande città nella zona centro orientale del Paese, costruita sul grande fiume Dniepr che divide in due la città. Qui c’è la concattedrale cattolica dedicata a Dio Padre Misericordioso e non lontano la comunità dei frati Albertini. Nei pressi della concattedrale, quattro volte alla settimana viene fatta la distribuzione del pane e di una scatoletta di carne. Sono circa 1.500 le persone che in fila ricevono l’aiuto.

Prima gli invalidi, poi le donne e infine gli uomini.

Il forno dei frati, che visitiamo il giorno successivo, ha la capacità di produrre 900 pani, per questo motivo, per dare qualcosa a ognuno, a un certo punto occorre dividere a metà o anche in tre parti il pane. Durante la distribuzione a cui partecipiamo ci raccontano che nei negozi i beni si trovano. Quello che manca sono i soldi per comprare. La pensione media di circa 50 euro al mese è troppo bassa per pagare tutte le spese di casa così come quelle personali.

La città, prima della guerra, contava quasi un milione di abitanti. Oggi è difficile fare stime. Molti sono partiti. Altri sono arrivati dai villaggi vicini. Il fronte dista da qui solo 30 chilometri.

Nel pomeriggio visitiamo la seconda e unica presenza romano cattolica in città. In una piccola parrocchia circondata da alti palazzi vive un padre di origine polacca dei missionari di Nostra Signora di La Salette. Ci racconta delle sue attività di assistenza a favore degli ammalati che sono nelle case. Con alcuni volontari portano medicine e cibo. I volontari hanno anche il compito di verificare l’effettiva presenza dell’ammalato.

IL missionario ci racconta anche di un suo giovane confratello, p. Giovanni, che vive a Nikopol a circa 100 chilometri a sud in una situazione peggiore della sua. Nikopol è una città che si affaccia sul fiume. Sulla riva opposta c’è Ernegodar, la città con la più grande centrale atomica d’Europa. La riva opposta è territorio occupato. Per questo motivo Nikopol e tutta quella regione è spesso sotto attacco avendo come unico argine il fiume.

Decidiamo di fare una breve visita. Avendo ottenuto i permessi umanitari necessari, arriviamo brevemente a Nikopol per incontrare don Giovanni che ci accoglie calorosamente, quasi incredulo che qualcuno venga a trovarlo.

Da questo capiamo come siano importanti queste visite che, seppur brevi, incoraggiano. Ci raggiunge anche un militare responsabile della zona col quale, bevendo un caffè, parliamo della situazione al fronte. Il momento non è facile. C’è pessimismo. Occorre un ricambio del personale. Il governo sta lavorando a una legge che definisca meglio i criteri di arruolamento. Gli aiuti esterni sono da sempre stati fondamentali per difendersi contro un nemico che per numero e possibilità è impari. Questi aiuti su larga scala per vari motivi sono in forte diminuzione. Ad esempio, gli aiuti umanitari, ci comunica la Caritas locale, sono diminuiti del 60%. Si parla sul luogo anche di persone che simpatizzano per gli occupanti o che nel migliore dei casi desiderano l’occupazione come raggiungimento di una vita più tranquilla.

Il tempo trascorre veloce. Velocemente ritorniamo a Zaporiza e da lì il giorno successivo per Kiev e Varsavia.

Padre Luca Bovio




Cambogia. Di padre in figlio

Da Hun Sen a Hun Manet, di padre in figlio. Nulla di strano se fosse la successione a capo di un’azienda familiare, ma in questo caso la successione riguarda la guida di un paese, la Cambogia, nazione asiatica con 16,5 milioni di abitanti.

Hun Sen (71 anni) è stato primo ministro di Phnom Penh per la bellezza di 38 anni, avendo ricoperto la carica dal 1985 (con un periodo di cinque anni – dal 1993 al 1998 – in condivisione con Norodom Ranariddh, figlio del re Norodom Sihanouk). A luglio 2023 Hun Sen si è (finalmente) dimesso ma è stato sostituito dal figlio maggiore, Hun Manet (41 anni, studi negli Stati Uniti), dopo elezioni fraudolente.

Nel suo ultimo report, Human rights watch inizia così il capitolo dedicato al paese: «La Cambogia – si legge – è effettivamente uno stato a partito unico con elezioni fisse e controllate, mancanza di media indipendenti, interferenza del partito al governo e controllo di tutte le istituzioni statali, controllo politico della magistratura, sistematica persecuzione dei critici sia nell’opposizione politica che nella società civile». La situazione è ulteriormente peggiorata nel periodo precedente alle elezioni nazionali del luglio 2023.

Dopo gli anni drammatici della guerra civile e dei Khmer rossi, il paese ha cercato un po’ di normalità. Nel 2023 la crescita economica ha superato il 5 per cento annuo, una delle più alte della regione. Tuttavia, le condizioni della maggioranza della popolazione – soprattutto di quella rurale – rimangono improntate alla precarietà. Ad esempio, si calcola che il 70 per cento dei cambogiani non abbia accesso all’acqua potabile e il 63 per cento a servizi igienici sicuri. Inoltre, il paese – attraversato dal grande fiume Mekong – è fortemente soggetto ai cambiamenti climatici con l’agricoltura, comparto produttivo di primaria importanza, che ne patisce le conseguenze.

L’attuale sovrano della Cambogia, re Norodom Sihamoni. I suoi poteri sono limitati. (Foto Khmer Times)

Tutti gli altri settori dell’economia nazionale sono saldamente nelle mani della vasta famiglia Hun, che possiede circa 120 società, dall’energia alle comunicazioni, dalle miniere al commercio. Peraltro, il capostipite Hun Sen non è andato in pensione. Lo scorso 25 febbraio si sono tenute le elezioni per il senato (la camera alta del parlamento) del Paese. Il Partito del popolo cambogiano (Kpk), partito di cui Hun Sen è presidente, ha ottenuto 55 seggi sui 58 disponibili (mentre altri quattro sono appannaggio della camera bassa e di sua maestà, re Norodom Sihamoni). La vittoria permetterà a Hun Sen di diventare presidente del senato (e, quindi, di rappresentare il paese quando il sovrano si trova all’estero). Insomma, la Cambogia più che una democrazia continua a essere un paese a gestione familiare.

Paolo Moiola




Ritorna il feudalesimo?


Viviamo in un tempo strano e unico. Unico, perché è il solo tempo che abbiamo: nessuno di noi può scegliere quando e dove nascere. Strano, perché, nonostante il nostro orgoglio per le conquiste scientifiche, le nuove possibilità della comunicazione, i risultati in medicina, i sistemi democratici, la crescita di responsabilità nei confronti dell’ambiente, stiamo vivendo innumerevoli contraddizioni.

Tra queste c’è la crisi di identità di genere e, di conseguenza, delle relazioni tra uomini e donne, della famiglia, della natalità e della difesa della vita con aborto e morte assistita che diventano diritti. C’è la democrazia che scricchiola, insidiata da autoritarismi e dittature, ma anche da politici al servizio dei grandi poteri economici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le decisioni sono ancora dettate da chi gestisce petrolio, carbone e grandi industrie. Inoltre, nell’agricoltura si espandono i latifondi a monocoltura e l’allevamento intensivo delle multinazionali che riducono la biodiversità di vegetali e animali, le produzioni a km zero, e tolgono spazio ai piccoli agricoltori.

Altro ambito di grandi potenzialità, ma anche di enormi problematiche, è quello della comunicazione e dell’intelligenza artificiale. L’internet e lo sviluppo del digitale hanno decisamente modificato il nostro modo di comunicare, di essere informati, di studiare e lavorare. E ne sono contento. I miei confratelli dicono che sarei stato uno dei primi missionari della Consolata a usare il cellulare, e ho cominciato a smanettare sui computer dai primi anni Ottanta. Ho vissuto con gioia e aspettativa l’evoluzione di questo mondo, con il sogno che aiutasse a far sparire le guerre, a far crescere la fraternità, favorendo la conoscenza e stima reciproca, e cancellare le disuguaglianze.

Oggi, però, i media digitali rischiano di essere strumenti di manipolazione, disinformazione sistematica e controllo, rafforzando il potere dei regimi autoritari e dei monopoli economici, e facendo crescere la disparità tra la ricchezza di pochi e la miseria di molti.

Guardando alla millenaria storia dell’umanità, ci sentiamo orgogliosi di vivere in un tempo dove non abbiamo più né imperatori né feudatari e dove «uno vale uno». Non siamo più nel Medioevo, ci diciamo. Abbiamo acquistato l’autonomia della politica dalla religione, abbiamo fatto passi da gigante in tutti i campi del sapere… eppure è bastata una crisi come quella del Covid-19 per buttare all’aria tutte le nostre sicurezze e accentuare tutte le nostre fragilità, che rivelano un mondo decisamente malato. Un mondo nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese della maggioranza, non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli del Nord del mondo, mentre le istituzioni sovranazionali, Onu inclusa, diventano via via irrilevanti. Sembra iniziata l’epoca di un nuovo feudalesimo.

Che fare per reagire a una simile situazione?

Non ho soluzioni in tasca. Ma certamente una delle prime cose da fare è quella di sviluppare un pensiero critico e libero che si fondi sulle domande e sulle ragioni centrali del nostro vivere. Un pensiero che passi dall’io al noi, dalla sete di potere e ricchezza alla coscienza che solo diventando servitori del bene comune possiamo costruire bellezza, bene essere e pace.

Questo, per noi che crediamo in Gesù Cristo, può venire solo dal confronto profondo con la Parola di Dio, nella quale troviamo le chiavi e i criteri per la vera libertà interiore, per rinnovare i nostri rapporti interpersonali e sociali, per un approccio bello e responsabile al creato. Lì c’è l’humus per supportare un vero cambio di mentalità («conversione») che non sia solo un’operazione di cosmesi fatta solo di parole, ma diventi un reale impegno che si realizza in piccoli gesti quotidiani e anche in un rinnovato schierarsi nel volontariato e nella politica (come cura della polis, la città, per il bene comune, come scriveva Aristotele).

Nella Parola troviamo anche le motivazioni per non mollare, per non cedere allo scoraggiamento e non rassegnarci alla violenza del mondo nel quale viviamo, e giocare la nostra vita al servizio degli altri, come ha fatto Gesù e, sul suo esempio, tantissimi testimoni che ricorderemo in modo particolare il prossimo 24 marzo, giornata dei missionari martiri.

Gigi Anataloni




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

 


Dall’umiliazione alla dignità

Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.

È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.

Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.

La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.

Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.

«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.

Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.

Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.

Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.

Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.

Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.

Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.

Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).

Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.

Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.

José Auletta
missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024

PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria

La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.

Non è possibile. Non K’Okal.

Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.

«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez.  I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.

Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.

Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.

«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.

Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».

Marco Bello
Torino, 19/01/2024

Una risata indimenticabile

Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).

Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.

Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.

Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.

Paolo Moiola
Torino, 19/01/2024


ICE, Iniziative dei Cittadini Europei

Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.

Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.

A questo proposito mi riferisco  al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?

La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).

L’altra è «Dignity in Europe, per garantire un’accoglienza dignitosa dei migranti in Europa».

L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.

Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.

Penso che anche questi strumenti  possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.

Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.

Giovanna Golzio
02/01/2024

 

Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.

Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).


Dossier sul Canada

Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.

Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.

Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada

Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.

Ghislaine Crête,  03/01/2024, Montreal, Canada




Da Jenin. «Mi basta morire nella mia terra»


Uomini armati, volti coperti dal passamontagna, droni, cecchini, funerali, cimiteri, morti e feriti. Questa è la Cisgiordania (West Bank). Reportage da Jenin, la piccola Gaza.

Jenin. Un nutrito gruppo di persone si affolla davanti all’uscita dell’ospedale Khalil Suleiman. Ci sono molti ragazzi armati e con il volto coperto da un passamontagna. Alcuni di loro srotolano delle bandiere del partito di Al-Fatah.

Questa notte è morto, in seguito alle ferite riportate dopo l’esplosione di un razzo, Jamal Mashaqa, combattente della resistenza di Jenin. Oggi si celebra il suo funerale. Il corpo viene portato fuori dall’ospedale su una barella, trasportata dai suoi amici. Jamal è avvolto nella bandiera delle «Brigate dei martiri di Al-Aqsa», movimento di cui faceva parte. Attorno alla testa una kefiah. Sul corpo sono posate le armi che usava durante i combattimenti. Il corteo funebre si muove a passo veloce, quasi di corsa. Fa il giro della città. I combattenti sparano in aria, cantano, intonano inni a Dio, ad Hamas, e urlano il nome di Jamal aggiungendo: «La tua morte ci ha spezzato il cuore. Seguiremo l’esempio del tuo martirio».

Sono stati così tanti i morti a Jenin nel 2023, anche prima del 7 ottobre, che è stato necessario creare un nuovo cimitero. È qui che termina la marcia. Jamal viene posato per terra davanti all’imam, ai suoi parenti e agli amici. Si recitano le ultime preghiere, il corpo viene adagiato nella fossa appena scavata.

A pochi passi dalle tombe, un grande murales raffigura la giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa durante un attacco israeliano, proprio qui, nel 2022.

Jenin, Cisgiordania: durante il corteo funebre i membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si fermano a inneggiare al compagno deceduto sparando in aria. Foto Angelo Calianno.

Martiri e soldati

Dal cimitero, insieme ad altri uomini, mi sposto in un centro sportivo per ragazzi. È qui che, dal 7 ottobre, si tengono tutte le veglie funebri. Ci sono solo uomini, fumano, bevono tè, discutono. Le foto di Jamal, in mimetica, che imbraccia un fucile, sono ovunque.

Qui incontro suo fratello, IIyad Azmi: «Jamal – mi racconta – era un ragazzo sorridente, sempre pronto a scherzare, lo conoscevano tutti per il suo senso dell’umorismo. Noi a Jenin abbiamo sempre rispettato ogni cultura e religione, lo vedi anche tu da quanti cristiani ci sono e che vivono fianco a fianco con noi. Israele pensa di scoraggiarci raid dopo raid. Pensa che distruggere le nostre case, uccidere i nostri giovani, ci spezzerà. Non ha capito che noi non ci arrenderemo mai, non ci piegherà: noi non alzeremo mai bandiera bianca».

Mentre intervisto altri ragazzi, mi si avvicina un uomo: è scortato da due giovani armati. Si presenta usando uno pseudonimo: Abu Arab (tradotto «padre degli arabi», soprannome del poeta della rivoluzione palestinese Ibrahim Mohammed Saleh). Mi chiede chi io sia e cosa stia facendo qui.

Abu Arab è uno dei portavoce del campo di Jenin. Anche lui è stato un combattente, durante la seconda intifada, e ha passato diversi anni in carcere. Quando gli chiedo se i palestinesi, pur avendo pochi mezzi a disposizione, siano davvero in grado di fronteggiare Israele, mi risponde: «Oggi si combatte in maniera diversa rispetto a quando lo facevo io. I nostri ragazzi sanno usare la tecnologia, questo è sicuramente un vantaggio. I nostri combattenti, più che all’unisono, agiscono come “lupi solitari”. Questo li rende più efficaci. La cosa più importante però è che, a differenza degli israeliani, qui sono tutti pronti a combattere per la libertà dei palestinesi, anche se questo vorrà dire aspettare due, tre generazioni. I soldati israeliani, spesso, sono giovani di leva che vengono mandati a combattere, ma vorrebbero essere ovunque tranne che qui, magari su una bella spiaggia di Tel Aviv. I ragazzi della resistenza palestinese invece, sanno che, molto probabilmente, moriranno durante gli scontri. Sono disposti a dare la propria vita come martiri. È questo spirito di sacrificio che manca a Israele, è per questo che non riescono a piegarci o mandarci via».

La moschea di Mahmoud Tawalba nel campo profughi di Jenin. Foto Angelo Calianno.

La piccola Gaza

Il campo profughi di Jenin è nato nella periferia dell’omonima città, costruito per ospitare i palestinesi in fuga durante la Nakba del 1948. Molte famiglie sono arrivate qui da Haifa, provincia dalla quale, nel 1953, cinquemilamila soldati israeliani avevano deportato ottantamila palestinesi.

Anche se quello di Jenin viene chiamato «campo» profughi, non è una tendopoli.

Anche se poverissimo e con infrastrutture pericolanti, è una vera e propria cittadina di ventimila abitanti, fatta di case in muratura, moschee e negozietti. Jenin è anche conosciuta, in questi mesi, come «la piccola Gaza». È qui, infatti, che si concentrano la maggior parte degli attacchi di Israele in Cisgiordania.

I continui raid sono volti a fiaccare quella che è una delle resistenze più coriacee della Palestina: le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo armato del partito di Al-Fatah, nato in questo campo profughi nel 2000, durante la seconda intifada.

I responsabili del campo controllano le mie credenziali, il mio lavoro, gli articoli scritti in passato. Vogliono assicurarsi che riporti la verità su quello che vedrò. Dopo qualche giorno e, dopo essermi fatto conoscere, vengo accolto con molta ospitalità. Comincio a frequentare il campo con regolarità.

Mi ritrovo spesso a chiacchierare con gli anziani e i giovani combattenti. Mi raccontano le loro vicissitudini, quelle delle loro famiglie. Passiamo ore bevendo tè e giocando a backgammon. I raid israeliani, nel frattempo, non si fermano mai e anch’io ne sono testimone.

Bambini accanto a una casa sventrata da un’esplosione nel campo di Balata. Foto Angelo Calianno.

Le modalità degli attacchi

Gli attacchi avvengono sempre nella stessa modalità: cominciano con una ricognizione di droni, seguita dal lancio di ordigni esplosivi. Subito dopo, i soldati installano dei check-point mobili per chiudere ogni varco di ingresso o uscita dal campo. Le operazioni continuano con l’entrata dei bulldozer, che distruggono le strade principali e qualsiasi cosa si trovi sul loro cammino.

Ai mezzi pesanti segue l’ingresso dei soldati. I cecchini si appostano sui punti più alti, i militari entrano nelle case per perquisirle, molto spesso distruggendole e picchiando chi si trova all’interno. I raid, in media, vanno avanti tutta la notte fino a tarda mattinata.

Il 29 novembre, durante l’ennesima incursione, un cecchino spara in testa a un bambino di otto anni: Adam Samer Al-Ghoul. Il bambino è colpevole di aver lanciato un sasso contro un mezzo blindato israeliano. Adam Samer si accascia sul selciato. Un altro ragazzino, di quindici anni, Basil Suleiman, cerca di trascinare il bambino più piccolo al riparo dietro una macchina, ma anche lui viene colpito al petto dallo stesso cecchino.

Durante i raid, i soldati bloccano anche le ambulanze, che, per ore, aspettano all’ingresso del campo. Anche Basil Suleiman muore.

Alla fine delle operazioni, il comando dell’Israel defense forces (Idf) dichiara che i due ragazzi avevano attaccato usando ordigni esplosivi. Ai media israeliani si comunica che, durante il raid a Jenin del 29 novembre, sono stati uccisi «Two high-ranking terrorists», due terroristi di alto grado.

L’attivista ebrea Arna Mer-Khamis (1929-1994). Foto Freedom Theater.

La storia di Arna, l’ebrea

Dal 7 ottobre, a Jenin, ogni giorno c’è almeno un funerale. Quasi sempre si tratta di minori di 18 anni, o comunque giovanissimi. Uno dei luoghi simbolo del campo di Jenin è il Freedom Theater.

Nel 1953, dopo essere stata testimone degli attacchi di Israele contro le case dei palestinesi, Arna Mer-Khamis, ebrea israeliana (1929-1994), decide di andare a Jenin e aiutare le migliaia di arabi in fuga. Arna Mer-Khamis fonda una Ong, porta aiuti in cibo, medicine e contribuisce all’istruzione dei bambini. Durante la prima intifada costruisce anche un teatro: The Stone Theater. Successivamente chiuso. Dopo la morte di Arna Mer- Khamis, suo figlio Juliano, nel 2006, decide di aprire un nuovo teatro: il Freedom Theater. Juliano viene assassinato nel 2011. Nessuno ha mai scoperto chi sia stato. Israele e Palestina, ancora oggi, si accusano a vicenda del suo omicidio.

Oggi, il direttore del teatro è Mustafà Sheta. Mi accoglie facendomi visitare la struttura: «Il teatro è anche una forma di lotta. Ognuno resiste con le armi che ha, noi lo facciamo con l’arte. Per molti, all’ inizio, sembrava una follia avere un teatro in un posto come questo: un campo profughi sempre sotto attacco. Ma è proprio in luoghi come questo che è più necessario. Noi portiamo in scena grandi classici come La fattoria degli animali di Orwell, Alice nel paese delle meraviglie e altri. Ogni rappresentazione è riletta alla luce della situazione palestinese: raccontiamo la nostra storia attraverso opere famose, così che il pubblico possa avere un riferimento. Come puoi vedere, ora non ci è possibile lavorare, dopo il 7 ottobre è diventato troppo pericoloso. Abbiamo spostato le nostre attività nelle scuole fuori dal campo».

Mustafà mi mostra i danni fatti dagli ultimi raid. Pur essendo chiuso, il teatro viene comunque vandalizzato dai soldati dell’Idf. Ci sono fori di proiettili, involucri di granate. Sul palco, Mustafà mi racconta: «Un giorno stavamo facendo uno spettacolo per bambini. Gli israeliani hanno cominciato ad attaccare. I più piccoli si sono stretti ai genitori. Gli attori, nonostante il rumore delle esplosioni, hanno continuato a recitare. Nessuno si è mosso. Quello, per noi, è stato un vero atto di resistenza. È questo che il nostro teatro rappresenta».

Il 13 dicembre, dopo la nostra visita, i soldati israeliani faranno nuovamente irruzione nel teatro, ne distruggeranno l’interno, soprattutto le apparecchiature elettroniche (telecamere, microfoni, schermi e amplificatori). Mustafà Sheta sarà arrestato.

Di lui, ancora oggi, non ci sono più notizie. Insieme a un gruppo di altri giornalisti europei, vicini al teatro, abbiamo scritto all’ufficio pubbliche relazioni delle carceri israeliane – l’Israel prison service – per chiedere informazioni. Nessuna delle nostre domande ha, però, ottenuto risposta.

Nablus e il campo di Balata

Subito dopo Jenin, in Cisgiordania, il secondo luogo più attaccato è il campo profughi di Balata, alla periferia di Nablus. Sorge di fronte alla chiesa del Pozzo di Giacobbe, oggi amministrata dalla diocesi greco ortodossa. Balata è il campo più popolato della Palestina. In mezzo a piccole stradine fangose, qui vivono circa 32.500 persone.

Anche prima del 7 ottobre, gli scontri erano molto frequenti in questa zona.

Molti settlers, i coloni ebrei, si recavano al Pozzo (rientrante nel perimetro di proprietà della chiesa) in pellegrinaggio, armati e scortati dai soldati. A ogni visita, i militari installavano i check-point, chiudevano le strade e i negozi nelle vicinanze. Queste operazioni scatenavano la rabbia dei palestinesi di Balata, che rispondevano attaccando. Così si è andati avanti per decenni. Oggi la chiesa è chiusa e, di conseguenza, anche i pellegrinaggi dei coloni al Pozzo di Giacobbe.

Anche qui, come a Jenin, l’obiettivo di Israele è quello di sconfiggere la resistenza e chi la supporta. Malgrado gli attacchi quotidiani, Balata continua le sue attività, anche in ambito culturale. Per gli abitanti di Nablus, è il simbolo dei giovani che non si vogliono arrendere.

Adhan mostra la facciata della sua casa, distrutta dai soldati israeliani e nascosta da un lenzuolo. Foto Angelo Calianno.

I soldati a casa di Adhan

Quando ci arrivo, alcuni uomini mi mostrano ciò che resta delle proprie case: camere da letto bombardate, buchi sul tetto, fori di proiettile ovunque.

Vengo invitato in una di queste abitazioni, dove una famiglia vuole raccontarmi la sua storia. Ad accompagnarmi c’è Adhan. La facciata della sua casa è coperta da lenzuola per nascondere il danno fatto dai soldati. In questa palazzina di tre piani, vivono venti persone, tutte della stessa famiglia ma di generazioni diverse. Ci accomodiamo in quello che era il soggiorno. Oggi è una stanza vuota con qualche sedia.

La madre di Adhan, Izdehar, mi  serve del tè e mi racconta: «Durante l’ultima irruzione, i militari hanno distrutto tutti i mobili. Quindi, adesso lasciamo la stanza vuota. Non era la prima volta che entravano, usavano spesso questa casa per piazzare i cecchini. Però, in precedenza, prima del 7 ottobre, con i soldati potevamo almeno parlarci, erano più ragionevoli. La violenza e le aggressioni che abbiamo subìto l’ultima volta, sono qualcosa di nuovo. Una notte, abbiamo sentito delle esplosioni, poi l’arrivo dei bulldozer. Era una cosa che accadeva spesso, quindi, ci siamo stretti tra noi aspettando che passasse. Dalla porta sul retro sono arrivati i primi spari, i proiettili hanno perforato le finestre arrivando dentro casa. I soldati hanno sfondato la porta, sono entrati, si sono trovati davanti mio suocero, una persona molto anziana. Lo hanno colpito in testa con il calcio del fucile».

«Mia sorella – continua Adhan – aveva suo figlio piccolo in braccio, ma l’hanno colpita ugualmente. Abbiamo urlato: “Come potete picchiare una donna con un bambino?” Allora hanno radunato tutti noi uomini, ci hanno portato in strada, ammanettati e messi faccia a terra. Hanno cominciato a picchiarci, mio fratello Anas è stato il più colpito. Gli hanno dato così tanti calci in faccia, che ha perso conoscenza. Nonostante questo, un soldato gli ha ordinato di leccare il sangue dal suo stivale. Mio fratello era ormai svenuto, non rispondeva più. Abbiamo chiesto di far arrivare un’ambulanza, ma l’hanno bloccata impedendo a qualsiasi aiuto di arrivare. Lo hanno ridotto così – mi spiega, mostrandomi una foto del fratello in ospedale: la testa bendata, il volto tumefatto e livido -. Avremmo voluto reagire, ma con i fucili puntati in testa, cosa avremmo potuto fare?».

Tutto questo avveniva davanti agli occhi dei bambini, pietrificati nell’assistere a quelle scene. Ci rivolgiamo al fratello piccolo di Adhan, Ahmad di nove anni, chiedendogli cosa abbia visto quella notte: «C’erano i soldati, picchiavano forte gli uomini…». Ahmad si porta le mani al volto, finisce la frase in un pianto strozzato.

Izdehar ci dice ancora: «Durante quei momenti, a noi donne dicevano delle cose che non posso ripeterti, insulti orribili che fanno ancora male. Non mi trovo a mio agio a raccontare queste cose pubblicamente, anche se so che è importante per le persone sapere. Il mondo deve sapere».

Il mio interprete mi sussurra: «I soldati sanno bene cosa offende le donne musulmane. Gli insulti che rivolgono loro sono cose così orribili che nessuna donna li ripeterà mai, tanta è la vergogna».

Il nuovo cimitero del campo profughi di Jenin ospita soprattutto giovani. Foto Angelo Calianno.

I cecchini non sbagliano

Mentre termino l’intervista, la tensione nel campo cresce visibilmente. Dei ragazzini cominciano a posizionare dei grandi massi sulle strade principali. Arrivano gruppi di giovani armati e con il volto coperto. In lontananza si sente il ronzio dei droni: sta arrivando un nuovo raid. Per strada incontro alcuni colleghi fotografi. Appena cominciamo a sentire le esplosioni dei primi droni che bombardano il campo decidiamo di ripararci in un punto più coperto. Mentre camminiamo, i cecchini aprono il fuoco anche contro di noi. Colpiscono bersagli ai nostri lati, sparano contro l’asfalto che abbiamo appena calpestato, contro il taxi che si è fermato per farci salire.

Il tassista ci dice: «I cecchini non sbagliano. Se avessero voluto, sareste già morti. Vi vogliono spaventare».

Durante la mia lunga permanenza in Cisgiordania, le vicessitudini di cui sono stato testimone a Jenin e Nablus si sono ripetute anche a Hebron, Tulkarem, Ramallah. Eppure, anche durante gli attacchi, ogni stazione radiofonica, ogni canale televisivo era sintonizzato su Gaza. Alla fine di ogni raid, anche dopo gli arresti, le umiliazioni e la perdita di decine di familiari, tutti mi dicevano: «Dobbiamo andare avanti per rispetto di quello che sta accadendo a Gaza. Nulla è paragonabile a Gaza. Non possiamo piangere».

Angelo Calianno

Un murale ricorda Shireen Abu Aklehdi, giornalista di Al-Jazeera, uccisa nel maggio 2022.; sono decine i giornalisti uccisi nell”ultima guerra. Foto. Angelo Calianno.

Su MC 01/2024. Essere palestinesi in Cisgiordania / 1: «Cacciati come bestiame dai coloni»

 




Brasile. I «tifosi» di Santa Barbara


Al Nordest del Brasile si trova Salvador de Bahia de Todos los Santos. È in questa città che si tocca con mano l’eredità africana del Paese. Abbiamo assistito alla cerimonia religiosa afrobrasiliana in onore di Santa Barbara – Iansã.

Salvador Bahia. Il quartiere di Pelourinho – nome che, in portoghese, indica la «gogna» che veniva usata per legare e frustare le persone schiavizzate – è un quartiere dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Raccoglie tracce importanti dell’architettura coloniale locale del XVII e XVIII secolo. In esso, dicono le guide, si trovano più di trecento chiese.

Una di esse è quella di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri), la cui costruzione durò quasi cento anni e che è uno dei simboli del sincretismo religioso e culturale della città brasiliana.

La resistenza degli schiavi

È proprio qui che il 4 dicembre scorso ha avuto luogo la celebrazione in onore di Santa Barbara, martire dei primi secoli dopo Cristo (terzo e quarto) che la tradizione colloca tra la Turchia e l’Italia. La festa cattolica si unisce a quella dei fedeli dell’umbanda in onore di Iansã, un’orixá (divinità afro) dei culti afrobrasiliani.

Abbiamo partecipato all’intera giornata di celebrazioni per vedere in prima persona una ritualità nata in epoca coloniale dalla popolazione nera schiavizzata come esercizio di resistenza e di conservazione delle sue radici religiose e culturali.

La festa per Santa Barbara – Iansã ha inizio alle prime luci dell’alba quando, di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos, tutto comincia a colorarsi di rosso e bianco: petali di rose rosse ricoprono le strade del quartiere, rossi e bianchi sono i vestiti dei pellegrini e dei commercianti, rosse e bianche le collane, i palloncini, i chioschi, le ghirlande di fiori, i tappeti e ogni ornamento portato in dono per celebrare questa santa a due facce.

Per questo, fin dalle cinque del mattino, di fronte alla chiesa, sono appostati i venditori di rose, così come i commercianti che vendono una miniatura della santa che cerca di riprodurne lo splendore.

Una devota di Santa Barbara – Iansa in adorazione davanti alla chiesa di Nossa Senhora do Rosário dos Pretos, Largo do Pelourinho (4 dicembre 2023). Foto Diego Battistessa.

Dal mondo degli Yoruba

La figura di Iansã, sotto nomi e forme diverse, si può far risalire a una divinità del popolo Yoruba, originario del sud della Nigeria, Benin e Togo. È una delle principali divinità femminili venerate in varie tradizioni religiose africane sia in Brasile che nei Caraibi.

È conosciuta e venerata per essere la divinità del vento, dell’acqua e delle tempeste, però i primi pellegrini che arrivano di fronte alla chiesa ci spiegano che le funzioni di questa orixá sono anche riconducibili all’ambito della sfera privata. Infatti, Iansã si occupa anche di allontanare gli spiriti maligni da luoghi o persone e di risolvere le questioni di coppia, come l’infedeltà.

Allontanare gli spiriti maligni, ricevere una profonda purificazione o ringraziare per una grazia ricevuta sono gli obiettivi di questa marea biancorossa di persone che, ogni anno, giungono da tutto il Brasile e anche dall’estero per prendere parte alle celebrazioni.

Le porte dell’edificio di culto si aprono di primo mattino e subito la statua della santa riceve i fedeli che fanno la fila per avere pochi istanti di intimità al suo cospetto. Fuori inizia la musica, e, non più tardi delle sette, quando il caldo si fa già sentire, scoppiano i primi fuochi d’artificio.

Nel centro della piazza, nota come Largo do Pelourinho, di fronte alla Casa museo di Jorge Amado, indimenticato scrittore della Bahia, è stato preparato un palco sul quale verrà celebrata una messa campale per la folla dei fedeli festanti, folla che non può essere accolta tutta dentro Nossa Senhora do Rosario dos Pretos. Mentre le processioni e le richieste a Santa Barbara – Iansã si susseguono all’interno, fuori, negli spazi adiacenti il palco, si moltiplicano i riti di purificazione, nei quali si invocano i poteri dell’orixá per avere protezione, salute e serenità.

In questi brevi ma intensi rituali sono i sigari, le erbe, l’acqua e l’olio santo a diventare protagonisti, tra grida e sussurri, momenti di trance ed estasi, in una sublimazione simbolica della religione afrobrasiliana.

Mentre quel mare rosso e bianco di fedeli che inneggiano a Santa Barbara – Iansã balla e canta la sua devozione, poco dopo le otto, la statua della Santa viene portata in processione dalla chiesa fino al palco. Un percorso che suscita commozione, in un clima allegro e solenne allo stesso tempo, tra tamburi, incenso e petali di rosa.

La messa inizia pochi minuti dopo e anche in essa sono evidenti le tracce della cultura e della religiosità afrobrasiliana. Finita la celebrazione, esplode la festa in tutto Pelourinho, con manifestazioni artistiche e concerti che durano per tutto il giorno.

I ristoranti servono caruru (piatto tradizionale della cucina afrobrasiliana a base di gamberetti, cipolla, anacardi e arachidi, tipico di Bahia e di questa festività), si ascolta l’atabaque (strumento rituale simile a un tamburo) che batte al ritmo del cuore e si cantano canzoni come la famosa «Sorriso negro» di Dona Ivone Lara: «Negro é a raiz da liberdade» (Il nero è alla radice della libertà).

Verso le undici il grande corteo parte per attraversare tutto il centro storico passando per Largo do Pelourinho e per Terreiro de Jesus, Praça da Sé, Praça Municipal, Ladeira da Praça, fermandosi alla sede dei vigili del fuoco (la santa è la loro patrona), continuando poi per Praça dos Veteranos, per Baixa dos Sapateiros e fino al Mercado da Santa Barbara per ritornare poi al punto di partenza.

Qui i devoti si riuniscono di nuovo per ascoltare i gruppi musicali che si susseguono sul palco di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos nel centro del Peló (così viene popolarmente chiamato il Pelourinho dagli abitanti della città). L’energia e la magia della celebrazione continuano dopo il tramonto quando le luci natalizie fanno la loro comparsa, illuminando il selciato delle strette strade irregolari, tortuose e in pendenza del quartiere (sono chiamate «ladeiras»), vie ancora spumeggianti di vita e allegria.

La chiesa Nosso Senhor do Bonfim, a Salvador Bahia, uno dei luoghi più importanti per le manifestazione del sincretismo religioso tra cattolicesimo e religioni afrobrasiliane. Foto Diego Battistessa.

Un pieno di feste

Quelle in onore di Santa Barbara – Iansã (ricorrenti fin dal 1641) fanno parte di un ricco calendario di celebrazioni che interessano la capitale dello stato di Bahia durante tutto l’anno. Dopo il 4 dicembre, la prima data da segnare è l’8 dello stes-so mese, quando si celebra la festa religiosa più antica del Brasile, nella basilica de Nossa Senhora da Conceição da Praia, in onore all’Immacolata Concezione.

Successivamente, il 13 dicembre si celebra la festa di Santa Luzia (Santa Lucia), mentre nella notte tra l’anno vecchio e quello nuovo, si rende omaggio al Bom Jésus dos Navegantes (Buon Gesù dei Naviganti). A gennaio, il 5 e il 6, si celebrano i Re Magi, mentre nella seconda metà del mese ha luogo uno dei riti sincretici più importanti della capitale della Bahia: il «Lavagem do Bonfim» (riquadro a lato).

Il primo mese dell’anno si chiude con la festa di San Lazzaro, ma è febbraio che ospita il clou. Infatti, nei giorni 1 e 2 del mese si celebra quella che è considerata la più grande manifestazione religiosa pubblica del candomblé nello stato di Bahia: il festival Iemanjá (Yemanjá), celebrato in onore della divinità dell’oceano sulle spiagge e nelle acque di Salvador.

Tra questa e l’inizio del Carnevale, si celebra in città anche il Lavagem de Itapuã, festa popolare che ha già compiuto più di 100 anni.

Tocca poi al Carnevale che, qui e nel resto del Brasile, è la più grande festa dell’anno nel quale, ancora una volta, si mischiano e si fondono le simbologie cattoliche e quelle delle religioni afrobrasiliane. Giugno è il mese di Santo Antônio, São João, São Pedro, rispettivamente il 13, il 24 e il 29, mentre il 2 di luglio si celebra a Bahia l’indipendenza del Brasile.

L’ultima festa che citiamo, ma non per importanza, è quella del 13 di agosto, giorno nel quale si rende omaggio a Santa Dulce dos Pobres, conosciuta come «il Buon angelo di Bahia», donna laboriosa ed esempio di dedizione a poveri e ammalati, canonizzata da papa Francesco il 13 di ottobre del 2019.

Diego Battistessa

 

La chiesa del Santissimo Sacramento in Rua do Passo 52°, quartiere di Santo Antônio Além do Carmo, Salvador. Foto Diego Battistessa.

Il sincretismo

QUANDO IL CATTOLICESIMO SI MESCOLÒ ALL’AFRO

Il sincretismo tra la religione cattolica e quelle africane è un elemento caratteristico di Salvador de Bahia e del Brasile. Esso si esprime in un ampio ventaglio di concezioni e pratiche religiose continuamente create, ricreate e adattate a un contesto spazio-temporale diverso da quello di origine.

La parola sincretismo deriva dal greco «synkrasis», ovvero mescolare insieme. Il sincretismo religioso nel mondo latinoamericano ha vissuto numerose tappe che hanno visto, in modo alterno, il protagonismo di popolazioni indigene, coloni europei, criollos (meticci, ndr)e afrodiscendenti.

Poiché durante il periodo coloniale la Chiesa di Roma dominava il campo spirituale di tutti i Paesi latinoamericani, le credenze afro vi si sono inserite e ne hanno – a loro volta – tratto diversi elementi, assimilandoli.

Mappando le religioni afrolatinoamericane, possiamo identificare il Brasile come un centro focale. Nel Paese, in fatti, si riscontra la sublimazione di questo processo di resistenza delle tradizioni ancestrali africane da un lato, e di mescolanza (krasis) con le molteplici spiritualità presenti nel territorio, dall’altro. Siamo di fronte a una grande complessità di rituali e simbologie che, in Brasile, trovano nel candomblé e nell’umbanda* le espressioni più note e diffuse.

D.B.


La chiesa di Nostro Signore del Buon fine

LE BAHIANE DEL CANDOMBLÉ

Quella di Nostro Signore del Buon fine è una delle chiese cattoliche più tradizionali della città, dedicata al Senhor do Bonfim, santo patrono dei bahiani e simbolo del sincretismo religioso di Salvador de Bahia. Costruita sulla cima della Collina sacra, questo edificio di culto è lo scenario del famoso «Lavagem do Bonfim», evento nel quale le donne bahiane del candomblé lavano in modo rituale i gradini della chiesa con abbondante acqua. Si tratta di uno dei rituali più importanti del Salvador, rispettato e celebrato sia dai fedeli cattolici che da quelli afro.

Proprio da questa chiesa proviene il famoso braccialetto colorato (fita, in portoghese) che si può vedere in tutta Salvador de Bahia. Il nastro originale fu creato nel 1809 e misurava esattamente 47 centimetri di lunghezza, la misura del braccio destro della statua di Gesù Cristo, Signore di Bonfim, situata sull’altare di questa chiesa, sicuramente tra le più famose di Bahia. Venduto o regalato in diversi colori in tutta la città, il nastro del Senhor do Bonfim rappresenta, a seconda del colore, un orixá diverso. In questo modo, gli orixá, divinità centrali del candomblé, si uniscono al messaggio rappresentato da Gesù di Nazaret, creando un nuovo spazio di devozione inclusiva che trascende i confini della religione e si estende alla cultura e all’identità afrobrasiliana.

D.B.

Vista mattutina della Rua Alfredo Brito, Pelourinho, con sullo sfondo la Chiesa di Igreja de Nossa Senhora do Rosário dos Pretos. Foto Diego Battistessa.

 


Sul sito MC si può leggere:

– Paolo Moiola, «I tamburi di oxalá» (giugno 2015);

– Paolo Moiola, «Balli di libertà» (luglio 2015).




Congo Rd. Un futuro a tinte fosche


Il 20 dicembre scorso contestate elezioni hanno mantenuto al potere Félix Tshisekedi. Le sfide che dovrà affrontare il presidente sono enormi: il conflitto nell’Est, l’economia che barcolla, le mire straniere sulle risorse del Paese, ma anche la corruzione a tutti i livelli. Le premesse non sono delle migliori.

Oltre 2.300 chilometri di strade, soprattutto sterrate e percorribili in almeno quaranta ore di auto, separano Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo (RdC), da Lubumbashi, capitale dell’Haut-Katanga, la provincia più meridionale. Per recarsi a Goma, capitale del Nord Kivu al confine orientale con il Rwanda, invece i chilometri diventano 2.700 e le ore di viaggio più di cinquanta.

Il tragitto su strada da Kinshasa verso Lubumbashi e Goma, interminabile e difficile, è metafora di quello che è la RdC oggi: un Paese immenso, dal potenziale enorme, ma estremamente fragile. La distanza tra la capitale e molte province non è solo geografica, ma anche politica, economica e sociale. I soli 200mila chilometri di strade – che attraversano uno Stato di 2,3 milioni di chilometri quadrati (7,8 volte l’Italia) – sono solo un esempio di questo scollamento.

Il territorio congolese è estremamente frammentato: non c’è un solido legame tra la capitale e il resto del territorio dilaniato da conflitti armati e in perenne crisi umanitaria, depredato delle proprie ricchezze e attraversato da una corruzione endemica. Molte sfide – alcune di lunga data, altre più recenti – attendono Félix Tshisekedi, riconfermato presidente a seguito delle caotiche e contestate elezioni del 20 dicembre scorso. Il presidente uscente ha ottenuto il 73% dei voti, e il secondo, Moise Katumbi, solo il 18%. Conflitti, economia e corruzione spiccano tra le sfide.

Campo di sfollati nei pressi di Goma, Nord Kivu. Foto Christophe Mutaka

La lunga guerra nell’Est

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la RdC è travolta da violenze. Conflitti diversi e causati da motivazioni differenti, ma riconducibili a un unico denominatore comune: la scarsa governance e la mancanza di istituzioni politiche, militari e sociali efficienti, affidabili e diffuse su tutto il territorio nazionale.

Movimenti secessionisti operano nell’Haut-Katanga che già nel luglio 1960, subito dopo l’indipendenza, aveva tentato di separarsi dal resto del Paese. A Nord, nell’Haut-Uélé e nel Bas-Uélé avvengono incursioni e saccheggi di ribelli coinvolti nella guerra civile centrafricana e negli scontri con il governo del Sud Sudan. Tensioni intercomunitarie per le terre sono diffuse su tutto il territorio nazionale. Mentre da inizio 2022, le province occidentali, storicamente le più stabili, sono messe a ferro e fuoco dalla milizia Mobondo, nata a causa di tensioni tra comunità per il pagamento di tasse sulla terra.

Nell’Est (Ituri, Nord e Sud Kivu), i conflitti si protraggono da tre decenni e sono profondamente legati al contesto regionale. Infatti, fin dalle due guerre del Congo, alcuni Paesi della regione dei Grandi Laghi – Rwanda, Uganda e Burundi – mirano a estendere la propria influenza sulle province orientali della Rdc, data la loro posizione strategica nel cuore dell’Africa e la ricchezza di risorse minerarie.

La moltitudine di attori, statali e non, coinvolti, l’intrecciarsi di differenti obiettivi, la fragilità delle alleanze e le interferenze degli altri Paesi della regione sono tutti fattori che hanno reso in passato e rendono ancora oggi difficile la pacificazione dell’area. In particolare, l’interventismo ruandese ha recentemente raggiunto livelli tali da causare una crisi diplomatica tra Kinshasa e Kigali e rischiare un conflitto aperto tra i due Paesi. Dalla primavera del 2022, truppe ruandesi sono infatti intervenute in territorio congolese a supporto del Movimento del 23 marzo (M23), il gruppo armato più violento del Nord Kivu, capace di giungere, a fine 2023, a pochi chilometri da Goma.

Disastro umanitario

«La guerra ha creato un incredibile disastro umanitario», dice Viateur, cooperante del Nord Kivu e analista dei processi di cambiamento nella regione dei Grandi Laghi. L’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) conta sei milioni di sfollati interni, mentre un altro milione ha cercato rifugio nei Paesi vicini. Chi resta nei territori controllati dagli attori armati «vive ogni giorno le afflizioni della guerra come vessazioni, stupri, saccheggi e lavori forzati. I gruppi armati portano via tutto quello che i locali possiedono: cibo, denaro, bestiame e coltivazioni. I bambini non vanno più a scuola, gli agricoltori non lavorano più i campi, le attività economiche sono paralizzate», racconta Viateur.

Come prevedibile, la promessa di Tshisekedi di un intervento militare tale da porre fine alle violenze in tempo affinché le elezioni si potessero svolgere in tutto il Paese non è stata mantenuta: gli abitanti dei territori di Masisi e Rutshuru, occupati dall’M23 (oltre a Kwamouth, epicentro della violenza dei Mobondo), non hanno potuto votare.

Raramente le Forze armate della Rdc registrano successi contro i gruppi armati e lo stato d’assedio, introdotto a maggio 2021, non ha portato cambiamenti. La Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo (Monsuco), operativa dal 2000 per proteggere la popolazione, è costantemente accusata di inefficacia, data la frequenza di attacchi e uccisioni nei confronti dei civili, e il governo congolese ne ha chiesto il ritiro. Così come, dopo un solo anno, ha iniziato ad abbandonare il Paese anche la Forza regionale della Comunità dell’Africa orientale (Eac), criticata da Kinshasa per l’approccio poco aggressivo nei confronti dei gruppi armati.

Il costante fallimento delle operazioni militari evidenzia la necessità di rafforzare altre tipologie di interventi. Ne derivano azioni diverse, frutto dell’intersecarsi delle dimensioni politica, sociale ed economica: rafforzamento di governance e trasparenza delle istituzioni, sviluppo di programmi efficaci e duraturi per la smobilitazione e il reinserimento socioeconomico dei combattenti e realizzazione di dialoghi intercomunitari e piani per la ripartizione inclusiva delle risorse.

Economia fragile

Un’altra sfida che attende il presidente congolese è quella economica. Secondo la Banca mondiale, nel 2020, a causa della pandemia da Covid-19 che aveva paralizzato scambi e produzione, il Prodotto interno lordo (Pil) era crollato di quasi tre punti percentuali rispetto al +4,4% del 2019. Tuttavia, dall’anno successivo, la consistente domanda cinese di minerali ha trainato la ripresa del Pil, cresciuto del 6,2% nel 2021 e dell’8,9% nel 2022. L’economia congolese è però estremamente fragile: il 90% delle esportazioni è costituito da minerali e idrocarburi, e questo rende il Paese dipendente dalle fluttuazioni dei loro prezzi sul mercato internazionale.

L’analisi di un quadro socioeconomico più dettagliato mostra poi che la crescita del Pil, esaltata da Tshisekedi come risultato positivo delle sue politiche di rilancio post pandemia, è un dato isolato, non una tendenza. La guerra in Ucraina ha spinto l’inflazione dal 9% (2021) al 13,2% (2023) e l’incremento dei prezzi dei beni di base sta impattando soprattutto su quel 60% della popolazione che, secondo la Banca mondiale, vive con meno di 2,15 dollari al giorno. Tra essi, moltissimi giovani, il cui tasso di disoccupazione supera l’80%.

La carenza di reti stradali e ferroviarie ostacola lo sviluppo dei commerci su tutti i livelli: nazionale, regionale e internazionale. I conflitti armati nelle province orientali – le più ricche di risorse – costituiscono un pesante fardello per la crescita economica del Paese, mentre la diffusione di economia informale, illegale e corruzione riduce le risorse statali.

La transizione ecologica

La transizione ecologica globale passa anche per i minerali della RdC: le province meridionali producono il 70% del cobalto mondiale, le riserve congolesi di rame sono considerevoli e la metà del tantalio, contenuto nei telefoni e nei computer di tutto il mondo, proviene dai suoi territori. Dai primi anni Duemila, l’impennata della domanda globale di minerali per la transizione ecologica ha trainato la crescita della produzione congolese, esacerbando però anche gli aspetti negativi a essa connessi: conflitti armati, violazioni dei diritti umani e sfruttamento da parte delle multinazionali.

Per molti dei circa 120 movimenti armati attivi nelle province orientali «i minerali hanno un ruolo preponderante – dice Viateur -. Certi gruppi sfruttano direttamente o fanno sfruttare da altri per loro, le cave e i minerali ottenuti sono venduti attraverso negozianti che li portano oltre confine, in Rwanda e Uganda». Il contrabbando è infatti un’importante fonte di finanziamento per molti attori armati e, in questo modo, sebbene nella RdC siano applicate certificazioni che impediscono la vendita di minerali legati a conflitti e violazioni dei diritti umani, molti di essi entrano nel mercato internazionale. Buona parte della produzione è artigianale: i minatori estraggono senza tecnologie o macchinari e fronteggiano dure condizioni di vita. La crescente domanda mondiale non si traduce in un incremento dei guadagni per i lavoratori locali che «rimangono nella povertà e muoiono ogni giorno a causa di malattie respiratorie e frane, mentre molti bambini non vanno a scuola». Viateur ricorda quanto lo sfruttamento minorile sia diffuso, soprattutto nelle miniere di rame e cobalto dell’Haut-Katanga, nonostante sia proibito dalla legge.

Proteste anti Rwanda (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

I minerali

Anche le multinazionali straniere, con un atteggiamento predatorio, contribuiscono a rendere ancora più difficili le precarie condizioni di vita dei congolesi, drenando dal Paese grandi quantità di risorse a fronte di compensazioni decisamente inadeguate.

L’accordo siglato nel 2008 dall’allora presidente Joseph Kabila con la Cina ne è un esempio. Le aziende di Pechino hanno ottenuto concessioni su giacimenti di rame e cobalto del valore di circa 90 miliardi di dollari a Kolwezi (Haut-Katanga). In cambio, la Cina si è impegnata a investire sei miliardi in progetti di sviluppo. Ma, di fatto, ancor meno – tre miliardi circa – sono stati realmente destinati alla costruzione di strade, scuole e ospedali, e gli interventi sono stati appaltati esclusivamente a compagnie cinesi, impedendo la creazione di posti di lavoro e crescita economica nella RdC. Anche se nel 2021 Tshisekedi ha annunciato la rinegoziazione dell’accordo, non sono mai stati rilasciati dettagli sulle nuove discussioni, facendo temere che la revisione non si traduca in miglioramenti tangibili per i congolesi.

I minerali estratti nella Rdc, quando sfuggono al contrabbando, sono esportati, soprattutto in Cina, dove vengono processati. In questo modo, il Paese perde la maggior parte delle proprie risorse ancora in forma grezza, traendone un guadagno limitato, e non beneficia della creazione di opportunità lavorative e della generazione di reddito derivanti da attività di lavorazione interne alla RdC. Un’evoluzione necessaria, quest’ultima, e che è stata timidamente avviata da Tshisekedi con l’istituzione del Consiglio congolese della batteria, cui è stato affidato il compito di creare una filiera per la produzione di batterie elettriche nel Paese. Un progetto che, se realizzato, permetterebbe alla RdC e ai suoi abitanti di trarre maggiori guadagni dalle proprie risorse, ma che deve avvenire al riparo dalla corruzione, imperante nel settore ed endemica nel Paese. Gécamines, la principale compagnia mineraria statale, è infatti ciclicamente coinvolta in scandali e accusata di essere un mezzo per l’accaparramento di risorse da parte dell’élite politica ed economica della Rdc.

Corruzione e potere

Con il giuramento di fine gennaio, Tshisekedi si è confermato alla guida di un Paese dilaniato da conflitti armati e in difficoltà economica. Ma fronteggia anche accuse di corruzione, scarsa trasparenza e manipolazione dei risultati elettorali al fine di soddisfare una sete personale di potere e assicurare favori alla propria cerchia di amici e familiari.

Nulla di nuovo nella RdC. Fin dalla cleptocrazia di Mobutu Sese Seko (1965-1997), corruzione e clientelismo si sono infiltrati a fondo nell’apparato statale, totalmente piegato alla volontà e ai desideri del dittatore e dei suoi alleati. Anche Laurent Désiré Kabila (1997-2001) e il figlio Joseph (2001-2018), sebbene avessero annunciato una cesura con la dittatura precedente, hanno contribuito a istituzionalizzare corruzione e clientelismo. È continuato l’accaparramento di risorse statali – Joseph Kabila è accusato di essersi appropriato, tra il 2013 e il 2018, di 138 milioni di dollari destinati alle casse nazionali – e familiari e amici sono stati posizionati alla guida di aziende pubbliche: nel 2018, secondo il Centro di ricerca sul Congo, 80 compagnie erano riconducibili alla cerchia di Kabila.

L’elezione nel 2018 di Tshisekedi – frutto di un accordo tra quest’ultimo e Kabila affinché l’ex presidente potesse continuare a influenzare la politica congolese dalle retrovie – non ha segnato un’inversione di tendenza. Ancora oggi, la Rdc resta uno dei paesi più corrotti al mondo, al 166esimo posto su 180 nell’Indice sulla percezione della corruzione di Transparency international (ente indipendente che monitora la corruzione globale).

Criticato per aver perpetuato un clima di impunità, Tshisekedi ha visto alcuni dei suoi collaboratori colpiti da accuse, come Vital Kamerhe incolpato di essersi appropriato di 48 milioni di dollari pubblici. Mentre, in vista del voto del 2023, ha posto l’alleato Denis Kadima alla guida della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), assicurandosi il controllo della macchina elettorale e la rielezione.

Conflitti, difficoltà economiche e corruzione continuano a segnare il presente e il futuro della Rdc, guidata da un’élite più interessata a mantenersi al potere e ad accrescere le proprie ricchezze che a soddisfare le reali esigenze della popolazione. Ancora una volta, un futuro fosco attende un Paese estremamente fragile.

Aurora Guainazzi

© Christophe Mutaka




A scuola con Penny Wirton

Sommario


Quel ragazzo di nome Penny
Come nasce e si diffonde la rete

Insegnare l’italiano a stranieri di ogni estrazione, età e cultura è una grande sfida. Sedici anni fa, a Roma, una coppia di insegnanti la raccoglie e fonda il primo nucleo di una scuola molto speciale, «senza muri». Il modello si replica in tutto il Paese seguendo principi chiari e condivisi.

«La scuola Penny Wirton nasce da un sogno – scrivono i fondatori, la professoressa Anna Luce Lenzi e il giornalista e scrittore Eraldo Affinati -: insegnare la lingua italiana ai migranti come se parlare, leggere e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Senza voti. Senza burocrazie. Lavorando al presente con chi c’è, con quello che abbiamo. Cercando di dare a ognuno ciò di cui lui, o lei, ha bisogno.

Matiur entra in aula, sorride, ti stringe la mano e si mette a sedere. Tu subito gli consegni il foglio con la matita e lo aiuti a imparare il verbo essere. Poi, a gruppi sparsi, arrivano gli altri: Abdi, Raissa, Dimitri, Kadigia… Noi crediamo nella qualità speciale del rapporto umano che si può realizzare nell’insegnamento a uno a uno. Negli anni abbiamo acceso passioni, elaborato esperienze, costruito legami, acquisito uno spirito, imparato uno stile. Non vogliamo fare semplice intrattenimento. Siamo legati al rigore didattico, consapevoli che, come sapeva il priore di Barbiana [don Milani], senza lingua non si può vivere. Senza nomi si muore».

È questa la mission della scuola di italiano Penny Wirton a Roma. Si tratta di un vero laboratorio antropologico da cui hanno preso forma altre 59 scuole con la medesima identità su tutto il territorio nazionale.

Le scuole Penny Wirton possono essere comprese in un’ottica di multi dimensionalità dei processi di integrazione. La questione dell’integrazione dei migranti e dei rifugiati impone di stabilire connessioni fra molteplici servizi sia istituzionali che del privato sociale, nella consapevolezza che, come viene affermato dal pedagogista M. Fiorucci e dalla dottoressa R. Cima (2022), «I soggetti a rischio di esclusione sociale – tra cui gli immigrati – e quelli afflitti “dai bassi livelli di scolarità” sono proprio quelli che meno utilizzano le opportunità loro offerte».

Come nasce

La scuola di italiano Penny Wirton nasce a Roma nel 2008 grazie alla volontà dei coniugi Affinati e Lenzi. Il primo, presidente dell’omonima associazione, è scrittore e giornalista da sempre legato al mondo della scuola. Lenzi è esperta di letteratura popolare è stata insegnante di italiano e ha curato diverse antologie scolastiche. Sono coautori dei due volumi: Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton (2011) e Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton (2015), che rappresentano i testi alla base del materiale scolastico utilizzato nelle diverse sedi della Penny Wirton.

Dalle parole dei fondatori emergono i due i pilastri che hanno portato alla nascita della scuola: da un lato l’esperienza alla Città dei ragazzi (fondata a Roma nel 1953 da monsignor Patrick Carroll-Abbing per accogliere i ragazzi di strada, ndr) e, dall’altro, gli insegnamenti di don Lorenzo Milani.

Come esplicitato da Affinati: «La particolarità della Città dei ragazzi è data dal fatto che è una comunità educativa basata sull’autogoverno, ossia un sistema pedagogico fondato sulla responsabilizzazione dei ragazzi. Al tempo di monsignor Carroll-Abbing i ragazzi ospitati erano tutti bambini italiani orfani e abbandonati. Quando sono andato io, invece, erano tutti stranieri. Ed è lì che mi è venuta l’idea di aprire una Penny Wirton, ossia una scuola italiana per immigrati. In questo senso la nostra scuola nasce da una costola della Città dei ragazzi. […] Poi vi è un altro riferimento, ossia don Lorenzo Milani. Anche lui è stato per me importante per indirizzarmi verso una scuola diversa da quella tradizionale, una scuola basata sul rapporto umano diretto. In altre parole: tempo scuola uguale tempo vita».

La scelta del nome «Penny Wirton» nasce dal fatto che entrambi i fondatori si sono laureati con una tesi su Silvio D’Arzo (1920-1952), autore di un romanzo per ragazzi intitolato «Penny Wirton e sua madre» (1978) che ha come protagonista un bambino povero e disprezzato, orfano del padre, alla conquista quotidiana della dignità e del riscatto. Come evidenziato dai fondatori «abbiamo chiamato così la scuola perché i nostri studenti sono i Penny di oggi, spesso orfani lontani mille miglia dalle loro famiglie».

La diffusione

La primogenita scuola di Roma ha rappresentato il punto di partenza di un fenomeno che, qualche anno dopo, è diventato capillare in tutto il territorio italiano. Anche grazie all’interesse mediatico ottenuto a livello regionale e nazionale, sempre più volontari hanno mostrato interesse per la scuola rendendosi disponibili a portare avanti gli ideali di don Milani nella Penny Wirton di Roma e nelle altre sedi in Italia. Ad oggi risultano essere più di cinquanta le scuole che portano il nome, il marchio e lo stile Penny Wirton: sia nel Sud, che nel centro e nel Nord Italia e in Svizzera. A fronte dell’aumento di richieste di nuove aperture e della crescente risonanza ottenuta dalla scuola, il 21 marzo 2016 è nata la «Carta d’intesa» della Penny Wirton, ossia un documento composto da 22 articoli nel quale sono esplicitati tutti i principi basilari che ciascuna scuola, indipendentemente dal territorio di riferimento, deve inderogabilmente sottoscrivere e rispettare. Il risultato è che ogni scuola risulta essere indipendente e autonoma da un punto di vista gestionale e amministrativo, spesso anche appoggiandosi ad associazioni locali, ma tutte sono legate nelle finalità e nel modo di operare alla scuola Penny Wirton di Roma.

La Penny Wirton non è solo un luogo di apprendimento, ma è anche tanto altro: un presidio di accoglienza nel territorio, uno spazio privilegiato di scambio e relazioni tra individui, un laboratorio antropologico nel quale ciò che conta, prima di tutto, è quello che Affinati definisce «la qualità delle relazioni umane».

Non esistono classi, lezioni frontali e burocrazia. La Penny Wirton è sì una scuola di italiano, all’interno della quale ciò che si cerca di raggiungere è il miglioramento della scrittura, della lettura, dell’ascolto e dell’oralità, ma è anche un luogo in grado di rovesciare e stravolgere il concetto stesso di scuola. Alla Penny Wirton non si mettono in pratica programmi didattici predeterminati e non è prevista l’attribuzione del voto, considerato uno strumento che crea false disuguaglianze e, per certi versi, disincentivante. L’apprendimento dell’italiano parte dallo studente e dalla relazione umana intrapresa assieme a lui dall’insegnante, nel rispetto del suo vissuto, delle sue difficoltà e ambizioni.

I principi della scuola

Così come esplicitato all’articolo 1 della Carta d’intesa, risultano essere tre i principi cardine della scuola: la gratuità, l’apoliticità e l’aconfessionalità.

La Penny Wirton è prima di tutto una scuola totalmente gratuita: agli studenti non è richiesta alcuna iscrizione formale, né tantomeno una contribuzione economica durante tutto il corso. È la scuola stessa che fornisce i materiali didattici indispensabili allo svolgimento delle lezioni. Libri, quaderni, fogli, penne, matite, sono acquistati tramite il meccanismo dell’autofinanziamento diretto da parte dei volontari insegnanti o donazioni da soggetti esterni.

La scelta di partenza da parte di Affinati e Lenzi è stata quella di creare uno spazio che fuoriuscisse dalla logica retributiva del do ut des. Accanto del principio della gratuità, la Carta d’intesa affianca il concetto di «aconfessionalità» e «apoliticità». Anche laddove gli spazi siano messi a disposizione gratuitamente da parrocchie, la lezione è un momento di interazione laico indipendentemente dal luogo nel quale si realizza. In generale, la ricerca di uno spazio fisico gratuito all’interno del quale essere ospitate ha rappresentato e rappresenta per molte scuole Penny Wirton un ostacolo complesso da superare.

Oltre al carattere aconfessionale, la scuola si pone all’esterno di qualsiasi logica politica. Non vengono pubblicizzati partiti e non si fa pressione sull’amministrazione locale. L’idea di fondo è che la non appartenenza religiosa e politica, favorisca una accoglienza inclusiva e senza barriere, riducendo le differenze tra studenti e insegnanti.

La Penny Wirton è una risorsa per il territorio nel quale si realizza l’ideale dell’uguaglianza e dell’accoglienza senza discriminazioni: principi che, esternamente, possono essere strumentalizzati, ma che per loro natura non nascono con un colore politico o religioso.

Uno stile unico

Tra i tratti caratteristici più salienti della scuola vi è l’approccio didattico utilizzato. Alla Penny Wirton, in primo luogo, l’insegnamento non avviene all’interno di classi ma attraverso il rapporto «uno a uno» tra volontario e studente. Alla base vi è il riconoscimento dell’unicità e della diversità di ciascuna persona, non solo da un punto di vista umano, ma anche prettamente scolastico. Infatti proprio a partire dallo studente e dalla sua specifica conoscenza della lingua italiana viene effettuata la scelta degli argomenti da affrontare.

Se i numeri a disposizione lo consentono, compreso quello dei volontari, ciascuno studente svolge le ore di lezione con un insegnante di riferimento o all’interno di piccoli gruppi di lavoro, senza che questo escluda eventuali interazioni con altri allievi o volontari vicini. Si tratta di ambienti nei quali è prioritaria l’attenzione relazionale e didattica per ogni singolo allievo, che, allo stesso tempo, si realizza in uno spazio di vita collettivo e movimentato. In altre parole, individualizzazione e senso comunitario, ossia due movimenti spesso considerati contrapposti, trovano un loro spazio comune alimentandosi vicendevolmente. Da questo punto di vista un ruolo importante è rivestito dalla figura del coordinatore, che raramente lavora con un solo studente, ma funge da collante fra i vari gruppi di studio durante l’attività.

L’insegnamento, sempre secondo la Carta, «non parte da teorie universali o da categorie grammaticali ma dalle persone». Assumendo tale presupposto, le lezioni non rappresentano comunque mai un semplice luogo di confronto o intrattenimento tra soggetti ma, al contrario, un momento nel quale «è perseguito un rigoroso percorso didattico per l’uso e la conoscenza della lingua italiana che segue la progressione da semplice a difficile».

Il materiale didattico utilizzato è solitamente suddiviso in due categorie: da un lato vi sono i libri di testo, e dall’altro è fortemente incentivato l’uso di strumenti per la ludo didattica. I due manuali «Italiani anche noi» rappresentano i due strumenti più utilizzati nelle lezioni di ogni Penny Wirton in Italia. Entrambi sono stati redatti dai fondatori sulla base dell’osservazione degli immigrati nel corso dei primi anni di attività, e sono stati illustrati con disegni originali dalla pittrice Emma Lenzi.

Il percorso

Oltre all’utilizzo dei libri di testo, in molte scuole viene dato ampio risalto anche agli strumenti di ludo didattica. Si tratta di piccoli giochi tascabili, talvolta collegati direttamente ai libri di testo, che permettono un insegnamento più sciolto, dinamico, in grado di «aprire» e stimolare lo studente all’apprendimento.

Lo scopo è quello di aiutare le persone nel miglioramento della lingua, senza in alcun modo quantificare il progresso ottenuto o creare classificazioni o gerarchie tra gli allievi, tenuto conto delle ampie differenze che si riscontrano tra loro. Allo stesso modo non vengono considerate negativamente le assenze effettuate, in quanto «stimiamo che gli allievi Penny Wirton siano assenti solo per cause serie e attendibili, ad esempio lavoro, anche saltuario». Nonostante questo, a ciascuno studente deve essere garantita una «continuità didattica collettivamente curata».

Al fine di ovviare alle intermittenze di frequenza di allievi e insegnanti, ogni studente possiede una scheda personale, sulla quale il volontario del giorno segna la data e gli argomenti svolti. Tale strumento consente all’insegnante della volta successiva di conoscere il lavoro già realizzato e agganciarsi agli ultimi argomenti effettuati. Al termine del percorso, che non ha una data conclusiva prefissata, ma termina quando viene liberamente stabilito dallo studente, la scheda personale rappresenterà il programma didattico svolto durante tutto il corso delle lezioni, e può risultare utile nel conteggio delle ore laddove egli richieda un attestato di frequenza.

Da sottolineare che la Penny Wirton non rilascia diplomi di valore legale, né certificati di livello di italiano validi per il permesso di soggiorno, per i quali è necessario l’intervento di un Ente certificatore.

Insegnanti volontari

Come già scritto, la scuola Penny Wirton si avvale di soli insegnanti volontari, nessuno dei quali, coordinatori inclusi, è in alcun modo retribuito per il servizio garantito. Diverse possono essere le modalità e i motivi per i quali una persona decide di insegnare alla Penny Wirton e questo rende l’insieme di volontari un grande calderone di umanità fortemente differenziato, all’interno del quale, comunque, ci si riconosce nel grande ideale dell’aiuto gratuito.

C’è chi giunge alla Penny Wirton perché mosso da principi politici, chi per questioni etiche, chi per sentirsi utile e chi per provare qualcosa di nuovo. Il risultato è che nelle svariate sedi possono avvicendarsi insegnanti di età e con percorsi di vita molto diversi.

Tra i volontari possono esservi ex docenti, pensionati e non, con esperienze lavorative differenti da quella scolastica. In molte sedi una cospicua fetta è costituita da studenti universitari, ma anche giovani liceali che giungono attraverso lo strumento dello stage formativo nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro.

Non è necessario che l’insegnante possieda qualifiche o diplomi specialistici, ma è importante che sia adeguato alla funzione: oltre ad assicurare un servizio gratuito è chiamato a garantire una certa continuità, e non un apporto solo occasionale, e a mettersi in relazione positiva sia con gli studenti che con i colleghi. In altre parole, deve essere un soggetto curioso, aperto alla conoscenza e allo scambio con l’altro e, anche in virtù della dinamicità e mutevolezza continua che caratterizza la scuola, deve rendersi interscambiabile, se necessario, con altri insegnanti.

Al fine di garantire il rapporto uno a uno, ciascuna scuola possiede, in genere, un numero di volontari insegnanti circa pari a quello degli studenti. Laddove ciò non fosse possibile, si cerca di predisporre piccoli gruppi di lavoro.

Le diverse Penny Wirton ricevono continuamente nuove richieste da parte di persone interessate a offrire il proprio servizio. A tal proposito la scuola di Roma predispone periodici momenti di formazione, coordinati e gestiti da Anna Luce Lenzi, sia per nuovi insegnanti che per volontari già attivi che necessitano di aggiornamento. Nelle altre scuole è la pratica sul campo lo strumento formativo prioritario utilizzato a fronte di nuovi arrivi. Generalmente, a tutti viene offerta l’opportunità di iniziare affiancando per alcune lezioni insegnanti più esperti e di consultare i materiali didattici presenti nelle diverse sedi.

Gli studenti

«La scuola – troviamo scritto nella Carta d’intesa – accoglie sempre e accoglie tutti lungo tutto il corso, fino all’ultimo giorno, anche per una volta sola» (Carta d’intesa). Le scuole Penny Wirton sono rivolte agli immigrati, chiunque essi siano. A differenza di altre realtà, si tratta di una scuola priva di criteri di accesso: indipendentemente dal genere, dall’età, dalla nazionalità, dalla situazione economica e dalla condizione di regolarità-irregolarità della sua presenza sul territorio italiano (che non viene richiesta), a nessuno è impedita l’accoglienza e la partecipazione gratuita ai corsi di italiano. Le uniche informazioni registrate rispetto agli allievi riguardano i dati anagrafici (nome, cognome e nazionalità) e il luogo o la struttura di residenza, laddove sia presente.

L’assenza di vincoli di accesso rende anche il gruppo di studenti un grande mosaico eterogeneo in continuo mutamento che varia a seconda del territorio di insediamento della scuola. Promiscuità, nel senso positivo del termine, e mescolanza sono le parole d’ordine che caratterizzano la vitalità di ciascuna di queste realtà. A popolare le Penny Wirton possono essere giovani, alcuni dei quali minori stranieri non accompagnati provenienti dai centri di accoglienza, o adulti, parte dei quali regolarmente insediati e integrati, altri in attesa dello status di rifugiato, altri ancora giunti tramite i ricongiungimenti familiari. Altri sono maggiorenni ospiti di centri di accoglienza.

In alcune sedi si registra un più ampio numero di donne, mentre in altre è preponderante la presenza maschile. Come già sottolineato, la composizione di genere, età e nazionalità è condizionata dal territorio di riferimento, oltre che dal periodo dell’anno. Anche i livelli di preliminare conoscenza della lingua possono, quindi, essere molto differenti. C’è chi è residente in Italia da diverso tempo, lavora e capisce l’italiano, chi è appena arrivato; chi conosce l’alfabeto latino e chi invece scrive da destra verso sinistra.

Spesso per i volontari è possibile trovarsi di fronte a persone non scolarizzate nel paese di origine, rispetto alle quali la scuola «dedica un’attenzione particolare e didatticamente accurata», come recita la Carta. La sfida che si pone in questi casi risulta estremamente complessa: si tratta non solo di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche di farlo in una lingua diversa dalla loro. Per questo motivo, sulla base dell’osservazione degli analfabeti in lingua madre in dieci anni di attività, i fondatori hanno creato e divulgato delle linee guida che oggi rappresentano un importante strumento di supporto ai volontari delle varie sedi che si trovano a interfacciarsi con studenti non scolarizzati.

Come arrivano

Gli studenti possono venire a conoscenza della scuola in diversi modi. In primo luogo, ogni Penny Wirton, tra le altre cose, si occupa anche di pubblicizzare sul territorio i corsi tenuti. Da un lato è fortemente incentivato l’uso di piattaforme tecnologiche: ogni scuola, oltre ad avere uno spazio sul sito internet ufficiale della Penny Wirton, possiede e gestisce un profilo Facebook di facile consultazione, nel quale comunicare i giorni, gli orari di lezione e pubblicare foto delle attività svolte. Un’altra modalità è quella del volantinaggio: è utile affiggere volantini pubblicitari alle fermate degli autobus, nelle moschee e in tutti quei luoghi di interesse frequentati da immigrati. Fondamentale, infine, è il contatto tra la scuola e i servizi sociali territoriali, gli sportelli, le associazioni, le cooperative e tutti quei soggetti che nel territorio si occupano di stranieri e migrazione. Talvolta può essere lo stesso centro di accoglienza a indirizzare e accompagnare in prima persona i soggetti ospitati presso i locali della scuola.

Nonostante questo lavoro, così come esplicitato da molti coordinatori, la modalità più usuale attraverso la quale molti stranieri giungono a conoscenza della scuola è rappresentato dal passaparola informale che si sviluppa tra i connazionali.

In virtù del numero crescente di scuole Penny Wirton, il coordinamento fra loro è sempre più importante. Lo scambio di esperienze, testimonianze e informazioni è fondamentale.

Al fine di incentivare gli scambi tra le scuole, da giugno 2018 è stato indetto a Roma il primo convegno nazionale delle scuole Penny Wirton, al quale hanno partecipato rappresentanti di quasi tutte le sedi. I convegni si sono ripetuti tutti gli anni. A seguito dell’ultimo incontro, nel giugno 2023, è stato creato un secondo sito internet intitolato «I quaderni della Penny Wirton», un’ulteriore piattaforma di incontro nella quale condividere e scambiare storie di vita, testimonianze, notizie delle attività nei diversi territori, rafforzando l’unione e l’identità della grande famiglia delle scuole Penny Wirton.

Elisa Sartori

Alcuni numeri

Non è possibile fornire un dato complessivo delle presenze di immigrati e di volontari di tutte le scuole attive sul territorio italiano, tuttavia, per comprendere la portata del progetto, può essere rilevante il recente report della scuola di Roma.

Nel 2022 a Roma sono state erogate 3.100 lezioni individuali su 80 giorni di apertura, con una media di 40 studenti stranieri alla volta, raggiungendo 500 lezioni individuali al mese. Gli studenti stranieri frequentanti in modo continuativo o intermittente sono 340 provenienti da 50 paesi, in prevalenza Egitto, Somalia, Afghanistan, Ucraina, Bangladesh, Nigeria, Perù.

I volontari coinvolti sono 130 a cui si aggiungono 66 studenti delle superiori coinvolti in progetti di alternanza scuola lavoro.

Si allinea al trend descritto per numeri e flussi la scuola di Milano. A dicembre 2023 le scuole Penny Wirton attive erano 59.

E.S.

Una comunità che accoglie
L’esperienza Penny Wirton a Pinerolo (Torino)

Un gruppo di studenti di liceo restano colpiti dal racconto dei fondatori della scuola Penny Wirton. Chiedono ai propri professori di poter attivare un’esperienza simile tra le mura del loro istituto. Così nasce qualcosa di particolare.

L peculiarità della scuola Penny Wirton di Pinerolo è data dal fatto che essa è ospitata da un istituto scolastico statale. Un’iniziativa formativa per sua natura informale e destrutturata, posta dentro a un ambiente istituzionale strutturato e radicato nel tessuto locale. L’istituto scolastico diventa contenitore di un’esperienza formativa rivolta agli immigrati, avente come presupposto un’apertura e un’accoglienza non giudicanti senza forme di controllo. Il progetto ha preso avvio nella primavera del 2018 da un incontro con Eraldo Affinati che presentò ad alcune classi del liceo Porporato il suo romanzo di recente pubblicazione: «Tutti i nomi del mondo». Affinati condivise con il pubblico anche la sua esperienza come fondatore della scuola romana. Su proposta degli studenti stessi nell’anno scolastico 2018-2019 è stato, quindi, presentato al collegio docenti il progetto pilota della scuola di alfabetizzazione per migranti che sarebbe stato inserito nel piano dell’offerta formativa del liceo.

Chi la frequenta

Per quanto riguarda gli stranieri che frequentano la Penny Wirton di Pinerolo, attualmente l’8% dichiara uno stato di non alfabetizzazione nel paese di origine, il 20% un livello elementare o intermittente di istruzione, il 30% un livello intermedio, il 35% un livello medio alto, il 7% un livello di formazione universitaria. Il 20% di loro conosce solo la lingua madre, il 70% la lingua madre e una seconda lingua diversa dall’italiano e il 10% conosce tre lingue.

Per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana, la maggior parte di loro, circa il 70%, è inserita in un percorso regolare di studio, in quanto all’interno dei percorsi dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati): frequentano regolarmente i Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) del territorio. Il 10% frequenta le scuole superiori, il 15% frequenta anche corsi regionali per la formazione professionale e il 10% richiede un aiuto per i corsi preparatori all’esame della patente di guida. Altri si avvalgono unicamente di questo servizio perché gli enti presso i quali sono in carico non sono ancora riusciti a inserirli in percorsi di formazione istituzionali.

L’età è molto varia: il 10% sono minorenni, il 40% si può comprendere in una fascia dai 18 ai 30 anni, il 30 % si colloca fra i 30 e i 45 anni, mentre il 20 % ha oltre i 45 anni, fino a un massimo di 60 circa.

Le iscrizioni sono aperte tutto l’anno, per cui è possibile, per chi ne faccia richiesta, iniziare subito in qualsiasi momento.

No all’assimilazione

La mia esperienza diretta di questi anni mi permette di affermare che nella scuola Penny Wirton del Liceo Porporato è assente ogni logica neo-assimilazionista. Questa prevede che la scolarizzazione sia sempre più una moneta di scambio richiesta al soggetto migrante: se egli svolge corsi di italiano e dimostra di aver raggiunto un livello sufficiente, allora è un soggetto «desiderabile» e quindi «assimilabile» nella società. Il tratto caratterizzante di questo approccio è l’idea che tutte le possibili differenze tra le persone sono riconducibili a un’unica struttura umana e che l’incontro con il diverso si risolve progressivamente e inevitabilmente con la sua adesione al modello culturale dominante.

In tale ottica l’assimilazione è considerata un processo organico, univoco, lineare, il cui peso poggia esclusivamente sui migranti. Sono infatti loro che si vedono costretti ad assimilarsi ai «nativi» assumendone gli abiti mentali e gli stili di vita allo scopo di farsi accettare, non essere percepiti come un pericolo per l’equilibrio della società ricevente e progredire nella scala sociale.

In opposizione a quest’orientamento unidirezionale, il principio fondante della scuola Penny Wirton è la valorizzazione delle risorse e della specificità delle persone. Non solo la scuola non rilascia certificati di livello validi per il permesso di soggiorno di lunga durata, ma si configura come un luogo informale nel quale è lo studente a scegliere se e in quale misura frequentare le lezioni. In altre parole, essa è un’opportunità, tra le altre, di sentirsi accolti, senza che vi siano divieti, obblighi di partecipazione o test che certifichino l’apprendimento della lingua.

In questa scuola, confermando gli insegnamenti di don Lorenzo Milani, non esiste e non è tollerato il dualismo «buono-cattivo» o «bravo-non bravo». Come a Barbiana, tutti gli allievi sono considerati, allo stesso tempo, uguali in umanità e diversi da un punto di vista scolastico. L’obiettivo non è quindi quello di livellare il gruppo di studenti a uno standard comune ma, al contrario, aiutare singolarmente gli individui a colmare delle lacune linguistiche, permettendo loro di destreggiarsi più efficacemente nel nuovo contesto di vita.

Cittadinanza attiva

Occorre sottolineare inoltre che, mentre «il modello di civic integration in declinazione italica che si è delineato negli ultimi anni interpella il soggetto, la sua prestazione, i suoi comportamenti, la sua responsabilità individuale, non la comunità migrante, né tanto meno la comunità di accoglienza» (Carbone, vedi bibliografia), al contrario, il progetto delle scuole Penny Wirton si mette nell’ottica di interpellare la comunità d’accoglienza affinché i suoi membri si lascino coinvolgere e partecipino ciascuno secondo le sue competenze e i suoi valori. Con questi presupposti la scuola Penny Wirton può diventare uno spazio in cui sviluppare il capitale relazionale degli studenti, in quanto, oltre a essere una scuola di italiano, può essere, e lo è nei fatti, un luogo nel quale lo studente instaura relazioni significative con altre persone sia connazionali, sia studenti di altre origini, sia volontari.

Seguendo gli sviluppi del progetto è risultata evidente l’attrattività della scuola Penny Wirton per gli immigrati, non solo a livello nazionale con un numero di scuole in aumento in medie e in grandi città, ma anche a livello territoriale con un crescente numero di utenti iscritti e di volontari.

Ascoltando le motivazioni di alcuni studenti frequentanti, sia in modo regolare, sia saltuario, emerge che tale attrattiva ha le sue radici nei principi fondanti espressi dalla Carta d’intesa: la gratuità, l’assenza di criteri di accesso, la libertà di frequenza concessa allo studente e l’insegnamento uno a uno con il volontario insegnante.

Un altro aspetto interessante riguarda la specificità della Penny Wirton di Pinerolo che è situata proprio all’interno di un liceo storico radicato nel tessuto cittadino. Si configura un paradosso interessante dal punto di vista sociologico: una scuola superiore, che rappresenta l’espressione istituzionale di un’organizzazione pubblica, contiene in sé una scuola che per sua natura si propone come informale, destrutturata, senza quegli elementi che caratterizzano l’idea stessa di percorso scolastico (le classi, le valutazioni, le certificazioni, l’apparato amministrativo, l’obbligo di frequenza). Il liceo offre non solo la disponibilità di locali e di strumenti didattici per la realizzazione di un progetto, ma ha integrato la scuola Penny Wirton nelle sue attività di arricchimento formativo, rendendo gli studenti del triennio attori fondamentali per la sussistenza e per l’evoluzione del progetto stesso. Le ore di volontariato degli studenti sono riconosciute come percorsi di Pcto (alternanza scuola lavoro), oppure come crediti scolastici. In alcuni casi la loro esperienza è stata oggetto di trattazione personale agli esami di stato, in altri è stata presentata in occasioni pubbliche, come concorsi scolastici, creando un affetto di disseminazione che ha consolidato di fatto questa realtà.

Alcuni studenti, dopo la conclusione del loro percorso liceale, hanno continuato la loro esperienza di volontariato creando un effetto di promozione sul territorio. Ai nostri studenti liceali si aggiungono poi altri soggetti impegnati nel volontariato e gli operatori dei servizi d’accoglienza del territorio, in contatto informale con la scuola Penny Wirton nella quotidianità.

Processi di inclusione

Tale osmosi fra le istituzioni e il privato sociale del territorio ha anche agevolato l’avvicinamento degli utenti alle risorse locali, contribuendo a sviluppare la loro socializzazione e connotando la scuola Penny Wirton come un luogo di insegnamento e di inclusione.

Gli studenti stranieri vedono nella scuola un’occasione per incrementare la propria rete di legami, non solo con altri studenti e con i volontari incontrati, ma anche con possibili interlocutori del territorio valicando i confini scolastici.

Come scrive Laura Bosio, direttrice della Penny Wirton di Milano, nel suo libro Una scuola senza muri: «[…] non è questione di essere caritatevoli, meno che mai eroici. Per tutti noi quello che facciamo è normale: si prova a dare una mano in un momento complesso, ci si schiera anche, e lo si fa in un modo possibilmente serio e leggero, c’è già tanta tragedia nel fondo. Forse il punto è aiutare gli altri a riconoscersi, mentre riconosciamo noi stessi. Dal basso, gomito a gomito intorno ad un tavolo, davanti ad un libro dove si impara l’Italiano».

Elisa Sartori

Incontri e sorrisi
Esperienze di giovani volontari della Penny Wirton

Una peculiarità della scuola di Pinerolo è quella di essere stata voluta prima di tutto dagli studenti. E alcuni di loro sono i primi volontari-insegnanti. Qui riportano storie vissute in presa diretta con dei quasi coetanei stranieri.

Alcuni studenti del triennio hanno partecipato a un progetto didattico presentando la loro esperienza di volontariato. Dopo aver studiato i flussi migratori e la storia delle migrazioni del nostro Paese, hanno realizzato un lavoro basato su interviste fatte ai migranti durante le ore di lezione della scuola Penny Wirton.

Alex

Alex (nome di fantasia) ci ha raccontato che uno degli aspetti che ama di più della vita è quello di impegnarsi in ciò che fa. In Egitto svolgeva addirittura due mestieri: il tassista per i turisti, e il commesso in un negozio di frutta e verdura. Alex ci ha quindi spiegato che ciò gli manca di più è proprio il lavoro.

Nonostante sia in Italia da poco tempo, e nonostante il periodo storico complesso a causa del post Covid-19 e delle guerre, è già riuscito a fare un colloquio di lavoro. Noi ci auguriamo che sia riuscito a trasmettere un’immagine positiva della sua persona volenterosa, disposta a mettersi in gioco e a trovare le risorse per vivere qui. Per lui, il suo Paese è molto diverso dall’Italia, non solo sul piano delle libertà concesse, ma anche nello stile di vita. A partire dal traffico costante, che in Egitto porta con sé il continuo rumore dei clacson. Lì non ci sono semafori, o comunque non vengono rispettati, e per attraversare la strada, in assenza di strisce pedonali, ci si può impiegare un’ora, e quando finalmente si riesce nell’intento, gli insulti degli automobilisti arrivano a valanga.

Sicuramente Alex abitava in una metropoli, infatti ci ha detto che ha trovato Torino più simile all’Egitto rispetto a Pinerolo, con uno stile di vita totalmente diverso da quello di un piccolo paese di campagna, che lui preferisce. Ama il cibo italiano, in particolare il caffè, bevanda comune e scontata per noi. Adora il profumo che emana la caffettiera pronta.

Predilige di gran lunga la tranquillità di un paese immerso nella natura, nei ritmi e nelle attività umane scandite dalla luce del sole: quando questo tramonta e giunge il buio, la vita si blocca, per ripartire il mattino successivo con l’alba.

Tutto ciò ci ha fatto riflettere su aspetti del luogo in cui viviamo che non avevamo considerato; ma soprattutto il profumo intenso, la serenità, il silenzio e la dolcezza che caratterizza Pinerolo. Ed è come se la conoscesse meglio lui di noi, non nel concreto o nella viabilità, ma nell’essenza. Il suo entusiasmo e la sua semplicità nella descrizione della nostra città ci hanno fatto riscoprire la sua bellezza.

Hanna

Poi c’è Hanna, una ragazza nigeriana di 23 anni che frequenta già da tre anni la Penny Wirton. Quando abbiamo fatto la prima lezione con lei, ci ha guardato subito con occhi timorosi e ci ha scrutato con prudenza. Fra un esercizio di italiano e l’altro ci ha raccontato la sua storia dal momento in cui è arrivata in Italia. Non se la sentiva ancora di parlare del viaggio dalla Nigeria, ma i suoi occhi, scavati e arrossati, parlavano per lei. Osservandoli, infatti, si poteva percepire un passato con numerose difficoltà: nello sguardo ha ancora impresse le immagini e le sofferenze del viaggio.

In situazioni difficili come quella di Hanna, e di molte altre come lei, nelle quali non si possiede alcuna stabilità economica e di relazioni, è difficile tenere aperto il varco della fiducia nel futuro.

La notte non riesce a dormire, non solo a causa del ricordo del viaggio, ma anche della vita che conduce ora, della quale è difficile parlare. Mentre ce la racconta assume una postura chiusa e le mani cercano di sfogare lo stress sulle maniche: le guarda e le tocca per farsi forza a raccontare.

Quella forza riesce a trovarla parlando di sua figlia: Hanna è giunta in Italia con la sua piccola, che oggi ha quattro anni e frequenta l’asilo. Questa madre ha ancora diverse difficoltà da affrontare per garantire un futuro migliore e sereno a sua figlia, ma è disposta a tutto, e sono ancora una volta i suoi occhi a dimostrarlo.

Quando ci fa notare che manca poco all’uscita della bimba da scuola, il suo sguardo, che fino a quel momento era diffidente e segnato dalla stanchezza, si illumina e allo stesso tempo accenna a un sorriso. È la sua bambina che la stimola a superare i molti ostacoli della vita, da quelli passati, come il viaggio dalla Nigeria all’Italia, al lungo cammino di inserimento nel nostro Paese.

All’inizio Hanna non era in grado di leggere e scrivere, era analfabeta anche nella sua lingua madre e ha confessato di provare vergogna per questo, i suoi tentativi di inserimento nei corsi Cpia sono stati fallimentari, ma anche grazie all’aiuto di questo insolito modo di essere accompagnata nello studio alla Penny Wirton, è riuscita a imparare l’italiano e oggi continua il suo percorso con impegno e determinazione. I pensieri e le speranze si sono fatte strada in mezzo alla difficoltà espressiva e ci ha suscitato una grande vicinanza.

Verso un’altra vita

Questi giovani si esercitano a casa segnandosi le parole che non capiscono alla televisione, traducendole in inglese con il traduttore, per poi scriverle e impararle in italiano. In questo modo riescono a comprendere alcuni termini e cercano di collegarli insieme, di intuire il discorso.

Gli sforzi che compiono sono enormi: dall’imparare l’italiano al raccontare il loro passato, cercare un lavoro, crescere dei figli e costruire un futuro.

Nei discorsi di queste persone abbiamo visto la sincerità e questa suscita in noi speranza nell’uomo del domani. Sembra una contraddizione poiché c’è chi vorrebbe che l’immigrazione fosse un fenomeno concluso, da lasciare nel passato, mentre noi, in quello stesso fenomeno, vediamo il futuro.

Questo è il risultato delle interviste realizzate: la nascita di un legame tra intervistatori e intervistati, uno scambio reciproco di racconti ed emozioni. Non siamo solo noi ad aiutare loro con i corsi di italiano, o con risorse economiche, non è dare senza ricevere, anche se questo è o dovrebbe essere lo scopo del donarsi agli altri. C’è una restituzione, uno scambio reciproco, un completamento. Noi siamo rimasti meravigliati dai loro racconti e loro dalla nostra gentilezza, o meglio dalla gentilezza di tutte quelle persone che aiutano nell’apprendimento dell’italiano con il progetto Penny Wirton. Ma anche dalle persone che li aiutano a trovare un lavoro o semplicemente con chi, incontrato per strada, ha dato disponibilità a ripetere una parola non compresa o ha sorriso loro. I sorrisi che alla fine ci accomunano, facendoci superare ogni differenza culturale e linguistica. Nel libro «Una scuola senza muri», Laura Bosio sottolinea che uno dei tratti della scuola Penny Wirton è che quasi tutti sorridono volentieri, nonostante ciò che hanno passato, perché questa esperienza rappresenta per loro un primo passo verso un’altra vita.

Studenti del Liceo Porporato di Pinerolo

 

«L’inclusione è nel Dna del nostro liceo»
La parola del preside Valter Careglio

Valter Careglio è il dirigente scolastico del Liceo Porporato di Pinerolo. Lo abbiamo incontrato.

Che valenza ha l’avere la scuola Penny Wirton come parte dell’offerta formativa del liceo?

«È un’esperienza di service learning, ovvero una prassi di attività di servizio al territorio che comporta un apprendimento da parte della comunità educante, quindi sia dei docenti sia degli studenti. Di fatto tu impari facendo. Rispetto a qualsiasi attività di tirocinio o di alternanza scuola lavoro, il service learning aggiunge un valore: il servizio agli altri e al territorio. La Penny Wirton è proprio questo, perché da una parte mette in gioco le competenze dei docenti e degli studenti che apprendono e si sperimentano, e dall’altra ha un forte valore rispetto ai temi del volontariato, del servizio civile, della cittadinanza.

Inoltre, aprirsi al territorio vuol dire fare cose con il territorio e per il territorio. Questa scuola è nata in sinergia con Diaconia valdese, Caritas, Ciss (Consorzio intercomunale servizi sociali), e altre realtà del pinerolese.

Un altro aspetto è la sua connotazione politica. Chi crede in questo progetto crede in una società multietnica, nel fatto che i valori e i diritti non dipendono dal fatto di nascere in un posto piuttosto che in un altro, ma tutti devono avere pari opportunità; e la lingua è uno scoglio importante da passare.

Non bisogna confondere il piano istituzionale con quello che è la scuola Penny Wirton. L’istituzione ha i Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. C’è anche l’alfabetizzazione degli stranieri, ma si occupano di persone in età scolastica. Taglia fuori persone di età maggiore che non sanno l’italiano, mentre la Penny Wirton va a coprire un segmento importante di cui istituzionalmente nessuno si occupa».

Chi sono i volontari della Penny Wirton al Liceo Porporato?

«Per gestire iniziative così occorrono delle professionalità. E i professori del liceo le possono mettere in campo. Inoltre la Penny Wirton ha avuto la forza di costruire un rapporto con gli ex docenti, personale della scuola che è in pensione e continua a mantenere un impegno. Abbiamo dato un senso a quelle professionalità che pure andando a fare qualcosa di completamente diverso, spendono la loro competenza. Un ex insegnante di lettere è diverso da qualcuno che si improvvisa.

Inoltre si prendono in carico degli studenti in alternanza scuola lavoro.

È un’attività fortemente strutturata e molto significativa. Ha una dimensione sociale, una dimensione politica. È un segmento di volontariato pieno di senso, ovviamente se si crede nell’integrazione».

Si tratta anche di una scelta di campo del dirigente.

«Ci siamo mossi in continuità con quanto fatto dalla precedente dirigente, Maria Teresa Ingicco.

Il Liceo Porporato ha al centro del suo Piano triennale di offerta formativa (il documento fondamentale di programmazione, ndr) il tema dell’inclusione, a tutto tondo. Vuol dire l’attenzione alle persone. Con la scuola di italiano ci occupiamo di persone che non vengono a scuola, ma è un’opportunità molto grande anche per i nostri studenti. Inoltre noi non abbiamo corsi serali, e questa esperienza costituisce un bagaglio importante se un giorno dovessimo realizzarli.

La nostra è una scuola che fino alle 18 è viva, ci sono molte attività e la Penny Wirton è una di queste».

Marco Bello

 

Bibliografia e sitografia

  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2011.
  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2015.
  • Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2011.
  • Vincenzo Carbone, La nozione di integrazione dei migranti forzati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Laura Bosio, Una scuola senza muri, Enrico Mariani editore, Milano 2019.
  • Fiorucci, R. Cima, La formazione come strumento di inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Sito ufficiale della Penny Wirton: www.scuolapennywirton.it
  • Sito «I quaderni della Penny Wirton»: www.iquadernidellapennywirton.it

Hanno firmato il dossier:

  • Elisa Sartori
    Insegnante di italiano, latino, storia a geografia, attualmente al Liceo Porporato di Pinerolo. Come educatrice, a Torino, si è occupata di minori in condizioni di disagio, di progettazione sociale inclusiva e di percorsi di sostegno per genitori e minori in comunità. Questo dossier è tratto dalla sua tesi di master di primo livello in «Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati», Università degli studi Roma tre.
  • Si ringraziano
    Valter Careglio, dirigente del Liceo Porporato di Pinerolo, e Joram Gabbio, vicepreside, per i testi degli studenti.
  • a cura di Marco Bello
    giornalista, direttore editoriale MC.