Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo


La sola vera religione

Re.mo padre direttore,
desidero da lei un consiglio spirituale. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata e leggo con piacere sulle sue riviste le notizie delle grandi religioni del mondo trasmesse dai Missionari della Consolata nelle diverse parti del mondo.

Le chiedo con precisione e in breve come possiamo noi cristiani confermare che la religione cristiana è l’unica e sola religione [dove] si adora e crediamo in un unico solo Dio e non come le altre religioni che adorano altri dei. Qual è la differenza? A quale religione dobbiamo credere?

In attesa di una sua cortese risposta, ringrazio vivamente e invio cordiali saluti di pace e bene.

Giuseppe, 11/02/2024

Caro signor Giuseppe,
grazie della lettera che ha scritto (a mano). Perdoni se l’ho tagliata un po’  per evidenziare la questione centrale: il cristianesimo è l’unica vera religione?

Credo dobbiamo partire da un principio fondamentale del nostro credo: tutti gli esseri umani sono creati da Dio a sua immagine e somiglianza, che essi lo sappiano o no. La conseguenza è che ogni uomo ha, consciamente o inconsciamente, nostalgia della sua origine. Quindi tutti gli uomini, di tutte le culture e di tutti i tempi, hanno trovato una loro via (legittima e doverosa) per arrivare a Dio e, soprattutto, per rispondere alle domande più profonde che ciascuno porta in sé: il senso della vita, le ragioni del dolore, il futuro dell’universo, le relazioni con gli altri, il perché della morte e tante altre.

Le religioni sono la risposta concreta a questo bisogno interiore degli uomini che hanno cercato a tentoni di dare un volto a un Dio (l’unico Dio di tutti) che non conoscono, spesso facendosi degli dèi a loro immagine e somiglianza. C’è chi ha fatto questo con malizia, usando Dio per dominare gli altri, c’è chi l’ha fatto con fede sincera per dare un volto a quella nostalgia profonda di Dio che sentivano.

Di questa ricerca è stato partecipe anche il popolo di Dio, Israele. La storia di Abramo è emblematica in proposito. Israele lo ha cercato sì, ed è uscito dall’idolatria solo grazie all’autorivelazione di Dio attraverso la parola dei profeti. Ma quanta fatica ha fatto per rimanere fedele e non ricadere nelle forme religiose dei popoli vicini e dominanti. Dio si è, però, rivelato a Israele non per fare di lui un popolo privilegiato e separato dagli altri, ma per realizzare una duplice missione: quella di far conoscere il vero volto di Dio a tutti gli uomini e diventare un «popolo di sacerdoti» che intercede e loda a nome di ogni creatura nel mondo.

Tutti i popoli del mondo sono coscienti che Dio è il creatore del mondo, ma spesso lo ritengono troppo alto e irraggiungibile per quelle povere e cattive persone che possono essere gli uomini; quindi, hanno preferito rivolgersi a intermediari più vicini e simili a noi, come gli spiriti o altri dei.

In questo contesto, perché diciamo che la religione cristiana è l’unica vera, anzi, meglio, che è l’unica che ci fa conoscere e amare il vero Dio?

Perché questa verità ci è stata trasmessa da Dio stesso attraverso Gesù Cristo, suo figlio, che si è incarnato, ha vissuto in mezzo a noi, ci ha comunicato la sua parola di Verità e per questo è stato ucciso e poi è risorto. Di questo sono diventati testimoni i suoi discepoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo.

Gesù, nella sua persona, ha portato a compimento le promesse e le profezie fatte da Dio ad Abramo e ai suoi discendenti, Mosè compreso. Gesù è la testimonianza viva che Dio è uno solo e non esistono altri dei. Solo attraverso Gesù noi possiamo vedere il vero volto di Dio. «Chi vede me, vede il Padre», ha detto.

Tutto bello, mi può dire, ma sono passati duemila anni da quando Gesù è venuto. Come possiamo dimostrare oggi che il Cristianesimo è l’unica vera religione?

Ecco, probabilmente l’unico modo per provarlo davvero è mettere in pratica i principi fondanti di questa religione: vivere cioè secondo l’esempio di Gesù, amando Dio e il prossimo come lui ha fatto. Una vita da santi, cioè da persone che davvero vivono sullo stile di Gesù la loro umanità come immagine di Dio è la prova migliore della verità di Gesù e della religione da lui trasmessa. Forse la prova più bella della verità della fede cristiana sono i martiri, anche e soprattutto quelli di oggi: persone che rispondono alla violenza con il perdono, all’odio con l’amore, all’avidità con la gratuità del dono, alla logica di morte con scelte di vita.

Si possono fare tutte le discussioni possibili sulle varie religioni, ognuna delle quali porta in sé un germe della verità di Dio, ma non c’è prova migliore di una vita d’amore per garantire che il Cristianesimo è la vera religione e che Gesù non è morto e risorto invano.


Beato Allamano, grazie

Vorrei condividere con voi una cosa bella successa proprio oggi, 16 febbraio 2024, festa del beato Giuseppe Allamano.

Il 13 novembre del 2022 hanno diagnosticato un tumore ad un ragazzo che conosco: Simone (nome di fantasia), 30 anni. Era un tumore molto brutto con due metastasi, una sulla spalla e l’altra sulla schiena, e inoperabile in quanto molto grande e troppo vicino alla colonna vertebrale. Pochi giorni dopo è stato operato con urgenza per asportare la metastasi sulla spalla. L’operazione è riuscita bene, ma l’istologico ha confermato la gravità della massa non operabile.

I medici purtroppo non hanno dato molte speranze perché sostenevano che, trattandosi di un ragazzo così giovane, il tumore sarebbe stato galoppante. Decisero comunque di iniziare la chemioterapia. All’inizio di gennaio 2023 era comparsa un’altra metastasi sulla spalla. Altra operazione d’urgenza con poche speranze di miglioramento. La situazione era sempre più critica. Sembrava non reagire alle cure.

La settimana successiva abbiamo accompagnato padre Francesco Peyron a Torino (da Fossano) per il terzo sabato del mese. Prima della messa ci ha accompagnati nella cappella del beato Allamano. Prima di entrare aveva detto: «Quando si visita per la prima volta una chiesa con la tomba di un santo o di un beato si può chiedere una grazia».

Abbiamo sostato un po’ sulla tomba dell’Allamano. Ho pensato a Simone. Non ho chiesto niente, ho soltanto detto: «Stai con lui e la sua famiglia». Poi qualche settimana dopo, a febbraio dell’anno scorso, il primo giorno del triduo dell’Allamano nella casa dei missionari a Fossano, all’inizio della messa, padre Francesco ha detto: «Il triduo è un momento di grazia. Ora faremo un momento di silenzio nel quale ognuno di voi può presentare al Signore, con l’intercessione del beato Allamano quello che sente più vero nel cuore». Io ho di nuovo pensato a Simone. Non ho chiesto nulla. Ho solo detto: «L’affido a Te, Tu hai guarito l’Allamano». E ho detto un’Ave Maria.

Nel frattempo Simone proseguiva con la chemioterapia, senza miglioramenti ma neanche peggioramenti. Il 5 aprile (mercoledì santo) i medici gli hanno comunicato che avrebbero sospeso la chemioterapia due settimane prima del previsto perché inaspettatamente i valori si erano normalizzati. Gli esami successivi hanno confermato che i valori erano rientrati. I medici erano stupiti e sorpresi. Non riuscivano a spiegare l’accaduto. L’11 maggio (mese di Maria), dopo ulteriori accertamenti, Simone, ha ricevuto una telefonata dall’oncologo che lo seguiva. Gli ha detto: «Simone, sei seduto?». E lui ha subito pensato al peggio. Ha proseguito dicendo: «Inspiegabilmente sei guarito, gli esami sono perfetti, i linfonodi quasi completamente rientrati». Gli ha detto che non aveva mai visto una reazione del genere, assolutamente inaspettata.

Il linfonodo nella schiena c’è ancora, ma non risulta più pericoloso. Altra cosa che i medici non sono riusciti a spiegare: dal mese di giugno 2023 si è sottoposto periodicamente ad esami e controlli, risultati tutti ok. A fine di gennaio di quest’anno aveva i primi esami di controllo generale: tutti ok.

Lode a Dio e a Maria e un grazie immenso e specialissimo al beato Allamano.

Ultima cosa che vorrei ancora raccontarvi per lodare e ringraziare è questa. Durante i mesi della terapia, nonostante fosse debole e sofferente, spesso diceva: «Sto male, ma mi sento sereno». In quei mesi abbiamo pregato tanto, l’ho portato ogni giorno nella messa. L’Allamano è proprio stato con lui. «Il bene va fatto bene» e lui è stato di parola. Gesù con Maria sono andati oltre, sorprendendo come sempre. Che bello.

Nadia Luciano,
Villanovetta, Cn, 16/02/2024


Nelle steppe di Gengis Khan

Alla fine del 2023 è uscito in libreria, pubblicata dalla Effatà editrice, il corposo libro (oltre 270 pagine) intitolato «Nelle steppe di Gengis Khan» di Pier Giuseppe Accornero, un sacerdote giornalista di Torino che si occupa di informazione sociale ed ecclesiale.

Più che un semplice libro, quello di Accornero è quasi un’enciclopedia dedicata alla vita missionaria della Chiesa piemontese. Partendo dal cardinal Giorgio Marengo, e quindi anche dal beato Giuseppe Allamano che ha fondato i Missionari della Consolata di cui il cardinale è parte, l’autore ci conduce per mano a scoprire la vitalità missionaria della regione fin dai tempi del Regno di Sardegna. Pagine piene di informazioni e curiosità di estremo interesse e poco conosciute.

Ma lascio la parola a padre Stefano Camerlengo che ne ha scritto la prefazione.

«Il libro di Pier Giuseppe Accornero si prefigge di offrire ai lettori lo spaccato di una realtà, per certi versi, ignota al grande pubblico. Nei primi capitoli illustra come nell’immensa distesa della Mongolia, un figlio della terra pedemontana guida con mano sicura e con grande apertura di cuore e di intelligenza il suo «pusillus grex, piccolo gregge» di cristiani e riesca a intessere relazioni fraterne e fruttuose con uomini e donne di altre fedi religiose. Un seme che sta spuntando e che annuncia un futuro promettente. La fecondità del Piemonte per la sua poliedrica personalità merita attenzione e diffusione. Un attore giovane ha raggiunto quella terra e vive ora nella lontana Mongolia.

Questa terra dalle dimensioni enormi merita attenzione anche perché ha attirato l’amore apostolico di papa Francesco. […]

Dal capitolo terzo l’autore continua la sua opera con mano decisa e con un linguaggio svelto e leggero a presentare i grandi protagonisti, principalmente subalpini, che hanno segnato le tappe più importanti della diffusione del Vangelo, sotto il patronato di grandi papi che si sono succeduti nella Sede apostolica […].

In questa sezione del libro, l’autore presenta in sequenza un grandissimo numero di grandi missionari, tutti, eccetto qualcuno, figli e figlie della terra pedemontana. La loro azione missionaria abbraccia l’intero globo terraqueo. Si va dalle numerose nazioni latinoamericane alle molte nazioni africane e ad alcune regioni dell’Asia. Il loro idioma piemontese si riverbera su molte latitudini e longitudini del globo e semina nel cuore dei popoli il seme della Parola eterna del Padre, la quale darà frutto a suo tempo perché irrorata anche dal sangue di molti che hanno pagato la loro testimonianza a Cristo risorto con la loro vita. Tertulliano ha detto: “Il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani”. Il Piemonte ha dato anche questo meraviglioso contributo alla propagazione del Vangelo.

Ci permettiamo di raccomandare questo libro a tutti coloro che amano essere edotti del cammino, anche se faticoso, della Chiesa di Cristo. Tra le pagine di questo libro, che raccoglie la testimonianza di gente generosa infiammata dall’amore del Vangelo, si respira un’aura di fede e uno sviscerato amore per la Parola del Vangelo. A un lettore attento germoglierà nel cuore, oltre che l’ammirazione di tanta fedeltà al Vangelo anche una timida preghiera per coloro che consumano ogni giorno la loro esistenza nei diversi angoli della terra».

padre Stefano Camerlengo
superiore generale emerito

Si può ordinare il libro direttamente su https://editrice.effata.it


Settimana biblica a Caserta

Egregio Direttore,
anche quest’anno la diocesi di Caserta organizza la Settimana biblica, giunta alla XXVII edizione, con il patrocinio dell’Associazione biblica italiana, in collaborazione con l’Istituto superiore di Scienze religiose interdiocesano «SS. Apostoli Pietro e Paolo» e con la segreteria del Centro apostolato biblico diocesano.

La Settimana biblica si terrà a Caserta da lunedì 1° luglio 2024 e fino a venerdì 5 luglio 2024.

Tema della XXVII edizione sarà «La comunità e i discepoli nel Vangelo secondo Matteo», con i biblisti Giulio Michelini e Francesco Filannino.

Questa esperienza di conoscenza del testo biblico ci pone davanti il cammino sinodale della Chiesa aperta all’ascolto della Parola di Dio per discernere secondo lo spirito del Vangelo, il cammino da seguire tutti insieme. Tutto il popolo di Dio è convocato in assemblea per ascoltare ciò che lo Spirito dice alla Chiesa.

Sul sito del Centro apostolato biblico trovate tutte le notizie utili per iscriversi e partecipare alla Settimana biblica di Caserta.

Cordiali saluti

don Valentino Picazio,
Caserta, 25/02/2024

Per partecipare alla settimana biblica vai al sito
www.centroapostolatobiblicocaserta.it
email: centroapostolatobiblicogmail.com




Nord Corea. Anche Kim tiene famiglia


Il leader nordcoreano rafforza i legami con Russia e Cina. E fa la voce grossa con Corea del Sud e Stati Uniti. Accanto a lui sono cresciuti il ruolo e la visibilità della sorella Kim Yo Jong.

Pyongyang. La tensione tra la Corea del Nord e la Corea del Sud torna a essere elevata dopo che Kim Jong Un (il Grande Leader) ha annunciato di non voler proseguire il dialogo con Seoul dissipando le illusioni di una unificazione della penisola coreana.

La dichiarazione del leader nord-coreano, a cui si è aggiunta la richiesta di eliminare dalla Costituzione l’articolo che impegna Pyongyang a prodigarsi per la riunificazione, è giunta al termine di una lunga serie di provocazioni iniziate subito dopo il fallimento dell’incontro con l’allora presidente statunitense Donald Trump ad Hanoi (Vietnam), nel 2019.

Da allora, mentre Kim Jong Un continuava a mantenere un atteggiamento il più possibile neutrale verso l’esterno, la sorella Kim Yo Jong si è lanciata in crociate oratorie contro il presidente sudcoreano Moon Jae-in culminate con la distruzione dell’ufficio di collegamento intercoreano nel 2020. L’intento della famiglia Kim era chiaro: attendere che l’incertezza della situazione mondiale si chiarisse un po’ così da poter prendere posizioni più nette e vantaggiose per rafforzare un potere interno che si dimostrava essere meno saldo di quanto si pensasse. Nel frattempo, si dovevano percorrere entrambe le strade: quella della fermezza (Kim Yo Jong) e quella della diplomazia (Kim Jong Un).

Le vicende del 2022 e del 2023 – l’invasione della Russia in Ucraina e la conseguente crisi energetica, l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza della Corea del Sud (da maggio 2022), le tensioni su Taiwan, le difficoltà di Biden e il prepotente ritorno di Donald Trump nella scena politica statunitense – hanno indotto Kim Jong Un a rompere gli indugi e adottare una politica frontale nei confronti dell’Occidente.

Una stazione della metro nella capitale nordcoreana, Pyongyang. Foto Micha Brandli – Unsplash.

L’escalation militare tra le due Coree

Pyongyang cerca oggi di inserirsi nell’asse anti Usa schierandosi accanto a Cina e Russia, suoi alleati storici. I Kim hanno estremo bisogno di protettori in un momento in cui il potere della famiglia nel Paese è debole come mai prima: la pandemia ha costretto a sigillare i confini invertendo una rotta che, almeno fino al 2019, aveva visto una loro maggiore permeabilità. L’economia, florida e vivace come non lo era mai stata in tutta la sua storia, tra il 2020 e il 2023 ha subito una flessione che si è ripercossa sulla vita dei cittadini. Il primo decennio di leadership di Kim Jong Un era stato caratterizzato da un progressivo allontanamento dai circoli di potere delle personalità più conservatrici nel Paese, quelle legate alla politica tradizionalista del padre Kim Jong Il e, al tempo stesso, del trasferimento di molti centri decisionali dall’ambito militare a quello civile e tecnocratico.

La crisi ha consentito agli oppositori interni di rialzare la testa e, per evitare il tracollo e vanificare le riforme varate, Kim Jong Un ha dovuto cercare, suo malgrado, sostegno tra i generali intensificando i test missilistici, riattivando il programma nucleare, rimpolpando l’arsenale delle forze armate. Al tempo stesso, il suo omologo sudcoreano ha stretto le relazioni con Tokyo e Washington potenziando la cooperazione militare. Si è così innescato un circolo vizioso che ha alimentato l’escalation: più Pyongyang perfezionava i suoi armamenti, più Seoul si sentiva minacciata aumentando perciò le esercitazioni militari con l’alleato statunitense. Questo forniva ai generali nordcoreani l’opportunità per chiedere ancora maggiori finanziamenti.

Il tutto ha portato alla situazione attuale che molti analisti giudicano simile a quella del 2017, quando i media ritenevano inevitabile e imminente lo scoppio di una guerra nucleare. Allora la guerra non ci fu e, anzi, Kim Jong Un saldò ancora più fortemente il suo controllo sulla nazione, ma oggi la situazione è leggermente diversa. Pur restando ancora lontani da un confronto militare che coinvolga testate nucleari, la contrapposizione tra Nord e Sud si è fatta sicuramente più complicata. Le forze armate di Pyongyang, da sempre tecnologicamente inferiori (tanto da sapere di non poter iniziare una guerra con la speranza di vincerla), oggi hanno diminuito (anche se non colmato) questo divario permettendo ai militari nordcoreani di guardare con più ottimismo un eventuale conflitto.

Questa situazione si innesta in un contesto internazionale nel quale gli scontri e le tensioni, dal fronte ucraino e quelli mediorientali fino a Taiwan, hanno creato un’atmosfera nettamente più favorevole per Pyongyang.

A Pyongyang si rende omaggio alle enormi statue in bronzo di Kim Il Sung e Kim Jong Il. Foto Alexander – Pixabay.

Lontani da Seoul

Kim cerca di ritagliarsi un ruolo tutto suo nello scacchiere asiatico nordorientale per eliminare Seoul da ogni futuro negoziato. Non per nulla il Grande Leader ha definito, non senza compiacimento, l’attuale situazione come una nuova guerra fredda, una condizione che non è difficile ricondurre alla famosa frase di Mao Zedong «Grande è la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente».

Se prima la Corea del Sud rappresentava un intermediario valente, efficace e affidabile, oggi non lo è più. Nei quattro anni di amministrazione Biden, gli Stati Uniti non hanno intrapreso alcun passo per riaprire quei negoziati che Trump aveva inaugurato contribuendo a una distensione delle relazioni nella regione.

A questo punto, Seoul non serve più a Pyongyang che spera in un ritorno di Trump alla Casa Bianca per riaprire i colloqui senza l’intermediazione del Sud. In attesa dei risultati delle urne statunitensi a novembre, Kim Jong Un continua ad alzare il tiro consapevole che, oggi, ha dalla sua un esercito più forte, competente e tecnologicamente più avanzato di quanto fosse sette anni fa.

La politica è comunque sempre la stessa: tendere la corda testando sino a quando questa può resistere senza tuttavia giungere al punto di rottura. E, a quel punto, iniziare le trattative da una posizione di forza.

La famiglia Kim ha bisogno di questa trazione per allontanare il pericolo di un rientro in grande stile degli oppositori, così faticosamente allontanati dal leader e dalla sorella.

Kim Jong Un e Vladimir Putin a Vostochny (Amur, Russia) lo scorso 13 settembre. Foto Korean Central News Agency – AFP.

L’Ucraina e le armi a Mosca

La guerra ucraina è stata un toccasana in questo senso: la pandemia aveva intossicato l’economia nordcoreana più di quanto avesse infettato la popolazione. La chiusura dei confini, ordinata sin dall’inizio del 2020, aveva messo in enorme difficoltà le riforme implementate: le merci provenienti dalla Cina dovevano restare in quarantena per diverse settimane prima di poter essere messe sul mercato e i prezzi dei prodotti avevano subito impennate verticali. Ciò che ha impedito alla popolazione di non ripiombare nell’incubo dell’«Ardua marcia» (la carestia del periodo 1994-1998) con malnutrizione, malattie, inedia, sono state proprio le riforme economiche volute da Kim Jong Un durante i primi anni della sua salita al potere.

Tuttavia, per mantenere viva la ristrutturazione sociale e politica serviva anche una crescita economica che, negli anni del Covid, è stata invece azzerata. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’alleato russo ha, almeno in parte, aiutato l’economia nordcoreana a risollevarsi. Kim ha inviato equipaggiamenti militari a Putin e i campi di battaglia sono serviti anche per testare nuovi prototipi di armamenti prodotti dalle fabbriche militari nordcoreane. In cambio, Mosca ha corrisposto il favore spedendo a Pyongyang considerevoli quantità di petrolio, carbone, gas naturale, pezzi di ricambio per mezzi agricoli e militari.

L’aumento delle disparità

Vigilessa nordcoreana nella capitale. Foto Peter Anta – Pixabay.

Tutto questo ha aiutato, da una parte, la famiglia Kim a mantenersi alla guida del governo, dall’altra ai nordcoreani di avere una ventata di ossigeno per i loro commerci privati.

Non dobbiamo però pensare che questi aiuti siano indolori: le disparità tra campagna e città, ma soprattutto tra chi ha collegamenti con il Partito dei lavoratori e chi, invece, ne è escluso, in questi tre anni sono aumentate.

La superficie delle terre abbandonate è incrementata, soprattutto nelle zone montuose dove la mancanza di macchinari agricoli rende il lavoro estremamente faticoso, mentre gli appezzamenti di terreno privati hanno registrato un aumento di produttività.

Le cooperative hanno quasi smesso di rifornire i negozi statali della merce più richiesta, visto che questa è ormai reperibile nei mercatini privati senza limiti di quantità, anche se a prezzi ben superiori a quelli stabiliti dallo Stato. Ma il denaro è un problema secondario: la nuova economia, introducendo attività private, ha permesso a molte famiglie di incamerarne una discreta quantità, tanto che oggi si calcola che almeno l’80% delle entrate finanziarie dei nordcoreani arrivi da nuovi mestieri e occupazioni private.

Il contrabbando con la Cina e, recentemente, anche con la Russia, ha immesso sul mercato prodotti che altrimenti sarebbero reperibili solo nei grandi centri commerciali delle principali città. Oltre a elettrodomestici, telefonini, computer, liquori, snack, cosmetici di varie marche (anche sudcoreane, giapponesi, europee, statunitensi), i pannelli solari sono tra gli oggetti più richiesti. L’ormai endemica penuria di elettricità con frequenti blackout, hanno costretto le famiglie a dotarsi di impianti di produzione elettrica autonomi per evitare gli sbalzi di tensione.

Chi soffre meno questa situazione sono gli alti dirigenti del Partito, i manager delle industrie, nonché scienziati e tecnici impegnati nelle attività considerate più vitali e importanti per il Paese.

L’esperienza personale mi offre una conferma di questa situazione.

Chi sono i privilegiati

Kim Yo Jong, sorella del leader e in prepotente ascesa, durante un evento per celebrare la vittoria sul Covid, nell’agosto 2022. Foto Korean Central News Agency – AFP.

Approfittando del (raro) invito fattomi da un ricercatore scientifico e professore universitario per assaporare la cucina locale, ho modo di vedere da vicino l’appartamento di una famiglia privilegiata. Ben riscaldato (a differenza delle case di campagna che devono centellinare il carbone per la stufa) e ben tenuto, è fornito di un grande televisore a schermo piatto che trasmette una serie cinese. I mobili sono pieni di suppellettili e souvenir dei numerosi viaggi all’estero fatti con l’intera famiglia: Cina, Russia, Thailandia, Mongolia, India, Europa e persino Stati Uniti (una Statua della Libertà e un pupazzo in pezza di Topolino). La cena che mi viene offerta è abbondante e innaffiata da vino francese e birra nipponica. Sia la figlia che il figlio parlano un buon inglese, ma anche cinese e giapponese. Entrambi studiano materie scientifiche, la prima alla Kim Il Sung University mentre il secondo sta terminando il corso di medicina nell’unica università privata esistente in Corea del Nord (il che indica l’alto livello sociale occupato dalla famiglia).

Sognano di studiare in Europa, Giappone o negli Stati Uniti, «ma per tornare poi in Corea per dare il nostro contributo alla crescita della nazione», si premurano di aggiungere di fronte allo sguardo severo del padre. Sia lui che la moglie sono accaniti sostenitori del Partito e della famiglia Kim e non accetterebbero con facilità che la loro prole abbandonasse il Paese. Del resto, dal governo hanno sempre avuto il meglio che potevano ricevere (istruzione, assistenza sanitaria, benefit, sicurezza economica, carriera).

Come pensare di tradire chi ti ha concesso il miglior tenore di vita che si possa avere nella nazione?

In altre situazioni, meno privilegiate, le critiche a membri del Partito sono invece più comuni. Una delle grandi rivoluzioni introdotte da Kim Jong Un è proprio quella di aver invitato il popolo a biasimare gli amministra- tori più negligenti.

I Kim non sbagliano mai

Il Grande Leader è stato il primo a dare il buon esempio già pochi mesi dopo la sua salita al potere. In una mossa assolutamente nuova nel mondo politico nord-coreano, Kim ha più volte attaccato pubblicamente dirigenti del Partito, fino ad allora ritenuti intoccabili.

Resta comunque sottinteso che nessuno della famiglia Kim può essere soggetto a giudizio.

La mia guida (in Corea del Nord si è sempre accompagnati da una guida) s’infuria quando le faccio notare gli errori compiuti dai diversi membri, Kim Il Sung compreso, durante i loro settantacinque anni di potere ininterrotto. Il mantra di assoluzione è sempre lo stesso: gli sbagli sono stati fatti dai collaboratori, dagli approfittatori, dai controrivoluzionari che hanno ingannato i vari leader i quali, anzi, grazie alla loro lungimiranza, hanno allontanato questi traditori appena hanno avuto modo di accorgersi delle loro azioni ai danni del popolo e della nazione. Questo tabù è uno dei motivi per cui la dirigenza nordcoreana, dopo aver espresso l’intenzione di invitare papa Francesco a Pyongyang, non si sente ancora pronta ad accoglierlo. Un papa che parla di diritti umani e che bastona tutti può essere sicuramente comodo fuori dalla Corea del Nord, ma parlare di questo tema a Pyongyang, di fronte a migliaia di cittadini, rischierebbe di essere una mina vagante.

Piergiorgio Pescali

La chiesa protestante di Bongsu, a Pyongyang; nel paese, classificato come il meno libero del mondo per le confessioni religiose, le chiese sono pochissime. Foto korea.travel.art.


La condizione religiosa: Un triste primato

Nonostante la Costituzione non lo vieti, in Corea del Nord professare una fede religiosa è complicato e spesso pericoloso.

«Open doors», l’organizzazione olandese fondata nel 1955 da Andrew van der Bijl che stila rapporti annuali sulla libertà religiosa dei cristiani nel mondo, ha affermato che il Paese dove la religione è più perseguitata nel pianeta è la Corea del Nord. Secondo quanto si legge nella relazione, se «scoperti, i cristiani sono deportati assieme alle loro famiglie in campi di lavoro come criminali politici o uccisi sul posto».

Più generico, invece, il rapporto di Human Rights Watch, che cita violazioni di «libertà fondamentali inclusa la libertà di espressione, associazione e di religione».

L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana afferma che «i cittadini godono libertà di culto» e che nel Paese viene garantita la «costruzione di edifici religiosi nonché la possibilità di celebrare cerimonie religiose». Aggiunge, altresì, un paragrafo che è determinante nelle analisi che si dovrebbero fare su come le pratiche di culto vengono viste da Pyongyang: si afferma, infatti, che «la religione non deve essere usata come pretesto per favorire la presenza di forze esterne e per mettere in pericolo lo Stato o l’ordine sociale».

Per questo le associazioni religiose presenti nella nazione non possono essere indipendenti dal governo, sono tutte guidate da membri dell’esecutivo e nel loro statuto devono avere chiari riferimenti patriottici. A parte le persone che ne sono a capo, chi fa parte di un culto, sia essa cristiana, buddista o ceondanista (seguaci del ceondoismo, religione coreana che mescola elementi di sciamanesimo, taoismo e buddismo, ndr), non può essere membro del Partito dei lavoratori.

In Corea del Nord esistono chiese protestanti, templi buddisti, almeno una chiesa cattolica, una ortodossa e anche una moschea nell’ambasciata iraniana. Si hanno notizie anche di luoghi di culto (pure cattolici, ma non solo) sparsi in diverse province del Paese in cui si svolgono incontri di studi biblici.

Tra timide aperture e improvvise chiusure

Negli anni Novanta e sino all’inizio dell’attuale secolo, diverse organizzazioni caritative di ispirazione cristiana, come la Caritas, hanno condotto programmi di aiuto medico, alimentare e sociale. Erano attività attentamente sorvegliate dalle autorità del governo che non lasciavano molti spazi decisionali sulla destinazione di questi aiuti. Quando l’emergenza della carestia iniziò a terminare, molte di queste Ong lasciarono il Paese criticando l’ingombrante presenza dei funzionari locali.

La presenza religiosa comunque non scomparì mai del tutto, tanto che, nel 2008, un’associazione che faceva capo alle Chiese evangeliche della Corea del Sud riuscì ad aprire quella che ancora oggi è l’unica università privata esistente nel Nord.

Tra il 2017 e il 2018, con la distensione tra Pyongyang e Washington e l’intermediazione del presidente sudcoreano Moon Jae-in, ci fu anche la concreta possibilità che papa Francesco potesse decidere di accogliere l’invito fatto in almeno due occasioni da Kim Jong Un di visitare la Corea del Nord. Quando le trattative sembravano a buon punto, la pandemia e l’elezione di Biden alla Casa Bianca interruppero ogni ulteriore sforzo per concludere un accordo di un viaggio che sarebbe sicuramente passato alla storia come uno dei più importanti segnali di distensione mondiale.

La chiusura dei confini (che oggi solo in parte si stanno riaprendo), l’interruzione del dialogo con gli Usa e l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza sudcoreana hanno portato Kim Jong Un a rivedere la politica di parziale intesa che aveva fatto sperare in una nuova era per la penisola.

Chiese evangeliche e Chiesa cattolica

A farne le spese sono state anche le Chiese presenti sul territorio, in particolare quelle cristiane evangeliche e protestanti i cui fedeli, a differenza dei cattolici, sono molto più legati ai movimenti politici anti comunisti e anti nordcoreani.

È in questo senso, dunque, che va vista la seconda parte dell’articolo 68 della Costituzione, nella quale si ammonisce ogni credo religioso a non sovvertire l’ordine costituito. In realtà, la persecuzione cristiana da parte del regime di Pyongyang, è idealmente rivolta più verso le comunità protestanti che a quelle cattoliche, anche se i funzionari di partito, poco edotti sui principi dogmatici che differenziano le due fedi, non sempre riescono a distinguere la diversità. La Chiesa cattolica è sempre stata vista dal regime di Pyongyang come un’entità molto meno pericolosa rispetto alle sorelle protestanti. I cattolici, al pari del regime, hanno una struttura verticale molto pronunciata al cui culmine risiede il papa. Questo ordine gerarchico viene visto dai funzionari nordcoreani come qualcosa di rassicurante perché limita l’anarchia ideologica e interpretativa.  Inoltre, la Chiesa cattolica, proprio per i rapporti diplomatici (non ufficiali) che intrattiene con Pyongyang, ha sempre dimostrato di voler accettare le regole dello Stato limitando la diffusione di concetti che non siano religiosi.

Le Chiese evangeliche e protestanti sono invece spesso legate a organizzazioni politiche che fanno capo a centrali statunitensi con ramificazioni in Sud Corea e, in forma più o meno clandestina, in Cina. Dai confini di questi due Stati i missionari fanno entrare illegalmente in Corea del Nord oggetti di culto, Bibbie ma anche libri non religiosi, testi che inneggiano alla formazione di una rete di opposizione religiosa con risvolti politici.

Spegnere i possibili «focolai»

Per esempio, dal territorio sudcoreano, a ridosso del 38° parallelo, capita spesso che fedeli di comunità evangeliche si riuniscano per lanciare palloni aerostatici che, con l’aiuto delle correnti atmosferiche, trasportano pacchi di aiuti contenenti anche testi considerati sovversivi al Nord.

Il tentativo da parte delle autorità nordcoreane di smantellare questa rete di potenziali oppositori al regime, si estende quindi anche alle comunità cristiane. Poco importa se cattoliche, evangeliche o protestanti: la presenza di una Bibbia, di un crocifisso o di un’immagine sacra è comunque intesa come indicazione che in quel luogo esiste un «focolaio» destabilizzatore che, come tale, deve essere soffocato.

Pi.Pes.

 




Marocco. Il pane brucia


C’è una siccità che brucia i campi e l’esistenza delle persone. C’è stato il terremoto più devastante nella storia del Paese. Non c’è lavoro né futuro per i giovani. Ecco perché quasi tutti cercano di fuggire all’estero. Costi quel che costi.

Ouled Kichou. È un piccolo villaggio agricolo nei dintorni di Beni Mellal, capoluogo dell’omonima regione del Marocco centrale, tra le più colpite dalla siccità che sta mettendo in ginocchio il Paese. Dal minareto di una moschea, udiamo un muezzin dalla voce sgraziata richiamare gli abitanti alla preghiera dell’alba (salat-al-fajr).

La gente del posto rimpiange il suo predecessore che si cimentava in virtuosismi canori – prima si diventava muezzin per fede, e non per lo stipendio, seppur modesto, che attualmente ricevono – e il tempo in cui l’acqua, che scendeva abbondante dalla diga di Ben Ouidan (realizzata dai francesi nel 1955), sull’antistante catena dell’Atlante, rendeva fertile la terra e nei campi c’era lavoro.

Una spianata con alberi di olivo secchi e il sidr che avanza. Foto Silvia Zaccaria.

Una siccità mai vista e l’abbandono dei campi

A Ouled Kichou oggi manca anche l’acqua potabile e la quotidianità è fatta di donne e bambini che si alternano davanti alle poche cisterne allestite nel douar («villaggio» in darija, il dialetto marocchino). I campi sono quasi abbandonati e il sidr, albero del deserto citato nel Corano (chiamato «spina-christi» da ebrei e cristiani che l’associano alla corona di spine di Cristo), sembra tornare ad avere la meglio sugli ulivi centenari, in uno scenario apocalittico che un anziano descrive come il «giudizio universale».

I pochi che hanno risorse economiche provano a scavare un pozzo profondo almeno cento metri ma non è detto che si trovi la falda. Per questo si affidano ancora ai poteri divinatori del moul Al ouidet (letteralmente «il padrone delle bacchette di legno»), il rabdomante.

Qualcun altro presagisce il ritorno delle piaghe d’Egitto e sette anni di carestia.

In effetti i segni ci sarebbero tutti, visto anche il terremoto devastante, il più forte della storia del Paese, che nel settembre dello scorso anno ha colpito la provincia di Al Haouz e il suo capoluogo Marrakech, provocando almeno 2.900 morti (il bilancio non è ancora definitivo).

La zona dell’epicentro, svantaggiata dal punto di vista geografico ed economico, era nota per ospitare siti con una forte connotazione culturale e spirituale, come Tinmel, antica capitale della dinastia amazigh (berbera) degli Almohadi, e il mausoleo di Moulay Ibrahim, un santo locale.

A Tinmel, oltre al villaggio, è stata distrutta anche la moschea risalente all’XI secolo e appena ristrutturata, mentre il santuario, meta di pellegrinaggio e luogo di ricovero per persone con disturbi psichiatrici, è stato gravemente danneggiato.

Due testimoni di Ijoukak, uno dei villaggi lungo la strada R203, tornata solo da poco percorribile, raccontano: «Il terremoto è venuto a darci la caccia», paragonando il boato che ha preceduto la prima scossa al rumore sordo provocato dagli spari dei cacciatori.

Malgrado la perdita di familiari, compaesani e di tutti i propri beni, malgrado i contributi ricevuti siano modesti (le indennità statali ammontano a 14mila euro per chi ha perso la casa e a 4mila euro per chi ha subito danni, più 250 euro mensili per un anno elargiti, secondo alcuni testimoni, in modo casuale), questa gente di montagna, in tende adibite anche a scuole e moschee (solo alcuni villaggi hanno ricevuto container), resiste grazie a una fede incrollabile e alla solidarietà dei cittadini accorsi da ogni angolo del Paese.

C’è anche chi grida al miracolo. Uicha («piccola Aïcha») è uscita illesa dal crollo del mausoleo di Moulay Ibrahim; la bottega di Baha, lo speziale, è rimasta intatta. Si dice che a Tajghaout si sia salvato solo l’imam.

Inoltre, il sisma ha innescato un fenomeno geologico straordinario: con la frattura e lo spostamento delle rocce, le acque sotterranee hanno trovato nuovi spazi per fluire e salire in superficie e così in diversi luoghi, compreso l’epicentro, Ighil, dalle montagne anch’esse asciutte per l’assenza di pioggia e neve, sono sgorgate sorgenti d’acqua pura che gli abitanti hanno interpretato come una benedizione.

Tendopoli allestita dalla Protezione civile nel pressi di Ighil, epicentro del sisma. Foto Silvia Zaccaria.

Calamità presenti e future

Il presente è grigio: scarsità d’acqua, post terremoto da gestire, aumento dei prezzi, sistema sanitario e scolastico a pezzi (da settembre è in corso uno sciopero dei maestri a contratto), disoccupazione, soprattutto giovanile (15-24 anni), ai massimi storici (38,25% nelle zone rurali e 49,7% in quelle urbane). E il futuro all’orizzonte è ancora più fosco: lunghi periodi di siccità e conseguente avanzata della desertificazione. Per questo non sorprende che la gente comune paragoni le calamità, naturali e non, che stanno colpendo il Paese a quelle bibliche. Ma è l’ultima delle piaghe d’Egitto, la morte dei primogeniti maschi, quella che più si presta a una lettura attualizzata se messa in relazione con l’esodo dei più giovani che, intraprendendo il viaggio migratorio lungo rotte sempre più pericolose, accettano implicitamente il rischio di morire.

D’altronde un detto popolare recita «il pane brucia» (kkubz hār in darija) e per guadagnarselo bisogna soffrire, mettendo anche a repentaglio la vita.

I giovani in fuga, una scelta obbligata

Nei villaggi non si parla di altro. Della pioggia che non arriva, delle preghiere nelle moschee per invocarla, e dei giovani che vanno via. Solo Ouled Kichou, villaggio con una popolazione stimata di duemila persone, negli ultimi sei mesi ne sono partiti più di sessanta, tutti tra i ventiquattro e i trent’anni. Un primo gruppo, composto da una quarantina di persone, è arrivato a destinazione (l’Italia). Il secondo, composto da ventiquattro, ha avuto meno fortuna: quattro hanno desistito lungo il viaggio, diciassette sono stati rimpatriati. Tre, avendo in mano dei passaporti falsi, sono bloccati in Turchia.

Scartata la rotta del Mediterraneo orientale (dopo l’intensificazione dei respingimenti in mare da parte della Grecia dal 2019) e quella del Mediterraneo occidentale verso la Spagna, vista l’ulteriore stretta del Marocco nel controllo delle frontiere a seguito della nuova pioggia di finanziamenti europei (500 milioni di euro, stanziati dopo la tragedia – era il 22 giugno 2022 – a Melilla in cui morirono 37 persone), sempre più marocchini tentano – assieme a iracheni, afghani, pachistani, bengalesi, siriani e palestinesi – la rotta balcanica.

Arrivati con l’aereo in Turchia (per i marocchini non c’è l’obbligo di visto), i migranti devono attraversare ben sette frontiere: turco-bulgara, serba, bosniaca, croata e slovena-italiana.

Raggiungere la prima, con la Bulgaria, è la parte più difficile e rischiosa. Quelli più fortunati sono accompagnati in auto a pochi km dal confine anche se poi è difficile superarlo per via della border police che non esita a impiegare armi da fuoco, cani e mazze da baseball e a denudare le persone.

Altri, come il gruppo dei 24 di Ouled Kichou, sono lasciati anche a decine di km di distanza. Devono dunque proseguire a piedi, nei boschi, guidati da un rehber («guida», in turco).

Il rehber – come il ra’ìs, il capitano o «scafista» che guida la barca sulla rotta mediterranea – è un connazionale, spesso coetaneo che, dopo vari tentativi, conosce i punti di controllo e di incontro per essere presi in consegna dal successivo gruppo di trafficanti. Se riuscirà a passare, non dovrà pagare nulla (secondo le testimonianze, il viaggio può costare sino a ottomila euro).

Mentre si attraversa il bosco si può, inoltre, cadere nelle imboscate di banditi curdi che estorcono denaro, anche sotto forma di riscatto.

Due anziani di Ouled Kichou davanti alla macelleria del paese, distrutta e abbandonata. Foto Silvia Zaccaria.

L’odissea di chi fugge

Se si viene intercettati dalla polizia turca, si viene condotti in centri di detenzione amministrativa (sarebbero almeno 30, secondo asylumineurope.org), gestiti dalla Direzione generale per la gestione della migrazione, dove attendono – per un tempo indefinito – il rimpatrio.

I giovani rimpatriati che abbiamo intervistato a Ouled Kichou, sono stati portati nel centro di Kirklareli, al «Pehlivanköy Reception and Removal Centre».

Finanziato nel 2011 all’85% da fondi europei, per accogliere 750 richiedenti asilo, in seguito dell’accordo Turchia-Ue del 2016, esso è stato trasformato in centro per il rimpatrio che ospiterebbe circa 5mila persone. I testimoni lo descrivono come una vera e propria prigione: i cellulari vengono sequestrati, non si può uscire e non possono entrare organizzazioni umanitarie o legali.

«Nel centro – raccontano i giovani – si dorme almeno in otto per stanza. Non ci sono interpreti o mediatori per cui puoi ottenere informazioni sulla tua situazione solo tramite connazionali che stanno lì da tempo. Abbiamo visto anche persone con le gambe in cancrena per il freddo o lacerate dai morsi dei cani o doloranti per i lividi provocati dalle bastonate, non ricevere assistenza medica adeguata. Ci sono anche delle celle sottoterra e ci hanno detto che lì sono detenuti i terroristi».

Uicha, sopravvissuta al crollo del santuario di Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.

Il sogno europeo resiste

Per coloro che sono stati rimpatriati, la legge marocchina prevede che non possano lasciare il Paese per cinque anni. I giovani di Ouled Kichou però non vogliono mollare.

Seppur nessuno si sogna di intraprendere una seconda volta il viaggio lungo la rotta balcanica, qualcuno come Y., che di tentativi via terra e via mare ne ha già fatti una decina, sta già pensando ad altre vie di fuga: «Magari la prossima volta prendo un biglietto per il Brasile. Poi nello scalo esco e scappo». Per qualcuno non sono che degli incoscienti, per altri degli eroi.

Per Mohammed, studente di diritto all’università di Marrakech, i giovani nascono già con l’idea di migrare e quindi non sviluppano un senso di appartenenza al Paese, mentre è ancora forte, malgrado i fallimenti o le fatiche delle generazioni precedenti che sono emigrate, l’idea che l’Europa sia un posto pieno di opportunità, e per raggiungerla sono pronti a tutto.

«È anche vero che qui un laureato guadagna non più di 400 euro al mese e che per studiare all’università, o diventare giudice, come sogno di fare io, devi corrompere qualcuno. Quindi, se il Paese non lo puoi cambiare, lo devi solo lasciare. Se le frontiere fossero aperte, qui non rimarrebbero che donne e vecchi».

Silvia Zaccaria

Baha, lo speziale, davanti alla sua erboristeria, a Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.

Un uomo prega alla fermata del taxi di Moulay Brahim, con alle sue spalle la moschea distrutta dal terremoto. Foto Silvia Zaccaria.




L’invasione dei «coccodrilli» cinesi


Era conosciuta come la «fabbrica del mondo». Imitava e copiava. Metteva sul mercato merci tossiche e di bassa qualità. Quel tempo è passato. Oggi la Cina produce ed esporta nel mondo prodotti di alto livello a prezzi molto competitivi.

Un coccodrillo può battere uno squalo se si trova a combattere nel fiume Azzurro. Con questa metafora, nel 2003 Jack Ma, fondatore del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, prevedeva in tempi non sospetti come le aziende cinesi (i coccodrilli) avrebbero fatto fuori i concorrenti stranieri (gli squali) intenzionati a farsi largo nel mercato cinese (il fiume Azzurro).

Solo l’anno seguente Taobao, piattaforma di shopping online legata ad Alibaba, superava eBay per vendite in Cina. Con il tempo, storie come questa sono diventate la norma, non l’eccezione.

Pensiamo all’uscita di Uber dal mercato cinese, acquisita nel 2016 dalla rivale Didi Chuxing, tutt’oggi l’app di ride hailing (servizio di auto con autista) più popolare nel Paese.

I progressi cinesi

Per anni si è sostenuto che il successo delle aziende tecnologiche cinesi andasse ricercato nella mancanza di competizione straniera: secondo questa scuola di pensiero, chiudendo il paese a Facebook e Google il governo cinese avrebbe permesso la nascita di surrogati autoctoni, come WeChat e Baidu. Eppure la parabola di eBay e Uber, se non smentisce la vecchia tesi, quantomeno dimostra come la mancanza di alternative non sia sufficiente a giustificare l’afferma- zione delle big tech (aziende tecnologiche) locali. Soprattutto ora che i «coccodrilli» cinesi si stanno mangiando gli «squali» non più nel solo «fiume Azzurro», ma anche oltreoceano.

Nomi cinesi fino a poco tempo fa semisconosciuti hanno conquistato la fedeltà dei consumatori occidentali: TikTok, creatura della cinese ByteDance, governa il mondo dei video brevi. Shein ha rivoluzionato il fast fashion un tempo associato a marchi come Zara e H&M, mentre i cellulari di Huawei e Xiaomi hanno rosicchiato fette di mercato ad Apple e Samsung.

Tra il rallentamento dell’economia cinese, un quadro normativo sempre più stringente, e l’ascesa di competitor nazionali, aumenta il numero delle azien-de tecnologiche cinesi intenzionate (o costrette) a cercare fortuna all’estero. Il segreto del loro successo? Prezzi bassi e prestazioni sempre migliori. È passato il tempo della Cina «fabbrica del mondo», dei prodotti tossici e di bassa qualità. I «coccodrilli» cinesi hanno sempre meno da invidiare agli «squali» occidentali.

Un laboratoio del Guanglong high tech industry park a Guilin, Guangxi, Cina. Foto Glsun Mall – Unsplash.

Il peso delle sovvenzioni

Alla trasformazione ha contribuito enormemente il supporto di Pechino: basti pensare che, secondo rapporti annuali e registri pubblici, al 2019 Huawei aveva ricevuto centinaia di milioni di dollari in sovvenzioni statali, terreni per la costruzione di impianti e appartamenti per i dipendenti, bonus da distribuire ai migliori ingegneri e massicci prestiti da erogare ai clienti internazionali disposti a comprare i propri prodotti. Lo stesso sta avvenendo nel settore dell’automotive.

A inizio gennaio la casa automobilistica cinese Byd ha superato per la prima volta la statunitense Tesla nelle vendite di veicoli elettrici. Traguardo varcato in parte proprio grazie alle sovvenzioni che il governo cinese ripartisce alle aziende automobilistiche, funzionali agli obiettivi ecologici nazionali.

Per il think tank statunitense Csis, la spesa statale nel settore dei veicoli elettrici ha superato i 125 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2021.

I cambiamenti

Comprendere l’avanzata globale delle aziende tecnologiche cinesi risulta difficile senza tenere in considerazione il modello di sviluppo promosso da Pechino.

Nati e cresciuti nell’arco dell’ultimo ventennio, i giganti cinesi di internet hanno beneficiato dei cambiamenti vertiginosi che hanno travolto il paese asiatico a partire dai primi anni Duemila: l’urbanizzazione rampante, la costruzione di reti di trasporti e telecomunicazioni, nonché la diffusione dei telefoni cellulari, hanno aperto la strada a nuovi modelli di business, dal commercio elettronico al food delivery (consegne a domicilio), passando per il social commerce (commercio elettronico direttamente sui social).

Ugualmente decisivo, anche se meno evidente, è l’impatto esercitato dalla storia meno recente. Il Ventesimo secolo, con i suoi stravolgimenti, ha posto le condizioni necessarie alla maturazione di uno spirito imprenditoriale. A sostenerlo sono Guoli Chen, docente di Insead (Francia), una delle business school più prestigiose al mondo, e Jianggan Li, fondatore di Momentum Works, società di ricerca con base a Singapore.  Nel loro manuale «Seeing the unseen: behind chinese tech giants’ global venturing» (Vedere l’invisibile: dietro l’avventura globale dei giganti tecnologici cinesi), i due esperti individuano le basi dello sviluppo tecnologico nelle pagine più buie del periodo maoista.

Può sembrare strano, ma anche la Rivoluzione culturale, in tutta la sua brutalità, contribuendo a scardinare le vecchie gerarchie sociali e i potentati locali, ha favorito alcune misure inaspettatamente «business friendly» (favorevoli agli affari): l’imposi-

zione su scala nazionale della stessa lingua (il mandarino standard), dello stesso sistema educativo (nove anni di scuola dell’obbligo) e degli stessi programmi di intrattenimento, ha trasformato la Cina in un mercato relativamente omogeneo, nonostante l’enorme estensione geografica.

Smentendo il luogo comune della Cina brava solo a copiare, Li e Chen attribuiscono proprio a Mao la capacità di riadattare in chiave cinese quanto appreso dall’estero: invece di replicare ciecamente il modello sovietico, che individuava nel proletariato urbano la propria base rivoluzionaria, negli anni Quaranta il Grande Timoniere sconfisse i nazionalisti grazie al supporto delle campagne. Strategia simile sembrano averla adottata la piattaforma di e-commerce Pinduoduo e il venditore di servizi online Meituan: anziché sfidare Alibaba nei grandi centri urbani hanno puntato tutto sulle aree rurali e sulle città più piccole, conquistando una nicchia numericamente consistente anche se con un potere d’acquisto più basso. Risultato: il 29 novembre scorso Pinduoduo ha superato la creatura di Jack Ma per capitalizzazione di mercato.

Un’auto della polizia cinese di marca Byd, produttore in crescita vertiginosa e ormai pronto a invadere i mercati occidentali. Foto James Young 8167.

Modulare l’offerta

Questo approccio incrementale all’innovazione si riflette nella capacità di modulare l’offerta in base alla domanda. Specialmente in contesti poco familiari. In Africa i cellulari made in China hanno schermi resistenti alla sabbia e fotocamere più sensibili alla pelle scura. Nei mercati più competitivi, come quello europeo, per bilanciare l’inferiorità delle prestazioni dei propri dispositivi, i colossi della telefonia Huawei e Zte hanno deciso di fornire un’assistenza al cliente particolarmente sollecita.

L’attenzione per i prodotti costituisce uno dei pilastri della «pop-leadership», l’acronimo con cui Li e Chen spiegano il successo planetario dei «coccodrilli» cinesi: persone, organizzazione, prodotti e leadership sono i quattro fattori che compongono un mix vincente se gestiti correttamente.

Cominciamo con la leadership: l’importanza dei vertici aziendali in Cina è particolarmente evidente proprio nella fase di «go global». Se nel 2020 il fondatore di ByteDance, Zhang Yiming, non avesse predisposto un’espansione verso l’estero, probabilmente TikTok non sarebbe diventata l’app più scaricata al mondo. Né Xiaomi sarebbe diventato il cellulare più venduto in India, se il Ceo Lei Jun non avesse scommesso sul subcontinente, da lui personalmente visitato già nel 2001.

Chi siede ai gradini intermedi della piramide ricopre un ruolo altrettanto decisivo. Quelle che Li e Chen chiamano genericamente «persone».

Negli ultimi anni le big tech cinesi hanno stanziato budget sostanziosi per il reclutamento di risorse giovani e qualificate, non molte quelle disponibili rispetto alla domanda. Nel 2017 Huawei ha raddoppiato gli stipendi a 4mila dollari per arruolare ingegneri in Giappone. Ma non è solo una questione di soldi. I marchi cinesi hanno un netto vantaggio rispetto ai competitor occidentali: possono infatti avvalersi di una vasta comunità diasporica che condivide lingua e abitudini con la squadra in Cina, conosce bene il Paese in cui opera, e sa quindi come adattare meglio la produzione al nuovo contesto.

Raccolta di dati sensibili

Assumere decisioni strategiche, gestire le risorse, e ridefinire i prodotti per le esigenze dei mercati in cui operano, quindi saper «organizzare»: sono alcune delle mansioni che, una volta sbarcate all’estero, le società cinesi delegano ai team in loco. L’obiettivo è, da una parte, riuscire a trovare un equilibrio in tempi rapidi tra standardizzazione e localizzazione dei prodotti. Dall’altra, rispondere ai timori sempre più diffusi sul controllo della tecnologia. Soprattutto dopo l’introduzione di leggi in Cina che da anni conferiscono al governo l’accesso ai dati sensibili.

Problema che TikTok – e non solo – ha cercato di risolvere  (senza troppo successo) separando il marchio internazionale da quello cinese (che si chiama Douyin), creando data center all’estero e team indipendenti nei mercati di sbocco. In India, paese con cui Pechino ha in sospeso contenziosi territoriali, circa 300 app cinesi – compresa Tik Tok – sono state bandite per motivi di sicurezza.

Insomma, il successo dei «coccodrilli» cinesi oltremare non è affatto privo di ostacoli.

Il Partito e la concorrenza

Come dicevamo, l’ascesa delle aziende tecnologiche cinesi è strettamente collegata a un paradigma di sviluppo che prevede un intervento massiccio dello Stato nell’allocazione delle risorse. In Occidente questo basta a parlare di concorrenza sleale. Non giova la crescente ingerenza del Partito comunista, l’unica vera forza politica del Paese, nella gestione economica a scapito dell’imprenditoria privata. Il valore di mercato di Alibaba è crollato ai livelli dell’Ipo (Initial public offering, Offerta pubblica iniziale) da quando nel 2020 la leadership cinese ha lanciato una campagna di regolamentazione contro i colossi nazionali del tech, temuti per la loro capacità di fornire servizi (come microcredito) fuori dai circuiti ufficiali e senza grandi protezioni per i consumatori.

Con il rallentamento dell’immobiliare, la ricerca di nuove locomotive per la crescita cinese sta dirottando l’interesse di Pechino verso i cosiddetti «nuovi tre»: veicoli elettrici, celle solari e batterie al litio. Cambiano i settori privilegiati dal governo ma non il paradigma di sviluppo. Anche i rischi restano grossomodo gli stessi. Se in passato fare affidamento sul settore delle costruzioni, da una parte ha tenuto a regime la crescita economica anche durante la crisi internazionale del 2008, dall’altra ha alimentato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Mutatis mutandis, l’enfasi attribuita oggi all’industria verde rischia di tradursi in un nuovo eccesso.

Le auto di Pechino

Secondo il «New York Times», la Cina ha già un numero di fabbriche automobilistiche sufficiente a sfornare il doppio delle macchine necessarie a soddisfare il mercato interno.

Cosa se ne farà il gigante asiatico delle giacenze invendute? A febbraio è salpata da Shenzhen la prima nave cargo di Byd diretta verso i Paesi Bassi, con 5mila automobili a bordo. Per ora l’azienda piazza l’80% della produzione in Cina. Ma i consumi interni stentano a ripartire e il settore presenta già i segni di un possibile stallo, come evidenzia il recente calo dei prezzi delle auto. Seguendo un copione non nuovo, l’Unione europea sta valutando possibili dazi sulle importazioni; la stessa strategia adottata dieci anni fa contro i pannelli solari made in China. Prevedendo «un successo significativo al di fuori della Cina, a seconda di quali barriere tariffarie o commerciali verranno stabilite», il fondatore di Tesla Elon Musk a gennaio ha avvertito che, senza adeguati provvedimenti, i costruttori di auto degli altri paesi «verrebbero sostanzialmente demoliti» dai «coccodrilli» del fiume Azzurro.

Uno schermo mobile con le applicazioni più comuni dei quattro giganti tecnologici cinesi Baidu, Alibaba, QQ di Tencent e MI di Xiaomi.  Foto Riccardo Milani / Hans Lucas / AFP.

Restrizioni e nuovi mercati

Negli Stati Uniti, dove da tempo sono già presenti restrizioni sull’import di veicoli elettrici cinesi, gli spettri cinesi si chiamano Shein e Temu: con il loro modello di business on-demand (beni e servizi su richiesta), le due aziende stanno stravolgendo l’e-commerce statunitense. Disposte ad accettare profitti marginali o persino perdite, hanno ormai fagocitato ampie quote di mercato americano offrendo merci a prezzi stracciati. Non solo. Spedendo pacchi con un valore inferiore agli 800 dollari, Shein e Temu si mantengono sotto la soglia prevista per l’imposizione di dazi. Una situazione a cui il Congresso ha già detto che cercherà di porre fine.

Intanto il clima politico sfavorevole in Europa e America sta spingendo le aziende cinesi verso altri lidi. Secondo il «Nikkei», Byd ha in programma di aprire uno stabilimento in Messico: il paese dell’America Latina, infatti, permette di accedere agevolmente al mercato statunitense grazie agli accordi di libero scambio firmati con Washington.

L’e-commerce cinese, invece, vira verso mete più accoglienti. Ad agosto Temu ha lanciato la sua piattaforma per le Filippine, prima espansione nel Sud-Est asiatico, regione giovane, in crescita e con una consistente componente etnica di origini cinesi. L’oceano non è l’habitat naturale degli alligatori. Ma il fiume Azzurro è ormai troppo affollato e tornare indietro non sembra un’opzione praticabile per i coccodrilli cinesi.

Alessandra Colarizi

 




Se l’arte salverà il Burkina


Silvia è una ragazza tranquilla. Un’intuizione le dice che vivrà lontana dalla sua città di provincia. Studia, poi lavora nel sociale. Ha un’innata propensione all’aiuto agli altri, e una importante vena artistica. Invece di aspettare l’occasione, se la costruisce. E la sua vita sboccia.

Silvia Ferraris è nata nel 1977 ad Asti, e da oltre dieci anni vive a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. «Fino da ragazzina – ci confida al telefono – qualcosa mi diceva che avrei vissuto molto lontano dalla mia città. E questa intuizione ha attraversato tutta la mia vita».

Silvia si trasferisce a Torino per studiare Scienze della comunicazione nel 2000. «In quel periodo feci un viaggio con amici in India, e questo mi fece venire l’idea di lavorare nella cooperazione internazionale». Ma le opportunità sono altre e Silvia fa un anno di servizio civile presso l’ufficio minori stranieri: «Lavoravo in comunità con i cosiddetti baby pusher e le ragazze rumene sfruttate. Nel cuore avevo sempre il desiderio di scoprire i luoghi da dove venivano questi ragazzi».

Nel frattempo, continua a formarsi e consegue una seconda laurea triennale in Scienze dell’educazione. Silvia ha una sua «parte artistica» che non trascura: «Facevo i ritratti ai ragazzi delle comunità. Ho poi deciso di iscrivermi alla scuola di arte terapia, a Milano, della durata di tre anni. Questo percorso mi ha dato la possibilità di coniugare due desideri: spendere le mie competenze in una attività di aiuto, e lavorare nel settore dell’arte».

Il grande salto

In quegli anni conosce anche l’associazione Wai Brasil di Torino (oggi Relamondo), e realizza con alcuni soci un viaggio in Brasile.

Ma tutto questo non basta. Silvia segue anche un master in cooperazione «nei week end, così potevo continuare a lavorare». Capisce che deve fare un’esperienza di lungo periodo: «Ho cominciato a preparare questa idea nel 2010 e due anni dopo sono riuscita a partire. Avevo 33 anni».

Silvia ha pensato a un progetto di arte terapia, da attuare in un Paese africano: sarà il tirocinio della sua formazione. Bussa a diverse porte di Ong, ma non trova un appoggio. Poi, una mattina, durante una sua ricerca su internet, appare il nome di una piccola Ong francese: Hamap humanitaire. «Ho scritto loro. Hanno valutato la mia idea e si sono detti interessati a fare un crowd funding per finanziarla. E così parto, con la metà del finanziamento coperto da una raccolta popolare francese».

Silvia vive un anno in Burkina Faso, dove applica quanto ha appreso nella scuola di arte terapia. «In quell’anno ho capito che il popolo del Burkina Faso è permeato dall’arte. La mia proposta di arte terapia era molto simile a tante pratiche locali, ma si trattava di cambiare prospettiva. Ho anche capito che un anno non sarebbe bastato: volevo continuare a scoprire delle cose».

La vita professionale s’intreccia con quella sentimentale: nel Paese conosce il burkinabè che sarebbe diventato suo marito. Dopo un breve rientro in Italia, decidono di stabilirsi a Ouagadougou nel 2014. Intanto nasce la prima figlia. Qualche anno dopo sarebbe arrivato anche il fratellino.

Una nuova famiglia

«La mia vita è diventata la routine dell’organizzazione famigliare, sebbene in Burkina. Le priorità sono cambiate. Ho iniziato a fare diverse collaborazioni nell’ambito educativo. Intanto mio marito si occupava di una fattoria biologica. Ma anche l’arte terapia era un lavoro che volevo fare crescere».

In Burkina Silvia conosce altre persone impegnate nel sociale e nell’arte. Sono Alice Ouedraogo che lavora con un’associazione per i diritti delle donne e dei bambini, e suo marito, l’italiano Stefano Dotti. Poi c’è Véronique, sorella di Alice, impegnata nell’arte dei tessuti burkinabè. Successivamente incontra l’attore di teatro e regista Sie Palinfo, che subito si trova in sintonia con le sue idee. Anche Elisa Chiara, italiana che lavora nella cooperazione, integra il gruppo, che diventa di tre italiani e tre burkinabè, quattro donne e due uomini.

Insieme, danno vita a un’associazione, «Waga studio», dove Waga suona come Ouaga, il diminutivo famigliare con cui è chiamata la capitale del Paese.

«Le prime attività risalgono al 2015, mentre a livello giuridico è registrata dal 2021. L’obiettivo è promuovere il savoir faire locale nell’ambito della cultura, delle arti e del benessere. Ma un’altra finalità è valorizzare l’aspetto “terapeutico” delle arti. Ovvero usare le varie forme d’arte come strumento di sviluppo personale, soprattutto con persone bisognose. Ad esempio, i ragazzi e le donne in situazioni difficili. Questo aspetto è anche frutto della mia esperienza personale, in quanto arte terapeuta».

Il Paese in crisi

Intanto la situazione sociopolitica del Burkina peggiora. Dal 2016 gruppi armati islamisti imperversano nell’interno del Paese, costringendo molte scuole a chiudere e i centri sanitari a evacuare. La popolazione di molte aree fugge e si riversa in capitale, in improvvisati campi di sfollati che vanno a gonfiare i quartieri periferici. Il governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré non riesce a mettere un freno. Tale situazione di instabilità porta a un primo colpo di stato militare, il 24 gennaio del 2022 (cfr MC maggio 2022) e a quello successivo del settembre dello stesso anno. La giunta militare è oggi guidata dal capitano Ibrahim Traoré, giovane ufficiale dell’esercito, e demagogo. Di fatto la situazione della sicurezza è peggiorata mentre si sono intensificati gli arresti arbitrari e le sparizioni politiche, perpetrati da emissari del governo militare.

Il Burkina Faso, insieme a Mali e Niger, anch’essi guidati da giunte militari, ha costituito la coalizione «Alleanza dei paesi del Sahel», che ha voltato le spalle agli alleati storici, come la Francia, e si è avvicinata alla Russia di Vladimir Putin.

«Oggi in molti incroci di Ouagadougou hanno messo quattro bandiere: oltre a quella nazionale, quelle di Niger, Mali e Russia», ci dice Silvia, aggiungendo: «è quasi grottesco». Il Paese vive una situazione molto difficile di instabilità, insicurezza e aumento della povertà, acuita dall’incremento dei prezzi dei generi alimentari, oltre che a una grave regressione del processo democratico e del rispetto dei diritti umani.

In tutto questo Silvia non si scoraggia: «Io credo sempre nella saggezza dei burkinabè».

Arti per la vita

Il gruppo di Waga studio scrive un progetto, «Le arti per la vita, appoggio alla gioventù vulnerabile», che viene presentato alla Tavola valdese nel 2022 ed è finanziato nel 2023. Silvia ci descrive le attività: «Il cuore del progetto è una delle finalità di Waga studio, realizzare dei percorsi artistici dedicati ai ragazzi per fare loro conoscere le proprie potenzialità e aiutarli nello sviluppo personale». L’équipe di Waga studio ha lavorato con venti giovani, alcuni dei quali studenti universitari, che erano fermi per una delle tante sospensioni della didattica.

«Abbiamo proposto loro momenti bisettimanali, atelier di alcune ore, di diverse discipline artistiche, secondo un tema. Si trattava, in una prima fase, di un momento di espressione corporea: danza libera con ritmi particolari, ascolto del proprio corpo, esercizi vicini al teatro e alla danza terapia. Seguiva una parte di arte visiva: dopo che ci si è espressi con il corpo, si mette il vissuto sul foglio, oppure sull’argilla. Parliamo di sviluppo personale, perché questo metodo, attraverso l’arte, fa venire fuori qualcosa, un vissuto, da dove vengo, il presente qui e ora, un’idea di futuro.

Una ragazza ha disegnato il suo villaggio, e poi ha pianto. Dovrebbe servire anche per dare risposte, ad esempio a un’idea da realizzare, oppure a un passato che fa male, a un trauma che continua a riemergere».

A questo progetto hanno partecipato anche l’associazione italiana Relamondo e la belga Nyangazam. Poi il finanziamento è finito e così anche il progetto.

Oggi l’équipe di Waga studio segue diverse attività, da atelier di arte terapia con bambini affetti da noma (malattia che colpisce i più piccoli e ne deturpa il volto), al lavoro con un gruppo di donne sfollate, per il recupero della plastica nel quartiere dove sono accampate. In questo caso il fine è il riciclo per realizzare oggetti di utilità o piccole opere artistiche.

Il sogno

Ma il grande sogno di Silvia, che condivide con gli altri membri dell’associazione è la creazione di un centro culturale permanente a Ouagadougou.

«L’idea è quella di valorizzare il potenziale artistico presente in Burkina – ci spiega -, prendendo spunto dal progetto “Le arti per la vita”, utilizzando le competenze artistiche per formare gruppi di giovani all’arte della performance nei vari settori, con l’obiettivo di permettere loro di scoprire il proprio potenziale e di coltivarlo. È come un coaching, attraverso esperienze artistiche». E continua: «Alla fine della scuola ci sono le restituzioni in performance, ciascuno avrà la sua reazione, ma l’importante è il processo di presa di fiducia in se stessi, di consapevolezza del proprio potenziale».

Il centro vuole essere uno spazio la cui «finalità principale è quella di agire da volano di cambiamento sociale attraverso le arti, per promuovere la cultura della pace e del rispetto reciproco in un processo di costruzione di valori comuni», recita il testo che descrive il progetto. E si tratterà di un centro italo-burkinabè, non solo perché realizzato da un gruppo misto, ma perché vedrà una commistione delle arti dei due paesi.

Tante attività

Avrà un ristorante con cucina delle due culture, italiana e burkinabè, e la fusion tra esse, inoltre ci sarà un coworking. Queste due attività dovranno servire anche all’auto sostentamento economico.

Il centro sarà basato su una scuola di performance: «Questo perché la performance racchiude tutte le arti e permette di comprendere al meglio qual è il campo d’azione privilegiato degli allievi. Inoltre ha potenti ricadute arte terapeutiche: il miglioramento dell’autostima, della fiducia in sé stessi, della capacità di ascolto ed espressione davanti a un pubblico».

Nel centro si realizzeranno anche tutte le attività già svolte nel progetto «Le arti per la vita», con atelier di sviluppo personale in coaching e arte terapia, e formazioni professionali di tipo artistico nei diversi ambiti. Si potranno fare anche dei coach a distanza con professionisti in Italia e Belgio.

E poi sarà uno spazio per corsi di fotografia per ragazzi svantaggiati, esposizioni fotografiche e artistiche, atelier di lettura, spettacoli di vario tipo e festival e molto altro.

La questione resta sempre il finanziamento per partire. Silvia e gli altri stanno presentando il loro progetto a diversi enti, ma sono rari quelli disposti a promuovere la cultura. Anche se, in questo contesto, può voler dire occupare giovani, riempire loro un vuoto e toglierli dalle grinfie dei gruppi armati che li stanno reclutando in gran numero.

Silvia, inoltre, sta portando avanti diversi progetti personali, legati alla danza e all’arte visiva.

La scuola di performance è proprio frutto di questo percorso di formazione artistica.

«A volte, l’idea del centro culturale mi sembra un sogno irraggiungibile. Nel periodo storico che sta vivendo il Burkina è ancora più difficile. Però è stato il frutto di una riflessione profonda, e più immagino cosa vorrei realizzare, più vedo quello. Sia per la mia storia personale, sia perché ci sono tanti artisti bravi in questo Paese».

Marco Bello




L’inizio della vita pubblica


Quando ci mettiamo sui Vangeli per ricostruire anni, durata e ordine degli eventi nella vita di Gesù, ci troviamo di fronte a poche informazioni e spesso contraddittorie: i Vangeli dicono poco e sovente non si mostrano d’accordo tra loro.

Nonostante questo, ci sono diversi motivi per fidarci dell’informazione di Giovanni secondo cui, pochi giorni dopo le nozze di Cana (cfr. Gv 2,12), Gesù si sarebbe recato a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli. Anche se per i sinottici quel viaggio nella città santa è uno degli ultimi atti della sua vita, in realtà davvero Gesù potrebbe aver iniziato la sua missione proprio in quella Pasqua, a Gerusalemme: la festa e il luogo di pellegrinaggio consueta per i credenti ebrei, e soprattutto per i galilei, molto legati alla città e al Tempio.

Un esordio dirompente

Meno consueto è ciò che nella città santa succede: Gesù, infatti, entrato nel tempio, improvvisa una frusta e inizia a prendersela con venditori e cambiavalute cacciandoli fuori.

Per apprezzare appieno il senso del gesto, dobbiamo ricordarci che in quel luogo e tempo il culto consisteva quasi solo nel sacrificare animali. Questi, però, dovevano essere sani, perfetti e, tra gli ebrei, anche puri, ossia allevati, custoditi e macellati con regole che potevano essere difficili da rispettare se non si era particolarmente competenti. In più, sappiamo che al tempio molti andavano in pellegrinaggio, e portarsi da centinaia di chilometri di distanza gli animali da offrire non era per nulla pratico: molto più semplice avere con sé del denaro con cui comprarli direttamente sul posto. E così, tra l’altro, si poteva ottenere che fossero i sacerdoti a controllare e garantire che gli animali acquistati fossero puri.

Il problema, peraltro, non era neanche finito qui. La legge ebraica, poi, per quanto riguardava il denaro, considerava impure le mescolanze e le leghe di metalli. Non era un problema usare il denaro «impuro» al lavoro o nella vita quotidiana, bastava poi purificarsi e non usarlo almeno nelle feste. Ma come fare ad acquistare gli animali sul posto, nel tempio? La soluzione consisteva nel servirsi, all’interno del santuario, del siclo di Tiro, antica moneta di argento zecchino, cambiandolo, all’ingresso, con le monete portate da casa.

Quando Gesù si arrabbia contro chi commercia nel cortile del tempio, quindi, non se la prende con abusi, ma con una prassi indispensabile al servizio del culto per come era codificato nella legge ebraica. Non sarebbe stato strano prenderlo per matto o per blasfemo. Perché si comporta così?

Un Padre autentico

«Non fate della casa del Padre mio una casa di mercato» (Gv 2,16). Spesso pensiamo che queste parole di Gesù siano un invito a non mescolare la religione con il commercio, come avrebbe senso se non si conoscesse la pratica della religione ebraica antica. Tra l’altro, è un’interpretazione che ci tranquillizza: possiamo dirci che «da noi» di solito non succede. Quanto abbiamo appena spiegato, però, ci suggerisce che la questione probabilmente è un po’ diversa, in quanto quelle compravendite erano al servizio diretto dei sacrifici. Senza quei cambiavalute e venditori, non ci sarebbe stato culto nel tempio. E Gesù lo sapeva.

Questo ci aiuta a capire che sta pensando a qualcosa di più ampio. A che cosa servivano i sacrifici? In ubbidienza alla legge di Mosè, i sacrifici erano ciò che gli esseri umani offrivano per ottenere la remissione dei peccati e la comunione con Dio. Do qualcosa al creatore, per averne qualcosa in cambio. Sembrerebbe un rapporto rispettoso, perché non «pretendo» un aiuto gratuito di Dio, senza offrirgli niente in cambio.

Nello stesso tempo, però, è un’impostazione religiosa che potrebbe sembrare «da mercato»: dare per avere. È qualcosa su cui siamo molto più esposti, perché è facile che la nostra religiosità assomigli a questa compravendita: «Ho bisogno di un aiuto, di una grazia, e inizio a fare un’offerta, ad assumermi un “fioretto”, ad accendere una candela o fare una preghiera».

Sembra che sia questa dimensione del «dare per avere» che Gesù rifiuta. Il tempio deve essere una «casa di preghiera», e se i sacrifici non sono più accettabili, la preghiera deve essere pensata in modo completamente diverso. Sarà il resto del Vangelo di Giovanni a chiarire in modo più netto ciò che qui è implicito: «Il Padre vuole adoratori in spirito e verità» (Gv 4,23), perché è un Padre che vuole una relazione autentica con noi, intima, personale, svincolata da regole normative e riti, come pure da qualunque idea di commercio. Preghiera, sì, ma come dialogo di amicizia.

Il Padre

Un altro particolare ci dovrebbe colpire: con estrema scioltezza, senza bisogno di spiegarsi, Gesù definisce Dio come «il Padre mio».

Il tono dell’affermazione che accompagna il gesto duro di Gesù, dice una sua intimità unica con Dio: si può comportare come un figlio che conosce suo padre e ne vede violata la volontà. Chiaramente non intende una figliolanza come semplice essere creato, come siamo tutti noi: «figli di Dio». Gesù qui esprime una consapevolezza che è solo sua, e che può persino farsi ruvida. Non vuole difendere il proprio legame con il Padre, che è dato per scontato, indiscutibile, ma si offende per come il Padre è trattato. Solo lui è in questa intimità con il Padre, e la vive senza bisogno di spiegarla. Per Gesù questo rapporto non è una tesi da dimostrare, è una realtà già chiara.

Tre giorni

È inevitabile che questo gesto estremo susciti la reazione dei presenti. Anzi, per la prima volta nel Vangelo compaiono, come avversari di Gesù, «i giudei» (che già avevano vagliato le pretese del Battista: Gv 1,19). Strada facendo, nel Vangelo si capisce che questa è una formula, una specie di nome in codice, per indicare quegli ebrei che, per ruolo (dottori della legge, scribi, sadducei, sinedrio), per competenza (farisei, dottori della legge) o semplicemente per presa di posizione, intendono difendere la tradizione giudaica contro Gesù. Sono i suoi antagonisti, genericamente definiti con quell’appellativo che nella storia attirerà all’evangelista l’accusa di antisemitismo, benché Giovanni scriva in un tempo in cui di antisemitismo è prematuro parlare.

Questi «giudei», peraltro, fin qui fanno ciò che è giusto, e forse persino doveroso: interrogano Gesù riguardo all’autorità con cui si permette di criticare il culto nel tempio. A loro probabilmente non era per niente sfuggito che quel gesto eclatante era una contestazione del culto in sé e dell’intera interpretazione del ruolo del tempio nel giudaismo. Ma, nel chiedere una conferma, utilizzano una parola («segno») che per l’evangelista definisce i miracoli, gesti che rinviano a spiegare altro.

E Gesù risponde con un enigma, secondo uno stile che nel Vangelo tornerà spesso: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Nel contesto della discussione, anche noi probabilmente avremmo capito che parlasse dell’edificio in cui si trovava, e per questo Gesù viene preso in giro (2,20), ma poi Giovanni ci spiega che parlava della propria risurrezione.

Se inteso così, tutto diventa più ragionevole e chiaro. Si parla infatti della risurrezione, che innanzitutto sembra un prodigio ma che, secondo l’evangelista, è un segno, serve a far capire altro. Gesù, contestando il culto del tempio, si attribuisce un’autorità divina: solo Dio può cambiare la legge di Mosè spiegando che cosa Dio pensa. La domanda dei «giudei» («con che autorità fai questo?») è giustificata. Ma se davvero Gesù risusciterà, mostrando così il suo pieno dominio sulla propria vita e la conferma divina, le sue pretese si dimostreranno fondate. E la sua parola sul tempio verrà confermata come uno sguardo definitivo e chiarissimo sul cuore di Dio, sull’intenzione del Padre, il quale non vuole riti o formalità, ma un incontro personale, vissuto nella preghiera.

E se così è, diventa anche più chiaro che l’allusione alla risurrezione del tempio in tre giorni poteva parlare più del corpo di Gesù che dell’edificio costruito da Erode, perché l’incontro autentico tra il Padre e l’uomo si dà nella vita umana vissuta nella sua carne, nel suo corpo. Un edificio sacro può essere al servizio di quell’incontro, ma non è nulla di indispensabile.

Testimonianza sull’uomo

Il brano si chiude con un’osservazione enigmatica: «Lui non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza sull’uomo: conosceva lui stesso, infatti, che cosa c’era nell’uomo» (Gv 2,24-25)

Succede spesso con Giovanni che, quando ci pareva di aver capito, troviamo un’altra affermazione, un gesto, una parola, che ci gettano di nuovo nell’incertezza, nella domanda. All’evangelista piacciono i lettori intelligenti, che si sforzano di capire, che non smettono di interrogarsi: in fondo, di testimonianza si stava già parlando. «I giudei» chiedevano a Gesù un segno per poter credere che la sua interpretazione del culto e del Padre fosse fondata. Dal momento che manca un dato oggettivo cui appoggiarsi (la scrittura, per «i giudei», avrebbe potuto esserlo, ma la scrittura di per sé parlava di riti per i sacrifici), bisogna capire se fidarsi di Gesù, appoggiarsi a lui, o alla legge. E, ci dice il Vangelo, «molti confidarono nel suo nome» (Gv 2,23), perché trovarono evidentemente che quanto detto e fatto da Gesù era promettente e credibile. Se avessero avuto conferme oggettive, esteriori, non avrebbero «creduto in lui», «confidato in lui». Lo fanno perché quello che Gesù svela non è disponibile altrimenti, non è lampante.

Quello che Gesù svela è il cuore del Padre, l’intenzione divina, che un uomo non può conoscere se non gli viene rivelata. Questo significa che Gesù è Dio? Giovanni, qui, non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che la logica dell’episodio porta a questa conclusione. Ciò significa che Gesù non è umano ma solo divino? Se così fosse, avrebbe bisogno di qualcuno che gli sveli che cosa è l’uomo, che glielo spieghi come lui fa agli uomini per il Padre. Ma l’evangelista, come detto, afferma che Gesù conosceva quello che c’era nel cuore dell’uomo. Con un linguaggio severo ed enigmatico, Giovanni attesta la piena umanità e divinità di Gesù, sia pure in formule che non saranno quelle dei concili.

Per questo, perché ha le fondamenta saldamente radicate in entrambe le sponde, quella divina e quella umana, Gesù può costituire un ponte tra le due rive, e farci conoscere il Padre (suo, come insiste in questo brano) come nessun altro.

Il Padre divino che potremmo immaginare attento al rispetto delle regole da parte delle sue creature, tutto teso a un’ubbidienza rigorosa delle norme, invece, ci dice Gesù, vuole essere incontrato in intimità, in autenticità, senza la sicurezza ma anche l’esteriorità di riti e forme. Che possono essere utili, ma sono sempre solo al servizio dell’incontro dell’uomo con Dio e non possono sostituirvisi.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 03 – continua)

Da Jesus Mafa




Il diritto di essere figli


Il numero di adozioni internazionali in Italia è in calo da alcuni anni. Le motivazioni sono tante, dai Paesi che chiudono ai costi troppo elevati. Secondo il presidente di un ente autorizzato occorre cambiare sistema. Per fare sì che i genitori adottivi non siano di serie B.

Non è un Paese per l’adozione. Con il groppo in gola e anche con più di un pizzico di rabbia, è difficile scrivere qualcosa di diverso quando si sceglie di raccontare come vanno le adozioni internazionali in Italia. I numeri sono impietosi, e fa male vedere che in troppi continuano a dimenticarsi del diritto inviolabile di ogni bambino del mondo ad avere una famiglia che possa accoglierlo e amarlo. Il diritto di essere figlio, insomma. Eppure questo diritto, per ragioni che è fin troppo facile individuare, non viene tenuto sufficientemente in considerazione.

Partiamo proprio dai numeri, che regalano una fotografia della situazione. Nel 2023 si è toccato il fondo: i bambini nati in tante parti del mondo che hanno trovato una famiglia in Italia, infatti, sono stati 478, il 15 per cento in meno rispetto all’anno precedente, quando le adozioni erano state 565. Non era andata così male nemmeno nel 2020, l’anno passato alla storia per via della pandemia da Covid, che, comprensibilmente, aveva bloccato anche le adozioni internazionali: allora di adozioni internazionali ce ne furono 563.

Perché il calo

Ma cosa c’è dietro questo calo drammatico? Tanti elementi. Le situazioni di conflitto che hanno coinvolto e continuano a coinvolgere alcune aree del mondo. Scelte – più o meno difficili da comprendere – fatte da alcuni Paesi, che hanno deciso di chiudere all’Italia le adozioni internazionali. Relazioni di politica estera non ottimali. Forse anche il fatto che, mentre sulle pratiche di procreazione medicalmente assistita si puntano i riflettori, sul mondo delle adozioni internazionali capita molto meno. Anche di questo, con un briciolo di cinismo, ma con tanto realismo, non è così difficile comprendere la ragione. Nell’immaginario di una coppia c’è un bambino piccolo, da crescere e magari perfino da svezzare, un «profilo» che non corrisponde all’adozione internazio- nale, la quale rischia di diventare un’opzione di serie B.

Ci sono poi le ombre che hanno velato alcune pratiche del passato (ma non in Italia): in Danimarca, per esempio, l’agenzia per le adozioni internazionali ha chiuso la sua attività per il prossimo biennio, dopo che un’agenzia governativa aveva sollevato dubbi su alcune pratiche adottive concluse negli anni scorsi.

Insomma, sono tempi duri per le adozioni internazionali. E soprattutto all’orizzonte non si vedono possibili soluzioni per risollevare il trend.

Inoltre, alcuni Paesi da cui fino a qualche tempo fa arrivavano in adozione molti bambini che si trovavano in stato di abbandono, hanno iniziato a mostrare nei loro confronti una maggiore cura, agevolando anche le adozioni nazionali, che così avanzano, anche se timidamente.

Ma torniamo ai numeri che raccontano la crisi in Italia: stando al rapporto diffuso dalla Commissione adozioni internazionali (Cai), l’ennesima contrazione del numero delle adozioni concluse nel corso del 2023 è dovuta «ad alcune conclamate criticità riscontrate in Paesi di origine da cui storicamente provenivano molti minori adottati da famiglie italiane quali la Federazione russa, l’Ucraina, la Repubblica popolare cinese e la Bielorussia e da una riorganizzazione interna all’Autorità centrale colombiana che ha rallentato i percorsi adottivi delle coppie instradate nel Paese». Sempre a proposito dello scorso anno, l’India è stato il Paese da cui è arrivato il maggior numero di bambini adottati in Italia: le pratiche concluse sono state infatti 119. Subito dopo, con 71 adozioni, c’è l’Ungheria. A seguire, nonostante i rallentamenti, troviamo la Colombia, con 68 adozioni concluse. Si segnala, nota positiva, che dalla Sierra Leone, realtà con cui gli enti autorizzati hanno iniziato a collaborare recentemente, sono arrivati i primi nove bambini.

Paesi «chiusi»

Come scritto poco sopra, sono decisamente dolenti le note che arrivano dalla Bielorussia, che registra uno zero allarmante, proprio come era accaduto nell’anno precedente, il 2022. A preoccupare, oltre allo zero, ci sono ben 206 procedure pendenti, vale a dire 206 coppie di aspiranti genitori che sono in attesa di abbinamento con il proprio figlio.

Le cose vanno poco meglio nella Federazione russa, che ha chiuso il 2023 con appena quattro adozioni e che ha sospeso fino al 2027 tutti gli enti italiani. Male anche la Cina, dove si sono concluse soltanto due procedure. Proprio riguardo alla Cina si segnalano ben 87 coppie con procedure di adozione pendenti. Tra queste una trentina ha già ricevuto la famosa «pergamena verde», vale a dire l’abbinamento con un bambino che da ormai parecchi anni aspetta di incontrare mamma e papà, in attesa della «pergamena rossa», cioè l’invito ufficiale a recarsi in Cina per poter completare l’intero iter adottivo.

La voce degli enti autorizzati

Infine, una panoramica sugli enti autorizzati: quello che da sempre riesce a concludere il maggior numero di adozioni è il Cifa di Torino, che ha chiuso il 2023 con 44 adozioni. Subito dopo c’è Asa, con 36, poi Gvs, che ne ha portate a termine 28. Abbiamo fatto il punto della situazione proprio con il dottor Gianfranco Arnoletti, presidente di Cifa. «Il Covid ha sicuramente complicato una situazione già di per sé molto critica, perché ha bloccato ogni tipo di spostamento, elemento imprescindibile quando si tratta di adozioni internazionali. Credo però che le motivazioni di una crisi delle adozioni così dirompente siano anche altre – spiega l’esperto -. Penso al tema economico, per esempio. Pur con la possibilità di portare in detrazione fiscale le spese sostenute per accogliere un bambino nato in un Paese lontano, i costi rappresentano ancora un deterrente importante per le famiglie che non possono contare su un reddito alto. Potrà sembrare un pensiero banale, ma sarebbe bello che l’adozione internazionale fosse “gratuita” come quella nazionale, e che quindi fosse lo Stato a farsene carico. E poi ci sono i tempi, che sono oggettivamente lunghi da sopportare anche dal punto di vista emotivo. Perché se è pur vero che l’adozione è quell’istituto che permette a ogni bambino di vedere rispettato il proprio diritto a diventare figlio, è altrettanto vero che non si può pretendere che gli aspiranti genitori siano dei supereroi con il mantello. Sono esseri umani, come ciascuno di noi, e attendere qualcosa come cinque anni è oggettivamente un fardello pesante da sopportare, anche per chi è animato da tanta volontà».

A oggi, stando sempre al report della Commissione adozioni internazionali, le coppie in attesa di concludere la loro procedura di adozione sono infatti 2.395, ed è facile arrivare alla previsione di attesa di ben cinque anni tenendo conto del numero esiguo di pratiche che vengono portate a termine ogni anno. E in un periodo così lungo in una coppia può capitare di tutto, pur con le migliori intenzioni di questo mondo. Anche che si rinunci a diventare genitore.

Bambini Macuxi del Villaggio Jawarizinho

Genitori di serie B

Continua a spiegarci il presidente del Cifa Arnoletti: «La ricerca di un figlio è qualcosa che ormai arriva piuttosto tardi con l’età. Una serie di incertezze con cui si è costretti a fare i conti, anche e soprattutto dal punto di vista economico, portano a rimandare sempre di più la decisione. Capita che i 40 anni si avvicinino senza accorgersene, e a quel punto la via più semplice è quella di provare ad avere un figlio biologico. Capita che poi questo figlio biologico magari non arrivi, anche perché non si è più giovanissimi. Solitamente si tenta con qualche pratica di procreazione medicalmente assistita e poi si arriva all’adozione, come ultima spiaggia. Senza voler giudicare, questo tipo di approccio non aiuta. Resta il fatto che sarebbe davvero bello se questa forma di genitorialità non venisse considerata sempre e soltanto di serie B, come un ripiego a una strada che fino a quel momento non ha portato da nessuna parte». Tanto più che, spesso, soprattutto nelle adozioni internazionali, le proposte di abbinamento sono di bambini inseriti nella categoria special needs. Si tratta di bambini dai bisogni speciali , che spesso hanno più di otto anni e problemi di salute più o meno gravi e più o meno reversibili. Continua a spiegarci Arnoletti: «Senza contare che a volte le informazioni legate allo stato di salute del bambino sono scarne ed è difficile conoscere con precisione le condizioni del piccolino. Che sia chiaro, le mie non vogliono essere parole di terrorismo e l’ultima cosa che desidero è allontanare le persone che scelgono di intraprendere questa strada. Quello che maggiormente mi sta a cuore, come presidente di un ente autorizzato, come nonno e soprattutto come padre di una figlia adottata nell’ormai lontano 1981, è che le adozioni continuino a garantire ai bambini di poter diventare figli e di non restare bambini e basta. L’unica certezza è che dobbiamo cambiare marcia, tutti insieme, e che questo cambiamento deve riguardare l’intero sistema e deve arrivare dall’alto, in modo che ne sia garantita la buona riuscita e la completa trasparenza. Servono misure volte a sostenere le famiglie che nascono, e naturalmente non soltanto quelle che sbocciano grazie all’adozione internazionale».

Burocrazia inutile

«Così come è importante debellare il razzismo – prosegue Arnoletti -, una questione ancora tristemente di attualità, che non può non preoccupare un genitore in attesa di adottare un bambino con tratti somatici diversi da quelli caucasici». Insomma, di lavoro da fare ce n’è tanto. E sarebbe bello che il 2024 potesse essere l’anno della svolta. Magari partendo dagli enti autorizzati. Conferma Arnoletti: «Nel 2023 su un totale di 48 organizzazioni, 9 non hanno concluso adozioni, mentre 29 ne hanno realizzata meno di una al mese e solo uno ha superato le 40. Questo significa che le adozioni si concentrano soltanto su 17 enti, che di fatto corrispondono al 35 per cento di quelli regolarmente registrati nell’albo. Questo quadro è intriso di adempimenti burocratici inutili alla realizzazione della procedura adottiva ma dovuti, caso unico in Italia, per le attività di vigilanza sulla rete degli enti e di raccolta dati. La rete delle autorità centrali volute dalla Convenzione dell’Aja (sull’adozione internazionale, ndr) è molto frammentata e variegata nei compiti e non ha permesso accordi di cooperazione tra Stati in materia di adozioni che abbiano portato a un incremento dei numeri. Che fare? Vedo una sola soluzione: che gli enti svolgano la loro attività in regime di concessione simile a quello dei servizi forniti da privati alla pubblica sanità. In questo si potrebbero assistere in modo appropriato le coppie alle prese con le difficoltà di inserimento di un minore nella società, senza dover badare alle risorse disponibili. L’albo degli enti autorizzati andrebbe rivisto sulla base di un’attività annuale minima che consenta di formare una squadra compatta con l’autorità centrale per affrontare le sfide che il mondo ci pone per rispettare i diritti dei bambini».

Già, i bambini. È per loro che vale la pena lottare. Perché l’adozione è anche gioia, come raccontano mamma Claudia e papà Fausto che, dopo avere adottato in Cina, nel 2015, il loro Lorenzo Ai Guo, da pochi mesi sono tornati in Italia con Poornima Sofia, adottata in India: «Che percorso incredibile è quello dell’adozione! Noi la definiamo una giostra che alterna tante emozioni. Siamo partiti sette anni fa con grande slancio per la nostra seconda disponibilità, ma poi il cammino è stato tortuoso e difficile, tanto che in alcuni momenti abbiamo pensato di mollare tutto. Il nostro primogenito ci ha dato la forza di andare avanti, combattere, perseverare e finalmente eccoci qua con il nostro pezzettino mancante, il nostro dono grande. Non potremmo essere più felici e fieri della nostra famiglia colorata. Alle coppie in attesa diciamo di non mollare perché la felicità è dietro l’angolo, e vi assicuriamo che prima o poi arriva e tutte le fatiche a quel punto svaniranno. Forza, quindi!».

Paola Strocchio




Paradosso conservazione

 


Ambientalisti poco radicati nell’ambiente, governi che fingono di proteggere la natura dei loro paesi per interessi economici. Il tutto a scapito delle culture e della sapienza ancestrale locali. Come si sdoganano pratiche non appropriate per la conservazione degli ecosistemi. In tutto il pianeta.

Come anche le persone più distratte si saranno accorte, a volte le tragedie sono simili a Nord come al Sud del mondo, ma la portata è ben diversa. Ad esempio, in Europa gli incidenti stradali di mezzi pubblici coinvolgono raramente più di poche persone, mentre ad altre latitudini le vittime si contano spesso a decine. Idem per attentati, malattie, infortuni sul lavoro, scontri di piazza e così via. Negli ultimi deccenni si è fatta strada un’altra similitudine: i paradossi del conservazionismo ambientale.

Nel nostro Paese la questione si è resa evidente nel nuovo millennio con il ritorno del lupo che, a partire dai pochi nuclei sopravvissuti sull’Appennino centromeridionale (dove alla fine degli anni Sessanta aveva raggiunto il minimo storico di nemmeno cento unità), in virtù delle misure protezionistiche, si è rapidamente diffuso verso nord e ora conta di oltre 3.300 esemplari in tutta Italia.

Il Piemonte, per la sua conformazione che lo rende un ponte naturale tra aree alpina e appenninica, è la regione montana maggiormente interessata al fenomeno e oggi vi si trova più di metà dei circa mille lupi censiti sulle Alpi italiane. Man mano che il numero di esemplari cresceva, alla soddisfazione degli ecologisti andava affiancandosi la preoccupazione, ben presto trasformatasi in aperta protesta, degli allevatori. Le predazioni sul bestiame allevato sono infatti cresciute di pari passo, e le misure di prevenzione (recinti elettrificati, cani da guardiania e pastori retribuiti) proposte dal programma Life Wolfalps dell’Unione europea, si sono rivelate applicabili ed efficaci solo in alcuni casi.

Nel contempo, la concessione dei pascoli comunali in affitto al migliore offerente, misura decisa in sede comunitaria, ha di fatto favorito le grosse aziende e cooperative, molte delle quali costituite ad hoc per ottenere fondi pubblici.

Alla conseguente moltiplicazione delle frodi ha fatto seguito un inasprimento dei provvedimenti da parte di carabinieri forestali e aziende sanitarie locali, penalizzando ulteriormente le piccole unità produttive che mal si adattano a richieste troppo fiscali (scadenze burocratiche, controllo sull’identificazione degli animali, aggiornamento puntuale dei registri aziendali, ecc.). Va poi tenuto conto che in Italia la maggior parte dei piccoli allevatori ha un’età media relativamente elevata, per cui i fattori citati sopra hanno agito su un tessuto sociale di per sé fragile e poco incline al cambiamento. Di fatto, negli ultimi anni un numero crescente di piccoli allevatori ha chiuso i battenti, con conseguente abbandono di aree montane che prima venivano tenute in ordine da essi a costo zero per la comunità. Il conseguente danno ambientale è enorme, poiché numerosi studi evidenziano senza ombra di dubbio come l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali comporti inevitabilmente una diminuzione della biodiversità e un aumento dei rischi idrogeologici.

Ma non è tutto, bisogna mettere in conto anche il ruolo sociale svolto dal piccolo allevamento, ad esempio nel prevenire l’inattività degli anziani, e trasmettere i saperi alle giovani generazioni per non perdere i patrimoni culturali. Non a caso, in un articolo apparso su MC nel luglio del 2017 veniva segnalato che «la montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti, crolla».

Ambientalismo da città

In Italia l’ambientalismo ha avuto tra i suoi molti esponenti, a partire dagli anni sessanta, uomini politici come Arturo Osio e Fulco Pratesi, che nel 1967 hanno fondato la sezione italiana del World Wildlife Fund (Wwf). Come avvenuto per altri sodalizi di rilevanza nazionale (un esempio tra tutti è il Club alpino italiano), la spinta costitutiva è venuta da ambienti politico culturali del tutto estranei a chi in montagna doveva guadagnarsi da vivere faticando ogni giorno; pertanto, l’attività di tali enti si è sviluppata, nel migliore dei casi, a latere dei contesti sociali rurali, avendo invece come protagonisti alcuni cittadini che consideravano l’ambiente naturale in termini ideali e ricreativi. L’integrazione tra i due mondi è stata minima per cui, quando ci si è trovati di fronte a un punto forte divergente, come la questione del lupo, la contrapposizione è risultata molto dura.

Oggi, a causa dell’eccessiva importanza acquisita dai social network, anche a tale riguardo si sono formati due schieramenti che cercano di screditarsi l’un l’altro invece di dialogare.

Io ho lavorato trent’anni in qualità di veterinario pubblico in Val d’Ossola, incontrando centinaia di piccoli allevatori, e nessuno di loro è favorevole al ritorno del lupo. Vorrà ben dire qualcosa.

Fuori gli indigeni

Ma allarghiamo lo sguardo: secondo i dati di Survival International, al mondo esistono ben 120mila aree protette che coprono il 13% delle terre emerse. Il problema è che diversi milioni di indigeni, che su tale superficie si procuravano il cibo, sono stati sfrattati e si sono trasformati in «rifugiati ambientali». Dal 1872 (anno di fondazione del parco nazionale di Yellowstone, il primo al mondo) a oggi, la decisione di istituire delle misure conservazioniste in determinate aree è stata presa ignorando cultura, interessi e opinioni di chi ci viveva. Si è discusso a più riprese sui benefici per le specie da proteggere, sull’estensione di tali aree, sulle regolamentazioni di utilizzo, sui finanziamenti necessari e via dicendo, ma, anche quando lo si è fatto in buona fede, quasi sempre è stato dal di fuori.

Il grave errore metodologico è stato lo stesso commesso nel caso della cooperazione internazionale, laddove progetti decisi da esperti che vivevano altrove, sono stati calati sulla testa degli abitanti locali ignorandone la competenza elaborata attraverso secoli di vita in quei luoghi. Non a caso, in occasione del quinto congresso dell’Unione internazionale per la conservazione della natura svoltosi a Durban (Sudafrica) nel 2003, una delegazione di popoli indigeni ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che «prima ci hanno sfrattato in nome di re e imperatori, poi nel nome dello sviluppo e ora nel nome della conservazione». Oggi, dopo decenni di «cattedrali nel deserto», la valorizzazione delle esperienze locali si sta facendo strada in vari programmi di cooperazione, seppur a fatica e non certo abbastanza. Nel contempo, studi sempre più precisi riconoscono la validità delle metodiche di gestione tradizionale dell’ambiente. Tra questi, MC dello scorso novembre segnala una ricerca, pubblicata dalla rivista Nature sustainability a inizio 2023, che mette in risalto il ruolo importante delle popolazioni indigene nella conservazione forestale.

Infatti, secondo il rapporto Parks need people, redatto da Survival International nel 2014, la stragrande maggioranza dei luoghi a più alta biodiversità al mondo si trova in aree abitate da popoli tribali, i quali hanno saputo conservarla mirabilmente proprio perché si trattava di una qualità necessaria alla loro sopravvivenza. Ritenere che biologi e operatori turistici sappiano fare meglio, è un esempio di supponente arroganza.

Sviluppo e conservazione

Si commetterebbe però un errore a pensare che il cosiddetto «altrove» nel quale vengono prese decisioni sulla testa della gente abbia sede solo nei Paesi del Nord del mondo. Al contrario, certe politiche sviluppiste e conservazioniste sono oggi portate avanti soprattutto da funzionari dei governi e delle Ong di Paesi africani, asiatici e sudamericani sul territorio dei quali tali politiche vengono applicate. «Più realiste del re», queste figure non esitano a varare misure e progetti che possano inserirsi in programmi di sviluppo e conservazione elaborati dalle grandi agenzie internazionali, così da riceverne i finanziamenti.

Nel periodo coloniale, le risorse dei suoli intertropicali erano destinate ad arricchire le nazioni occupanti. Oggi il meccanismo non è cambiato, ma si è parzialmente rimodulato nello spazio, cosicché nelle capitali di tanti Paesi del Sud del mondo, Africa in primis, si sono sviluppati dei centri direttivi che, in sinergia con i dettami provenienti da governi stranieri e dalle grandi agenzie internazionali, sfornano politiche che scavalcano culture e interessi del mondo rurale in nome di uno sviluppo incentrato su forme e modi importati dall’estero. «Anche noi abbiano diritto ad avere le cose che avete voi», mi sono tante volte sentito dire da persone africane che vivono in città. Peccato che questo «avere» per pochi si traduca in un «togliere» per molti.

In altri termini, di tanti progetti pensati al Nord, ne hanno beneficiato solo un piccolo numero di persone, le quali potevano permettersi di adeguarsi alle nostre idee sviluppiste occidentali. Si è così contribuito a formare dei piccoli nuclei di persone egoiste tanto quanto noi. E le politiche di indebitamento proposte e consentite, sulle quali si sono poi innestati gli aggiustamenti strutturali imposti dal Fondo monetario internazionale per far fronte a tale debito, hanno costituito lo sfondo sul quale tutto ciò si è realizzato.

Guerrieri maasai seduti in cerchio.

Il caso Ngorongoro

Un esempio eloquente è quello del famoso cratere di Ngorongoro che, con i suoi 16 km di diametro, è in diretta continuazione con il celebre parco nazionale del Serengeti, in Tanzania. Frequentato dai pastori locali da tempo immemorabile, non ha mai avuto problemi di sovra sfruttamento poiché i suoi pascoli e le sue fonti idriche riuscivano a soddisfare le esigenze di ruminanti domestici e selvatici allo stesso tempo, e poiché la caccia tradizionale avveniva nel rispetto di norme conservazioniste tramandate da una generazione all’altra. Tuttavia, a partire dagli anni 60 si sono levate alcune voci preoccupate per determinate specie che sarebbero state a rischio, e da quel momento in poi l’accesso per le mandrie locali è stato sempre più ridotto. Nei decenni seguenti, l’apertura a operatori turistici ha fatto aumentare il numero dei visitatori annui fin oltre il mezzo milione. Si è quindi capito che il problema non erano i piccoli allevatori del posto, tanto che nel 2013 il governo tanzaniano ha dovuto riconoscere che «i pastori tradizionali masai sono di fatto degli ottimi conservazionisti» e a considerazioni analoghe sono giunti anche i consulenti della Banca mondiale.

L’esperienza ha infatti mostrato che, allontanando i popoli indigeni dai parchi, non solo si contribuisce allo sviluppo di un tessuto sociale di persone culturalmente sradicate, le quali cadono più facilmente preda di alcolismo e piccola criminalità (se non addirittura, in certi casi, finiscono per diventare manovalanza alle compagini terroristiche), ma si priva il territorio di un efficace controllo, a costo zero, nei confronti del bracconaggio su larga scala, della diffusione di specie invasive che diminuiscono la biodiversità e degli incendi, questi ultimi ben diversi dei tanto discussi interventi tradizionali di diserbo tramite fuoco messi in atto sotto la sorveglianza dei pastori stessi.

Saggezza versus economia

Purtroppo, come spesso accade, la saggezza derivante dall’esperienza viene trascurata dagli interessi economici di parte. Così, si contrabbanda come «ambientalista» la ridicola proposta di continuare a sostenere un’economia basata sullo sfruttamento di risorse energetiche fossili controbilanciandola con l’istituzione di aree protette sul 30% delle terre disponibili, nell’ottica di ciò che vengono definite «soluzioni basate sulla natura» (in inglese Nbs). In questo modo, per non mettere in discussione il diritto a inquinare di popolazioni ricche e nazioni emergenti, si condannano alla scomparsa popoli e culture che su quel 30% di terre hanno sempre vissuto in modo ecologicamente sostenibile e che verranno privati dei basilari mezzi di sostentamento.

Il paradosso è simile a quello che riguarda la produzione di auto elettriche: mentre in molti si rallegrano per il notevole progresso ecologico, in pochi si preoccupano per le terribili condizioni alle quali sono sottoposti i bambini in Repubblica democratica del Congo che vengono sfruttati nelle miniere dei minerali necessari a realizzare le batterie.

Intanto, attorno alla fauna selvatica circolano somme da capogiro, e in Africa subsahariana (dove il numero di persone sottonutrite ha superato i 280 milioni) i cacciatori stranieri pagano fino a 60mila euro per abbattere legalmente un elefante o un leone.

Forse sarebbe il caso di rimettere la persona al centro di ogni ragionamento.

Alberto Zorloni




Somaliland. L’accordo della discordia


Il Paese cerca il riconoscimento internazionale, mentre l’Etiopia cerca il mare. I due annunciano di aver siglato un accordo. Ma la Somalia non ci sta e rivendica la sua sovranità su un territorio autonomo – di fatto – dal 1991. I grandi della terra si schierano per l’integrità territoriale somala, che in realtà non esiste.

Non c’è. Sulle cartine geografiche non si trova. Ufficialmente non ha una capitale, né confini. Non fa parte di grandi organizzazioni internazionali. Non ha rapporti (ufficiali) con altri Paesi. Il Somaliland è una nazione fantasma. Eppure esiste. Ha un presidente, un parlamento e istituzioni democratiche. Ha una posizione strategicamente rilevante all’imbocco del Mar Rosso e una propria economia, anche se molto povera. Da 33 anni chiede un riconoscimento ufficiale ma, finora, nessun Paese al mondo gliel’ha mai accordato. Almeno finora, perché dal primo gennaio il Somaliland è entrato con prepotenza e astuzia nella politica africana e rischia di minare i già fragili equilibri della regione orientale del continente.

Una terra pacifica

Per comprendere meglio la tormentata vicenda del Somaliland bisogna fare un salto indietro nella storia e, in particolare, al 1960, anno che rappresenta una svolta per la Somalia. Un tempo divisa tra la colonia italiana, al Sud, e quella britannica (Somaliland), al Nord, al momento dell’indipendenza si forma un unico Paese, all’insegna di un nazionalismo che vuole superare le divisioni causate dal passato coloniale. La Somalia vive una breve primavera democratica per poi trasformarsi in una dittatura sotto il pugno di ferro del presidente Mohamed Siad Barre, un ex carabiniere, molto vicino ai governi di Roma.

Il suo regime è particolarmente repressivo e dura un ventennio ma, progressivamente, si indebolisce fino a crollare definitivamente nel 1991. Sgretolandosi, lascia un vuoto di potere che viene presto occupato dai signori della guerra e dalle loro milizie. Nelle regioni meridionali, un tempo ex colonia italiana, si scatena un conflitto civile i cui effetti si trascinano fino a oggi. Nel Nord del Paese quella che era l’ex colonia britannica prende le distanze dal Sud e dalle lotte fra le varie cabile (gruppi clanici, ndr).

Nel 1991, di fronte al collasso delle istituzioni di Mogadiscio (la capitale, nel Sud), il Somaliland dichiara la propria indipendenza, elegge Hargeisa come propria capitale e crea nuove istituzioni e un esercito. Per un trentennio rappresenta un modello di stabilità in una regione dominata dai conflitti (pensiamo alla guerra civile nella vicina Somalia, a quella tra Eritrea ed Etiopia, a quella in Tigray). In verità, qualche tensione la vive anche il Somaliland che lotta contro cellule di terrorismo islamista e contro il Puntland, la confinante regione somala, con la quale ha una disputa territoriale. Fondamentalmente, però, rimane un Paese pacifico.

Dal punto di vista economico intrattiene relazioni informali con l’Etiopia e ha stretti rapporti commerciali e industriali con Taiwan, altro Stato paria a livello mondiale. Le grandi organizzazioni internazionali e regionali e i principali attori della politica internazionale continuano a negare ad Hargeisa quel riconoscimento politico che ne sancirebbe l’indipendenza. La comunità internazionale, da sempre, ribadisce la volontà di mantenere l’unità territoriale somala e la stessa Somalia continua a rivendicare la propria sovranità sulla regione settentrionale.

Una nuova intesa

Lo stallo si rompe il primo gennaio 2024. Etiopia e Somaliland annunciano di aver siglato un’intesa che prevede un accesso facilitato della prima al porto di Berbera e la possibilità per le forze armate etiopi di costruire una base navale sul Golfo di Aden. L’accordo è stato cercato con determinazione soprattutto da Addis Abeba. Con l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, l’Etiopia si è trovata senza uno sbocco al mare. I porti di Massaua e di Assab che, fino ad allora, erano serviti per l’export delle merci attraverso il Mar Rosso, passarono sotto la sovranità di Asmara. La successiva guerra combattuta da Eritrea ed Etiopia alla fine degli anni Novanta ha precluso definitivamente le banchine degli scali eritrei alle aziende etiopi. Gli unici sbocchi al mare rimasti per Addis Abeba sono quelli di Port Sudan e di Gibuti che però sono lontani e male collegati, almeno fino a pochi anni fa, quando sono state costruite migliori tratte ferroviarie e stradali.

Per l’Etiopia la ricerca di uno sbocco al mare diventa una priorità assoluta. Il 19 ottobre, il premier Abiy Ahmed dichiara: «Un Paese di 150 milioni di abitanti non può essere tenuto in una prigione geografica. E come non è un tabù discutere del Nilo con Sudan ed Egitto non deve esserlo per il Mar Rosso e l’Oceano Indiano».

Successivamente, rincara la dose citando un famoso generale, Ras Alula, che nel XIX secolo aveva dichiarato che il Mar Rosso è il confine naturale dell’Etiopia e che Addis Abeba «vuole ottenere un porto con mezzi pacifici. Ma se ciò fallisce, useremo la forza».

L’opposizione internazionale

Da qui le trattative a 360 gradi e la disponibilità del Somaliland a siglare un accordo dietro la velata promessa di riconoscimento politico da parte etiope. L’intesa che ne è scaturita cozza però contro una serie di scogli diplomatici. Stati Uniti, Unione europea, Cina, Unione africana e Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa, ndr) la condannano, fin dal primo momento. Tutti si proclamano a favore dell’integrità della Somalia che, da sempre, rivendica la propria sovranità sulla regione settentrionale.

Molly Phee, sottosegretario di Stato per gli Affari africani degli Stati Uniti, dichiara, secondo quanto riporta il sito Shabelle media, che la violazione della sovranità della Somalia da parte dell’Etiopia potrebbe essere «un ostacolo alla guerra contro al-Shabaab (milizia jihadista legata ad al Qaeda che da anni opera in Somalia, ndr)». E aggiunge: «Siamo preoccupati che l’accordo Somaliland-Etiopia possa ostacolare la nostra lotta comune che, negli ultimi anni, ha visto anche Addis Abeba in prima linea». Il governo Usa inoltre afferma di sostenere i colloqui tra il governo federale di Mogadiscio e quello di Hargeisa sul futuro del Paese all’insegna dell’unità.

Anche la Cina si dice preoccupata per l’intesa. Pechino è interessata alla stabilità della regione orientale dell’Africa (strategica per le rotte commerciali Europa-Asia), ma anche alla situazione interna. Un eventuale riconoscimento del Somaliland rischierebbe di diventare un precedente che Taiwan potrebbe far valere nei confronti della Cina continentale. «La Cina – dichiara Mao Ning, portavoce del ministro degli Esteri di Pechino – sostiene il governo federale della Somalia nella salvaguardia dell’unità nazionale, della sovranità e dell’integrità territoriale. Ci auguriamo che i Paesi dell’area gestiscano bene il dossier attraverso il dialogo diplomatico e raggiungano uno sviluppo comune attraverso una cooperazione amichevole».

Equilibri regionali a rischio

L’intesa non può non avere ricadute anche sugli assetti regionali. Il primo a schierarsi contro l’accordo è l’Egitto. Il Cairo, insieme a Khartoum (Sudan), ha un annoso contenzioso con Addis Abeba sul dossier della Grande diga del millennio sul Nilo Azzurro, in territorio etiope. I due Paesi a valle temono che questa struttura riduca i flussi di acqua del Nilo mettendo in crisi le rispettive economie. Il Cairo cerca quindi in qualsiasi modo di contenere le manovre di Addis Abeba per poter avere più carte da giocare sul piano negoziale. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si schiera subito a fianco di Mogadiscio e dichiara che l’intesa è «una violazione della sovranità somala». Ancora più duro il ministro degli Affari esteri egiziano, Sameh Shoukry che, in un intervento tenuto alla Lega Araba, definisce l’accordo «un atto di aggressione» e ammonisce Addis Abeba dall’avventurarsi in «politiche unilaterali». Per gli Emirati arabi uniti, l’avventurismo di Abiy è un’opportunità e un rischio: l’Etiopia potrebbe diventare una potenza del Mar Rosso e un alleato degli Emirati, ma nuove tensioni nel Corno potrebbero mettere a repentaglio l’influenza di Abu Dhabi nella regione. L’Arabia Saudita è invece turbata dal modo in cui si sta comportando l’Etiopia. Se Abiy dovesse esagerare, Riad potrebbe superare la sua diffidenza nei confronti dell’Eritrea e sostenerla.

La Somalia, colpita direttamente dall’intesa, ritira il proprio ambasciatore da Addis Abeba. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud dichiara nullo l’accordo tra Etiopia e Somaliland. Il premier Hamza Abdi Barre alza i toni e avverte: «L’Etiopia non può interferire nelle terre somale. Se tentassero un simile intervento, si ritirerebbero portando con sé i loro morti».

Le tensioni toccano, però, lo stesso Somaliland. Il 13 febbraio, le due camere del Parlamento diffondono una nota congiunta nella quale rifiutano l’accordo del governo con l’Etiopia. I membri del parlamento dichiarano «illegale» e «dannoso» l’accordo per l’unità del popolo del Somaliland. «Abbiamo rifiutato l’accordo e la sua attuazione e chiediamo al governo di fermare e ritirare il memorandum d’intesa», si legge nella nota. La firma dell’accordo ha infatti rivitalizzato le tensioni interne, in particolare quelle con l’Awdal, provincia che da tempo lotta per la riunificazione con lo Stato somalo. In allerta anche le milizie claniche nella regione che minacciano una resistenza armata contro il presidente Muse Bihi se il memorandum d’intesa dovesse procedere. E anche lo Stato fantasma potrebbe sprofondare nell’instabilità.

Enrico Casale

Somaliland, Hargeisa.




Scandalo in spiaggia


In Italia ci sono 8.970 chilometri di coste. Circa un terzo sono balneabili. Di queste la metà sono date in concessione dallo Stato. Sempre ai soliti e a prezzi ridicolmente bassi. Nel frattempo, i cittadini pagano e le poche spiagge libere sono nel degrado.

C’era una volta una lite tra lupi che oscurava un altro tipo di contenzioso: quello tra lupi e agnelli. Così si potrebbe riassumere la vicenda andata in scena negli ultimi anni e che ha come oggetto la gestione delle spiagge italiane.

Le regole europee

Per la prima parte della vicenda, quella riguardante la lite fra lupi, la storia si può fare iniziare nel 2006 allorché l’Unione europea (Ue) varò una direttiva, la numero 123, passata alla storia come direttiva Bolkestein, in onore del Commissario che la elaborò.

Oggetto della direttiva è l’integrazione dei servizi nel mercato comune europeo. Obiettivo facile da enunciare, ma difficile da attuare perché i servizi non si possono separare dalle imprese che li offrono.

Nel caso di auto, biciclette, caciotte e qualsiasi altro tipo di manufatto, il mercato comune si crea permettendo la libera circolazione dei beni senza coinvolgimento delle imprese produttrici. I produttori possono doversi uniformare a regole comuni in materia di igiene, sicurezza, imballaggi, ma niente di più.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto Gianni Crestani – Pixabay.

Se, invece, parliamo di servizi bancari, di trasporti, di telecomunicazioni, di ristorazione, o addirittura di assistenza sanitaria, istruzione, insomma di tutte quelle attività che procurano un beneficio nel momento stesso in cui sono prodotte, il libero mercato si può creare solo permettendo alle imprese produttrici di muoversi da un Paese all’altro. Se l’impresa francese vuole aprire un ristorante a Roma, deve avere la possibilità di trasferirsi dalla Francia all’Italia, magari con personale francese se lo ritiene utile. Oppure potremmo immaginare un’impresa di facchinaggio polacca che decide di trasferirsi in Spagna, Germania, o qualsiasi altro Paese dell’Unione per gestire l’attività di magazzino di grandi complessi commerciali. Ma con quale personale può farlo: quello locale o quello del Paese di origine? E pagando i dipendenti secondo quali livelli salariali? E con quali regole contributive? Ecco alcuni quesiti che il trasferimento dei servizi apre nell’ambito di una lista ben più lunga che comprende aspetti giuridici, fiscali, sociali, salariali e molto altro. Tematiche a cui la direttiva Bolkestein ha voluto rispondere creando regole comuni valide per tutta l’Unione. Mantenendo sempre come faro il principio della concorrenza, tanto caro all’ordinamento europeo.

Inizialmente si temeva che la Bolkenstein potesse essere il cavallo di Troia per imporre in tutta l’Unione la privatizzazione dei servizi pubblici, ma il punto 8 della premessa chiarisce: «È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione».

Del resto, in altre parti del testo, si precisa che la direttiva non si applica ai servizi di interesse generale menzionando specificamente la sanità e i trasporti.

Per la verità, nel testo non si fa mai espresso riferimento neanche alle spiagge o alle attività balneari, ma esse rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva perché si tratta di attività turistiche svolte su concessione, ossia su autorizzazione delle autorità pubbliche che concedono l’uso di beni appartenenti alla collettività. Nel caso specifico le spiagge.

I beni del demanio statale

In gergo i beni di proprietà pubblica si definiscono demaniali, parola derivante dal latino dominium, «dominio», che il francese antico ha trasformato in demaine, a indicare tutto ciò che è sottomesso all’autorità statale. Un elenco che, per quanto riguarda l’Italia, è racchiuso nell’articolo 822 del Codice civile italiano: «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale». Ma nel 1942 il Codice della navigazione, articolo 36, stabilì che «L’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo». Un altro provvedimento tornò sul tema nel 1993, stabilendo che le concessioni avevano la durata di quattro anni. Termine esteso a sei anni da una legge del 2001 che però fece anche di più. Da una parte previde la possibilità di rinnovo automatico a ogni scadenza. Dall’altra stabilì che, in caso di nuovi bandi, i soggetti già in possesso di una concessione erano privilegiati rispetto agli altri. Così in Italia si è formata una casta di concessionari balneari talmente blindata da impedire l’ingresso a ogni nuovo aspirante.

Una situazione non condivisa dalle istituzioni europee che a più riprese hanno chiesto allo Stato italiano di uniformarsi al diritto europeo e in particolare alla Bolkestein secondo la quale sia il rilascio di nuove concessioni, sia il rinnovo di quelle in scadenza, debbono seguire procedure pubbliche trasparenti e imparziali tali da consentire a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario.

Nel 2009 ci fu una prima iniziativa della Commissione europea che minacciò l’Italia di una pesante multa se non avesse modificato la normativa. Ma la lobby dei gestori balneari era potente e per vari anni lo Stato italiano si è esibito in un penoso teatrino che ha mandato in scena il varo di nuove leggi che facevano finta di cambiare il quadro normativo mentre tutto rimaneva immutato. In certi casi peggioravano addirittura la situazione, come fece il primo governo Conte che, nel dicembre 2018, estese le concessioni in vigore fino al 2033.

Ue-Stato: la saga infinita

Nel frattempo, anche la Corte di giustizia europea e la magistratura italiana sono state costrette a pronunciarsi sulla questione dando sempre torto all’Italia. Nel 2022 il governo Draghi tentò di mettere la parola fine sulla vicenda varando una legge che faceva scadere tutte le concessioni al dicembre 2023. Ma nel febbraio 2023 la legge nota come «Mille proroghe» ha rinviato la scadenza di un altro anno, al dicembre 2024. Al che la Commissione europea è sbottata e nel novembre 2023 ha mandato al governo italiano una nuova missiva dandogli due mesi di tempo per uniformarsi alla direttiva Bolkestein. Insomma, la saga continua, difficile dire quando andrà in onda la puntata finale.

A gennaio 2024 il governo Meloni non aveva ancora detto come intendeva risolvere la questione. Stretto fra le pressioni dei concessionari italiani e le minacce della Commissione europea, il problema del governo Meloni è capire come uscirne senza scontentare nessuno. Ma in cuor suo sa che la lite fra lupi è ormai stata vinta da quelli europei.

L’unico modo per sparigliare le carte sarebbe quello di abbandonare i lupi e prendere le difese degli agnelli, ossia dei cittadini che chiedono di considerare le spiagge beni comuni non privatizzabili da mettere gratuitamente a disposizione di tutti. Come succede in Spagna dove le spiagge sono tutte libere, con possibilità per i privati di allestire i propri servizi a pagamento solo sui terreni di retrovia.

Canoni ridicoli, evasione, lavoro nero, abusi

In Italia ci sono spiagge in abbondanza. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) certifica che su 8.300 chilometri di coste, 3.270 sono rappresentate da spiagge sabbiose o ghiaiose. Ma la maggior parte di esse sono accessibili solo a pagamento perché sono controllate da un’industria balneare che nessuno sa quantificare con esattezza.

Secondo il sistema delle Camere di commercio, nel 2021 gli stabilimenti balneari in Italia ammontavano a 7.173, ma il dato non torna con i numeri forniti dal Sid, il Sistema informativo del demanio, secondo il quale nello stesso anno le concessioni balneari erano 12.166. Una media di quattro stabilimenti ogni chilometro di spiaggia.

Anche il giro d’affari dell’industria balneare rimane un mistero: le valutazioni cambiano a seconda del tipo di impresa inclusa nel settore.

Le stime, pertanto, oscillano fra i 2 e i 15 miliardi di euro l’anno. È certa, invece, l’esiguità dell’incasso che lo Stato ottiene dalle concessioni. Una media di 95 milioni l’anno, ha calcolato la Corte dei conti. Un ben magro bottino considerati anche gli episodi di illegalità riscontrati nel settore balneare. Il riferimento non è tanto all’evasione fiscale e al lavoro nero, non documentabili, ma alla presenza di tratti di litorale occupati da muri e cancelli nonché edifici costruiti abusivamente, come denuncia anche il Rapporto spiagge di Legambiente del 2022. Una situazione inimmaginabile in Francia dove l’80% della lunghezza e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno. Non a caso gli stabilimenti vengono montati e smontati a ogni stagione. Inoltre, nel territorio francese, i comuni, che sono gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e delle concessioni, sono obbligati a informare la collettività di qualunque progetto e di qualunque nuovo soggetto che intenda gestire le spiagge. Al tempo stesso i cittadini possono effettuare proposte sulla corretta gestione del patrimonio costiero pubblico.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto GMaiga – Pixabay.

Beni comuni trascurati

L’Italia è fra i paesi europei con le più alte quote di spiagge date in concessione.

Legambiente segnala che la percentuale di costa sabbiosa gestita da stabilimenti privati è mediamente del 43% con regioni che arrivano molto più su. Succede, ad esempio, in Liguria, Emilia Romagna e Campania, dove quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari.

Nel comune di Gatteo, in provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (Lucca), Camaiore (Lucca), Montignoso (Massa), Laigueglia (Savona) e Diano Marina (Imperia) siamo sopra il 90%.

Alla fine, per la libera balneazione, rimangono solo pochi metri quadrati, spesso nei pressi di aree degradate. In effetti la libera balneazione non è solo un problema di estensione, ma anche di qualità delle spiagge. Scrive Legambiente: «In molti Comuni le uniche aree non in concessione sono quelle vicino allo scarico di fiumi, fossi o fognature dove al massimo ci si può sdraiare a prendere il sole, non certo a fare il bagno dal momento che la balneazione è vietata perché il mare è inquinato. Ma nessuno controlla che le spiagge libere non siano relegate in porzioni di costa di «serie B», mentre i numerosi cittadini che vogliono fruirne meri- terebbero di trovarle almeno in luoghi monitorati e balneabili».

Il 13 dicembre 2022, in occasione dell’assemblea nazionale di Confesercenti, la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, sostenne che le spiagge vanno affidate ai privati perché «se uno va a vedere le spiagge libere, in posti anche meravigliosi, ci sono i tossicodipendenti, rifiuti e nessuno che pensa a tenerle in ordine».

La ministra dimentica che, in quanto rappresentante della Repubblica, avrebbe l’obbligo di elaborare proposte capaci di tenere insieme decoro e godimento dei beni comuni da parte di tutti. Quanto alla tossicodipendenza non è certo con la repressione e con le recinzioni di epoca previttoriana che si risolve il problema. Soprattutto la ministra dovrebbe ricordarsi dell’articolo 41 della Costituzione secondo il quale l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Francesco Gesualdi