Amante della gioia


Anche chi non conosce molto dei Vangeli, di certo sa che Gesù ha compiuto il suo «primo miracolo» trasformando l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11).
Chiunque abbia frequentato un po’ il Vangelo di Giovanni, però, è ben consapevole che esso è un’opera complessa, dove il messaggio più immediato è vero, ma rimanda anche a qualcosa di più profondo. D’altronde, è l’evangelista stesso a suggerirlo quando definisce i miracoli di Gesù non «prodigi», come fanno spesso gli altri vangeli, ma «segni». Un segno, si sa, non ha valore soltanto per se stesso, ma perché rimanda anche ad altro.

È possibile, allora, che anche un racconto che in apparenza è molto semplice nasconda insegnamenti ulteriori, come peraltro la sua posizione all’inizio del Vangelo potrebbe farci sospettare. Per coglierli, lasciamo che sia il racconto a guidarci. Innanzitutto, dobbiamo capire che cosa dice a un primo livello (che resta autentico e significativo), e quali indizi ci dà lo scrittore per scendere al secondo livello.

Non troppo ascetico

Tutte le tradizioni religiose, ma in fondo tutte le scelte di vita, anche quelle politiche o sportive o dello spettacolo, ci insegnano che per raggiungere un risultato dobbiamo fare grosse rinunce. Una certa tendenza ascetica c’è in ogni scelta di vita seria.

Può quindi stupirci un po’ (ma probabilmente anche farci piacere) che il primo gesto pubblico di Gesù è di andare a una festa di nozze. Il tono del Vangelo, finora, è stato molto solenne, tanto che difficilmente ci saremmo aspettati una svolta di questo tipo. In più, in questo banchetto, sembra di cogliere non poca improvvisazione. Ci viene detto, infatti, che a Cana di Galilea c’è una festa di nozze alla quale è presente Maria, mentre Gesù con i suoi discepoli è invitato quasi come aggiunta, come recupero pensato all’ultimo momento (v. 1-2). Le feste nuziali del Vicino Oriente, spesso ancora oggi, non assomigliano tanto ai nostri pranzi di matrimonio con il numero e la disposizione esatta degli invitati programmati in anticipo, quanto più a una festa di paese, dove qualche posto si può sempre aggiungere. Sembra che questa sia la situazione di Gesù, che si unisce a Maria e si porta dietro anche i suoi nuovi discepoli. Se Gesù ci mostra il volto del Padre, la prima istantanea che ci regala in questo passo è di un Dio un po’ diverso da quello dei filosofi (o dei catechismi, a volte). Se abbiamo in noi l’immagine di Dio come di un vecchio severo con la barba bianca e mai un sorriso, ecco, qui ci troviamo di fronte a un Padre giocoso, a cui non dispiace il clima umano della festa, anche se un po’ improvvisata e approssimativa. Pronto a divertirsi in semplicità e calore.

Ma se abbiamo parlato di improvvisazione, è perché il racconto ce la fa intuire tramite le parole di Maria rivolte a Gesù: «Non hanno vino». Che idea ci si può fare di qualcuno che per delle nozze non mette a disposizione abbastanza vino? Pazienza per il cibo, alla fine ce n’è sempre troppo, ma non si può fare festa senza bere. In più, non sono neanche stati capaci di rimediare con discrezione: infatti deve intervenire Maria, un’invitata, che ne parla al figlio.

Un secondo livello?

La risposta di Gesù all’osservazione di Maria («Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora») è tanto strana da costringerci a fermarci, rileggerla e poi chiederci, perplessi, che cosa sia successo o se voglia dire qualcosa di particolare. Probabilmente questa nostra reazione è esattamente quello che lo scrittore voleva suscitare in noi lettori, ossia che ci fermiamo e notiamo i particolari con stupore, così che non ci sfuggano. Come l’autore di un giallo, Giovanni vuole farci notare che ci sta dando un indizio.

Intanto ci domandiamo: ma davvero Gesù può parlare così a Maria? Lo sappiamo tutti che non si risponde con quel tono a una mamma.

Quel secco «donna», di certo, non suona brutale solo a noi: avrà scioccato anche i primi lettori del Vangelo.

È una parola che richiama la nostra attenzione. Per questo vale la pena soffermarcisi: può essere l’indicazione per intuire più in profondità il senso del versetto. Usata come appellativo rivolto a Maria, la ritroviamo in Gv 19,26 quando Gesù sta per morire in croce, cioè quando è arrivata la sua ora, e sotto la croce si trovano «la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava». Non è certo un contesto nel quale ci si possa lasciare andare a espressioni fuori luogo.

Qui però ci sembra quasi di dover spiegare un enigma con un altro enigma: ad esempio, chi è «il discepolo che egli amava»? Di solito si risponde Giovanni l’evangelista, come ci dice la tradizione. Questo perché si parla di questo discepolo solo nel suo Vangelo, quindi deve trattarsi di lui. Se però fosse davvero l’autore del Vangelo a definirsi così, di certo non sarebbe segno di umiltà e, senza dubbio, avrebbe deciso di usare una formula un po’ ambigua che pare suggerire il fatto che Gesù non amasse gli altri discepoli. La tradizione, per provare a mettere ordine, l’ha intesa come il «discepolo prediletto», nel senso che sì, ovviamente amava tutti, ma a Giovanni era più legato, come può lecitamente succedere tra gli esseri umani. Il Vangelo, però, non parla di predilezione, ma proprio del «discepolo che Gesù amava»; un discepolo che, altrove, è caratterizzato dal fatto di essere veloce a intuire, pronto di riflessi ma in piena umiltà, un discepolo che non guida gli altri ma è rapido a giungere alla fede (pensiamo a Gv 20,1-8 e 21,7). C’è allora da pensare che in questa espressione si nasconda il discepolo ideale, il modello di discepolo, quello che ognuno di noi è chiamato a essere, che magari non ha incarichi particolari nella Chiesa ma vive nella fede il rapporto con Gesù. Se sotto la croce, quindi, quel discepolo è un simbolo dei credenti cristiani, di ciascuno di noi, allora anche «la madre» probabilmente è un simbolo. Ma di cosa? Se ci pensiamo, sarebbe ben curioso che Gesù si ricordasse solo in quel momento di affidare sua madre a qualcuno, dopo tre anni che se ne andava in giro e non badava a lei. È ben difficile che, nel contesto teso e solenne della crocifissione, Gesù pensi a non lasciare in giro bollette non pagate.

Maria è il «luogo» dal quale viene Gesù. Egli nasce, come tutti, da una donna, ma anche da una tradizione (che peraltro erano le donne a dover trasmettere). Gesù è figlio di tutta la storia religiosa del popolo di Israele (che è un nome femminile nella Scrittura), spesso presentato come una donna in attesa dello sposo (Dio), simbolicamente raccolta nell’immagine della «figlia di Sion» (nei profeti, e poi in 2 Re 19,21; Sal 9,15, e anche in Gv 12,15). Interpretate simbolicamente, quelle parole di Gesù sulla croce sono ricchissime: mentre muore, Gesù invita la tradizione religiosa del Primo Testamento a riconoscersi nella Chiesa, e questa a essere riconoscente nei confronti di colei da cui viene: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26), proprio ciò che la Chiesa cristiana ha fatto accogliendo e onorando tra le proprie Scritture quelle ebraiche.

In continuità con il passato

Tutto questo ragionamento, ci riporta a Cana: già in quell’episodio la «madre di Gesù» è anche simbolo della comunità religiosa del Primo Testamento? Se così fosse, si capirebbe l’insistenza, altrimenti strana, sulle anfore in pietra (Gv 2,6), con l’allusione alla «purificazione rituale dei giudei»: a Giovanni sarebbe bastato scrivere che i servi avevano preso dell’acqua, ma l’evangelista voleva indirizzare lo sguardo del lettore sulla tradizione ebraica: è (anche) quella a segnalare che c’è una mancanza nell’umanità che fa festa, e a indicare Gesù come colui che è da ascoltare, per risolvere il problema. Non sa spiegare che cosa Gesù farà, ma sa dire che c’è da seguire lui.

I profeti e la legge contenuti nel Primo Testamento non «deducono» la figura di Gesù, ma sanno suggerire che Dio tornerà a prendersi cura dell’umanità, entrando nell’umanità stessa. Gesù compie le attese del Primo Testamento, pur in parte sorprendendole.

E non solo: è la madre a sollecitare Gesù a intervenire. Non pregandolo o comandandoglielo, perché non potrebbe. O meglio: Maria, madre fisica di Gesù, potrebbe chiederglielo o persino ordinarglielo (la tradizione ebraica è molto esigente per quanto riguarda i doveri dei figli, soprattutto maschi, nei confronti dei genitori), ma è evidente che qui Giovanni non sta pensando a lei, quanto al suo ruolo simbolico. La tradizione del Primo Testamento non è padrona di Gesù, che è totalmente libero di agire o astenersi dall’azione. Però lo inserisce in una storia in cui il Dio di Israele è pronto a commuoversi per la sofferenza umana, a farsi coinvolgere nella vita dei suoi e anche a violare le proprie norme per non perdere la relazione con l’umanità (ci porterebbe fuori strada affrontare questo tema, ma nel Primo Testamento accade spesso che Dio «minacci» il suo popolo di rompere la comunione con lui se non rispetta le sue «leggi», e che poi, però, faccia un passo indietro, preferendo perdere la faccia piuttosto che il rapporto con l’essere umano).

Non sarà ancora giunta la sua ora, ma Gesù, se vuole essere fedele a quel Dio del Primo Testamento, non può restare indifferente di fronte all’imbarazzo umano e, sia pure senza dire di aver cambiato idea (come pare umano anche in questo), di fatto si mette a disposizione di quella festa, «inventandosi» un modo di risolvere l’impaccio che è senza precedenti nella Bibbia.

Il volto del Padre

C’è qualcosa di nuovo che questo episodio ci mostra sul volto divino?

Prima di tutto Gesù ci mostra un Padre che non si vergogna dell’umanità anche nei suoi aspetti più «banali», di festa, di gioia semplice, persino disorganizzata e improvvisata. Non ci troviamo di fronte a un Dio rigidamente perfetto, che esige dei figli impeccabili, ma a un amante della vita, che ci potremmo immaginare sorridere al vedere il banchetto e le bevute e inquietarsi all’idea che la festa possa rovinarsi prima del tempo.

E poi ci troviamo di fronte a un Padre fedele e imprevedibile, che non abbandona mai la sua amicizia con l’umanità e, allo stesso tempo, sa anche inventare soluzioni nuove e impensate ai problemi che si presentano, anche quando, in sé, potrebbero non sembrare problemi vitali. Un amico capace di sorprese infinite, ma che gli amici non li abbandonerà mai.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 02 – continua)


Un dono specialissimo per voi

È disponibile in versione pdf la raccolta dei 38 articoli di Paolo Farinella su «Le nozze di Cana», pubblicati in questa rivista tra il febbraio 2009 e il gennaio 2013.

Un lavoro appassionante alla scoperta e approfondimento di uno degli episodi più belli e gioiosi dei Vangeli.
240 pagine da leggere con il cuore.

Cliccare sull’immagine per scaricare.

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Grazie.

 




Rwanda, un Paese per donne. Forse

 

In occasione dell’8 marzo, giornata internazionale delle donne, parliamo del Rwanda, Paese dell’Africa centrorientale ai primi posti nel mondo per le politiche sull’uguaglianza di genere, ma, in realtà, ancora profondamente patriarcale.

Più del 61% dei seggi in Parlamento sono occupati da donne, le quali ricoprono anche metà delle posizioni ministeriali. I loro diritti sono tutelati da numerose leggi, tra cui spicca quella contro la violenza di genere. Negli ultimi anni, la mortalità materna è calata drasticamente e le norme statali garantiscono equità tra maschi e femmine nell’accesso a ogni livello d’istruzione.

Il Rwanda sembra il Paese ideale per le donne. Tanto più che, da inizio anni Duemila, questo piccolo Stato dell’Africa centrorientale si posiziona stabilmente ai primi posti delle classifiche mondiali su uguaglianza di genere ed empowerment femminile, con indicatori di gran lunga superiori a molti Paesi occidentali.

L’immagine del Rwanda come Paese al femminile è nata subito dopo il genocidio del 1994, a seguito del quale il 70% della popolazione era composto da donne: molte avevano preso il posto degli uomini – uccisi, fuggiti o incarcerati – come capifamiglia e nel mondo del lavoro. Nel 2003, poi, la parità di genere è stata inserita nel preambolo della Costituzione di «uno Stato basato sul principio dell’uguaglianza di tutti i rwandesi, così come dell’uguaglianza tra uomini e donne».

Nei fatti, però, la situazione è ben diversa. Come spesso accade, tra la teoria e la pratica c’è un abisso e, dietro ai dati che descrivono una situazione apparentemente invidiabile, si nascondono diversi ostacoli e problematiche.

Con il 61% di deputate e il 35% di senatrici, nel 2023, il Rwanda era il Paese del mondo con il maggior numero di donne in Parlamento (mentre nel 2008 era stato il primo a eleggere più donne che uomini). Ma, in uno Stato la cui politica dal 1994 è dominata dal crescente autoritarismo di Paul Kagame e del suo Fronte patriottico rwandese, la maggioranza delle parlamentari appartiene al partito dominante ed è incapace di portare avanti una propria agenda per la tutela dei diritti femminili.

Il considerevole numero di donne in Parlamento, quindi, il più delle volte, non si traduce nell’approvazione di politiche a loro favore, se non sono coerenti con le direttive del partito. Dunque, non deve sorprendere che sia stata un’Assemblea, composta per il 56% da donne, ad approvare nel 2009 la riduzione da dodici a sei settimane del congedo pagato per la maternità.

Le donne che si oppongono alla narrativa di Kagame sono spesso – ancor più degli uomini – oggetto di violenze e persecuzioni, anche a sfondo sessuale. Quando nel 2010 Victoire Ingabire, principale rivale del presidente in vista delle elezioni di quell’anno, è tornata nel Paese dopo sedici anni di esilio, è stata immediatamente arrestata e incarcerata con l’accusa di cospirazione. Foto di Diane Rwigara nuda hanno invece iniziato a circolare sul web appena 72 ore dopo l’annuncio della sua candidatura alle presidenziali del 2017. Esclusa sulla base di presunte irregolarità nella registrazione della domanda, poco dopo, Rwigara è stata arrestata per una presunta evasione fiscale.

Più ombre che luci, dunque. E la politica, l’esempio più sfavillante del Rwanda al femminile, non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema dove l’uguaglianza di genere è in realtà ben lontana dall’essere realizzata.

Uguaglianza apparente

Come si è detto, il Paese si è dotato di un panorama legislativo all’avanguardia nella tutela dei diritti delle donne, ma tra norma e prassi persiste ancora una grande distanza, a causa di cultura patriarcale e tradizioni sociali particolarmente radicate.

Dal 1999, le donne possono ereditare le proprietà di famiglia, ma, di fatto, la condizione posta dalla legge – presentare un certificato di registrazione di un matrimonio monogamo, in un Paese dove le unioni informali e/o poligame sono frequenti – impedisce loro di beneficiare di questo diritto.

Limiti che ritornano anche nella gestione delle risorse finanziarie e nell’esercizio dei diritti fondiari: tendenzialmente, le decisioni su denaro e proprietà sono assunte dagli uomini, mentre le donne, senza certificati di matrimonio, faticano anche solo a ottenere prestiti bancari. Non a caso, esse rappresentano il maggior numero di poveri in Rwanda.

Anche quando sono vittime di violenza, le donne sono spesso in difficoltà. Nonostante la legge sulla violenza di genere (2008) abbia condannato qualsiasi forma di aggressione nei loro confronti e inasprito le pene, la violenza è ancora diffusa – soprattutto nei contesti rurali – e poco denunciata. Le donne temono infatti di essere stigmatizzate dalla società se denunciassero, e di perdere qualsiasi risorsa finanziaria, dal momento che il denaro familiare il più delle volte è nelle mani degli uomini.

Non va meglio nel mondo dell’istruzione: sebbene la legge prescriva parità nell’accesso alle scuole, solo il 30% di coloro che ricevono un’istruzione secondaria sono ragazze. È infatti ancora profondamente radicata l’idea che le donne si debbano occupare della casa e della cura di marito e figli e che quindi non sia necessario investire nella prosecuzione dei loro studi.

Dunque, l’8 marzo in Rwanda – come in tanti altri Paesi di tutto il mondo – ricorda quanto la strada verso la reale parità di genere sia ancora lunga e passi, non solo attraverso leggi e provvedimenti, ma attraverso il superamento di una cultura patriarcale ancora profondamente radicata.

di Aurora Guainazzi




Iran. Droni e petrolio vendesi

Nonostante le foto diffuse dall’Agenzia di stampa della Repubblica islamica (Irna) sembrino mostrare il contrario, venerdì 1 marzo l’Iran – paese con 88 milioni di abitanti – è andato alle urne senza alcun entusiasmo, segnando la più bassa partecipazione di votanti dalla rivoluzione del 1979: il 41 per cento degli aventi diritto. In gioco c’erano i 290 seggi del Parlamento (Majlis) e gli 88 dell’Assemblea degli esperti. Quest’ultima è l’organo clericale cui spetta la scelta della Guida suprema, attualmente rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei (85 anni).

Come ampiamente previsto, anche senza attendere i risultati del secondo turno (sarà a maggio), hanno vinto i conservatori e gli ultra conservatori, agevolati dall’assenza – per divieto o per boicottaggio – non solo dei candidati progressisti ma anche di gran parte di quelli moderati.

Donne iraniane al voto venerdì 1 marzo 2024 in una foto diffusa dall’Agenzia di stampa statale. (Foto Maryam Almomen – IRNA)

Il popolo iraniano sta vivendo anni bui sotto il giogo della casta sciita al potere. Dopo le manifestazioni di piazza del 2022 (proteste guidate dalle donne), la violazione dei diritti civili e la carcerazione o l’uccisione degli oppositori sono una prassi consolidata.

Per la teocrazia iraniana non mancano, però, le note positive. Nonostante un’inflazione elevata (40 per cento annuo), l’economia resiste (più 4,2 per cento nel 2023), sospinta dai legami sempre più stretti con la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, paesi che lo scorso 1° gennaio hanno accolto l’Iran in seno al gruppo dei Brics. La produzione di petrolio, grande ricchezza del Paese, è in crescita (2,99 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia) con la quota d’esportazione quasi interamente acquistata dalla Cina. In questo momento storico il maggiore successo economico (e politico) del Paese è però dato dalla vendita di un micidiale prodotto tecnologico per uso militare: i droni, i veicoli aerei senza pilota (Unmanned aerial vehicles, Uav). I droni iraniani – come lo «Shahed 136» o il «Mohajer-6» – sono venduti soprattutto alla Russia per la sua aggressione all’Ucraina, ma anche in Africa (Etiopia, Sud Sudan e Fronte Polisario del Sahara occidentale) e in America Latina (Venezuela e Bolivia).

Inoltre, essendo il Paese sponsor delle milizie sciite in Libano (Hezbollah), in Yemen (Houti) e in Iraq, i droni di fabbricazione iraniana sono un’arma sempre più utilizzata nell’esplosiva regione mediorientale.

Paolo Moiola




Bielorussia. Lukashenko: ieri, oggi e domani

È al potere dal 1994 e pochi giorni fa ha annunciato che l’anno prossimo si presenterà per ottenere il settimo mandato consecutivo. Insomma, ad Alexander Lukashenko non bastano 30 anni di potere assoluto: ne vuole altri cinque. È il dittatore più longevo d’Europa, precedendo l’alleato e sodale Vladimir Putin, fermo a quota 24.

Dal febbraio 2022 la Bielorussia – paese con 9,5 milioni di abitanti – ospita sul proprio territorio truppe russe impegnate nella guerra d’aggressione contro l’Ucraina. Si parla – inoltre – anche di una sua collaborazione nella deportazione illegale di bambini dalle città ucraine occupate dalla Russia.

Nel frattempo, domenica 25 febbraio si è tenuta una tornata di «elezioni» per i 110 seggi della camera bassa e per i consigli locali. Non c’erano candidati dell’opposizione né sono stati ammessi osservatori dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Dal suo esilio lituano, Sviatlana Tsikhanouskay (moglie di Sergei, politico e attivista bielorusso condannato a 18 anni di carcere), leader dell’opposizione, aveva chiamato al boicottaggio, memore di quanto avvenuto nell’agosto 2020.

Sviatlana Tsikhanouskay, probabile vincitrice delle elezioni presidenziali del 2020, si è rifugiata in Lituania. (Foto eroparl.europa.eu)

In quell’occasione c’erano state grandi (e inusuali per il Paese) manifestazioni di protesta dopo che i dati ufficiali avevano attribuito la vittoria a Lukashenko con l’80 per cento dei voti. Le opposizioni avevano accusato il governo di aver scippato la vittoria a Svetlana Tikhanovskaja, poi costretta a rifugiarsi nella vicina Lituania.

In questi ultimi anni Lukashenko ha messo di nuovo mano alla Costituzione e varato nuove leggi per consolidare il proprio potere, garantirsi l’immunità da eventuali accuse e limitare la possibilità di candidarsi per gli oppositori. Intanto, è continuata la repressione interna. In carcere è finito anche Ales Bialiatski, premio Nobel per la pace 2022 (assieme all’organizzazione russa Memorial e all’ucraina Ccl), fondatore e presidente del «Centro per i diritti umani Viasna», organizzazione di Minsk che, dal 1996, fornisce aiuto e assistenza ai prigionieri politici e alle loro famiglie.

Con la sua unica avversaria politica in esilio, gli oppositori interni in carcere (sono 1.413 persone, secondo Viasna) e il grande sponsor saldamente al potere a Mosca, Alexander Lukashenko può dormire sonni tranquilli.

Paolo Moiola




Senegal. Le elezioni che sfuggono

 

La nuova data del primo turno delle elezioni presidenziali in Senegal è stata fissata per il 2 giugno, anche se si aspetta la firma del decreto da parte del presidente Macky Sall. Dopo il Ramadan (10 marzo – 8 aprile), e prima della stagione delle piogge. Ma il mandato del presidente scade il 2 aprile, per cui occorrerà un periodo di interim.

Il presidente aveva rimandato sine die le elezioni previste per il 25 febbraio, ma il Consiglio costituzionale aveva invalidato il decreto. Fatto sta che le elezioni non si sono tenute, per ora. La gente, però, è scesa in piazza per reclamarle.
Il Senegal è uno dei pochi paesi saheliani che aveva ancora mantenuto una certa stabilità e un approccio democratico, ma gli ultimi segnali non sono rassicuranti (ne avevamo parlato qui).
Il tentativo di Sall di modificare la Costituzione per potersi candidare per la terza volta consecutiva, è fallito a causa delle proteste di piazza.
Così il presidente ha cercato di escludere dalla competizione gli oppositori più validi, tra tutto Ousmane Sonko, attualmente in prigione con una condanna a due anni, e di mandare avanti il suo candidato Amadou Ba, l’attuale premier.
Intanto la società civile, con il coordinamento Aar sunu élection (Proteggiamo le nostre elezioni), ha indetto una giornata di sciopero generale mercoledì 28 febbraio, per fare pressioni affinché la consultazione elettorale non sia ulteriormente rimandata.
Nel frattempo, il presidente Macky Sall ha realizzato quello che ha chiamato «Dialoghi nazionali», un incontro con le parti, ovvero società civile, partiti politici, leader religiosi, sindacati e patronato (ma molte organizzazioni e candidati già validati non hanno partecipato), per la ridefinizione del processo elettorale. All’apertura dei lavori, il 27 febbraio, Sall ha annunciato un progetto di legge di amnistia per tutti i fatti accaduti durante le manifestazioni a fini politici tra il 2021 e 2024. Questo potrebbe rimettere in campo Sonko e altri candidati esclusi. Anche Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade (2000-2012), escluso dalle liste, potrebbe essere ripescato.
Inoltre, quindici dei diciannove candidati validi, hanno depositato un ricorso al Consiglio costituzionale chiedendo che le elezioni si tengano prima del 2 aprile.

Marco Bello




Venezuela. Caracas e Mosca, amore interessato

La data delle elezioni presidenziali non è stata ancora ufficialmente annunciata, ma pare sia questione di poco. In quale direzione vada il Venezuela di Nicolás Maduro è, invece, piuttosto chiaro. Lo scorso 22 febbraio la Tass, l’agenzia di stampa del Cremlino, dava spazio all’entusiasmo del presidente venezuelano in occasione della nuova visita del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov. Mentre si fanno sempre più stretti i rapporti con la Russia, quelli con la comunità internazionale dei paesi democratici rimangono molto tesi.

Il presidente Maduro ha preso misure forti contro due donne che avrebbero potuto causargli problemi: María Corina Machado prima e Rocío San Miguel poi.

Mentre cerca di riconfermarsi al potere, il presidente venezuelano Nicolás Maduro stringe rapporti sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin. (Foto Ciudadccd.info)

La prima è (sarebbe) la candidata scelta dall’opposizione dopo la consultazione popolare dello scorso ottobre (primarie vinte con oltre il 93 per cento delle preferenze), ma è stata inabilitata dal Tribunale supremo (addirittura per quindici anni) per aver appoggiato le sanzioni degli Stati Uniti contro il Venezuela e Juan Guaidó come presidente provvisorio. In base a questa decisione la Machado non potrà partecipare alle prossime elezioni nelle quali, in caso di svolgimento regolare, sarebbero alte le sue possibilità di vittoria. La seconda donna, avvocata e direttrice della Ong «Control ciudadano» (specializzata nel controllo delle azioni delle forze di sicurezza), è stata arrestata con la pesante accusa di essere parte di una cospirazione – nota come «brazalete blanco» – per assassinare il presidente Maduro. A metà febbraio, pochi giorni dopo l’arresto della San Miguel, Caracas ha ordinato la chiusura dell’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) e dato 72 ore al personale (tredici persone) per lasciare il paese. L’accusa è quella di essere di essere una centrale di supporto a un’estrema destra di golpisti e terroristi e di avere un’attitudine colonialista.

Questa serie di eventi mette in serio rischio gli accordi di Barbados tra governo e opposizione sulle regole della competizione elettorale, accordi faticosamente raggiunti lo scorso 17 ottobre con la mediazione di Norvegia e Messico.

Evidentemente Caracas preferisce rafforzare i legami con i paesi in cui la prassi democratica non è contemplata o è considerata un’inutile perdita di tempo. La cooperazione tra Venezuela e Russia è forte perché forti sono gli interessi reciproci. Caracas vuole rompere l’isolamento internazionale e risollevare la propria economia in perenne affanno. Per parte sua, Mosca vuole rafforzare la propria presenza – politica, militare ed economica – in America Latina, già solidissima con il Nicaragua della coppia presidenziale Daniel Ortega e Rosario Murillo. In un caso e nell’altro si conferma che i dittatori s’intendono a meraviglia.

Paolo Moiola




Cina. La crisi dell’immobiliare

Il 29 gennaio un tribunale di Hong Kong ha disposto l’ordine di liquidazione di Evergrande, il colosso immobiliare cinese schiacciato sotto il peso di oltre 300 miliardi di dollari di debiti.

Le lunghe trattative con i principali creditori si sono concluse con un nulla di fatto: era dal dicembre 2021, ovvero da quando l’azienda è andata in default su 82,5 milioni di dollari di obbligazioni, che i colloqui procedevano al fine di definire una ristrutturazione del debito offshore accettabile per tutte le parti. Ora le cose per il gruppo cinese si complicano. Il suo esuberante fondatore, Xu Jiayin – un tempo uomo più ricco d’Asia – da settembre pare si trovi ai domiciliari per «attività illegali» e non è escluso che in futuro il caso acquisirà risvolti non solo strettamente economici. D’altronde negli ultimi anni il conglomerato ha espanso le sue attività ben oltre il comparto immobiliare con acquisizioni nel mondo del calcio, dell’automotive, del turismo, e persino dell’intrattenimento. Nel 2022 due dirigenti sono stati rimossi dai loro incarichi con l’accusa di uso improprio di fondi, stanziati originariamente per i progetti immobiliari e finiti altrove.

L’inizio della crisi immobiliare ha una data: agosto 2020. Ovvero il mese e l’anno in cui il rallentamento del mercato interno, colpito dalla pandemia, spinge il governo cinese a introdurre alcune restrizioni sull’emissione di prestiti bancari per contenere la leva finanziaria nel settore. Questo rende improvvisamente difficile ripagare i debiti, non solo per Evergrande. Ma anche per tutti quegli sviluppatori che, come il colosso di Guangzhou (Canton), hanno prosperato per decenni incassando introiti dalla vendita di abitazioni non ancora costruite. E che adesso, forse, non lo saranno mai.

Nell’immediato la sfida per Pechino sta proprio nel trovare un modo per gestire il patrimonio del promotore immobiliare: oltre 1.740 miliardi di yuan di asset, la maggior parte dei quali concentrati nella Cina continentale, che ha un sistema giuridico diverso da quello di derivazione anglosassone in vigore a Hong Kong. Le implicazioni però sono ad ampio raggio. Non solo perché la gestione di Evergrande funge da esempio per tutte le altre aziende in difficoltà. Tanto per citarne una: Country Garden che ha passività per circa 190 miliardi di dollari e più di 3.000 progetti in fase di sviluppo.

La procedura di liquidazione avviata a Hong Kong rappresenta più in generale un banco di prova per la Cina, che solo pochi giorni fa ha annunciato un crollo degli investimenti diretti esteri ai minimi dal 1993. Da come verrà gestito il caso dipende anche l’affidabilità del mercato cinese, già compromesso dal rallentamento dell’economia, dalla crescente enfasi attribuita da Pechino alla sicurezza nazionale, nonché dalle frizioni geopolitiche con l’Occidente.

Sotto esame anche l’ex colonia britannica (Hong Kong), che nell’ultimo decennio ha visto diminuire l’autonomia concessa da Pechino sotto il motto «un paese, due sistemi». Una situazione costata già una diminuzione delle aziende straniere presenti a Hong Kong. Non serve molta immaginazione per intuire che effetto avrebbe nei circoli del business il mancato rispetto dell’ordine di liquidazione. Eppure, stando ai precedenti (per esempio il default di Kaisa), difficilmente la leadership cinese accetterà di dare priorità ai creditori offshore. Almeno non prima di aver risolto la questione abitativa sulla terraferma: sono circa un milione e mezzo gli appartamenti venduti ma ancora incompiuti. Quindi almeno altrettante le persone in attesa di ricevere la propria casa. Senza contare gli stipendi che Evergrande deve ancora versare ai propri dipendenti. Si sommano i conti da saldare ai fornitori. Questioni spinose che in passato hanno già alimentato accese proteste in diverse città. Esattamente quanto Pechino, ossessionato dalla stabilità sociale, vuole evitare. Secondo i dati dell’Ong China labour bulletin, le proteste per i salari non pagati nel periodo precedente al capodanno lunare (10 febbraio) sono raddoppiate rispetto allo scorso anno. Molte hanno coinvolto lavoratori edili, una categoria che in Cina conta circa 52 milioni di persone.

Oggi oltre il 90% delle famiglie cinesi ha almeno una casa di proprietà. Considerato bene rifugio, circa tre quarti del patrimonio familiare in Cina risiede proprio nel mattone. Ma la crescita esplosiva dell’immobiliare ha anche innescato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Basti pensare che, secondo diverse stime, oggi in Cina ci sono sufficienti appartamenti per ospitare tre miliardi di persone a fronte di una popolazione di 1,4 miliardi. Con il calo delle nascite la situazione è destinata a peggiorare. L’effetto delle giacenze è visibile nelle preoccupanti oscillazioni dei prezzi delle case che, se da una parte restano inavvicinabili per molti giovani cinesi, dall’altra tendono a perdere facilmente valore. Con buona pace di chi ci ha investito i propri risparmi.

Lo ha detto più volte il presidente Xi Jinping: «Le case sono fatte per abitarci, non per speculare». Dopo quattro anni di pandemia da Covid-19, la leadership cinese percepisce che l’immobiliare rischia di esacerbare ulteriormente le disuguaglianze sociali. Quindi di ostacolare gli obiettivi di lungo periodo prefissati da Xi, che entro il 2035 aspira a raddoppiare il Pil pro capite rispetto ai valori del 2019. L’economia intreccia la politica creando un mix letale per legittimità del Partito-Stato.

Al contempo si temono ripercussioni più ampie non solo per i comparti più esposti al surriscaldamento del mattone, dal settore bancario a quello della gestione patrimoniale. Se il controllo statale sugli istituti di credito fa escludere l’eventualità di una crisi Lehman Brothers «con caratteristiche cinesi», allo stesso tempo la crisi innescata dal tracollo di Evergrande è per certi versi più destabilizzante: a venire messo in discussione è infatti un po’ tutto il paradigma di sviluppo cinese. Trainato fin dagli anni ‘90 da un’urbanizzazione dirompente, quel modello economico è costato alle amministrazioni locali livelli di indebitamento elevatissimi, domati grazie agli introiti dalla vendita dei terreni statali ai promotori immobiliari. Ma ora che i colossi del mattone stringono la cinghia a risentirne sarà, di riflesso, anche il bilancio dei governi provinciali, distrettuali e municipali. Senza misure efficaci, secondo le stime della Banca Mondiale, da qui al 2025 la crescita cinese rallenterà dal 5 al 4,3% proprio a causa dell’instabilità dell’immobiliare.

Da tempo la leadership comunista cerca di ridurre la dipendenza dell’economia dagli investimenti infrastrutturali. Obiettivo diventato necessario da quando tre anni di rigidissime misure contro il Covid-19 hanno prosciugato le casse statali. La soluzione, auspicata da Pechino, prevede un maggiore coinvolgimento dei consumi interni, ancora fermi al 53% del Pil rispetto a una media mondiale del 72%. Più facile a dirsi che a farsi. Nonostante la ripresa del turismo, durante il capodanno lunare la spesa media pro capite ha registrato un calo del 9,5% rispetto al livello pre pandemia. Comprensibile: chi aprirebbe con leggerezza il portafoglio dopo aver investito i propri risparmi in una casa che forse non vedrà mai?

Alessandra Colarizi




Urbanizzazione e sicurezza alimentare

 

Nel mondo soffrono la fame tra i 690 e i 783 milioni di persone. In Africa una persona ogni cinque. In Asia una ogni 12. L’obiettivo della «fame zero» entro il 2030 appare irraggiungibile.

Fame zero entro il 2030. È questo il secondo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

Man mano che passano gli anni, però, la speranza di riuscire a raggiungerlo entro i tempi previsti è sempre più risicata e un recente report dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) lo conferma. Nel 2022, il 9,2% della popolazione mondiale (tra 690 e 783 milioni di persone) era in una condizione di fame, ovvero non consumava la quantità minima di cibo necessaria per disporre dell’energia essenziale per una vita attiva e salutare.

Una percentuale in crescita rispetto al 7,9% registrato nel 2019. Cosa che rende evidente l’impatto negativo sul settore agroalimentare della pandemia da Covid-19 – che ha causato un rallentamento dell’economia mondiale – e del conflitto in Ucraina – che ha reso difficile reperire beni alimentari di prima necessità e ha provocato un’impennata dell’inflazione fino al 9% (2022).
Persistono inoltre altri fattori destabilizzanti come cambiamento climatico, conflitti e diseguaglianze.

Ricerche complementari al report sono scese nel dettaglio, analizzando i livelli di fame nel mondo dal punto di vista geografico e temporale.
Dalla comparazione dei loro risultati emerge come l’Africa registri i valori più elevati del pianeta: nel 2022, il 19,7% degli abitanti del continente (282 milioni di persone) soffriva la fame. Ma non solo. Sempre in Africa si è verificato l’incremento maggiore dell’insicurezza alimentare, cresciuta di più del 4% in soli due anni tra il 2020 e il 2022.

Considerando i valori assoluti, invece, è l’Asia a raccogliere più della metà della popolazione mondiale in condizione di fame: 402 milioni di persone (l’8,5% degli asiatici, in leggero calo rispetto all’8,8% del 2021).

Basandosi sui dati raccolti nelle diverse aree del mondo, la Fao stima che entro il 2030 la fame nel mondo si ridurrà, ma non si azzererà, dato che coinvolgerà ancora 600 milioni di persone. La maggior parte dei progressi dovrebbe avvenire in Asia con un dimezzamento dei valori, mentre al contrario in Africa si prevede un ulteriore incremento dell’insicurezza alimentare che dovrebbe arrivare a coinvolgere 300 milioni di persone.

Significativa è la decisione degli autori del report di studiare la correlazione tra la sicurezza alimentare – e, nello specifico, l’accesso a una dieta sana – e il fenomeno epocale dell’urbanizzazione. Infatti, se nel 1950 viveva nelle città il 30% della popolazione mondiale, nel 2021 la cifra era salita al 57% e le stime per il 2050 prevedono il 70%. In particolare, Africa subsahariana e Asia meridionale sono le due regioni dove le città stanno crescendo più rapidamente, con tassi tre volte superiori alla media mondiale.

Il report evidenzia come l’espansione delle città – combinata a fattori come l’aumento di reddito e di opportunità lavorative fuori casa, oltre al cambiamento degli stili di vita – stia profondamente influenzando il sistema agroalimentare. Da un lato, si assiste a una modificazione della dieta della popolazione mondiale; dall’altro, la catena produttiva diventa sempre più lunga e complessa.

Cresce la domanda di latticini, carne e pesce, ma anche quella di cibi già pronti, altamente processati, ad alto contenuto energetico ma privi di nutrienti. I sistemi agroalimentari devono quindi produrre e distribuire quantità sempre maggiori di beni. La catena produttiva si allunga, creando una profonda interconnessione tra aree rurali, periurbane e urbane: il sistema agricolo non si basa più sul piccolo mercato locale, ma guarda alle città. Ne deriva una catena sempre più complessa, caratterizzata da una produzione maggiore in termini quantitativi e qualitativi – grazie a migliori input e tecnologie provenienti dalle città – e da forme di processazione e trasporto più efficienti e articolate.

Tendenzialmente, secondo gli autori del report, la relazione tra urbanizzazione e sicurezza alimentare è positiva: man mano che la popolazione si sposta nelle città, si riducono gli indici di fame. Tuttavia, persistono ostacoli all’accesso a una dieta sana, come ad esempio l’inflazione – che negli ultimi anni ha eroso il potere d’acquisto della popolazione mondiale, spingendola verso cibi più economici – e i «deserti alimentari» – aree spesso periferiche dove i prodotti alla base di una dieta sana sono difficilmente reperibili.

Dunque, la strada verso l’eliminazione della fame nel mondo resta ancora lunga e tortuosa.

Aurora Guainazzi




Haiti. Contro il governo, contro le gang

 

Haiti vive lo stato di «peyi lòk» (paese bloccato) da metà gennaio, quando le manifestazioni popolari scoppiate in diverse città hanno bloccato tutte le attività. Dalle scuole, alla sanità, ai trasporti e le attività commerciali. La popolazione è scesa in piazza per chiedere che il primo ministro de facto Ariel Henry, faccia un passo indietro.

Henry aveva preso il potere, grazie all’appoggio degli Stati Uniti, il 20 luglio 2021, pochi giorni dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise. Il suo governo – de facto perché non rispetta le procedure costituzionali, in quanto le elezioni non si tengono da diversi anni – non è riuscito a dare risposte dal punto di vista della sicurezza. I gruppi armati (chiamati in creolo gang) hanno preso il controllo gran parte della capitale Port-au-Prince, di diverse città e delle principali vie di comunicazione del Paese. Le guerre tra gang nei quartieri, inoltre, hanno causato centinaia di morti e circa 313.000 sfollati. Si tratta di cittadini costretti a lasciare i propri quartieri, perché diventati insicuri o perché obbligati dai banditi. Durante il solo 2023 circa 8.400 persone son state uccise, ferite o rapite, secondo dati del Binh (Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti). Sempre dati Onu indicano un aumento di assassinii, con circa 5mila persone uccise, mentre i rapimenti sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente, portandosi a 2.490.

Un accordo del 21 dicembre 2022, chiamato Consenso nazionale per la transizione, firmato da alcune parti in causa (partiti e società civile), prevedeva che Henry lasciasse il potere il 7 febbraio, data simbolo nella storia haitiana (giorno della cacciata di Jean-Claude Duvalier nel 1986). Non essendoci nessun progresso o segnale di dimissioni la gente è scesa in piazza. Ma le agitazioni popolari sono degenerate in violenza. Strade bloccate con pneumatici incendiati e pietre, saccheggi e incendi, in diverse città. La polizia ha represso le manifestazioni con violenza e lacrimogeni, causando alcuni morti e diversi feriti.

L’8 febbraio, il primo ministro Henry ha dichiarato che il suo scopo è portare il paese ad elezioni, che però non si possono organizzare in una situazione come quella attuale. Non ha quindi senso «sostituire una transizione con un un’altra transizione» e per questo motivo è deciso a non lasciare.

Pneumatici incendiati per bloccare le strade a Port-au-Prince. Foto AlterPresse.

In questo contesto, il progetto di Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) guidata dal Kenya, approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2 ottobre 23, avrebbe dovuto portare ad Haiti un migliaio di poliziotti keniani e altrettanti di altri paesi disponibili già il mese scorso. Missione con lo scopo di appoggiare la polizia haitiana a riportare la sicurezza. Ma il 26 gennaio scorso la Corte suprema del Kenya ha dichiarato incostituzionale la decisione di dislocare ufficiali di polizia al di fuori dei confini nazionali. Mentre il presidente del Kenya, William Ruto si dice ottimista, di fatto l’impasse sullo spiegamento della Mmas è totale.

L’8 febbraio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha, ha espresso la sua preoccupazione per la chiusura di oltre mille scuole, l’aumento dei prezzi di generi alimentari di base a causa del blocco del commercio, e l’impossibilità del lavoro di assistenza umanitaria agli sfollati. L’organizzazione ha lanciato un allarme sul rischio di una crisi alimentare sempre più ampia.

Nella stessa data, in una nota, la Conferenza episcopale di Haiti ha lanciato un chiaro appello per «mettere fine alla sofferenza del popolo, la cui volontà si è espressa su tutto il territorio, in particolare il 7 febbraio. Il sangue, le lacrime sono colate attraverso assassinii, rapimenti, stupri perpetrati nel corso degli ultimi tre anni. Ne abbiamo abbastanza! […]».

E rivolgendosi direttamente al primo ministro: «Testimoni della miseria e della sofferenza dei nostri concittadini nei dieci dipartimenti del paese, noi vescovi della Ceh lanciamo un appello vigoroso al primo ministro, Ariel Henry, affinché si renda conto della gravità della situazione attuale e prenda una decisione saggia per il bene di tutta la nazione che è seriamente minacciata nelle sue stesse fondamenta». Una richiesta ad Henry di passare la mano.

Marco Bello




Congo Rd. Padre Flavio, i Pigmei e i «verdi fratelli silenziosi»

«Qui davanti alla missione c’è la piccola piantagione di caffè che coltivo con i pigmei. È in piena fioritura, un esercito di api nella gioia e un profumo immenso. Come quello che si fa con il cuore e profuma la nostra vita». Flavio Pante, missionario della Consolata, ci manda le foto degli arbusti nel verde. Considera la natura una preziosa collaboratrice nel lavoro a Bayenga.

Le api ronzanti sui fiori a grappoli sono una benedizione. Per il miele? Quanto al miele, «ancora non ci siamo. I pigmei lo raccolgono in foresta sugli alberi e non pensano agli alveari. Con il tempo, troveremo un apicoltore che ci introduca un po’ alla volta. Ma la funzione di questi insetti è importantissima già di per sé: garantiscono l’impollinazione, delle papaie, degli avocado, di altre piante nutrienti».
Nell’ottica delle produzioni locali, la piantagione di caffè che qui chiameremmo «a chilometro zero» è una buona idea: «La bevanda serve alla missione, ma anche alla gente del posto. La tostatura è artigianale, su griglie con la brace sotto. Per i bantu il caffè mattutino, senza zucchero (non lo hanno), è normale. Anche i pigmei lo bevono, ma meno; forse per loro è un’usanza acquisita».

Alcuni Pigmei alle prese con il lavoro agricolo, a Bayenga, Rdc.

Padre Flavio precisa che le piantagioni commerciali in zona sono sparite: «Con tutte le guerre e invasioni degli ultimi decenni si è verificata una situazione di instabilità e insicurezza. Così gli investitori, soprattutto greci e ciprioti, che tenevano le piantagioni con la collaborazione di congolesi, hanno pensato che questo settore non fosse più sicuro. Aggiungiamo la svalutazione e altri fattori economici. Le piantagioni (di caffè e altro) non più curate, sono state “conquistate” dalla foresta. E le strade, cessato il traffico dei camion, si sono ristrette a piste».

Quale è il rapporto dei pigmei, popolo della foresta, con gli alberi, che padre Flavio chiama «verdi fratelli silenziosi che regalano frutti e ombra»? Ecco: «I pigmei non piantano gli alberi, non è nella loro cultura; è la foresta stessa che si rigenera. E allora, è importante avviarli (con un compenso per quanto piccolo) a queste attività. Per esempio, un vivaio in cui pianti i semi di caffè, poi li trapianti, e quando crescono gli arbusti devi togliere l’erba sottostante – sennò le piante ingialliscono e non producono. Coinvolgiamo le persone in tutte le fasi, nell’ottica della pedagogia del fare».

Fra le attività della missione, con le popolazioni bantu e i pigmei, padre Flavio spiega di aver introdotto un’altra pratica: «Procurare loro piccole piantine o semi, di papaie, di avocado che piantano non lontano dalla loro capanna per avere con il tempo i frutti. Anche solo due o tre alberi per famiglia. Ma è l’inizio di un cammino che magari ci porterà in futuro ad avere un frutteto in comune».
Padre Flavio illustra i numerosi altri servizi dei «grandi e silenziosi fratelli verdi»: «Per noi, almeno nella mia zona, dove non c’è la segnaletica, gli alberi secolari sono un riferimento negli spostamenti. C’è anche un’altra funzione. La nostra zona è molto soggetta a fulmini. Ebbene sono questi grandi alberi a proteggerci, sono loro che pagano e si bruciano sotto i fulmini…» Non solo: «Attenuano la forza del vento – qui la pioggia viene sempre portata dal vento – proteggendo i tetti delle nostre case e capanne. Ci aiutano veramente». Infine, «nella foresta i tronchi caduti possono fare da ponte sui torrenti tumultuosi e fangosi».

Marinella Correggia

Pubblichiamo questo articolo oggi, 16 gennaio, festa del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Piante di caffè piantate dai pigmei di Bayenga. In questo periodo sono in piena fioritura.